sabato 23 novembre 2019

Gesù Cristo "mediatore e pienezza di tutta la Rivelazione", di Papa Benedetto XVI



BENEDETTO XVI 

Gesù Cristo "mediatore e pienezza di tutta la Rivelazione"

 
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 16 gennaio 2013


Cari fratelli e sorelle,
il Concilio Vaticano II, nella Costituzione sulla divina Rivelazione Dei Verbum, afferma che l’intima verità di tutta la Rivelazione di Dio risplende per noi «in Cristo, che è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la Rivelazione» (n. 2). L’Antico Testamento ci narra come Dio, dopo la creazione, nonostante il peccato originale, nonostante l’arroganza dell’uomo di volersi mettere al posto del suo Creatore, offre di nuovo la possibilità della sua amicizia, soprattutto attraverso l’alleanza con Abramo e il cammino di un piccolo popolo, quello di Israele, che Egli sceglie non con criteri di potenza terrena, ma semplicemente per amore. E’ una scelta che rimane un mistero e rivela lo stile di Dio che chiama alcuni non per escludere altri, ma perché facciano da ponte nel condurre a Lui: elezione è sempre elezione per l'altro. Nella storia del popolo di Israele possiamo ripercorrere le tappe di un lungo cammino in cui Dio si fa conoscere, si rivela, entra nella storia con parole e con azioni. Per questa opera Egli si serve di mediatori, come Mosè, i Profeti, i Giudici, che comunicano al popolo la sua volontà, ricordano l’esigenza di fedeltà all’alleanza e tengono desta l’attesa della realizzazione piena e definitiva delle promesse divine.
Ed è proprio la realizzazione di queste promesse che abbiamo contemplato nel Santo Natale: la Rivelazione di Dio giunge al suo culmine, alla sua pienezza. In Gesù di Nazaret, Dio visita realmente il suo popolo, visita l’umanità in un modo che va oltre ogni attesa: manda il suo Figlio Unigenito; si fa uomo Dio stesso. Gesù non ci dice qualcosa di Dio, non parla semplicemente del Padre, ma è rivelazione di Dio, perché è Dio, e ci rivela così il volto di Dio. Nel Prologo del suo Vangelo, san Giovanni scrive: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18).
Vorrei soffermarmi su questo “rivelare il volto di Dio”. A tale riguardo, san Giovanni, nel suo Vangelo, ci riporta un fatto significativo che abbiamo ascoltato ora. Avvicinandosi la Passione, Gesù rassicura i suoi discepoli invitandoli a non avere timore e ad avere fede; poi instaura un dialogo con loro nel quale parla di Dio Padre (cfr Gv 14,2-9). Ad un certo punto, l’apostolo Filippo chiede a Gesù: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8). Filippo è molto pratico e concreto, dice anche quanto noi vogliamo dire: “vogliamo vedere, mostraci il Padre”, chiede di “vedere” il Padre, di vedere il suo volto. La risposta di Gesù è risposta non solo a Filippo, ma anche a noi e ci introduce nel cuore della fede cristologica; il Signore afferma: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). In questa espressione si racchiude sinteticamente la novità del Nuovo Testamento, quella novità che è apparsa nella grotta di Betlemme: Dio si può vedere, Dio ha manifestato il suo volto, è visibile in Gesù Cristo.
In tutto l’Antico Testamento è ben presente il tema della “ricerca del volto di Dio”, il desiderio di conoscere questo volto, il desiderio di vedere Dio come è, tanto che il termine ebraico pānîm, che significa “volto”, vi ricorre ben 400 volte, e 100 di queste sono riferite a Dio: 100 volte ci si riferisce a Dio, si vuol vedere il volto di Dio. Eppure la religione ebraica proibisce del tutto le immagini, perché Dio non si può rappresentare, come invece facevano i popoli vicini con l’adorazione degli idoli; quindi, con questa proibizione di immagini, l'Antico Testamento sembra escludere totalmente il “vedere” dal culto e dalla pietà. Che cosa significa allora, per il pio israelita, tuttavia cercare il volto di Dio, nella consapevolezza che non può esserci alcuna immagine? La domanda è importante: da una parte si vuole dire che Dio non si può ridurre ad un oggetto, come un'immagine che si prende in mano, ma neppure si può mettere qualcosa al posto di Dio; dall’altra parte, però, si afferma che Dio ha un volto, cioè è un «Tu» che può entrare in relazione, che non è chiuso nel suo Cielo a guardare dall’alto l’umanità. Dio è certamente sopra ogni cosa, ma si rivolge a noi, ci ascolta, ci vede, parla, stringe alleanza, è capace di amare. La storia della salvezza è la storia di Dio con l'umanità, è la storia di questo rapporto di Dio che si rivela progressivamente all’uomo, che fa conoscere se stesso, il suo volto.
Proprio all’inizio dell’anno, il 1° gennaio, abbiamo ascoltato, nella liturgia, la bellissima preghiera di benedizione sul popolo: «Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace» (Nm 6,24-26). Lo splendore del volto divino è la fonte della vita, è ciò che permette di vedere la realtà; la luce del suo volto è la guida della vita. Nell’Antico Testamento c’è una figura a cui è collegato in modo del tutto speciale il tema del “volto di Dio”; si tratta di Mosé, colui che Dio sceglie per liberare il popolo dalla schiavitù d’Egitto, donargli la Legge dell’alleanza e guidarlo alla Terra promessa. Ebbene, nel capitolo 33 del Libro dell’Esodo, si dice che Mosé aveva un rapporto stretto e confidenziale con Dio: «Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (v. 11). In forza di questa confidenza, Mosè chiede a Dio: «Mostrami la tua gloria!», e la risposta di Dio è chiara: «Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome… Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo… Ecco un luogo vicino a me… Tu vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (vv. 18-23). Da un lato, allora, c’è il dialogo faccia a faccia come tra amici, ma dall’altro c’è l’impossibilità, in questa vita, di vedere il volto di Dio, che rimane nascosto; la visione è limitata. I Padri dicono che queste parole, “tu puoi solo vedere le mie spalle”, vogliono dire: tu puoi solo seguire Cristo e seguendo vedi dalle spalle il mistero di Dio; Dio si può seguire vedendo le sue spalle.
Qualcosa di completamente nuovo avviene, però, con l’Incarnazione. La ricerca del volto di Dio riceve una svolta inimmaginabile, perché questo volto si può ora vedere: è quello di Gesù, del Figlio di Dio che si fa uomo. In Lui trova compimento il cammino di rivelazione di Dio iniziato con la chiamata di Abramo, Lui è la pienezza di questa rivelazione perché è il Figlio di Dio, è insieme «mediatore e pienezza di tutta la Rivelazione” (Cost. dogm. Dei Verbum, 2), in Lui il contenuto della Rivelazione e il Rivelatore coincidono. Gesù ci mostra il volto di Dio e ci fa conoscere il nome di Dio. Nella Preghiera sacerdotale, nell’Ultima Cena, Egli dice al Padre: «Ho manifestato il tuo nome agli uomini… Io ho fatto conoscere loro il tuo nome» (cfr Gv 17,6.26). L’espressione “nome di Dio” significa Dio come Colui che è presente tra gli uomini. A Mosè, presso il roveto ardente, Dio aveva rivelato il suo nome, cioè si era reso invocabile, aveva dato un segno concreto del suo “esserci” tra gli uomini. Tutto questo in Gesù trova compimento e pienezza: Egli inaugura in un nuovo modo la presenza di Dio nella storia, perché chi vede Lui, vede il Padre, come dice a Filippo (cfr Gv 14,9). Il Cristianesimo - afferma san Bernardo - è la «religione della Parola di Dio»; non, però, di «una parola scritta e muta, ma del Verbo incarnato e vivente» (Hom. super missus est, IV, 11: PL 183, 86B). Nella tradizione patristica e medioevale si usa una formula particolare per esprimere questa realtà: si dice che Gesù è il Verbum abbreviatum (cfr Rm 9,28, riferito a Is 10,23), il Verbo abbreviato, la Parola breve, abbreviata e sostanziale del Padre, che ci ha detto tutto di Lui. In Gesù tutta la Parola è presente.
In Gesù anche la mediazione tra Dio e l’uomo trova la sua pienezza. Nell’Antico Testamento vi è una schiera di figure che hanno svolto questa funzione, in particolare Mosè, il liberatore, la guida, il “mediatore” dell’alleanza, come lo definisce anche il Nuovo Testamento (cfr Gal 3,19; At 7,35; Gv 1,17). Gesù, vero Dio e vero uomo, non è semplicemente uno dei mediatori tra Dio e l’uomo, ma è “il mediatore” della nuova ed eterna alleanza (cfr Eb 8,6; 9,15; 12,24); «uno solo, infatti, è Dio - dice Paolo - e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù» (1 Tm 2,5; cfr Gal 3,19-20). In Lui noi vediamo e incontriamo il Padre; in Lui possiamo invocare Dio con il nome di “Abbà, Padre”; in Lui ci viene donata la salvezza.
Il desiderio di conoscere Dio realmente, cioè di vedere il volto di Dio è insito in ogni uomo, anche negli atei. E noi abbiamo forse inconsapevolmente questo desiderio di vedere semplicemente chi Egli è, che cosa è, chi è per noi. Ma questo desiderio si realizza seguendo Cristo, così vediamo le spalle e vediamo infine anche Dio come amico, il suo volto nel volto di Cristo. L'importante è che seguiamo Cristo non solo nel momento nel quale abbiamo bisogno e quando troviamo uno spazio nelle nostre occupazioni quotidiane, ma con la nostra vita in quanto tale. L'intera esistenza nostra deve essere orientata all’incontro con Gesù Cristo all’amore verso di Lui; e, in essa, un posto centrale lo deve avere l’amore al prossimo, quell’amore che, alla luce del Crocifisso, ci fa riconoscere il volto di Gesù nel povero, nel debole, nel sofferente. Ciò è possibile solo se il vero volto di Gesù ci è diventato familiare nell’ascolto della sua Parola, nel parlare interiormente, nell'entrare in questa Parola così che realmente lo incontriamo, e naturalmente nel Mistero dell’Eucaristia. Nel Vangelo di san Luca è significativo il brano dei due discepoli di Emmaus, che riconoscono Gesù allo spezzare il pane, ma preparati dal cammino con Lui, preparati dall'invito che hanno fatto a Lui di rimanere con loro, preparati dal dialogo che ha fatto ardere il loro cuore; così, alla fine, vedono Gesù. Anche per noi l’Eucaristia è la grande scuola in cui impariamo a vedere il volto di Dio, entriamo in rapporto intimo con Lui; e impariamo, allo stesso tempo a rivolgere lo sguardo verso il momento finale della storia, quando Egli ci sazierà con la luce del suo volto. Sulla terra noi camminiamo verso questa pienezza, nell’attesa gioiosa che si compia realmente il Regno di Dio. Grazie.



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https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2013/documents/hf_ben-xvi_aud_20130116.html


venerdì 22 novembre 2019

'AL MÛT LABBEN sull'(aria) del morire per il figlio, di Gian Piero Stefanoni




Gian Piero Stefanoni

'AL  MÛT  LABBEN
sull'(aria) del morire per il figlio

Galilea- Giordania, ottobre 2018


per Anna, a Padre Antonio, alla mia famiglia, ai compagni di viaggio





INTRODUZIONE

Questa breve raccolta racchiude in una sorta di piccolo diario in versi una visita in Terra Santa, tra Israele e Giordania, su alcuni luoghi della salvezza. L'ispirazione del viaggio allora come motivo di riflessione- e preghiera- alla luce di una fede che ha nella contingenza di ogni storia, personale e collettiva, la misura delle proprie interrogazioni. E dunque occasione, oltre che di vita, anche di rinnovata consapevolezza per un dettato che nascendo dal sacro ha nel sacro il suo riconoscimento. Gian Piero Stefanoni



Cosa ti aspetti? Lasciati aprire.

Poi si spacca il petto e fuoriesce la testa 

nel fiore di grazia della sintesi; dai fianchi le braccia, 
le gambe, nella corona di pelle nuova.

La strada è l'alfa, di là sei te.






DISCENDI COL BASTONE


I.

Pregami Tu, innalzami al Tuo salmo veleggiati alla notte,
la sposa ha il sorriso naturale del Tuo credo
nella terra dove dall'inizio ci scegliesti .

Non contrastare nulla non ovviare a nulla
offerti al Tuo paesaggio sospesi alla tua attesa.

II.

La stella è il primo nome con cui ci inviti a seguirti
ma non riusciamo a prenderti ora fissi ora muti:
qualcosa ci cancella, sei sempre Tu a decidere.

III.

Discendi col bastone discendi col vincastro,
è un corpo di nozze a tre questo impasto
questa altura da cui il pane da cui l'uomo.


Tel Aviv- Domus Galilaeae, 8 ottobre





DOMUS


Ed ora Ti penso solo io e Te.

Forse un affondo nelle acque per me e per Te create
nel grappolo d'uva del Tuo specchio.


Domus Galilaeae, 9 ottobre






LE MURA

Sia benedetto il pilota sia benedetto l'autista sia benedetto il volante 
e il braccio e la ruota e il carro che ci porta


Stiamo entrando e si fa più arido il deserto
pronto ad accendersi al Libro.

Sarà perseguitato sarà condannato
avrà un destino di sangue.

Tu ascolta il canto e vai dietro
il somaro annunciando il padrone.


Galilea- Gerusalemme, 9 ottobre






MAME

Città di Sion


Perché andare via
quando la luce è appena raccolta
e i tuoi bambini ci investono
attorno a ogni albero?

È un gioco
a nascondino la pietra
che ti riflette col tempo,
e che si apre solo nell'assenza.

Tu non appartieni a nessuno.


Gerusalemme, 9 ottobre





DAL DESERTO


Come nominare il Tuo amore?

La tentazione mi porta- mi prova-
in un cammino non Tuo
ma anche un solo albero è
memoria dell'acqua.


Galilea, 9 ottobre





LASCERAI TUO PADRE


Lascerai tuo padre, lascerai tua madre,
sarai uomo e sarai donna. E va bene.

Ma ogni luogo da qui vi nomina
sopra l'altare con la sorella e i fratelli,
nell'unità e nella corona del sangue.


Galilea, 10 ottobre





BETSAIDA


È caduta Betsaida.

Solo rovine restano
di ciò che una volta era umano
ed anche il lago si è ritirato
sulle altezze costruendo montagne.

Non abbiamo ancora compreso l'acqua-
il perdono- dove è Dio nella distensione del tempo.


Betsaida, 10 ottobre





ROMA DA QUI


Roma da qui è la città
che viene dopo.

Dopo la pesca
dopo le tende
dopo la salita e il canto del gallo.

Oh Pietro
che cercasti fortuna a Cafarnao!


Galilea, 10 ottobre





MAGDALA


Cosa sono le donne lo chiediamo a Maria.

E da quale pena la Maddalena è strappata.
Per quale luogo è guarita.

Non conosciamo la terra,
ci ricomponiamo entro nuove fratture,
la nostra anima non vuole- la nostra anima non vede-
se non entro un sapere di storie già concluse.

Per questo la domanda è a te,
a voi: che avete assistito,
che siete la risposta.


Magdala, 10 ottobre





MAR MORTO


Ti manifesti e riappari nelle dimenticanze.

Dove sei Amore mio? Cosa vedono i Tuoi occhi?

L'agnello è provato dai rovi, lo insegue il deserto,
leva il lamento nella spaccatura di roccia.

Rialzami Stella Fissa, qui è sepolta la vita. Il collo si spezza.


Verso Masada, 11 ottobre





ARCA


"A te si deve lode in Sion, o Dio, / a te si sciolgono i voti".
Salmo 65 (64)


Ti è stato concesso il fiore.

Porterai il tuo pezzo di Arca
e te ne sarà rivelata la pietra.

Ma fatti guardare- abbi pietà di te.


Monte Nebo (Giordania), 12 ottobre




BATTISTA


Lo senti ancora il suono di Dio
dalla piccola brezza, dalle mani
cibate di erba e locuste.

La vipera è vinta se ascolti il silenzio.
Si ferma e riprende quando ti dici non posso.

Al ritorno parla al fratello.


Fortezza di Macheronte (Giordania), 12 ottobre





IL CARRO DI FUOCO


È sempre una questione di rivelazioni.

Si procurarono la morte a Masada
piuttosto che essere schiavi.

È rapito in cielo dal Giordano
Elia su un carro di fuoco.

Così sei chiamato ad un passo-
là dove il tuo busto- e le tue mani- si piegano.

Perché è facile cambiare nome e destino
se lo spazio di Dio lo lasci occupare da un altro.


Giordano, 14 ottobre







MONTAGNE
(appendice dal ritorno)

Roma, ottobre- novembre 2018



ROMA DI QUA

"Beato colui la cui immagine l'Arcangelo protegge".
Vjaceslav I. Ivanov


Ha parlato, ha pregato,
si è abbandonato all'uomo.

Osserva i suoi disturbi
che le strade trascinano per schiere invisibili.

Eppure già vede i campi
dischiusi per lui dalle origini
e calza la polvere nel tratto
che pende dal mandorlo.

Perché hai ancora da fare
con noi Signore, mostrando
la tua lamentazione in Geremia.




NOVEMBRE

"A ciascuno il suo Monte Nebo/ sulla terra grande".
Rachel Bluwstein


Il demone si nutre di intelligenze.

Nega dentro queste voci l'umanità servente.

Non è questione di morte ma di giogo
là dove con noi il mistero soffre il pericolo.

Io mi fermo dinanzi a queste porte.

Accetto l'infinita compassione delle ombre
su cui insieme costruiamo montagne.

So che nella mia carne si trattiene la notte
prima dell'apertura dei corpi. E della mente-

alla luce di una divina miseria.








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Fonte: si ringrazia l'Autore Gian Piero Stefanoni che ha inviato la documentazione alla Redazione.
Per approfondimenti: Gian Piero Stefanoni , poeta e critico letterario contemporaneo






mercoledì 20 novembre 2019

Ordine della Santissima Trinità: LA REGOLA DI SAN GIOVANNI DE MATHA (1198)



ORDINE DELLA SANTISSIMA TRINITA' - O.SS.T.






           1. L’Ordine della Santissima Trinità è una famiglia religiosa, fondata con regola propria da san Giovanni de Matha. I suoi membri, vivendo in comunione di vita, per l’edificazione della Chiesa si consacrano con titolo speciale alla Trinità e seguono più da vicino Cristo Redentore. Si dedicano, nel servizio di carità e redenzione, alle persone afflitte da particolari difficoltà per aiutarle specialmente nella fede, e ai poveri.
          La Regola di San Giovanni è principio e fondamento dello spirito dell’Ordine. Essa, aggiornata e arricchita nel corso dei secoli dalla tradizione e principalmente dallo spirito e dall’opera del Riformatore Giovanni Battista, viene spiegata secondo l’intendimento della Chiesa e secondo le vigenti costituzioni.
          L’Ordine della Santissima Trinità è Ordine clericale di diritto pontificio.
          2. Dio Padre ci ha voluti salvi solo per Cristo nello Spirito Santo. Cristo, poi, ha costituito la Chiesa come sacramento universale di salvezza. Chi, dunque, entra nell’Ordine della Santa Trinità si propone principalmente, aderendo in modo speciale alla Chiesa e al suo mistero, di seguire Cristo con maggiore libertà, di imitarlo più fedelmente con la professione dei consigli evangelici e di tendere alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità[1]. Per raggiungere questa santità, mosso dallo Spirito Santo, si vale dei mezzi proposti nell’Ordine, per unirsi così più intimamente a Cristo, annunciatore del nome del vero Dio, glorificatore del Padre e Redentore del genere umano. Egli, pertanto, cerca con tutte le forze di attendere, coi fatti e nella verità, alla gloria della Trinità e alla redenzione dei fratelli.
          3. È dovere dei frati attuare questo genere di vita non solo individualmente, ma anche comunitariamente[2]. Essi, nel loro stile di vita sia personale che comunitario, hanno il diritto dovere di sperimentare e manifestare la Trinità e la Redenzione di Cristo.
          Conciliano la pratica della preghiera, la celebrazione dell’Eucarestia e della Liturgia delle Ore, i capitoli e le altre osservanze comuni dell’Ordine, con le opere di apostolato sia caritativo che ministeriale, in maniera tale che sia ritenuta la genuina fisionomia dell’Ordine[3].
          Hanno ugualmente cura di conservare quanto è prescritto nella Regola ed è contenuto nelle sacre tradizioni, cioè: la semplicità, l’umiltà, l’uguaglianza fra i frati, la gioia della vita, l’ospitalità, il lavoro assiduo e la comunicazione dei beni, la pratica del silenzio e della preghiera, l’onestà, una certa austerità, la mutua correzione evangelica, e la caratteristica principale di tutta la vita religiosa trinitaria, vale a dire, lo spirito di carità e di servizio[4].
          4. La spiritualità trinitaria è costituita da elementi teologici, ascetico-mistici ed apostolici della Chiesa, che l’Ordine però partecipa, vive ed esercita in un certo suo modo peculiare, conformemente al dono ricevuto da Dio.
          La vita dedicata in modo speciale alla Santissima Trinità costituisce, sin dalle origini, un elemento essenziale e caratteristico del patrimonio dell’Ordine, arricchito, nel corso dei secoli, dalla tradizione.
          Perciò i frati, in quanto incorporati all’Ordine, si consacrano per nuovo e speciale titolo alla Trinità, “avendo Dio, tra gli altri religiosi, fatto di noi dei vasi di elezione, perché portiamo per tutto il mondo il nome ammirabile della Santissima Trinità[5].
          Da questa coscienza trinitaria vivamente percepita, per la quale intendono progredire nell’intima comunione con il Padre per il Figlio nello Spirito Santo[6], fluisce costantemente tutta la loro vita spirituale e liturgica, religiosa, comunitaria e apostolica e il suo rinnovamento, in un continuo aumento della carità verso Dio e verso il prossimo.
          5. Lo spirito dell’Ordine, il suo progetto e il suo stile di vita “derivano dalla radice della carità[7]. I nostri Padri, infatti, preoccupati dei pericoli ai quali era esposta la fede, e mossi a pietà delle miserie umane, vollero apportare rimedi spirituali e sociali ai mali più urgenti del loro tempo, specialmente alla schiavitù dei cristiani.
          È dunque compito e dovere dell’Ordine, considerati l’evoluzione e il progresso dell’odierna società, prestare il servizio di misericordia e redenzione, perché entrino “nella libertà della gloria dei figli di Dio” Rm 8, 21:
          a) alle persone che soffrono persecuzione per Cristo, o la cui fede cristiana è in pericolo o viene impedita;
          b) a coloro che sono privati dei diritti di libertà e di giustizia e sono sottoposti a dolori e tormenti nel corpo e nello spirito, ai poveri e ai derelitti, soccorrendoli con opere di misericordia e con altre iniziative di assistenza e di promozione;
          c) ai popoli che ancora non credono in Cristo, assumendo l’impegno di propagare il Vangelo e di impiantare fra essi la Chiesa; cosa che l’Ordine adempirà secondo il proprio spirito e la propria indole, specialmente nelle regioni in cui si desidera che sia maggiormente promosso il progresso dei popoli;
          d) ai fedeli per aiutarli o fortificarli nella fede con il servizio ministeriale, svolgendo l’azione apostolica, secondo il proprio spirito e la propria indole, nelle varie mansioni che la Chiesa ha affidato all’Ordine.
          6. Tutta la vita dell’Ordine e il suo continuo rinnovamento dipendono massimamente dalla formazione dei membri. Tale formazione, tuttavia, deve essere compiuta in maniera che, nella fusione armonica dei vari elementi, favorisca l’unità di vita dei membri[8].
          7. Cristo ha anche affidato alla Chiesa il ministero di governo[9], da esercitare per il bene delle anime. Pertanto il nostro Ordine, che per la sua indole clericale partecipa alla potestà ecclesiastica di governo[10], ordina e dirige la vita e l’attività dei frati verso la perfezione della carità, con l’aiuto di norme e col servizio della legittima autorità.
          Le norme principali dell’Ordine sono contenute nelle costituzioni, nel direttorio generale e nei vari statuti.
          L’autorità dell’Ordine è:
          a) collegiale, e risiede nei vari capitoli, congregazioni e, talvolta, nei Consigli dell’Ordine, a norma di queste costituzioni;
          b) personale, che solo può esercitare un frate sacerdote, che “è chiamato Ministro[11]: Ministro maggiore generale, in tutto l’Ordine; Ministro provinciale, nelle singole province e giurisdizioni ad esse equiparate; Ministro locale, nelle case religiose.
          8. Sin dall’inizio del nostro Ordine, i fedeli, anche riuniti nel corso dei secoli in istituti ed associazioni, partecipano dello spirito del primo Ordine e, in comunione di amore, nella cooperazione all’attività e alla vita dei frati, sono legati all’Ordine in vari modi e in gradi diversi.
           Essi, insigni del medesimo titolo della Santissima Trinità e animati in diverse maniere dal medesimo spirito peculiare, ricercano la gloria della Santissima Trinità e la redenzione delle persone, e costituiscono insieme con noi, la famiglia trinitaria.
          9. L’indole e la missione del nostro Ordine nella Chiesa vengono, per varie ragioni, convenientemente espresse nella forma simbolica di uno stemma.
          Lo stemma dell’Ordine è quello usato fin dai primi tempi dell’Istituto, e che si vede rappresentato in mosaico sulla porta principale di San Tommaso in Formis a Roma, cioè: Cristo Redentore che tiene nelle sue mani due uomini con catene alle tibie, e intorno scritta la dicitura: “Signum Ordinis Sanctae Trinitatis et Captivorum”.
          L’abito, segno della nostra consacrazione[12] e della nostra fraternità, consta, secondo la tradizione recepita nell’Ordine, di una tonaca bianca con cintura nera, scapolare bianco al quale è sovrapposta una croce di colore rosso e azzurro, e cappuccio ugualmente bianco[13].
          Il nome o titolo dell’Istituto è: “Ordine della Santissima Trinità”, la sua sigla: “O.SS.T.”.
          10. Chi per misericordia di Dio Padre è chiamato alla vita religiosa e diviene partecipe del patrimonio dell’Ordine, con animo libero ringrazi per così gran beneficio l’augusta Trinità, e “si adoperi con tutte le forze a perseverare e maggiormente eccellere nella vocazione, a cui Dio l’ha chiamato, per una feconda santità della Chiesa, a maggior gloria della Trinità una e indivisa, che in Cristo e per mezzo di Cristo è la fonte e l’origine di ogni santità[14].





ORDINE DELLA SANTISSIMA TRINITA'

 
REGOLA DI SAN GIOVANNI DE MATHA
approvata da Papa Innocenzo III (1198)


Innocenzo, vescovo, servo dei servi di Dio, al diletto figlio Giovanni, Ministro, e ai Frati della Santa Trinità, salute e apostolica benedizione.
          Posti, per disposizione della divina clemenza, al vertice della sede apostolica, Noi dobbiamo assecondare i sentimenti religiosi e, quando procedono dalla radice della carità, portarli a compimento, specialmente quando ciò che si cerca è di Gesù Cristo, e l’utilità comune è anteposta a quella privata.
          Poiché, dunque, tu, diletto figlio in Cristo, fra Giovanni, Ministro, tempo fa ti presentasti a Noi e ti desti premura di manifestarci umilmente il tuo proposito, che si ritiene aver avuto origine da ispirazione divina, chiedendo che la tua intenzione fosse confermata dall’autorità apostolica, Noi, per meglio conoscere il tuo desiderio, fondato in Cristo, fuori del quale non può essere posto stabile fondamento, giudicammo opportuno invitarti con Nostre Lettere al Venerabile Nostro Fratello (...), vescovo, e al diletto figlio (…), abate di San Vittore, parigini, affinché da essi, che meglio conoscono il tuo desiderio, informati della tua intenzione e del frutto di tale intenzione, della istituzione dell’Ordine e del suo modo di vivere, potessimo con maggiore sicurezza e maggiore efficacia concederti il Nostro assenso.
          Poiché, come chiaramente abbiamo conosciuto dalle loro lettere, è evidente che voi desiderate più l’interesse di Cristo che il vostro, Noi, volendo che vi assista la protezione apostolica, con l’autorità delle presenti Lettere, concediamo a voi e ai vostri successori la Regola secondo la quale dovete vivere, il cui contenuto il vescovo e l’abate suddetti ci hanno trasmesso allegato alle loro lettere, insieme a quanto, secondo la Nostra disposizione e la tua richiesta, o figlio, Ministro, abbiamo creduto di dovervi aggiungere; e stabiliamo che la concessione resti immutata in perpetuo. Il loro contenuto abbiamo disposto che, per sua maggiore chiarezza, fosse qui sotto riportato.    Nel nome della santa e individua Trinità.
          1. I frati della casa della Santa Trinità vivano sotto l’obbedienza del prelato della loro casa, che si chiamerà Ministro, in castità e senza nulla di proprio.
          2. Tutti i beni da qualunque parte provengano lecitamente, li dividano in tre parti uguali; ed in quanto due parti saranno sufficienti, compiano con esse opere di misericordia, provvedendo insieme e in giusta misura al proprio sostentamento e a quello dei domestici, che per necessità hanno a servizio. La terza parte, invece, sia riservata per la redenzione degli schiavi che sono stati incarcerati dai pagani per la fede di Cristo: pagando un prezzo ragionevole per il loro riscatto oppure per il riscatto di schiavi pagani, purché poi, a prezzo conveniente e con retta intenzione, sia liberato lo schiavo cristiano commutandolo, secondo meriti e stato delle persone, con lo schiavo pagano.
          Qualora fosse stato offerto del denaro o qualche altra cosa, anche se data per uno scopo proprio e specifico, un terzo, sempre con il consenso del donatore, sia messo da parte, altrimenti non venga accettata, eccettuati terreni, parti, vigne, boschi, edifici, allevamenti e cose simili. Gli utili che ne derivano, detratte le spese – tolta cioè, la metà per le spese – siano divisi in tre parti uguali; ma se comportano poca o nessuna spesa, siano tutti divisi. Quando però fossero stati dati, o avessero avuto per iniziativa propria, panni, calzature o cose simili di poco conto, di uso necessario, che non conviene vendere o conservare, non se ne faccia la divisione, a meno che non sia parso conveniente farlo al Ministro della casa dei frati. Di tali cose, se è possibile, se ne liberi in capitolo ogni domenica. Se però le cose suddette, come panni, terreni, allevamenti o cose di poco conto fossero vendute, il prezzo che se ne ricava sia diviso in tre parti, come sopra.
          3. Tutte le chiese di questo Ordine siano intitolate al nome della santa Trinità e siano di struttura semplice.
          4. I frati in una medesima casa possono essere tre chierici e tre laici, e inoltre uno che sia il procuratore – il quale, come si è detto, non sia chiamato procuratore, ma Ministro: per esempio: fra A., Ministro della casa della Santa Trinità – al quale i frati devono promettere e prestare obbedienza.
          5. Il Ministro provveda fedelmente a tutti i suoi frati come se stesso.
          6. Gli indumenti siano di lana e bianchi; a ciascuno è permesso avere una sola pelliccia e calzoni che, stando a letto, non devono togliersi.
          7. Dormano in stoffe di lana, così da non avere assolutamente nelle proprie case – tranne che per gli ammalati – lettiere morbide o materassi. Possono però avere il guanciale per appoggiarvi il capo.
          8. Sui mantelli dei frati siano posti i segni sacri.
          9. Non cavalchino cavalli, e neppure li abbiano, ma è loro permesso cavalcare soltanto asini, dati, prestati o presi dai propri allevamenti.
          10. Il vino che i frati devono bere sia temperato, di modo che possa bersi con sobrietà.
          11. Digiunino dal 13 settembre il lunedì, il mercoledì, il venerdì e il sabato, a meno che non capiti una festa solenne, fino a Pasqua: in modo però che, dall’avvento fino alla Natività del Signore e della quinquagesima fino a Pasqua, eccettuate le domeniche, digiuno con cibo quaresimale; facciano similmente altri digiuni, che la Chiesa è solita celebrare. Il Ministro può, tuttavia, qualche volta mitigare con discrezione il digiuno a causa dell’età, per viaggio o per altro giusto motivo o, esaminatane la possibilità, anche aumentarlo.
          12. È lecito mangiare carni, offerte da persone fuori o prese dai propri allevamenti, nei giorni di domenica da pasqua fino all’avvento del Signore e da Natale fino alla settuagesima, e nella Natività, Epifania e Ascensione del Signore, nell’Assunzione e nella Purificazione della beata Maria e nella festa di tutti i Santi.
          13. Nulla comprino per il vitto tranne il pane e il companatico  -ossia fave, piselli e legumi del genere- gli erbaggi, l’olio, le uova, il latte, i formaggi e la frutta. Ma non è lecito comprare né carni né pesci né vino, se non per i bisogni degli infermi o dei deboli di salute o dei poveri, oppure nelle grandi solennità. È peraltro permesso comprare animali da allevamento e nutrirli.
          Quando però sono in viaggio o in pellegrinaggio, è loro concesso di comprare, ma moderatamente e se è necessario, vino e pesci durante la quaresima; e se viene loro data qualche cosa, vivano di essa e il rimanente lo dividano in tre parti.  Ma se si sono messi in viaggio per redimere gli schiavi, tutto quello che viene loro dato, detratte le spese, devono impegnarlo totalmente per la redenzione degli schiavi.
          14. Nelle città, nelle borgate o villaggi in cui hanno case proprie, al di fuori di esse, se non eventualmente in casa religiosa, anche se da chiunque pregati, non mangino né bevano assolutamente nulla, fuorché acqua in case oneste; né presumano di pernottare fuori delle predette case. Non mangino né bevano mai in taverne o simili luoghi malfamati. Chi avesse osato ciò, soggiaccia a grave pena, secondo il giudizio del Ministro.
          15. Tale sia la carità tra i frati chierici e laici, che abbiano lo stesso cibo, vestito, dormitorio, refettorio e la stessa mensa.
          16. Gli infermi dormano e mangino da parte; alla loro assistenza sia deputato qualche converso laico o chierico, che procuri loro le cose necessarie e le somministri come devono essere somministrate. Si ammoniscano tuttavia i malati di non chiedere cibi lauti o troppo sontuosi, contenuti piuttosto di una sobrietà conveniente e sana.
          17. (La cura degli ospiti, dei poveri e tutti i viandanti) sia affidata a un frate tra i più prudenti e benevoli, il quale li ascolti e, se ne sarà il caso, dia loro il conforto della carità. Chieda tuttavia a quelli che crede di dover accogliere, se sono disposti ad accontentarsi di quanto viene servito ai frati. Non è certo conveniente che qualcuno sia ammesso a pasti abbondanti e costosi. Ma quel che c’è da dare, lo sia dia con gioia, e a nessuno sia resa offesa per offesa. Se qualcuno, specialmente religioso, chiede ospitalità, sia accolto benevolmente e servito con carità, secondo le possibilità della casa.
          Non si dia però agli ospiti né avena né altro al posto dell’avena, se essi si trovano in città o villaggi o dove essa possa trovarsi in vendita, a meno che gli ospiti non siano religiosi, o tali che non l’abbiano a portata di mano e non possono comperarla. Se poi gli ospiti non l’avessero trovata in vendita e se ne trova nella casa in cui sono stati accolti, sia loro fornita a prezzo conveniente.
          18. Nessun frate laico o chierico sia possibilmente senza una sua mansione. Ma se qualcuno non volesse lavorare pur essendone in grado, lo si obblighi a lasciare il suo posto, poiché l’Apostolo dice: “Chi non vuol lavorare, neppure mangi!”.
          19. Osservino il silenzio sempre nella loro chiesa, sempre nel refettorio, sempre nel dormitorio. È però loro permesso parlare di cose necessarie in altri luoghi, in tempi adatti, a bassa voce, con umiltà e decoro; fuori dai luoghi predetti, il loro parlare sia dunque onesto e senza scandalo. Così pure tutto il loro contegno, comportamento, vita, modo di agire e ogni altra cosa siano in essi trovati dignitosi.
          20. Se è possibile, ogni domenica nelle singole case il Ministro tenga il capitolo con i suoi frati, e i frati al Ministro e il Ministro ai frati rendano conto fedelmente degli affari della casa e delle cose date alla casa e ai frati, affinché sia destinata la terza parte alla redenzione degli schiavi.
          21. Similmente ogni domenica, se è possibile, si faccia una esortazione non solo ai frati, ma anche ai domestici della casa, secondo la loro capacità, e siano esortati con semplicità su quanto devono credere o fare.
          22. Su tutte le cose e sugli alterchi i frati siano giudicati in capitolo.
          23. Nessun frate accusi pubblicamente un suo confratello, se non può dare una prova sicura. Chi avrà fatto ciò, subisca la pena che avrebbe dovuto subire il reo nel caso che fosse stata provata la sua colpevolezza, a meno che per qualche motivo il Ministro non abbia voluto soprassedere. Quelli che eventualmente avessero dato scandalo o fatto qualche cosa di simile o, non sia mai, si fossero percossi a vicenda, soggiacciano a pena maggiore o  minore, a discrezione del Ministro.
          Se qualche frate avesse mancato nei confronti di un altro frate, cioè contro un altro frate e lo sappia solo chi ha ricevuto l’offesa, questi sopporti pazientemente anche se è innocente; e quando gli animi si saranno calmati, ammonisca e riprenda l’altro con dolcezza e in modo fraterno da solo a solo fino a tre volte, perché faccia penitenza di ciò che ha commesso, e si astenga in seguito da simili mancanze. Se non gli avrà dato ascolto, lo dica al Ministro e questi lo riprenda in segreto, secondo quello che vedrà conveniente al suo bene.
          Se invece chi ha dato scandalo vuol riparare spontaneamente, si distenda con tutta la persona ai piedi dello scandalizzato chiedendo perdono, e se non basta una volta, lo ripeta fino a tre volte. Ma se il fatto avvenuto il pubblico, qualunque sia la penitenza che ne seguirà, questa sia la prima –la prostrazione, cioè di tutto il corpo ai piedi del Ministro con la richiesta del perdono- ; poi sia ripreso a giudizio del medesimo.
          24. Il capitolo generale si celebri una volta all’anno, e lo si tenga nell’ottava di pentecoste.
          25. Se per necessità della casa si dovesse contrarre qualche debito, questo sia prima proposto ai frati in capitolo, e sia fatto con il loro consiglio e consenso, per evitare così sospetti e mormorazioni.
          26. Se qualcuno avesse arrecato danno ai beni della casa e fosse necessario ricorrere al giudica, non lo si faccia prima che egli venga ammonito con carità, in primo luogo dai frati e poi similmente da altri vicini.
          27. L’elezione del Ministro sia fatta per comune deliberazione dei frati, e non lo si elegga secondo la dignità dei natali, ma secondo il merito della vita e la dottrina della sapienza. Chi viene eletto sia sacerdote o chierico idoneo agli ordini. Ma il Ministro, sia maggiore che minore, sia sacerdote.
          28. Il Ministro maggiore può ascoltare le confessioni dei frati di tutte le comunità del medesimo Ordine. Il Ministro minore invece ascolti le confessioni dei frati della sua casa, purché la vergogna, per qualche ripetuta trasgressione, non offra l’occasione di confessarsi dai propri Superiori più raramente e con minore schiettezza di quanto convenga.
          29. Il Ministro provveda con premura a osservare in tutto i precetti della Regola, come gli altri frati.
          30. Se dopo essere stato eletto egli meritasse di essere deposto per qualche colpa, sia deposto dal Ministro maggiore, dopo aver convocato tre o quattro Ministri minori, e al suo posto sia messo un altro che ne sia degno. Se però per la distanza dei luoghi o per altra ragionevole causa il Ministro maggiore non potesse fra questo, affidi l’incarico a dei Ministri minori più timorati; e ciò che essi avranno fatto, sia ritenuto ratificato dall’autorità del maggiore.
          Se poi per colpe gravi fosse da riprendere o da deporre il Ministro maggiore, ciò sia fatto da quattro o cinque Ministri del medesimo Ordine tra i più timorati, che però devono essere eletti a tale scopo dal capitolo generale.
          31. Se qualcuno volesse essere frate di questo Ordine, all’inizio serva Dio nell’Ordine per un anno a spese proprie, tranne il vitto, ritenendo il suo vestiario e tutte le sue cose; e dopo un anno, se al Ministro della casa, ai frati e a lui sembrerà cosa buona e conveniente e vi sarà posto, sia ricevuto. Nulla tuttavia si esiga per la sua ammissione. Se però desse qualche cosa gratuitamente, la si accetti, purché sia tale che non sembri derivarne controversia alla Chiesa. Se sulla condotta di qualcuno vi fossero motivi di dubbio, si faccia, si faccia di lui prova più lunga. Se prima dell’ammissione qualcuno si fosse comportato con insubordinazione o insofferenza della disciplina e, a giudizio del Ministro, non avesse emendato i suoi costumi, gli si dia con semplicità licenza di andarsene con tutto ciò che aveva portato con sé. Nessuno sia ricevuto nell’Ordine se prima non risulta che ha compiuto venti anni. La professione sia rimessa al giudizio del Ministro.
          32. Non accettino dalle mani di un laico pegni, decime, con licenza del proprio Vescovo.
          33. Non facciano giuramenti, se non per grave necessità con il permesso del Ministro o per ordine del loro Vescovo o di altri che faccia le vece della Sede Apostolica, e ciò per causa onesta e giusta.
          34. Se in una cosa messa in vendita è stato notato qualche difetto, lo si indichi al compratore.
          35. Non è loro consentito accettare deposito di oro o di argento o di denaro.
          36. Nello stesso giorno in cui arriva o viene portato un infermo, questi si confessi dei suoi peccati e si comunichi.
          37. Ogni lunedì, eccetto nelle ottave di Pasqua, Pentecoste, Natività del Signore, Circoncisione ed Epifania e nelle festività che vengono proclamate da osservare, finita la messa per i fedeli, si faccia nel cimitero l’assoluzione dei fedeli defunti.
          38. Ogni notte, almeno nell’ospizio alla presenza dei poveri, si pregi in comune per lo stato e la pace della Santa Romana Chiesa e di tutta la cristianità, per i benefattori e per coloro per i quali la Chiesa universale è solita pregare.
          39. Nelle ore canoniche osservino la consuetudine del beato Vittore, a meno che pause, altre prolissità e uffici notturni non debbano essere tralasciati, su consiglio di uomini pii e devoti, per il lavoro e la scarsità di quelli che svolgono il servizio. Per il loro piccolo numero infatti, non sono tenuti a fare pause tanto lunghe nel salmeggiare, né ad alzarsi tanto presto.
          40. Similmente nella rasatura i chierici seguano l’Ordine di San Vittore. I laici invece non radano la barba, ma la lascino crescere modestamente.
          A nessuno (assolutamente, è lecito infrangere o contravvenire con temeraria presunzione a questo scritto) della nostra concessione e costituzione.
          (Se qualcuno poi osasse tentare di fare ciò, sappia che incorrerà nello sdegno di Dio onnipotente e dei suoi beati Apostoli Pietro e Paolo).
            Dato (nel Laterano, il 17 dicembre dell’anno dell’Incarnazione del Signore 1198, nel primo anno del Nostro Pontificato).




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