IL CAMMINO PASQUALE DEI RELIGIOSI
Le sofferenze negli esponenti più autorevoli della vita consacrata
di Padre Felice
Artuso
Introduzione
La vita
consacrata è un prezioso dono, che Dio elargisce alla Chiesa, per renderla più
bella e attraente. Non scaturisce da un’invettiva umana, ma dalla vita e
dall’insegnamento Gesù Cristo. Mandato dal Padre nel mondo, egli assume la
natura umana nel grembo di Maria sempre vergine. Si inserisce nella nostra
storia, condividendo le preoccupazioni e le afflizioni di ogni persona. Durante
la vita pubblica chiama i suoi discepoli ad abbandonare le loro attività e le
loro relazioni con i familiari. Chiede ad essi di seguirlo sulla via, che lo
conduce dall’umiliazione del Calvario e al trionfo della risurrezione.
Raggiunta la maturità psichica e fisica, alcuni cristiani avvertono che Dio li
elegge ad assumere degli impegni nella Chiesa. Tramite l’emissione dei voti
religiosi, muoiono a se stessi, si consacrano a Gesù, incrementano un rapporto
più saldo con lui, interiorizzano il suo
insegnamento, lo seguono con tutte le loro forze come unica necessità,
sperimentano il valore delle beatitudini evangeliche, consolidano la speranza
di accedere alla gloria eterna e passano ad un livello di maggiore libertà.
Perseverando nella sequela di Gesù, Parola fatta carne, prendono coscienza
della loro dignità, testimoniano la santità di Dio, riparano i guasti della
società, attuano nella Chiesa una missione evangelica, crescono nella
perfezione interiore, si compiacciono di servire i fratelli e si dispongono ad
accogliere il dono della beatitudine eterna.
Il nuovo
Codice di Diritto canonico definisce, infatti, la vita consacrata «una forma
stabile di vita con la quale i fedeli, seguendo Cristo più da vicino per
l’azione dello Spirito Santo, si danno totalmente a Dio amato sopra ogni cosa.
In tal modo, dedicandosi con nuovo e speciale titolo al suo onore,
all’edificazione della Chiesa e alla salvezza del mondo, sono in grado di
tendere alla perfezione della carità nel servizio del Regno di Dio e, divenuti
nella Chiesa segno luminoso, preannunciano la gloria celeste» (573).
In questo
trattatello espongo i complessi aspetti della vita consacrata, suscitata dalla
multiforme azione dello Spirito Santo e dai diversi carismi di alcune persone.
Attenendomi il più possibile a quanto ci è pervenuto, presento il faticoso
cammino spirituale dei fondatori e delle fondatrici, dei rifondatori e delle
rifondatrici, che accolsero con acuta intelligenza l’originalità della
rivelazione biblica.
Docili alla
grazia divina, queste persone abbandonarono le illusorie attrattive del mondo,
decisero di lasciarsi purificare dai loro peccati, accondiscesero alla volontà
salvifica di Dio, si impegnarono a testimoniare la fede della Chiesa in Gesù,
servirono gratuitamente il prossimo, portarono ogni giorno la propria croce e
ne sperimentarono un intimo appagamento. Nel loro movimento ascensionale
inventarono uno stile di vita carismatica e la promossero decisamente agli
altri.
Senza
eccedere nelle generalizzazioni e semplificazioni, si può affermare che furono
ammirevoli nella risposta data alla loro speciale vocazione. Abbellirono la
Chiesa del loro tempo, rendendo visibili, constatabili e comprensibili le virtù
evangeliche. Faticarono alquanto per corrispondere alla chiamata del Signore,
comprendere gli aspetti più rilevanti del Vangelo, evangelizzare i loro
contemporanei, servire con amore il prossimo e difendere la dignità dei deboli,
dei poveri, degli emarginati e degli afflitti. Non percorsero un cammino sulle
molleggiate carrozze o sulle lussuose automobili. Combattendo le tendenze
egoistiche, affrontarono un percorso angusto, irto e logorante. Soffrirono
molto per stare vicini a Gesù, rimanere
vincolati saldamente a lui e ascendere ai più alti gradi di santità, possibile
in ogni tempo e in ogni luogo.
Ottenendo
opposizioni e consensi, favorirono la crescita di comunità, dedite alla penitenza,
alla santità, all’apostolato e all’espulsione del male. Indicarono delle valide
soluzioni su alcuni problemi emergenti e preoccupanti. Raccomandarono ai loro
seguaci di non aderire agli adescamenti ingannevoli della mentalità pagana, ma
di ascoltare sempre la Parola di Dio, di pregare ogni giorno, di lavorare con
responsabilità e di osservare fedelmente le norme, a cui essi si erano ispirati
e ne avevano sperimentato l’efficacia.
Oggi
insegnano agli uomini e alle donne che occorre formarsi solide convinzioni, per
anelare alla massima perfezione e al più sublime livello di santità.
Sollecitano noi cristiani a intraprendere diverse iniziative come respingere
ogni insidia diabolica, accogliere l’annuncio evangelico, sintonizzarci il più
possibile con i problemi dei nostri coevi, dare un’incoraggiante risposta alle
loro attese, promuovere un’autentica umanizzazione, ignorare le ricorrenti
denigrazioni degli avversari e camminare verso la Gerusalemme celeste.
Essendoci
impossibile passare in rassegna tutti i fondatori e le fondatrici, i
rifondatori e le rifondatrici, mi soffermo su quelli che hanno riscosso più
adesioni e più risonanza nella Chiesa. Le loro esperienze, organizzazioni e
disposizioni hanno un’importante dimensione teologica, mistica, apostolica,
sociologica e giuridica. Costituiscono un tesoro, che dobbiamo capire,
apprezzare e adattare alla nostra epoca, soggetta a rapidi cambiamenti.
Nella mia
esposizione non bado tanto ai loro dati cronologici quanto al loro cammino di
conversione al Signore. Cerco di evidenziare gli elementi di lotta e di
speranza, che emergono nel loro faticoso itinerario. Rilevo la loro tenace
determinazione nel corrispondere alla vocazione di passare da una situazione di
vita precaria ad un’esistenza soddisfacente, dall’umiliazione alla
rivalutazione, dall’afflizione temporale alla gioia immortale. Procedo,
partendo dagli inizi del cristianesimo e arrivo ai nostri giorni. Mancando nei
primi secoli i fondatori religiosi in senso stretto, presento qualche promotore,
sostenitore e sperimentatore della vita totalmente consacrata al Signore. Per
una cognizione più dettagliata dei singoli e differenti personaggi, i lettori
ricorrano alle fonti più specialistiche.
Inserisco
anche nel volume alcuni religiosi che hanno compiuto un camino di fede vigoroso
ed hanno reso presente il regno di Dio
con la loro gioiosa testimonianza evangelica. Essendo moltissimi, la mia
indagine si limita sui più popolari. Si tratta di una mia scelta metodologica e
non tanto di una disattenzione, incuranza o sottovalutazione degli altri santi,
che hanno un incisivo influsso nella Chiesa e rendono più splendida la nostra
vocazione cristiana in questo tempo di esperienze futili, insoddisfacenti e
perlopiù contrarie all’affermazione del Regno di Dio.
Auguro ad
ognuno di sintonizzarsi con lo scritto, di sentirsene attratto, di costatare la
validità dei contenuti spirituali e di anelare maggiormente alla perfezione
interiore. Darà allora una risposta più gioiosa al Signore, che sempre chiama
gli uomini a relativizzare i valori provvisori e ad abbracciare la propria
croce, percorrendo il faticoso cammino della donazione di sé. Questo
procedimento, se impedisce un certo prestigio popolare, conduce parimenti alla
sperimentazione e alla realizzazione del progetto salvifico di Dio.
I fondamenti
biblici della vita religiosa
La
Sacra Scrittura ricorda alcune persone che, mosse da Dio, inaugurano uno stile
di vita più umano. Parla di Abramo,
che abbandona la terra nativa, intraprende un lungo cammino, supera tante prove
e attende l’attuazione delle promesse divine (Gn 22,1-17). Descrive Mosè, che docile alle
iniziative di Dio, libera i suoi
consanguinei dall’oppressione egiziana, li prepara ad entrare nella terra
promessa e li educa a una forma di vita organizzata e contemplativa (Es 13,17ss). Presenta il profeta Geremia
che rimane celibe, per dimostrare la bellezza della fecondità spirituale (Ger
16,1-4). Prefigura Gesù Cristo, fonte di grazia e di benedizione. Secondo
l’evangelista Luca Giovanni Battista, della famiglia sacerdotale di Abia, non si
sposa e si ritira nel deserto, dove prepara la gente ad accogliere il Messia e a
intraprendere un nuovo percorso (Lc 1,80; 3,1ss).
Inviato dal Padre
(Gv 19,36; At 10,38) e consacrato dallo Spirito Santo (Lc 4,18), Gesù nasce da
Maria vergine. Entra nel mondo, generato da colei che ha incontrato Dio, lo ha
ascoltato e si è preoccupata di servirlo. A Betlemme inizia la vita terrena in
uno stato di assoluta povertà. Nell’infanzia e nella prima giovinezza onora i
suoi genitori, stando sottomesso a loro (Lc 2,51). Prega, lavora, condivide le
buone abitudini della gente e occulta la sua divinità. Intrapreso il ministero
pubblico, ha uno stile di vita talmente povero da non sapere dove posare il capo
(Mt 8,20). Attesta che Dio lo ha consacrato e inviato ad annunciare a tutti il
Vangelo di liberazione (Lc 4,16-21). Mantiene con il Padre celeste una relazione
di pieno amore e di costante collaborazione. Senza contraddirsi, afferma di se
stesso: «Io e il Padre siamo una cosa sola... Il Padre è in me ed io nel
Padre... Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e di compere la
sua opera» (Gv 10,30; 17,21). S’identifica con i piccoli, gli esclusi e gli
ammalati d’ogni età (Lc 7,18-23). Li dichiara beati, perché si trovano nella
situazione di accogliere con più prontezza il suo annuncio evangelico (Mt 5,3;
Lc 6,20).
Insegna che all’inizio della creazione Dio ha istituito l’unità
matrimoniale, per dare stabilità all’amore fecondo (Mc 10,6-9). Rinuncia a
formare una famiglia, per offrire ai discepoli un segno visibile sulla presenza
del Regno di Dio nel mondo (Mt 19,10-12). Si rivela lo sposo divino, prefigurato
e annunciato dai profeti. Si espone al disprezzo, alla sofferenza e alla morte
di croce, per portare a compimento la sua missione salvifica.
Chiede ai suoi discepoli di distaccarsi
dalle bramosie terrene, di condividere i loro beni temporali, di confidare nella
provvidenza divina e di accumulare tesori incorruttibili (Mt 6,19-34). Tra loro
sceglie i Dodici, perché rimangano con lui (Mc 3,14). Propone ad essi di rinunciare alle programmazioni personali,
di seguirlo sulla via dell’immolazione e di prepararsi ad incontrarlo nella sua
vita divina (Mt 16,24-26 e par). Esige che corrispondano generosamente ai suoi
numerosi segni d’amore e di solidarietà. Attende che si abbassino e servano gli
umili come lui stesso sta dimostrando (Gv 13,12-17.34). Li invia ad
evangelizzare gli uomini, dicendo: «Chi ascolta voi, ascolta me, chi
disprezza voi, disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha
inviato» (Lc 10,16).
Toccati sensibilmente dalla parola di Gesù, gli apostoli accolgono la
chiamata a seguirlo e ascoltarlo. Si distaccano dai loro familiari, amici, averi
e attività quotidiane (Mc 1,16-20; 2,13.14). Cominciano a vincolarsi
strettamente a lui come unica scelta necessaria (Lc 10,42), per attestare la
tenerezza universale di Dio (Os
11,8; Ger 31,20), raggiungere la massima perfezione (Mt 19,21) e disporsi
ad entrare nella gloria celeste (Mt 10,39). Alcune donne galilee si associano
liberamente al gruppo apostolico e assicurano a Gesù i servizi di prima
necessità (Mc 15,40-41). Altre hanno contatti coraggiosi e sorprendenti con lui
(Lc 7,39; Gv 4,27). Seguendo Gesù, uomini e donne sperimentano una situazione di
stretta vicinanza con Dio, ma anche d'incertezza, di solitudine, di debolezza,
d’incomprensione, di ripudio, di umiliazione, di persecuzione, d’inefficienza e
d’apparente fallimento (Mt 12,19). Conoscono la crisi e la defezione del Venerdì
di passione, in cui Gesù espia i
peccati dell’umanità e muore nella completa offerta di sé al Padre (Eb 5,8;
10,5-9).
Illuminati dallo Spirito Santo, gli apostoli si pentono d’aver
abbandonato il Signore, si affidano alla sua misericordia e riprendono la loro
missione. Si aiutano con la preghiera d’intercessione e con la condivisione dei
loro beni. Servono i più bisognosi e smorzano le loro sofferenze. «Tenevano
ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte
a tutti, secondo il bisogno di ciascuno... nessuno chiamava suo ciò che gli
apparteneva» (At 2,42.45; 4,42). Si rendono conto che non manca niente a
loro, pur avendo lasciato tutto.
Sperimentano la promessa di
Gesù «In Verità, in verità vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o
fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e del Vangelo,
che non riceva già al presente cento volte tanto... e nel futuro la vita
eterna» (Mc 10,29.30). Nella loro attività missionaria operano con
generosità e gratuità. Ne abbiamo un’esplicita conferma in quest’espressione
dell’apostolo Pietro a un paralitico di Gerusalemme: «Non ho né oro, né
argento, ma ti do quello che ho; nel nome di Gesù il Nazareno, alzati e
cammina» (At 3,6). Ne cogliamo una più precisa testimonianza nell'apostolo
Paolo. Egli non si sposa per essere più libero di svolgere il suo ministero.
Aggiunge che non mercanteggia la fede come fanno alcuni falsi evangelizzatori.
Sicuro della sua salda unione con il Signore, annuncia gratuitamente il Vangelo
e si mantiene con un suo lavoro manuale (Rm 15,26; 1 Cor 9,1-18; 2 Cor 6,10).
Accetta le offerte spontanee e le devolve ai poveri.
Gli apostoli organizzano anche le
strutture caritative e applicano ai
cristiani le similitudini che
Gesù aveva raccontato: «Voi siete il sale
della terra… voi siete la luce del
mondo» (Mt 5,13.14); «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e
io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla… Se rimanete
in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà
dato» (Gv 15,5.7). Esortano i
neobattezzati a imitare il
Signore, che per amore si
è sacrificato «fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8). Propongono a tutti di stimarsi, di
accogliersi, di amarsi, di correggersi, di perdonarsi, di incrementare la
comunione, di partecipare alla ”kenosi” di Gesù, (svuotamento nell’avere e nel
potere) e di porre in lui il
significato ultimo di ogni sofferenza (Ef 4,32; 5,21; Rm 5,7.14). Con il loro annuncio cambiano
quelle strutture, che
incrementavano le disuguaglianze, le ingiustizie, le rivalità e le sofferenze.
Guidati dall'azione dello Spirito Santo,
che elargisce con abbondanza i suoi doni (1 Cor 12,11), alcuni uomini e alcune
donne comprendono la risposta che Gesù diede a coloro che denigravano il suo
celibato (Mt 19,11-12). Senza
costrizioni esterne, scelgono di vivere nella condizione verginale, che
equivale ad un sacrificio cruento (1
Cor 7,25.32-35). Compiono una rottura radicale con quella mentalità pagana, che
illude e sottomette. Emettono il voto privato di castità e lo equiparano
ad un vero matrimonio con il Signore.
S’impegnano quindi ad amare lui con cuore libero, indiviso e sponsale.
Si configurano ai suoi patimenti,
attuando l’espressione dell’apostolo Paolo: «Sono stato crocifisso con Cristo
e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (Gal 2,20); Fatevi imitatori di Dio, quali figli
carissimi, e camminate nella carità nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha
dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave
odore» (Ef 5,1-2).
Ogni giorno ascoltano la Parola di Dio, pregano, si mortificano (Col 3,5),
lottano contro gli spiriti maligni (Ef 6,12), testimoniano la loro fede e
lavorano (2 Cor 11,1-2). Si reputano dei pellegrini, protesi verso il
Signore, sposo delle
loro anime e dei loro corpi (Ap 14,3-4). Suscitano
emulazione e attuano nella loro vita il progetto salvifico di Dio.
Alcuni di loro
restano nella famiglia d’origine come le quattro figlie del diacono Filippo (At
21,9). Rendendosi utili, fungono da lievito nella chiesa locale, nella società
e nel mondo (Lc 13,20). Altri si distaccano da tutti, ritirano nelle
grotte del deserto e danno la priorità alla vita contemplativa. Qualche giovane
vedova non si
risposa, per dedicarsi di più alla preghiera, all’ospitalità e al
servizio comunitario (1 Tm 5,5-10; 1 Cor 7,8).
Prospetto sulle varie
forme della vita consacrata
La vita religiosa ha una molteplicità di
tipologie, interpretazioni, trasformazioni e espansioni, dipendenti dai carismi
dei fondatori. Conosce anche recessioni, fusioni, soppressioni e estinzioni,
determinate dai mutamenti antropologici, culturali e politici.
I Padri della Chiesa, fedeli alla
tradizione apostolica, esaltano la scelta della verginità consacrata. La
equiparano alla competizione atletica e al martirio dei cristiani perseguitati
dall’autorità civile. Attribuiscono alle vergini consacrate il titolo di spose
di Cristo, perché hanno deciso in piena libertà di amare, onorare e servire lui
nei fratelli. Celebrano una liturgia nuziale, quando esse si presentano
all’altare, per emettere il voto di verginità. Invocano su loro la benedizione
di Dio, perché con la sua grazia vincano le seduzioni mondane e le tentazioni
maligne. Adeguandosi alla costumanza civile di velare la testa delle donne
coniugate, pongono sul capo delle vergini un velo bianco o rosso, simbolo del
vincolo sponsale ed esse lo portano nei luoghi pubblici. Svolgono di solito i
lavori domestici e le attività di volontariato.
Alla prima forma di consacrazione
verginale si afferma e rafforza la scelta della vita eremitica. Alcuni uomini e donne, spinti dal desiderio
ascetico, lasciano le loro abitazioni e si ritirano nella totale solitudine.
Per distinguersi dalla gente comune indossano una divisa o esibiscono un segno
di riconoscimento. Imitano Gesù che ha scelto di vivere nell’anonimato e prima
di iniziare la missione pubblica si è ritirato nel deserto (Lc 2,39-40; Mt
4,1ss).
Separati da ogni attrattiva mondana, si
dedicano prevalentemente all’ascolto della Parola di Dio e alla preghiera
salmodica. Tuttavia con gli altri cristiani mantengono il legame della fede in
Gesù, della fraternità e della moralità. Nel giorno di domenica si radunano in
una chiesa, dove assieme al popolo celebrano l’Eucaristia e comunicano agli
altri le loro esperienze. Percorrono la via stretta del Calvario e del martirio
interiore. Testimoniano ai coetanei che occorre cercare Gesù, vincolarsi al suo
insegnamento e soccorre qualsiasi persona.
Altri uomini e donne scelgono una forma di
vita cenobitica, peraltro conosciuta dai buddisti, dagli induisti, dai giudei
esseni di Qumran, da altre religioni e dalla comunità apostolica. Differenti
per provenienza, carattere, formazione ed esperienza, si distaccano dalle
vanità, dai frastuoni e dagli efficientismi disumanizzanti. Entrano in un
monastero, dove indossano una tunica, vivono l’insegnamento evangelico nella comunità,
emettono i voti religiosi, si attengono alla Regola del loro Fondatore e
si sottomettono alla direzione spirituale dell’abate, del superiore o del più
anziano del gruppo.
Per vincere la pigrizia, la svogliatezza e
l’aridità spirituale, meditano ogni giorno la Sacra Scrittura, contemplano le opere
meravigliose di Dio, riproducono in se stessi i sentimenti di Gesù crocifisso e partecipano ai
quotidiani ritmi della preghiera e del lavoro comunitario. Nel canto salmodico
e corale lodano Dio, lo invocano, gli presentano le afflizioni della gente e si
offrono a lui in olocausto d’amore. Consumano insieme i pasti frugali e condividono i profitti
delle loro fatiche. All’inizio e alla fine di ogni azione si tracciano
il segno della croce. Essendo quasi tutti dei laici, senza ministeri clericali, escono
raramente dal monastero e conferiscono alla Chiesa un volto bello,
attraente e avvincente.
I santi Padri approvano e lodano la scelta
della vita monastica. Attestano che essa, radicata negli impegni battesimali, è
una morte alle preferenze personali, una conformazione alle sofferenze di Gesù,
una perfetta comunione con le tre Persone divine, una preparazione alla gloria
celeste, un anticipo all’accesso paradisiaco e una sublime imitazione della
fedeltà angelica. Raccomandano ai monaci l’osservanza della castità, della povertà,
della carità e dell’obbedienza ai legittimi superiori.
I Benedettini, diffusisi
rapidamente in Europa occidentale, pregano, lavorano, testimoniano la bellezza
del cristianesimo e nel libro “L’Imitazione di Cristo” irradiano questo
tipo di spiritualità: «Ricorda il tuo
proposito di perfezionarti nella pietà, e tieni davanti agli occhi il
Crocifisso ... Il devoto che attentamente e pienamente riflette sulla vita
santissima e sulla passione del Salvatore, vi trova in abbondanza ciò che è
utile e necessario... Oh se Gesù crocifisso fosse sempre presente nel nostro
cuore, quanto rapidamente e completamente saremmo ammaestrati»[1][1];
«Bisogna che tu divenga stolto per amore
di Cristo, se vuoi condurre una vera vita religiosa»[2][2]; «La vita completamente religiosa è proprio
croce, ma una croce che porta in Paradiso»[3][3].
All’inizio del secondo
millennio i monaci si diramano in famiglie autonome. Incrementano uno stile di
vita più contemplativo, più povero, più apostolico e più adeguato ai ritmi
della società in veloce trasformazione. Organizzano scuole di teologia, di
direzione spirituale e di emancipazione umana. Alcuni accettano l’ordinazione
presbiterale, per annunciare il Vangelo nelle assemblee liturgiche e amministrare i sacramenti alla gente.
Sorgono poi altre famiglie
religiose, che condividono le crescenti necessità del popolo emarginato,
sottomesso, sfruttato e deviato dalla propagazione delle eresie. Attenendosi
alle loro legislazioni carismatiche, approvate dal papa, recano dei servizi
relativi alle urgenze, alle necessità e alle attese delle singole persone.
Evochiamo i più noti Ordini
della storia d’Occidente. I Trinitari rinunciano alle prestigiose nomine
ecclesiastiche e imitano il cammino di spogliazione, attuato da Gesù. Si
dedicano particolarmente alla liberazione degli schiavizzati dai regimi
musulmani. I Mercedari assumono un’attività simile ai Trinitari. Si offrono
persino in ostaggio sostitutivo, per liberare i prigionieri degli islamici. Gli
Ordini cavallereschi e militareschi si impegnano a custodire i Luoghi Santi e
agevolano il cammino dei pellegrini, diretti in Palestina o in altre località.
Gli Ospedalieri si occupano degli infermi e assicurano a loro una gradevole
assistenza.
Gli Agostiniani, i Francescani, i Domenicani,
i Gesuiti, i Carmelitani, i Teatini, i Barnabiti e gli altri Chierici regolari
erigono strutture corrispondenti al loro carisma. Si dedicano primariamente
alle diverse forme di preghiera, allo studio della Bibbia, della teologia,
della spiritualità e delle molteplici acquisizioni scientifiche,
all'insegnamento scolastico e alla testimonianza evangelica. Escono dalle loro
abitazioni e vi entrano, senza dover ricorrere a speciali concessioni.
Sensibili ai bisogni spirituali della gente, promuovono tornate di predicazione
popolare, distolgono i cristiani dalle defezioni morali o dagli errori
teologici, rafforzano la pratica delle devozioni e si attirano dei vasti
consensi.
Nel secolo XVII nascono, si moltiplicano e
si diffondono le Congregazioni maschili e femminili, che differiscono dagli
Ordini religiosi menzionati, per una sottile distinzione giuridica: non
emettono i voti solenni, ma quelli semplici. Mantengono una caratteristica
monacale, incrementano i contatti con il popolo, danno una risposta concreta
alle attese dei poveri e indicano a loro la via da percorrere.
Nel secolo XVIII il regime napoleonico
sopprime gli Ordini e le Congregazioni dei religiosi contemplativi e
apostolici, perché ritiene che essi svolgano un’attività superflua. Costretti
alla clandestinità, non scompaiono del tutto. Riescono a sopravvivere
nell’anonimato e, ottenuta la precedente libertà, riattivano le loro opere.
Sorgono contemporaneamente le Società di
vita comune con un’impronta secolare e una specializzazione apostolica secondo
l’età, la formazione, il lavoro e i bisogni del popolo. Nascono anche gli
Istituti Laicali, che si vincolano a Dio con dei voti, osservano una Regola,
suscitata dallo Spirito Santo e percorrono il cammino spirituale indicato da
Gesù. Senza indossare una divisa, che nella società ha sempre avuto una
rilevanza, mantengono un’unità d’intenti, rispondono alle domande esistenziali
della gente, propagano la conoscenza del mistero divino, diffondono uno specifico
carisma, fungono da fermento nella Chiesa e ne garantiscono la
credibilità.
La vita consacrata secondo il Concilio Vaticano II e le successive precisazioni
Nessun Concilio ecumenico elabora
un’articolata definizione della vita consacrata. Solo il Concilio ecumenico
Vaticano II, composto da parecchi vescovi di Istituti religiosi, cerca di
descrivere l’essenza della vita consacrata e di purificarla dalle concezioni
ambigue. Asserisce che essa è una consapevole qualificazione e sviluppo della
grazia, scaturita dall'iniziazione battesimale. «Ha le sue profonde radici nella
consacrazione battesimale e ne è un’espressione perfetta» (PC 5). Inserisce
i religiosi nel mistero Trinitario, nell’universale chiamata alla santità e nel
cammino di fede di ogni cristiano. Attribuisce alla loro speciale vocazione uno
statuto teologico, basato su Dio Padre, che convoca quelli che ha scelto a una
specifica attività. Chiede a loro di seguire Gesù sull’ardua via del Calvario e
di dargli una gioiosa testimonianza. Dichiara che sono chiamati a partecipare
alla missione universale della Chiesa: «I consigli evangelici... congiungono
i loro seguaci alla Chiesa ed al suo ministero ... La loro vita spirituale deve
essere consacrata al bene di tutta la Chiesa» (LG 44). «Riconosce di buon
grado i meriti e ringrazia Dio, per i tanti sacrifici da loro affrontati per la
gloria di Dio e il servizio delle anime» (AG 40). Esorta i religiosi a
«vivere per Cristo e per il suo corpo che è la Chiesa» (PC 1), mettendosi
«a completo servizio della sua missione» (PC 6). «I religiosi
corrispondano alla loro vocazione di seguire Cristo e di servirlo nelle sue
membra» (PC 8).
Se essi corrispondono alla loro
vocazione, spinti dalla forza dello Spirito Santo, intrecciano con Gesù Cristo
un’inscindibile comunione d’amore. Ascoltano la sua Parola, lo contemplano, lo
pregano e lo seguono come unico valore, vanto e speranza. Riproducono in se
stessi la sua forma di vita casta, povera e obbediente (PC 1). Praticano i suoi consigli evangelici
come Regola suprema (PC 2), contribuendo a «radicare e consolidare negli
uomini il Regno di Cristo e a dilatarlo in ogni parte della terra» (LG 43).
Sono quindi un dono insigne a tutta la Chiesa pellegrinante. Evocano in modo eminente i beni, che
Dio ha promesso ai suoi servi fedeli e preannunziano l’ingresso nella gloria
eterna (LG 42, 44; PC 5).
Reputando necessario un loro
rinnovamento spirituale e apostolico, il Concilio ordina che essi procedano su
questi quattro percorsi: 1) Ritorno alle fonti bibliche; 2) Approfondimento del
proprio carisma; 3) Attenzione ai
diritti di ogni religioso; 4) Apertura ai bisogni e alle attese della gente (PC 2; 18). Immettendosi
su queste direzioni, testimonieranno con audacia la loro specifica vocazione,
produrranno nella società copiosi frutti di bene e riscuoteranno un’alta
stima.
Il nuovo Codice di Diritto
canonico riconosce che la vita consacrata, suscitata dall’azione dello Spirito
Santo, esige il distacco dalla mentalità mondana e l’amorosa sequela di Gesù
Cristo. Apprezza la dimensione comunitaria, orante, fraterna, servizievole e
apostolica dei religiosi. Precisa che il voto di castità, tanto denigrato
dall’individualismo odierno, comporta la rinuncia dei piaceri corporali e delle
gioie familiari, inoltre è «segno della
vita futura e fonte di una più ricca fecondità nel cuore indiviso, comporta la
perfetta continenza nel celibato» (c 599). Ammette che il voto di povertà
volontaria è «imitazione di Cristo, che
essendo ricco si è fatto povero per noi… comporta la limitazione e la dipendenza
nell’usare e nel disporre dei beni» (c 600). Asserisce che il voto
d'obbedienza, «accolto con spirito di
fede e di amore per seguire Cristo obbediente fino alla morte, obbliga a
sottomettere la volontà ai superiori legittimi, quali rappresentanti di Dio»
(c 601).
L’agnosticismo, il
relativismo, il permissivismo e il consumismo assoggettano le persone deboli.
Suscitano roventi dibattiti e opposti schieramenti. Causano disorientamenti,
perplessità e incertezze nella Chiesa e in quelle religioni che hanno degli
elementi di verità e dei barlumi di santità (NE 2). Ne deriva la diminuzione
delle vocazioni religiose, l’affievolimento delle loro opere e la perdita della
loro rilevanza sociale.
Per arginare questa complessa
problematica, Giovanni Paolo II convoca un Sinodo episcopale, che al termine del
lavoro analitico presenta una visione teologica e sintetica della vita
consacrata. Citando i documenti del Concilio ecumenico Vaticano II, dichiara che
questo tipo di scelta ecclesiale è una testimonianza dell’amore di Dio, Padre,
Figlio e Spirito. Chiede ai religiosi di riscoprire il loro carisma originario,
di approfondirne l’identità, di coltivare la formazione permanente, di evitare
gli indugi sulle programmazioni, di rinunciare agli interessi personali e di
perseverare nella sequela di Gesù. Allora potranno rivitalizzarsi e risultare
più innovativi.
Più
volte Giovanni Paolo II richiama i religiosi a comprendere l’essenza della loro
vocazione. Seguendo l’insegnamento del Concilio Vaticano II e le riflessioni del
Sinodo episcopale, nel 1996 scrive l'esortazione apostolica "Vita Consacrata",
uno dei più importanti documenti del suo magistero apostolico. Conferisce al suo
testo un'autorevole impostazione trinitaria, comunitaria e ecclesiologica.
Ricorda che la vita consacrata, vissuta con gioia, è un dono di Dio alla sua
Chiesa e una testimonianza delle sue grandi opere. Per vincere le forze
centrifughe e disgregatrici, domanda ai religiosi di conservare la memoria della
loro consacrazione alla Santissima Trinità. «Chiamati a seguire Cristo» (VC 15), li
esorta «ad approfondire continuamente il
dono dei consigli evangelici con un amore più sincero e forte in dimensione
trinitaria: amore a Cristo, che
chiama alla sua intimità; allo Spirito Santo che dispone l'animo ad accogliere
le sue ispirazioni; al Padre, prima
origine e scopo supremo della vita consacrata» (VC 21). Raccomanda che
permangano congiunti a Gesù come il tralcio alla vite. Saranno così «una memoria vivente del modo di esistere e
di agire del Verbo incarnato di fronte al Padre e di fronte ai fratelli» (VC
22).
Giovanni Paolo II riconosce
inoltre che i religiosi hanno promosso nella Chiesa un tenore di vita
trasfigurata. Auspica quindi che siano fedeli alla loro missione, per
contribuire «a tenere viva nella Chiesa
la coscienza che la Croce è la sovrabbondanza dell'amore di Dio che trabocca su
questo mondo, è il grande segno della
presenza salvifica di Cristo. E ciò specialmente nelle difficoltà e nelle
prove» (VC 24). Rivolgendosi ai religiosi anziani chiede di «lasciarsi plasmare dall'esperienza pasquale,
configurandosi a Cristo crocifisso che compie in tutto la volontà del Padre e
s'abbandona nelle sue mani fino a rendergli lo spirito» (VC
70).
Nel messaggio al
congresso internazionale della vita consacrata, svolto a Roma dal 23 al 27
novembre 2004, usa il linguaggio dei mistici, asserendo che «non si può
partecipare al mistero dell’Amore che si dona restando a guardare da lontano.
Bisogna lasciarsi investire dalle fiamme che bruciano l’olocausto. E diventare
amore»[1].
Il card. Joseph Ratzinger,
prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, sollecita i religiosi a rinnovarsi continuamente per
essere «più profondamente presenti, con
il cuore di Cristo, ai propri contemporanei» (CCC 932). Eletto papa, il 27
settembre 2005 ricorda ai superiori maggiori che sconfiggeranno la crisi delle
vocazioni, mai apparsa così complicata, se ameranno Gesù e se attueranno le
indicazioni che egli rivolse ai suoi primi discepoli. Allora elimineranno
incertezze, disagi e lamenti frustranti. Compiendo scelte coraggiose,
rinnoveranno la loro spiritualità, rivaluteranno la loro funzione nella Chiesa e
infonderanno fiducia alle giovani generazioni. Proveranno quindi la
soddisfazione di essere più amati, cercati, ascoltati, stimati e necessari agli
altri.
Appartenendo all’Ordine dei
Gesuiti e avendovi svolto un ruolo di primaria responsabilità, il papa Francesco
Bergoglio ha sperimentato i limiti e i pregi dei consacrati. Ne conosce le
rigidezze e le
prodezze, gli indugi e le audacie, i dolori e le gioie, i fallimenti e i
successi. Attesta che i religiosi, sopravvissuti alle
trasformazioni e ai cambiamenti epocali, hanno grandi meriti. Dichiara che nella
Chiesa sono una perla, che
brilla e attrae. Asserisce che «sono
segno di Dio nei diversi ambianti di vita, sono lievito per la crescita di una
società più giusta e più fraterna, sono profezia di condivisione con piccoli e i
poveri»[2].
Li sollecita pertanto a investire maggiormente sui formatori, capaci di liberare
i giovani dalle illusorie ideologie, di inserirli nel cammino della Chiesa e di
accompagnarli nella loro carismatica testimonianza. Mantiene un atteggiamento di
apertura, di accoglienza e di dialogo con tutte le persone che riesce ad
incontrare. Ascolta e dialoga anche con le religiose e con i religiosi, tentati
di evidenziare solo gli aspetti preoccupanti dei loro problemi. Dedica alla
vocazione religiosa l’anno 2015, cinquantesimo anniversario del decreto
conciliare “Perfectae Caritatis” sul rinnovamento della vita religiosa. Auspica
che nel corso dell’anno emerga la sorprendente e intrinseca bellezza di questo
tipo di vita, voluto dal Signore. Nella lettera, inviata ai consacrati, propone
che si concentrino sulle relazioni di Gesù Cristo verso gli altri,
approfondiscano la loro storia, agiscano nella piena comunione con
l’insegnamento della Chiesa, siano sensibili alle concrete attese dei popoli e
intraprendano le iniziative apostoliche, che umanizzano le
persone.
[1] GIOVANNI PAOLO II,
Sempre pronti alle nuove chiamate, in Testimoni 21,15 dicembre 2004, p.
2, n. 7.
[2] FRANCESCO, All’angelus nel giorno dedicato alla vita
consacrata, in OR 3-4 febbraio 2014, p. 8.
Il difficoltoso rinnovamento della vita consacrata
Le religiose e i religiosi accolgono
l’insegnamento del Concilio Vat. II e del Magistero pontificio. Approfondiscono
i fondamenti biblici della loro vocazione. Studiano di seguire Gesù Cristo, che
si è fatto servo debole e vulnerabile. Rafforzano i loro vincoli con la Chiesa
universale. Danno più rilevanza alle celebrazioni liturgiche, alla vita
comunitaria, al proprio carisma, ai dinamismi psicologici e ai bisogni della
società. Avviano un immenso movimento di ristrutturazione, di sperimentazione e
di rinnovamento, che non ha precedenti nella storia del cristianesimo. Iniziano a cambiare il modo di pensare,
di vestire, di pregare, di lavorare, di governare, di distribuirsi le
responsabilità, di scambiarsi le esperienze e di consumarsi per salvezza degli
uomini. Capiscono che debbono impegnarsi a crescere interiormente, per attuare
la loro specifica funzione carismatica e alternativa alle scelte dei loro
contemporanei.
In questa fase di transizione e
sperimentazione non mancano gli aspetti
negativi, relativi al crollo di un mondo che garantiva la tranquillità,
la stabilità e l’ordine esteriore. Gli entusiasti innovatori non prendono sul
serio le norme del cambiamento. Idealizzano diversi tipi di comunità,
corrispondenti alle loro possibilità e attitudini. Assumono gli aspetti
competitivi della società odierna, eliminano certe forme sterili di devozione e
suscitano un grande imbarazzo nelle comunità, mentre i nostalgici difensori
delle vecchie tradizioni respingono fermamente gli orientamenti conciliari.
Entrati in crisi d’identità, non si raccapezzano più di fronte ai repentini
cambiamenti. Non trovano più l’appoggio nei valori tradizionali, che hanno
garantito una certa stabilità e una sicurezza psicologica. Disapprovano
rabbiosamente ogni adeguamento alle esigenze della nostra epoca. Impazienti,
rilevano i segni di disordine, di caos, di provvisorietà, di insuccesso e di
indebolimento. Criticano coloro che si dissociano dalle loro rigidezze
strutturali e ideologiche. Auspicano quindi un ritorno ai sistemi tradizionali
dell’osservanza, ma poco realizzabili ai nostri giorni di ridotte vocazioni e di
sofferta sopravvivenza.
Tra gli innovatori e i nostalgici
si sviluppano contrapposizioni, risentimenti, rivendicazioni, inquietudini, crisi e incapacità
d’attrazione. Alcuni religiosi assumono un atteggiamento freddo, distaccato e
pessimista nei cammini esplorativi. Altri, senza ostentare rimorsi, abbandonano
la loro famiglia religiosa. Si inseriscono nella società, dove intraprendono
un’altra attività e si accollano nuove difficoltà.
Dopo la breve fase esplorativa e
sperimentale i Capitoli generali adeguano la loro Regola e loro Costituzioni,
attenendosi alle specifiche indicazioni del Magistero. Gli specialisti del
Vaticano esaminano le nuove leggi
dei religiosi, vi suggeriscono qualche modifica e le approvano. Ogni religioso
riceve infine le normative rielaborate, aggiornate e autorizzate dalla Santa
Sede. Viene quindi invitato a studiarle, per assimilarne lo spirito, mostrare la
sua fedeltà vocazionale e attuare quanto disse Gesù: «Nessuno che ha messo
mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il Regno di Dio» (Lc
9,62).
La nuova e incoraggiante
legislazione religiosa non blocca l’avvento di ulteriori problemi interni ed
esterni. I religiosi conoscono altre difficoltà, relative alle negligenze
personali, all’urgenza di un radicamento in Gesù, al bisogno di una continua
riforma, all’incessante fluidità della società, alle abitudini locali,
all’esigenza di nuove pianificazioni e alle insistenti politiche
antievangeliche. Più specificamente si trovano in una situazione di desolante
apprensione per il grande calo delle vocazioni, per la debole risposta ai
bisogni reali della gente e per la notevole indifferenza delle persone, succubi
del dilagante individualismo e relativismo.
I religiosi, propensi a nuove
forme di vita, riconoscono l’alto valore della loro scelta. Attestano che essa
impegna a risolvere le loro difficoltà, mantenendo una relazione d'amore con le
tre persone divine. Incrementano il loro rapporto con Dio Padre, confidano nella
grazia di Gesù Cristo, prestano attenzione alla voce dello Spirito,
approfondiscono l’esperienza originaria del loro Fondatore e s’inseriscono con
entusiasmo nella società multietnica e multiculturale. Indagano su un loro
spazio di azione nella Chiesa e nelle realtà locali, senza equipararsi ad
un’azienda, specializzata in diversi servizi. Intensificano l’applicazione di se
stessi, per conferire più trasparenza alla loro attività, affermarsi negli
ambienti difficili e rendere più comprensibile la potenza della Croce.
Favoriscono un sereno dialogo con la gente, che incontrano. Servono, educano,
illuminano e sostengono qualsiasi persona. Per migliorare la qualità della vita
e per accelerare la venuta del Regno di Dio, s’inoltrano in una forma di
radicale abbassamento, di conformazione a Gesù crocifisso, di dedizione alla
preghiera comunitaria e di fraterna collaborazione.
Non essendoci comunità senza
condivisione di sofferenze, deplorano gli atteggiamenti smaniosi e sdegnosi,
rigidi e passivi. Denunciano la poca chiarezza tra rinnovamento e aggiornamento,
tra fedeltà al Vangelo e apertura alle esigenze odierne. Evitano di arroccarsi
su strutture di vita arcaica, di conservare ad ogni costo le tradizioni
statiche, di indossare un abito con i caratteristici colori medievali oppure di
ignorare completamente il passato e di adeguarsi con spregiudicatezza a
comportamenti oggettivamente mondani. Riconoscono di essere all’inizio di un
nuovo ed enigmatico periodo di vita religiosa, che esige la massima apertura e
il confronto con le idee pluraliste odierne, così ridicolizzate da un certo
Jovanotti: «Ho un crocifisso sul mio lettino; - e un piccolo Buddha
sul comodino; - leggo la Sura del Corano; - ed ho anche un piccolo
talismano – che mi ha regalato un amico africano»[1].
I religiosi odierni, che hanno
raggiunto la maturità psichica e spirituale, sono consapevoli di essere deboli,
fragili, limitati e incostanti negli impegni assunti. Accettano le nuove norme
giuridiche, elaborate dagli esperti. Non attendono di sperimentarne altre, che
fungano da lievito per la loro crescita interiore. Stimano quelli che le
osservano in piena libertà e trasmettono agli uomini tanta speranza. Ammettono
che non si rinnovavano, basandosi sulle imposizioni esteriori o privilegiando le
forme di vita, che nel passato risultavano piacevoli e rassicuranti. Dichiarano
bensì che si perfezionano puntando sull’umile cambiamento dei sentimenti e degli
atteggiamenti. Auspicano di pervenire ad una teologia della vita consacrata, che
esprima un modello di condotta veramente totalizzante, qualificante,
convincente, aggregante e gratificante. Si sforzano quindi di perseverare nella
sequela di Gesù, sofferente dalla culla alla morte di croce. Ogni tanto compiono
delle verifiche, per precisare quello che non ha funzionato nelle loro
programmazioni. Si informano sulle nuove proposte dell’autorità ecclesiastica,
valutano il modo di poterle attuare e lanciano alla Chiesa appelli di attenzione
e di sostegno su quello che compiono.
Non azzardano previsioni sul loro
futuro, strettamente collegato alla fedeltà personale e ai mutamenti telematici.
Lasciandosi guidare dagli impulsi dello Spirito di Dio, incrementano
l’acculturazione, rivalutano la bellezza della vita comunitaria, danno una
priorità alla formazione permanente e favoriscono l’inserimento delle donne nei
molteplici servizi ecclesiali. Accompagnano i giovani chiamati a perseverare nel
rinvigorimento spirituale e nella maturazione psicologica.
Senza inscenare allarmanti
tragedie, i religiosi dei continenti occidentali si dispongono all’evidente calo
di numero, alla riduzione delle programmazioni, alla diminuzione delle attività
insostenibili, alla perdita di prestigio sociale e al rischio di estinguersi
come è accaduto a parecchi istituti, che al loro sorgere conobbero una grande
espansione. Si rallegrano che sorgono nuove forme di vita consacrata con
specifiche finalità.
Non dimentichiamo la nascita
di gruppi laicali. Essi riconoscono che la vita consacrata è una scuola di
autentica testimonianza evangelica. Ne condividono la singolare spiritualità e
attività. Diretti da uno o più religiosi, si radunano spesso, per pregare
insieme, per riflettere sugli argomenti programmati e per disporsi a prestare un
loro appoggio. Percorrono con gioia il cammino della Via Crucis che porta
alla realizzazione della vocazione universale alla santità, alla perfezione
nella carità e alla gloria
immortale (LG 40).
Senza appartenere a un gruppo,
altri laici partecipano privatamente al carisma di un Istituto religioso.
Accenniamo l’esempio della Venerabile Elisabetta Tasca in Serena (1899-1978).
Sposa e madre di straordinaria fede, conosciuti i Passionisti, interiorizza la
loro spiritualità. Confida, infatti, ad uno dei suoi figli: «Io ringrazio il Signore che mi dà la forza
di sopportare le mie croci. Sì, mio caro, nelle mie croci vedo il Signore, che
mi vuole vicina a Lui, crocifisso. Non devo più lagnarmi delle mie croci, perché
troppe grazie mi acquistano»[2].
Padre Amedeo Cencini, noto
psicologo, scrive che in questo periodo di grandi mutamenti sociali e di
universali disagi sia necessario parlare «di più della croce, di questo
mistero di liberazione e di libertà, d’amore e di speranza! Mistero tremendo e
affascinante come nessun altro, perché nessuno come il Dio della croce può dare
al giovane la certezza d’essere amato, da sempre e per sempre, e la certezza di
poter e dover amare, per sempre»[3].
[1] RINO COZZA, Giovani e
vocazione religiosa, in Testimoni 15 marzo 2011, p. 12; RICARDO VOLO P., Attirati da Gesù, Ed San Paolo,
Cinisello Balsamo (MI), 2014.
[2] Lettere,, Collezione
privata.
[3] AMEDEO CENCINI,
Vocazioni, dalla nostalgia alla profezia, EDB, Bologna 1990, p.
261.
Lo svolgimento rituale della professione religiosa
Il rito della professione
religiosa non è uniforme. Differisce nei secoli e negli Istituti maggiori. I
giovani Benedettini, che intendono proseguire il cammino di donazione intrapreso
durante il noviziato, si radunano nella chiesa del monastero e partecipano alla
celebrazione eucaristica. All’offertorio rispondono alle specifiche domande del
loro Superiore e emettono i voti. Firmano poi un documento al cospetto dei
testimoni e lo depongono sull’altare. I novizi degli Ordini Canonicali accedono
invece nella sala capitolare, dove emettono i voti nelle mani del loro
Superiore. Si impegnano con ciò a servire Dio e la comunità, che li accoglie con
gioia. I novizi degli Ordini mendicanti o degli altri Istituti pronunciano la
formula dei voti davanti all’altare o al legittimo Superiore, mentre appoggiano
una mano sul Vangelo o sulla Regola. Attenendosi all’esempio di sant’Ignazio di
Loyola e dei suoi primi compagni, i giovani Gesuiti si inginocchiano ed emettono
i tre voti davanti all’Ostia, sorretta dal celebrante. Evidenziano così la loro
consacrazione al Signore, presente nel sacrificio eucaristico. In un tempo
successivo, a loro discrezione, aggiungono il voto di vittima espiatrice o di
obbedienza al papa. I novizi Passionisti adottano un rito di origine medievale.
Riunitisi nella chiesa conventuale, promettono al loro Superiore di promuovere
la memoria della passione del Signore, cui uniscono gli altri tre voti. Al che
il Superiore appunta sulla loro tonaca il distintivo dell’Istituto. Adagia poi
una croce sulle loro spalle e una corona di spine sulla loro testa. Consegna
infine un crocifisso, dicendo ad ognuno: «Ricevi, fratello carissimo, questo Crocifisso.
Dopo averlo assiduamente contemplato, possa tu imparare ad esprimere
incessantemente in te stesso la parola della croce e a testimoniarla agli altri,
affinché tu possa conseguire il frutto eterno del mistero pasquale»[1].
Il rito della prima professione
femminile ha quest’altri particolari di origine antica. La Superiora consegna
alle neoprofesse una croce. Pone poi a ciascuna un anello all’anulare e posa sul
capo sia un velo sia una corona di fiori rossi e bianchi. L’anello simboleggia
la partecipazione alla dignità regale e gloriosa del Signore. Il velo
rappresenta lo sposalizio. I fiori rossi e bianchi richiamano la morte e la
rinascita[2].
Nel 1970 la Congregazione per il
Culto divino pubblica il rito della professione religiosa per tutti gli
Istituti. Dispone che il novizio o la novizia emetta i voti durante una
celebrazione eucaristica o in un’altra azione liturgica. Nel momento
prestabilito egli si avvicina al Superiore, s’inginocchia davanti a lui,
risponde alle sue domande e ad alta voce formula i voti prestabiliti[3] in cui si prefigge di stare stabilmente unito a Gesù
Cristo, vittima d’amore, e di attuare quanto egli disse ai suoi discepoli:
«Se il chicco di grano caduto a terra non muore rimane solo, se invece muore
produce molto frutto» (Gv 12,24). Spera così di togliere gli ostacoli, che
impediscono di crescere nella carità, di compiere nel tempo delle buone opere e
di divenire un convincente segno delle realtà celesti.
Dio Padre accetta i voti del
novizio, lo riconsacra a sé e lo destina ad essere un testimone credibile di
Gesù. A sua
volta il Superiore ricorda al novizio gli impegni,
che ha assunto. Secondo l’usanza tradizionale gli dona quindi il libro della
Regola e delle Costituzioni. Conoscendo che il percorso della consacrazione
religiosa non è agevole, gli assicura che riceverà un adeguato aiuto dal Signore
e dai confratelli. Da ultimo implora su di lui la grazia e la benedizione di
Dio.
Il neoprofesso manifesta
visibilmente i suoi impegni nel momento dell’offertorio. Consegna il pane e il
vino al presbitero, che li prende, li presenta a Dio Padre e lo prega di
trasformarli mediante l’intervento dello Spirito Santo nel corpo e nel sangue di
Gesù. Con questa procedura simbolica il neoprofesso si associa all’immolazione
sacramentale del Signore, percorre la via della donazione di se stesso e
intercede per l’umanità. Senza allarmarsi, si immette in un faticoso e lodevole
percorso. Accetta di dilatare il suo amore e di consumarsi gradualmente per la
vita altrui. Scrive, infatti, p. R. Cantalamessa: «Carisma ed istituzione sono come due bracci
della croce. Il carismatico è spesso la croce dell’istituzione e l’istituzione è
la croce del carismatico»[4].
La cultura odierna, radicata nelle
ideologie e nelle teorizzazioni, sconsiglia l’assunzione degli impegni
definitivi. Incute un’enorme apprensione nei giovani che si preparano a compiere
una scelta definitiva. In alcuni Istituti di recente fondazione i religiosi
rinnovano annualmente i voti. Cercano così di incrementare il loro amore verso
il Padre celeste, di seguire l’insegnamento di Gesù, di assecondare gli impulsi
dello Spirito Santo, di progredire spiritualmente, di servire meglio il prossimo
e di impedire le frequenti insoddisfazioni. Distanziandosi dall’opinione
pubblica, che favorisce la diserzione, si conformano di più alla volontà di Dio,
sviluppano maggiormente le loro potenzialità e richiamano gli sbandati ad uscire
dal dannoso percorrono dell’erotismo, del consumismo, dell’anarchismo, dello
scetticismo, del soggettivismo e dell’esclusione dei valori trascendenti. Fedeli
al carisma del loro Istituto, non si fermano a guardare nostalgici le belle
opere del passato, intensificano bensì i loro impegni. Accettano la vocazione
all’apertura, all’inserimento, alla concretezza e al dinamismo quotidiano.
Offrono un aiuto ai fratelli che amano. Promuovono quei valori, che arrecano
dignità, serenità, speranza e gioia[5].
[1] RITO DELLA PRIMA
PROFESSIONE RELIGIOSA NELLA CONGREGAZIONE DELLA PASSIONE. A cura di Max Anselmi, Moricone (Roma),
Ed. 13 Settembre 1997, p. 28.
[2] MATIAS AUGE’, La
professione religiosa, in ANAMNESIS, I SACRAMENTALI E LE BENEDIZIONI, Ed.
Marietti, Genova 1986; pp. 47-63; AaVv, La vita consacrata, in Scienza
liturgica, Ed. PIEMME, Casale Monferrato (AL), 1998, pp.
317-340.
[3] DOCUMENTI SULLA VITA
RELIGIOSA 1963-1990, Rito della professione religiosa, Ed. Elle Di Ci,
Leumann (TO) 1992, pp. 79-88.
[4] R. CANTALAMESSA, Il
canto della Spirito, Ancora, Milano 1987, p. 200.
[5] AAVV, Professione, in DIP/7, pp.
884-970.
LA SEQUELA DI GESÙ CRISTO NEI PRIMI FONDATORI E
RIFONDATORI
San Cipriano
(210-258)
Cipriano nasce a Cartagine
(Tunisia). I suoi ricchi genitori gli procurano degli educatori, che lo
introducono nella cultura dell’impero romano. Dimostrando di essere molto
eloquente, insegna retorica nella città natale. Attratto dai pochi e attivi
cristiani, decide di prepararsi a ricevere i sacramenti dell’iniziazione e
inizia una vita ascetica. Pratica la castità, vende una parte della sua eredità
e ne distribuisce ai poveri il ricavato. Acclamato presbitero e vescovo dal
popolo, sale sulla cattedra di Cartagine. Esercita il sacro ministero con
autorevolezza e con determinazione. Si mostra un pastore diligente, premuroso,
rispettoso e misericordioso con tutti. Lotta contro la diffusa corruzione e le
troppe infedeltà al Vangelo. Raccomanda ai cristiani, sconvolti dalla
persecuzione dell’imperatore Decio e dalla defezione dei fratelli, detti lapsi,
ossia i caduti negli errori teologici, propagati da alcuni eretici, di
perseverare nella sequela evangelica, di conservare l’unità della fede in Gesù e
di amare la Chiesa, madre e maestra di comunione. Promuove nella sua comunità
un’organizzazione, che cerca i bisognosi e ne garantisce una materna assistenza.
Compone dei trattati in cui si propone di far conoscere agli aristocratici Gesù
di Nazareth, convertirli al suo insegnamento, disporli ad abbracciare il
cristianesimo e rafforzare l’autorità dei vescovi. Nei tre libri a Quirino
compila una raccolta di citazioni bibliche e di figure tipologiche, che si sono
storicamente attuate nell’esodo pasquale di Gesù[1]. Nel libro
sulla Peste, propagatasi a Cartagine, scrive: «Tema di morire chi non sta sotto la croce e
la passione di Cristo. Tema la morte chi sarà tormentato da pene eterne quando
lascerà questo mondo. Tema la morte chi vuole illudersi di differire i suoi
gemiti e i suoi dolori»[2].
Distinguendo i precetti dai consigli evangelici, attesta: «Segue Cristo, chi segue i suoi precetti,
colui che marcia nel cammino segnato, che segue i suoi passi, che imita quello
che Cristo ha insegnato e fatto»[3].
Nel trattato sul Contegno delle
Vergini condanna quei costumi pagani, che corrompono, degradano e sviliscono le
persone. Ricorda alle Vergini consacrate di mantenersi fedeli agli impegni, che
hanno assunto solennemente nel giorno del Battesimo. Le esorta a seguire Gesù,
che svolge un ruolo salutare in chi si affida alla sua grazia: guarisce le
ferite del peccato, accompagna con la potenza dello Spirito santificante,
favorisce il miglioramento della convivenza umana, infonde serenità negli animi
e garantisce la gloriosa risurrezione. Trascriviamo alcune delle sue più belle
espressioni: «A nessun cristiano conviene, tanto meno ad
una vergine, dare importanza alla bellezza e all’avvenenza del corpo. Deve
interessarsi soltanto della parola di Dio ed affezionarsi ai beni che non
periscono»[4].
«La vergine è il fiore della chiesa, luce ed
ornamento della grazia spirituale, frutto prezioso, opera scelta ed incorrotta,
degna di elogi e di onore, immagine di Dio che riproduce la sua santità, la
porzione più illustre del gregge di Cristo»[5]. «Giacché chiediamo il bene della castità,
evitiamo tutto ciò che è pernicioso ed infesto»[6].
«Come i martiri non pensano alle cose carnali
e mondane… così voi dovete essere pari ad essi nella sofferenza»[7].
«Quello che tutti dobbiamo diventare, voi
avete già cominciato ad esserlo»[8].
L’insegnamento pastorale di Cipriano influenza i Padri della Chiesa.
Ricorda a loro il dovere di prendere in seria considerazione la chiamata dei
cristiani ad ascoltare la Parola di Dio, mantenersi in comunione con lui,
osservare l’insegnamento di Gesù, lasciarsi illuminare dal mistero della sua
croce, lottare fermamente contro le ingiustizie umane e perseverare nella
pratica delle virtù morali e teologali.
Durante la persecuzione
dell’imperatore di Decio, decretata nel 250, Cipriano si ritira in un
nascondiglio, per non cadere nelle sconvolgenti rappresaglie dello Stato
totalitario. Nel silenzioso isolamento non rimane passivo e inerte, ma si mostra
vigilante e attivo pastore. Prosegue a svolgere il ministero episcopale,
guidando la sua chiesa e condividendone le afflizioni. Mediante un’assidua
corrispondenza le offre dei contenuti spirituali, per affrontare con tenace
fermezza l’inquietante persecuzione. In particolare esorta i sacerdoti e i laici
a perseverare nella professione di fede cristiana e a rifiutare l’imposizione di
sacrificare agli idoli, per dimostrare la piena uniformazione alle leggi
statali. Nella persecuzione dell’imperatore Valeriano si trasferisce a Carubi,
località situata nella vicinanza di Cartagine. Qui prega, accoglie i suoi
collaboratori, analizza le notizie che gli recano e li consiglia di perseverare
nella fraterna coesione. Un nuovo editto dell’imperatore impone alle autorità
locali di arrestare, processare e condannare a morte i capi delle comunità
cristiane. Cipriano è quindi ammanettato e condotto nel tribunale. Al termine
del processo il proconsole Galerio Massimo emette su di lui questa sentenza di
condanna: «Si ordina di decapitare Tascio Cipriano».
Il vescovo accetta la sentenza di morte, emessa dal
rappresentante dello Stato, e gli risponde: «Siano rese grazie a Dio»[9].
Condotto nel luogo della decapitazione, si toglie la sopravveste, s’inginocchia
per una breve preghiera, si benda gli occhi, si lascia legare le fasce ai polsi
e attende che il carnefice lo decapiti.
Egli è il primo vescovo africano,
che affronta il martirio, per difendere e diffondere l’insegnamento evangelico.
Sigilla con il sangue la sua testimonianza di fede nel Signore. Al tramonto del
sole i cristiani prendono il suo corpo e gli danno degna sepoltura. Negli
anniversari del suo martirio ne commemorano l’insegnamento, adatto al
rinvigorimento spirituale.-----------------------------------
[1] S. CIPRIANO DI CARTAGINE, I
trattati, Le Testimonianze, Libro secondo, n. 13ss, Tip. Cantagalli,
Siena 1969, p. 26-27.
[2] Ivi, I trattati, La peste,
n. 14, o. c., p. 138.
[3] Ivi, I trattati, Gelosia e
Invidia, n. 11, o. c., p. 187.
[5] Ivi, n. 3, o. c., p.
53.
[6] Ivi, n.
18, p. 62.
[7] Ivi, n.
21, p. 64.
[8] Ivi, n.
22, p. 65.
[9] ATTI DEL MARTIRIO DI CIPRIANO,4,3,
in Classici della tradizione cristiana 9, Vite dei Santi, o, c., p. 79.
Sant’Antonio
abate
(250-356)
Antonio, primo santo non martire, nasce a
Coma, piccola città egiziana. Riceve dai suoi genitori una discreta formazione
cristiana. Fin dalla giovinezza anela dedicarsi a una vita sobria e ascetica.
Durante una celebrazione eucaristica ode la lettura evangelica in cui Gesù
propone a un giovane ricco, se vuole tendere a una maggiore giustizia, di
vendere tutti suoi possedimenti, di distribuirne il ricavato ai poveri e di
seguirlo (Mc 10,17-22). Antonio applica il consiglio di Gesù.
Vende l’eredità
immobile, consegna alla sorella la metà del ricavato e dona l’altro ai poveri.
Fiducioso nella provvidenza divina (Mt 6,34), abbandona le attrattive del suo
villaggio, si ritira in un luogo solitario e si lascia guidare da un anziano
asceta. Disturbato alquanto dalla gente, si nasconde nei sepolcri vuoti,
suscitando un grande stupore nei suoi concittadini. Cerca la massima solitudine,
dove memorizza la Sacra Scrittura, prega con la recita dei salmi e offre un
contributo positivo al mondo, avviato verso un radicale cambiamento. Nel giorno
di sabato o di domenica interrompe la rigorosa solitudine, entra nel villaggio e
si associa agli altri cristiani, che partecipano alla liturgia eucaristica.
Imponendosi una moderata penitenza, si oppone alle tentazioni diaboliche,
rifiuta le illusioni umane, incrementa l’unione con Dio e attua l’insegnamento
di Gesù.
S’inoltra poi nel deserto e si segrega sul monte Pispir presso un
fortilizio romano diroccato, divenuto il rifugio dei nomadi, dei briganti e
degli aspidi. Qui si procura il nutrimento ordinario, coltivando il frumento,
gli ortaggi e gli alberi da frutto. Intreccia anche delle ceste e le vende, per
acquistarsi l’occorrente. Si concede il riposo notturno, distendendosi su una
stuoia o sulla nuda terra. Trascorre circa vent’anni nell’isolamento, nella
preghiera, nel lavoro e nella lotta contro le tentazioni.
Sensibile ai problemi sociali ed ecclesiali, Antonio esce talora dal suo
domicilio e si reca nei centri abitati, per dialogare con le persone bisognose
di consigli spirituali. Nel 311 durante la persecuzione dell’imperatore
Massimino Daia entra nelle prigioni di Alessandria, dove avvicina i fratelli
nella fede. Si espone al pericolo di essere condannato e ucciso, perché
testimonia la sua identità cristiana. Inoltre dà segni di amore e di sostegno al
suo vescovo, Atanasio, avversato dagli eretici ariani.
Terminata la dolorosa persecuzione, si rifugia a Qolzoum, zona deserta,
in cui prosegue il suo itinerario spirituale. Lotta contro le forze
schiavizzanti; contempla la bellezza della creazione e della rivelazione divina;
si purifica dai peccati commessi; si modella alla santità di Gesù e raggiunge un
alto livello di perfezione.
I pagani se ne meravigliano: trascorre
una vita isolata e penitente; inizia la preghiera, tracciandosi un piccolo segno
di croce sulla fronte, sulle labbra e sul petto; porta cucita sul suo mantello
la lettera T (tau) e la tiene scolpita nel suo bastone. Incapaci di capirlo, lo
scherniscono e deridono. Egli non si preoccupa dei loro sgarbi. Non ne prova
imbarazzo e rossore. Convinto di avere compiuto una scelta ragionevole, si
difende con queste semplici asserzioni: «Quel che noi diciamo è testimonianza di virtù
e segno di disprezzo della morte; le vostre credenze, invece, risultano soltanto
passioni vergognose»[1].
«È la croce, dunque, che merita derisione
oppure quelle cose che la croce ha reso inutili e di cui ha rivelato
l’impotenza?»[2].
Un
consistente numero di cristiani intuisce invece che ha scelto di mantenersi in
contatto con Dio. Va a trovarlo nel suo rifugio, per essere da lui illuminati e
sostenuti nella rinascita evangelica. Egli li accoglie e negli intrattenimenti
li istruisce e li sollecita a perseverare nella fede cristiana, Scrive anche
delle lettere in cui dimostra di conoscere e di osservare la sapienza
evangelica.
Alcuni ammiratori condividono la sua lotta contro l’empietà. Si
stabiliscono in una grotta o in una stanza, vicina a quella di Antonio.
Accolgono la sua direzione spirituale, che incrementa l’espansione e la crescita
della civiltà cristiana. Apprendono da lui il metodo di pregare più con il cuore
che con le labbra, più con la mente che con le parole. Diventano eremiti
austeri, pazienti, penitenti, dediti alla ricerca di Dio, premurosi verso i
sofferenti e ardenti difensori dell’ortodossia cristiana. Edificano dei piccoli
eremi, dove salmeggiano, adorano, lavorano, offrono protezione e anticipano la
bellezza paradisiaca.
Antonio diviene il pioniere di una piena consacrazione a Dio e
l’iniziatore di un nuovo e stimato stile di via. Tramite il suo biografo,
sant’Atanasio di Alessandria, continua a parlare ai cristiani, che cercano di
stabilire un permanente contatto con Dio. Attesta a tutti che la vocazione
cristiana è chiamata a seguire il cammino di Gesù verso Dio. Finisce il suo
lungo esodo pasquale nell’eremo di Qolzoum. Qui lascia la sua tunica di pelo,
simile a quella di san Giovanni Battista, il precursore della vita eremitica.
Gli artisti, che s’ispirano alla biografia di Antonio, scritta dal patriarca
Atanasio, raffigurano questo eremita attorniato da alcuni animali domestici e da
altri selvatici. Salvator Dalì esegue uno dei più bei dipinti su Antonio,
ritraendolo nel deserto, mentre alza un crocifisso, per allontanare un branco di
felini, simbolo dei demoni.---------------------------------------
[1] ATANASIO DI ALESSANDRIA, Vita di
Antonio, 77,3, In I Classici della tradizione cristiana 10, Vite
di Santi, Mondatori Printing S.p. A., Italy 2005, p.
172.
[2] Ivi, 79,2, p.
176.
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