DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI MEMBRI DEL CORPO DIPLOMATICO ACCREDITATO PRESSO LA SANTA SEDE
PER LA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI PER IL NUOVO ANNO
Sala Regia
Giovedì, 9 gennaio 2020
Eccellenze, Signore e Signori,
un nuovo anno si apre dinanzi a noi e, come il vagito di un bimbo
appena nato, ci invita alla gioia e ad assumere un atteggiamento di
speranza. Vorrei che questa parola – speranza –, che per i cristiani è
una virtù fondamentale, animasse lo sguardo con cui ci addentriamo nel
tempo che ci attende.
Certo, sperare esige realismo. Esige la consapevolezza delle numerose
questioni che affliggono la nostra epoca e delle sfide all’orizzonte.
Esige che si chiamino i problemi per nome e che si abbia il coraggio di
affrontarli. Esige di non dimenticare che la comunità umana porta i
segni e le ferite delle guerre succedutesi nel tempo, con crescente
capacità distruttiva, e che non cessano di colpire specialmente i più
poveri e i più deboli
[1].
Purtroppo, il nuovo anno non sembra essere costellato da segni
incoraggianti, quanto piuttosto da un inasprirsi di tensioni e violenze.
È proprio alla luce di queste circostanze che non possiamo smettere
di sperare. E sperare esige coraggio. Esige la consapevolezza che il
male, la sofferenza e la morte non prevarranno e che anche le questioni
più complesse possono e devono essere affrontate e risolte. La speranza
«è la virtù che ci mette in cammino, ci dà le ali per andare avanti,
perfino quando gli ostacoli sembrano insormontabili»
[2].
Con quest’animo, vi accolgo oggi, cari Ambasciatori, per porgervi gli
auguri per il nuovo anno. Ringrazio in modo speciale il Decano del
Corpo Diplomatico, S.E. il Signor George Poulides, Ambasciatore di
Cipro, per le cordiali espressioni che mi ha indirizzato a nome di tutti
voi e vi sono grato per la presenza, così numerosa e significativa, e
per l’impegno che quotidianamente dedicate a consolidare le relazioni
che legano la Santa Sede ai vostri Paesi e alle vostre Organizzazioni
internazionali a vantaggio della pacifica convivenza tra i popoli.
La pace e lo sviluppo umano integrale sono infatti l’obiettivo
principale della Santa Sede nell’ambito del suo impegno diplomatico. Ad
essa sono orientati gli sforzi della Segreteria di Stato e dei Dicasteri
della Curia Romana, come pure quelli dei Rappresentanti Pontifici, che
ringrazio per la dedizione con cui compiono la duplice missione loro
affidata di rappresentare il Papa sia presso le Chiese locali sia presso
i vostri Governi.
In tale prospettiva si collocano pure gli Accordi di carattere
generale, firmati o ratificati nel corso dell’anno appena trascorso, con
la Repubblica del Congo, la cara Repubblica Centroafricana, il Burkina
Faso e l’Angola, come pure l’ Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica
Italiana per l’applicazione della Convenzione di Lisbona sul
riconoscimento dei titoli di studio relativi all’insegnamento superiore
nella Regione Europea.
Anche i Viaggi Apostolici, oltre che essere una via privilegiata
attraverso la quale il Successore dell’Apostolo Pietro conferma i
fratelli nella fede, sono un’occasione per favorire il dialogo a livello
politico e religioso. Nel 2019 ho avuto l’opportunità di visitare
diverse realtà significative. Vorrei ripercorrere con voi le tappe che
ho compiuto, cogliendo l’opportunità per uno sguardo più ampio su alcune
questioni problematiche del nostro tempo.
All’inizio dello scorso anno, in occasione della XXXIV Giornata Mondiale della Gioventù
,
ho incontrato a Panama giovani provenienti dai cinque continenti, pieni
di sogni e speranze, lì convenuti per pregare e ravvivare il desiderio e
l’impegno di creare un mondo più umano
[3].
È sempre una gioia e una grande opportunità poter incontrare i giovani.
Essi sono il futuro e la speranza delle nostre società, ma anche il
presente.
Eppure, come è tristemente noto, non pochi adulti, compresi diversi
membri del clero, si sono resi responsabili di delitti gravissimi contro
la dignità dei giovani, bambini e adolescenti, violandone l’innocenza e
l’intimità. Si tratta di crimini che offendono Dio, causano danni
fisici, psicologici e spirituali alle vittime e ledono la vita di intere
comunità.
[4] In seguito all’incontro con gli episcopati di tutto il mondo, che ho convocato in Vaticano nel febbraio scorso,
la Santa Sede rinnova il suo impegno affinché si faccia luce sugli
abusi compiuti e si assicuri la protezione dei minori, attraverso un
ampio spettro di norme che consentano di affrontare detti casi
nell’ambito del diritto canonico e attraverso la collaborazione con le
autorità civili, a livello locale e internazionale.
Di fronte a così gravi ferite, risulta tuttavia ancora più urgente
che gli adulti non abdichino al compito educativo che compete loro, anzi
si facciano carico di tale impegno con maggior zelo per condurre i
giovani alla maturità spirituale, umana e sociale.
Per questa ragione intendo promuovere, il 14 maggio prossimo, un evento mondiale che avrà per tema:
Ricostruire il patto educativo globale.
Si tratta di un incontro volto a «ravvivare l’impegno per e con le
giovani generazioni, rinnovando la passione per un’educazione più aperta
ed inclusiva, capace di ascolto paziente, dialogo costruttivo e mutua
comprensione. Mai come ora, c’è bisogno di unire gli sforzi in un’ampia
alleanza educativa per formare persone mature, capaci di superare
frammentazioni e contrapposizioni e ricostruire il tessuto di relazioni
per un’umanità più fraterna»
[5].
Ogni cambiamento, come quello epocale che stiamo attraversando, richiede un cammino educativo, la costituzione di
un villaggio dell’educazione [6] che generi una rete di relazioni umane e aperte. Tale
villaggio
deve mettere al centro la persona, favorire la creatività e la
responsabilità per una progettualità di lunga durata e formare persone
disponibili a mettersi al servizio della comunità.
Occorre dunque un concetto di educazione che abbracci l’ampia gamma
di esperienze di vita e di processi di apprendimento e che consenta ai
giovani, individualmente e collettivamente, di sviluppare le loro
personalità. L’educazione non si esaurisce nelle aule delle scuole o
delle Università, ma è assicurata principalmente rispettando e
rafforzando il diritto primario della famiglia a educare, e il diritto
delle Chiese e delle aggregazioni sociali a sostenere le famiglie e
collaborare con esse nell’educazione dei figli.
Educare esige di entrare in un dialogo leale con i giovani. Sono
anzitutto loro a richiamarci all’urgenza di quella solidarietà
intergenerazionale, che purtroppo è venuta a mancare negli ultimi anni.
C’è, infatti, una tendenza, in molte parti del mondo, a chiudersi in se
stessi, a proteggere i diritti e i privilegi acquisiti, a concepire il
mondo dentro un orizzonte limitato che tratta con indifferenza gli
anziani e soprattutto non offre più spazio alla vita nascente.
L’invecchiamento generale di parte della popolazione mondiale,
specialmente nell’Occidente, ne è una triste ed emblematica
rappresentazione.
Se da un lato non dobbiamo dimenticare che i giovani attendono la
parola e l’esempio degli adulti, nello stesso tempo dobbiamo avere ben
presente che essi hanno molto da offrire con il loro entusiasmo, con il
loro impegno e con la loro sete di verità, attraverso la quale ci
richiamano costantemente al fatto che la speranza non è un’utopia e la
pace è un bene sempre possibile.
Lo abbiamo visto nel modo con cui molti giovani si stanno impegnando
per sensibilizzare i leader politici sulla questione dei cambiamenti
climatici. La cura della nostra casa comune dev’essere una
preoccupazione di tutti e non oggetto di contrapposizione ideologica fra
diverse visioni della realtà, né tantomeno fra le generazioni, poiché
«a contatto con la natura – come ricordava
Benedetto XVI
–, la persona ritrova la sua giusta dimensione, si riscopre creatura,
piccola ma al tempo stesso unica, “capace di Dio” perché interiormente
aperta all’Infinito»
[7].
La custodia del luogo che ci è stato donato dal Creatore per vivere non
può dunque essere trascurata, né ridursi ad una problematica elitaria. I
giovani ci dicono che non può essere così, poiché esiste una sfida
urgente, a tutti i livelli, di proteggere la nostra casa comune e «di
unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e
integrale»
[8]. Essi ci richiamano all’urgenza di una
conversione ecologica,
che «va intesa in maniera integrale, come una trasformazione delle
relazioni che intratteniamo con le nostre sorelle e i nostri fratelli,
con gli altri esseri viventi, con il creato nella sua ricchissima
varietà, con il Creatore che è origine di ogni vita»
[9].
Purtroppo, l’urgenza di questa conversione ecologica sembra non
essere acquisita dalla politica internazionale, la cui risposta alle
problematiche poste da questioni globali come quella dei cambiamenti
climatici è ancora molto debole e fonte di forte preoccupazione. La XXV Sessione della Conferenza degli Stati Parte della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico
(COP25), svoltasi a Madrid lo scorso dicembre, rappresenta un grave
campanello di allarme circa la volontà della Comunità internazionale di
affrontare con saggezza ed efficacia il fenomeno del riscaldamento
globale, che richiede una risposta collettiva, capace di far prevalere
il bene comune sugli interessi particolari.
Queste considerazioni riportano la nostra attenzione all’America Latina, in particolare all’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per la regione amazzonica,
svoltasi in Vaticano lo scorso mese di ottobre. Il Sinodo è stato un
evento essenzialmente ecclesiale, mosso dalla volontà di mettersi in
ascolto delle speranze e delle sfide della Chiesa in Amazzonia e di
aprire nuove strade all’annuncio del Vangelo al Popolo di Dio,
specialmente alle popolazioni indigene. Tuttavia, l’Assemblea sinodale
non poteva esimersi dal toccare anche altre tematiche, a partire
dall’ecologia integrale, che riguardano la vita stessa di quella
Regione, così vasta e importante per tutto il mondo, poiché «la foresta
amazzonica è un “cuore biologico” per la Terra, sempre più minacciata»
[10].
Oltre alla situazione nella regione amazzonica, desta preoccupazione
il moltiplicarsi di crisi politiche in un crescente numero di Paesi del
continente americano, con tensioni e insolite forme di violenza che
acuiscono i conflitti sociali e generano gravi conseguenze
socio-economiche e umanitarie. Le polarizzazioni sempre più forti non
aiutano a risolvere i veri e urgenti problemi dei cittadini, soprattutto
dei più poveri e vulnerabili, né tantomeno può farlo la violenza, che
per nessun motivo può essere adottata come strumento per affrontare le
questioni politiche e sociali. In questa sede desidero ricordare
specialmente il Venezuela, affinché non venga meno l’impegno a cercare
soluzioni.
In generale, i conflitti della regione americana, pur avendo radici
diverse, sono accomunati dalle profonde disuguaglianze, dalle
ingiustizie e dalla corruzione endemica, nonché dalle varie forme di
povertà che offendono la dignità delle persone. Occorre, pertanto, che i
leader politici si sforzino di ristabilire con urgenza una cultura del
dialogo per il bene comune e per rafforzare le istituzioni democratiche e
promuovere il rispetto dello stato di diritto, al fine di prevenire
derive antidemocratiche, populiste ed estremiste.
Nel mio secondo viaggio del 2019,
mi sono recato negli Emirati Arabi Uniti,
prima visita di un Successore di Pietro nella Penisola arabica. Ad Abu
Dhabi ho firmato con il Grande Imam di Al-Azhar Ahmad al-Tayyib il
Documento sulla Fratellanza Umana per la pace mondiale e la convivenza comune.
Si tratta di un testo importante, volto a favorire la mutua
comprensione tra cristiani e musulmani e la convivenza in società sempre
più multietniche e multiculturali, poiché nel condannare fermamente
l’uso del «nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di
terrorismo e di oppressione»
[11], richiama l’importanza del
concetto di cittadinanza, che «si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia»
[12].
Ciò esige il rispetto della libertà religiosa e che ci si adoperi per
rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con
sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità e prepara il terreno
alle ostilità e alla discordia, discriminando i cittadini in base
all’appartenenza religiosa
[13].
A tal fine è particolarmente importante formare le generazioni future
al dialogo interreligioso, quale via maestra per la conoscenza, la
comprensione e il sostegno reciproco fra appartenenti a diverse
religioni.
Pace e speranza sono stati anche al centro della
mia visita in Marocco, dove con Sua Maestà il Re Mohammed VI ho sottoscritto un a
ppello congiunto su Gerusalemme,
«riconoscendo l’unicità e la sacralità di Gerusalemme / Al Qods Acharif
e avendo a cuore il suo significato spirituale e la sua peculiare
vocazione di Città della Pace»
[14].
E da Gerusalemme, città cara ai fedeli delle tre religioni monoteiste,
chiamata ad essere luogo-simbolo di incontro e di coesistenza pacifica,
in cui si coltivano il rispetto reciproco e il dialogo
[15],
il mio pensiero non può che estendersi a tutta la Terra Santa per
richiamare l’urgenza che l’intera Comunità internazionale, con coraggio e
sincerità e nel rispetto del diritto internazionale, riconfermi il suo
impegno a sostegno del processo di pace israelo-palestinese.
Un più assiduo ed efficace impegno da parte della Comunità
internazionale è quanto mai urgente anche in altre parti dell’area
mediterranea e del Medio Oriente. Mi riferisco anzitutto alla coltre di
silenzio che rischia di coprire la guerra che ha devastato la Siria nel
corso di questo decennio. È particolarmente urgente trovare soluzioni
adeguate e lungimiranti che permettano al caro popolo siriano, stremato
dalla guerra, di ritrovare la pace e avviare la ricostruzione del Paese.
La Santa Sede accoglie con favore ogni iniziativa volta a porre le basi
per la risoluzione del conflitto ed esprime ancora una volta la propria
gratitudine alla Giordania e al Libano per aver accolto ed essersi
fatti carico, con non pochi sacrifici, di migliaia di profughi siriani.
Purtroppo, oltre alle fatiche provocate dall’accoglienza, altri fattori
di incertezza economica e politica, in Libano e in altri Stati, stanno
provocando tensioni tra la popolazione, mettendo ulteriormente a rischio
la fragile stabilità del Medio Oriente.
Particolarmente preoccupanti sono i segnali che giungono dall’intera
regione, in seguito all’innalzarsi della tensione fra l’Iran e gli Stati
Uniti e che rischiano anzitutto di mettere a dura prova il lento
processo di ricostruzione dell’Iraq, nonché di creare le basi di un
conflitto di più vasta scala che tutti vorremmo poter scongiurare.
Rinnovo dunque il mio appello perché tutte le parti interessate evitino
un innalzamento dello scontro e mantengano «accesa la fiamma del dialogo
e dell’autocontrollo»
[16], nel pieno rispetto della legalità internazionale.
Il mio pensiero va pure allo Yemen, che vive una delle più gravi
crisi umanitarie della storia recente, in un clima di generale
indifferenza della Comunità internazionale, e alla Libia, che da molti
anni attraversa una situazione conflittuale, aggravata dalle incursioni
di gruppi estremisti e da un ulteriore acuirsi di violenza nel corso
degli ultimi giorni. Tale contesto è fertile terreno per la piaga dello
sfruttamento e del traffico di essere umani, alimentato da persone senza
scrupoli che sfruttano la povertà e la sofferenza di quanti fuggono da
situazioni di conflitto o di povertà estrema. Tra questi, molti
finiscono preda di vere e proprie mafie che li detengono in condizioni
disumane e degradanti e ne fanno oggetto di torture, violenze sessuali,
estorsioni.
In generale, occorre rilevare che nel mondo vi sono diverse migliaia
di persone, con legittime richieste di asilo e bisogni umanitari e di
protezione verificabili, che non vengono adeguatamente identificati.
Molti rischiano la vita in viaggi pericolosi per terra e soprattutto per
mare. È con dolore che si continua a constatare come il Mare
Mediterraneo rimanga un grande cimitero
[17]. È sempre più urgente, dunque, che tutti gli Stati si facciano carico della responsabilità di trovare soluzioni durature.
Da parte sua, la Santa Sede guarda con grande speranza agli sforzi
compiuti da numerosi Paesi per condividere il peso del reinsediamento e
fornire agli sfollati, in particolare a causa di emergenze umanitarie,
un posto sicuro in cui vivere, un’educazione, nonché la possibilità di
lavorare e di ricongiungersi con le proprie famiglie.
Cari Ambasciatori,
nei viaggi dello scorso anno ho avuto modo di toccare anche tre Paesi dell’Europa orientale, raggiungendo prima la Bulgaria e la Macedonia del Nord e, in un secondo momento, la Romania.
Si tratta di tre Paesi diversi tra loro, accomunati tuttavia dal fatto
di essere stati, nei secoli, ponti fra l’Oriente e l’Occidente e
crocevia di culture, etnie e civiltà differenti. Visitandoli, ho potuto
sperimentare ancora una volta quanto siano importanti il dialogo e la
cultura dell’incontro per costruire società pacifiche, nelle quali
ognuno possa liberamente esprimere la propria appartenenza etnica e
religiosa.
Rimanendo nel contesto europeo, vorrei richiamare l’importanza di
sostenere il dialogo e il rispetto della legalità internazionale per
risolvere i “conflitti congelati” che persistono nel continente, alcuni
dei quali ormai da decenni, e che esigono una soluzione, a cominciare
dalle situazioni riguardanti i Balcani occidentali e il Caucaso
meridionale, tra cui la Georgia. In questa sede vorrei, inoltre,
esprimere l’incoraggiamento della Santa Sede ai negoziati per la
riunificazione di Cipro, che incrementerebbero la cooperazione
regionale, favorendo la stabilità di tutta l’area mediterranea, nonché
l’apprezzamento per i tentativi volti a risolvere il conflitto nella
parte orientale dell’Ucraina e porre fine alla sofferenza della
popolazione.
Il dialogo – e non le armi – è lo strumento essenziale per risolvere
le contese. A tale riguardo, desidero in questa sede menzionare il
contributo offerto, ad esempio, in Ucraina dall’Organizzazione per la
Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), specialmente in quest’anno
in cui ricorre il 45° anniversario dell’Atto finale di Helsinki, che
concluse la Conferenza sulla Sicurezza e sulla Cooperazione in Europa
(CSCE), iniziata nel 1973 per favorire la distensione e la
collaborazione tra i Paesi dell’Europa occidentale e quelli dell’Europa
orientale, quando il continente era ancora diviso dalla cortina di
ferro. Si è trattato di una tappa importante di un processo iniziato
sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale e che ha visto nel consenso e
nel dialogo uno strumento essenziale per risolvere le contese.
Già nel 1949, nell’Europa occidentale, con la creazione del Consiglio d’Europa e la successiva adozione della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo,
si gettarono le basi del processo d’integrazione europea, che videro
nella Dichiarazione dell’allora Ministro degli Affari Esteri francese
Robert Schuman, del 9 maggio 1950, un pilastro fondamentale. Schuman
afferma che «la pace non potrà essere salvaguardata se non con sforzi
creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano». Nei Padri
fondatori dell’Europa moderna c’era la consapevolezza che il continente
si sarebbe potuto riprendere dalle lacerazioni della guerra e dalle
nuove divisioni che sopravanzavano solo in un processo graduale di
condivisione di ideali e di risorse.
Fin dai primi anni la Santa Sede ha guardato con interesse il
progetto europeo, ricorrendo quest’anno il 50 anniversario della
presenza della Santa Sede come Osservatore presso il Consiglio d’Europa,
così come lo stabilimento delle relazioni diplomatiche con le allora
Comunità Europee. Si tratta di un interesse che intende sottolineare
un’idea di costruzione inclusiva, animata da uno spirito partecipativo e
solidale, capace di fare dell’Europa un esempio di accoglienza ed
equità sociale nel segno di quei valori comuni che ne sono alla base. Il
progetto europeo continua ad essere una fondamentale garanzia di
sviluppo per chi ne fa parte da tempo e un’opportunità di pace, dopo
turbolenti conflitti e lacerazioni, per quei Paesi che ambiscono a
parteciparvi.
L’Europa non perda dunque il senso di solidarietà che per secoli l’ha
contraddistinta, anche nei momenti più difficili della sua storia. Non
perda quello spirito che affonda le sue radici, tra l’altro, nella pietas romana e nella caritas cristiana, che ben descrivono l’animo dei popoli europei. L’incendio della Cattedrale di Notre Dame
a Parigi ha mostrato quanto sia fragile e facile da distruggere anche
ciò che sembra solido. I danni sofferti da un edificio, non solo caro ai
cattolici ma significativo per tutta la Francia e l’umanità intera,
hanno ridestato il tema dei valori storici e culturali dell’Europa e
delle radici sulle quali essa si fonda. In un contesto in cui mancano
valori di riferimento, diventa più facile trovare elementi di divisione
più che di coesione.
Il trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino ci ha
posto dinanzi agli occhi uno dei simboli più laceranti della storia
recente del continente, rammentandoci quanto sia facile ergere barriere.
Il Muro di Berlino rimane emblematico di una cultura della divisione
che allontana le persone le une dalle altre e apre la strada
all’estremismo e alla violenza. Lo vediamo sempre più nel linguaggio di
odio diffusamente usato in internet e nei mezzi di comunicazione
sociale. Alle barriere dell’odio, noi preferiamo i ponti della
riconciliazione e della solidarietà, a ciò che allontana preferiamo ciò
che avvicina, consapevoli che «nessuna pace [può] consolidarsi […] se
contemporaneamente non si placano gli odi e i rancori per mezzo di una
riconciliazione fondata sulla vicendevole carità»
[18], come scrisse cent’anni fa il mio predecessore Benedetto XV
.
Cari Ambasciatori,
Segni di pace e di riconciliazione ho potuto vedere nel corso del viaggio in Africa,
dove appare evidente la gioia di chi insieme si sente popolo e affronta
le fatiche quotidiane in uno spirito di condivisione. Ho sperimentato
la concretezza della speranza attraverso numerosi gesti incoraggianti, a
partire dagli ulteriori progressi compiuti in Mozambico, con la firma
dell’Accordo per la cessazione definitiva delle ostilità il 1° agosto
scorso.
In Madagascar ho potuto constatare che è possibile costruire
sicurezza laddove c’era precarietà, vedere speranza dove si vedeva solo
fatalità, scorgere vita dove tanti annunciavano morte e distruzione
[19].
A tal fine sono essenziali la famiglia e il senso della comunità che
consente di stabilire la fiducia fondamentale che è alla base di ogni
rapporto umano. A Mauritius ho notato come «le diverse religioni, con le
loro rispettive identità, collaborano insieme per contribuire alla pace
sociale e per ricordare il valore trascendente della vita contro ogni
tipo di riduzionismo»
[20].
Confido che l’entusiasmo che ho potuto toccare con mano nel corso del
viaggio continui a concretizzarsi in gesti di accoglienza e in progetti
capaci di promuovere la giustizia sociale, evitando dinamiche di
chiusura.
Allargando lo sguardo ad altre parti del continente, duole, invece,
constatare come continuino, in particolare in Burkina Faso, Mali, Niger e
Nigeria, episodi di violenza contro persone innocenti, tra cui tanti
cristiani perseguitati e uccisi per la loro fedeltà al Vangelo. Esorto
la Comunità internazionale a sostenere gli sforzi che questi Paesi
compiono nella lotta per sconfiggere la piaga del terrorismo, che sta
insanguinando sempre più intere parti dell’Africa, come altre regioni
del mondo. Alla luce di questi eventi, è necessario che si attuino
strategie che comprendano interventi non solo nell’ambito della
sicurezza, ma anche nella riduzione della povertà, nel miglioramento del
sistema sanitario, nello sviluppo e nell’assistenza umanitaria, nella
promozione del buon governo e dei diritti civili. Sono questi i pilastri
di un reale sviluppo sociale.
Parimenti, occorre incoraggiare le iniziative che promuovono la
fraternità tra tutte le espressioni culturali, etniche e religiose del
territorio, specialmente nel Corno d’Africa, in Camerun, nonché nella
Repubblica Democratica del Congo, dove, specialmente nelle regioni
orientali del Paese, persistono violenze. Le conflittualità e le
emergenze umanitarie, aggravate dagli sconvolgimenti climatici,
aumentano il numero di sfollati e si ripercuotono sulle persone che già
vivono in stato di grave povertà. Molti dei Paesi colpiti da queste
situazioni mancano di strutture adeguate che consentano di venire
incontro ai bisogni di quanti sono stati sfollati.
Al riguardo, vorrei qui sottolineare che, purtroppo, non esiste
ancora una risposta internazionale coerente per affrontare il fenomeno
dello sfollamento interno, poiché in gran parte esso non ha una
definizione internazionale concordata, avvenendo all’interno di confini
nazionali. Il risultato è che gli sfollati interni non ricevono sempre
la protezione che meritano e dipendono dalla capacità di rispondere e
dalle politiche dello Stato in cui si trovano.
Recentemente è stato avviato il lavoro dello United Nations High-Level Panel on Internal Displacement, che spero possa favorire l’attenzione e il sostegno globale per gli sfollati, sviluppando raccomandazioni concrete.
In tale prospettiva, guardo pure al Sudan, con l’auspicio che i suoi
cittadini possano vivere nella pace e nella prosperità e collaborare
alla crescita democratica ed economica del Paese; alla Repubblica
Centrafricana, dove, nel febbraio scorso, è stato firmato un Accordo
globale per porre fine a oltre cinque anni di guerra civile; e al Sud
Sudan, che spero di poter visitare nel corso di quest’anno e al quale ho
dedicato una giornata di ritiro lo scorso mese di aprile
con la presenza dei
leader
del Paese e il prezioso contributo dell’Arcivescovo di Canterbury, Sua
Grazia Justin Welby, e dell’ex Moderatore della Chiesa presbiteriana
della Scozia, il Reverendo John Chalmers. Confido che, con l’aiuto della
Comunità internazionale, quanti hanno responsabilità politiche
proseguano il dialogo per attuare gli accordi raggiunti.
L’ultimo viaggio dell’anno appena concluso è stato nell’Asia orientale
.
In Tailandia ho potuto constatare l’armonia apportata dai numerosi
gruppi etnici che costituiscono il Paese, con la loro diversità
filosofica, culturale e religiosa. Si tratta di un richiamo importante
nell’attuale contesto di globalizzazione che tende ad appiattire le
differenze e considerarle primariamente in termini economico-finanziari,
con il rischio di cancellare le note essenziali che contraddistinguono i
vari popoli.
Infine, in Giappone ho toccato con mano il dolore e l’orrore che come esseri umani siamo in grado di infliggerci
[21].
Ascoltando le testimonianze di alcuni Hibakusha, i sopravvissuti ai
bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, mi è parso evidente che
non si può costruire una vera pace sulla minaccia di un possibile
annientamento totale dell’umanità provocato dalle armi nucleari. Gli
Hibakusha «mantengono viva la fiamma della coscienza collettiva,
testimoniando alle generazioni successive l’orrore di ciò che accadde
nell’agosto del 1945 e le sofferenze indicibili che ne sono seguite fino
ad oggi. La loro testimonianza risveglia e conserva in questo modo la
memoria delle vittime, affinché la coscienza umana diventi sempre più
forte di fronte ad ogni volontà di dominio e di distruzione»
[22],
specialmente quella provocata da ordigni a così alto potenziale
distruttivo, come le armi nucleari. Esse non solo favoriscono un clima
di paura, diffidenza e ostilità, ma distruggono la speranza. Il loro uso
è immorale, «un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma
contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune»
[23].
Un mondo «senza armi nucleari è possibile e necessario»
[24],
ed è tempo che quanti hanno responsabilità politiche ne divengano
pienamente consapevoli, poiché non è il possesso deterrente di potenti
mezzi di distruzione di massa a rendere il mondo più sicuro, bensì il
paziente lavoro di tutte le persone di buona volontà che si dedicano
concretamente, ciascuno nel proprio ambito, a edificare un mondo di
pace, solidarietà e rispetto reciproco.
Il 2020 offre un’opportunità importante in questa direzione, poiché dal 27 aprile al 22 maggio si svolgerà a New York la X Conferenza d’Esame del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari.
Auspico vivamente che in quella occasione la Comunità internazionale
riesca a trovare un consenso finale e proattivo sulle modalità di
attuazione di questo strumento giuridico internazionale, che si rileva
essere ancora più importante in un momento come quello attuale.
Nel terminare la rassegna dei luoghi che ho raggiunto nel corso
dell’anno appena concluso, vorrei rivolgere un particolare pensiero a un
Paese che non ho visitato, l’Australia, colpito duramente negli ultimi
mesi da persistenti incendi, i cui effetti hanno raggiunto anche altre
regioni dell’Oceania. Al popolo australiano, specialmente alle vittime e
a quanti si trovano nelle regioni colpite dai roghi, desidero
assicurare la mia vicinanza e preghiera.
Eccellenze, Signore e Signori,
Quest’anno, la Comunità internazionale ricorda il 75° anniversario
della fondazione delle Nazioni Unite. In seguito alle tragedie
sperimentate nelle due guerre mondiali, con la Carta delle Nazioni Unite,
firmata il 26 giugno 1945, quarantasei Paesi diedero vita ad una nuova
forma di collaborazione multilaterale. Le quattro finalità
dell’Organizzazione, delineate nell’articolo 1 della Carta, rimangono
valide ancora oggi e possiamo dire che l’impegno delle Nazioni Unite in
questi 75 anni è stato, in gran parte, un successo, specialmente
nell’evitare un’altra guerra mondiale. I principi fondativi
dell’Organizzazione – il desiderio della pace, la ricerca della
giustizia, il rispetto della dignità della persona, la cooperazione
umanitaria e l’assistenza – esprimono le giuste aspirazioni dello
spirito umano e costituiscono gli ideali che dovrebbero sottostare alle
relazioni internazionali.
In questo anniversario, vogliamo riaffermare il proposito di tutta
quanta la famiglia umana a operare per il bene comune, quale criterio di
orientamento dell’azione morale e prospettiva che deve impegnare ogni
Paese a collaborare per garantire l’esistenza e la sicurezza nella pace
di ogni altro Stato, in uno spirito di uguale dignità e di effettiva
solidarietà, nell’ambito di un ordinamento giuridico fondato sulla
giustizia e sulla ricerca di equi compromessi
[25].
Una tale azione sarà tanto più efficace quanto più si cercherà di
superare quell’approccio trasversale, utilizzato nel linguaggio e negli
atti degli organi internazionali, che mira a legare i diritti
fondamentali a situazioni contingenti, dimenticando che essi sono
intrinsecamente fondati nella natura stessa dell’essere umano. Laddove
al lessico delle Organizzazioni internazionali viene a mancare un chiaro
ancoraggio oggettivo, si rischia di favorire l’allontanamento, anziché
l’avvicinamento, dei membri della Comunità internazionale, con la
conseguente crisi del sistema multilaterale, che è tristemente sotto gli
occhi di tutti. In questo contesto, appare urgente riprendere il
percorso verso una complessiva riforma del sistema multilaterale, a
partire dal sistema onusiano, che lo renda più efficace, tenendo in
debita considerazione l’attuale contesto geo-politico.
Cari Ambasciatori,
Nel giungere alla conclusione di queste riflessioni, desidero
menzionare ancora due anniversari che ricorrono quest’anno,
apparentemente estranei al nostro incontro odierno. Il primo è il
cinquecentenario della morte di Raffaello Sanzio, il grande artista di
Urbino, deceduto a Roma il 6 aprile 1520. A Raffaello dobbiamo un
ingente patrimonio di inestimabile bellezza. Come il genio dell’artista
sa comporre armonicamente materie grezze, colori e suoni diversi
rendendoli parte di un’unica opera d’arte, così la diplomazia è chiamata
ad armonizzare le peculiarità dei vari popoli e Stati per edificare un
mondo di giustizia e di pace, che è il bel quadro che vorremmo poter
ammirare.
Raffaello è stato un figlio importante di un’epoca, quella del
Rinascimento, che ha arricchito l’umanità intera. Un’epoca non priva di
difficoltà, ma animata da fiducia e speranza. Attraverso questo insigne
artista, desidero far giungere i miei più sentiti auguri al Popolo
italiano, al quale auguro di riscoprire quello spirito di apertura al
futuro che ha contraddistinto il Rinascimento e che ha reso questa
penisola così bella e ricca di arte, storia e cultura.
Uno dei soggetti preferiti della pittura di Raffaello era Maria. A
lei ha dedicato numerose tele che possono oggi essere ammirate in
diversi musei del mondo. Per la Chiesa Cattolica, quest’anno ricorre il settantesimo anniversario della proclamazione dell’Assunzione di Maria Vergine al Cielo
.
Con lo sguardo a Maria, desidero rivolgere un pensiero particolare a
tutte le donne, 25 anni dopo la IV Conferenza mondiale delle Nazioni
Unite sulla donna, svoltasi a Pechino nel 1995, auspicando che in tutto
il mondo sia sempre più riconosciuto il ruolo prezioso delle donne nella
società e cessi ogni forma di ingiustizia, disuguaglianza e violenza
nei loro confronti. «Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione
di Dio»
[26].
Esercitare violenza contro una donna o sfruttarla non è un semplice
reato, è un crimine che distrugge l’armonia, la poesia e la bellezza che
Dio ha voluto dare al mondo
[27].
L’Assunzione di Maria ci invita pure a guardare oltre, al compimento
del nostro cammino terreno, al giorno in cui la giustizia e la pace
saranno pienamente ristabilite. Ci sentiamo così incoraggiati,
attraverso la diplomazia, che è il nostro tentativo umano, imperfetto ma
pur sempre prezioso, a lavorare con zelo per anticipare i frutti di
questo desiderio di pace, sapendo che la meta è possibile. Con questo
impegno, rinnovo a tutti voi, cari Ambasciatori e distinti Ospiti qui
convenuti, e ai vostri Paesi il mio cordiale augurio per un nuovo anno
copioso di speranza e benedizioni.
Grazie!
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2020/january/documents/papa-francesco_20200109_corpo-diplomatico.html
[1] Cfr
Messaggio per la LIII Giornata Mondiale della Pace, 8 dicembre 2019, 1.
[2] Ibid.
[3] Cfr
Incontro con le Autorità, con il Corpo Diplomatico e con rappresentanti della società, Panama, 24
gennaio 2019.
[4] Cfr Motu proprio
Vos estis lux mundi, 7 maggio 2019.
[5] Messaggio per il lancio del Patto Educativo, 12 settembre 2019.
[6] Cfr
ibid.
[7] Angelus, Les Combes, 17 luglio 2005.
[8] Cfr Lett. enc.
Laudato si’, 24 maggio 2015, 13.
[9] Messaggio per la LIII Giornata Mondiale della Pace, 8 dicembre 2019, 4.
[10] Documento finale del Sinodo dei Vescovi per l’Amazzonia: “Nuovi cammini per la Chiesa e per un’ecologia integrale”, 2.
[11] Documento sulla Fratellanza Umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019.
[12] Ibid.
[13] Cfr
ibid.
[14] Appello di Sua Maestà il Re Mohammed VI e di Sua Santità Papa Francesco su Gerusalemme / Al Qods Città santa e luogo di incontro, Rabat, 30 marzo 2019.
[15] Cfr
ibid.
[16] Angelus, 5 gennaio 2020.
[17] Cfr
Discorso al Parlamento Europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014.
[18] Benedetto XV, Lett. enc.
Pacem, Dei munus pulcherrimum, 23 maggio 1920.
[19] Cfr
Saluto nella Città dell’Amicizia – Akamasoa, Antananarivo, 8 settembre 2019.
[20] Discorso alle Autorità, ai rappresentanti della società civile e al Corpo Diplomatico, Port Louis, 9 settembre 2019.
[21] Cfr
Discorso sulle armi nucleari, Nagasaki, 24 novembre 2019.
[22] Messaggio per la LIII Giornata Mondiale della Pace, 8 dicembre 2019, 2.
[23] Discorso nell’Incontro per la pace, Hiroshima, 24 novembre 2019.
[24] Discorso sulle armi nucleari, Nagasaki, 24 novembre 2019.
[25] Cfr Giovanni XXIII, Lett. enc.
Pacem in terris, 11 aprile 1963, 54.
[26] Omelia nella Solennità di Maria Santissima Madre di Dio e nella 53ma Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2020.
[27] Cfr
La donna è l’armonia del mondo. Meditazione mattutina nella Cappella della Domus Sanctæ Marthæ, 9 febbraio 2017.