Lo specifico della carità cristiana
Elementi di riflessione sull’essenza del
cristianesimo
di Carmelo Dotolo
1. Il significato di un avvenimento
«All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro
con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione
decisiva» (Deus caritas est, n. 1). Non c’è dubbio che questo sia l’orizzonte di riferimento
essenziale per cogliere la novità del cristianesimo1
. Esso costituisce lo snodo determinante per
leggere la specificità di un evento che inaugura una differente storia della relazione tra Dio e
l’uomo, per il fatto che la relazione di Dio con l’uomo non è una ovvietà ma, al contrario,
l’affermazione di un effettivo irrompere di Dio nella storia2
. La stessa accoglienza da parte
dell’uomo costituisce una condizione importante per la sua comprensione, soprattutto perché è
proprio della epifania del mistero il non rientrare nella serie delle cose possibili, ma il mostrarsi
nella sua differenza e alterità. L’autocomunicazione interpersonale di Dio produce, dunque, una
svolta nella ricerca del perché dell’esistenza, poiché non solo apre l’uomo alla possibilità di entrare
nell’orizzonte di una relazione unica, ma lascia intravedere come tale prospettiva rappresenti il
possibile esito della ricerca umana, il suo giungere a destinazione. Si potrebbe quasi affermare che
la rivelazione solleciti l’uomo al coraggio della ricerca, mostrandogli che in essa è racchiuso il
segreto di una differenza che rende la vita un’avventura inedita. E’ su questa linea che la riflessione
teologica del Novecento ha saputo individuare nel proprium della rivelazione l’esplicitazione di un
presupposto: che l’uomo è interrogativo aperto, ma non la risposta, soprattutto nel momento in cui
sono in gioco le questioni decisive per l’esistere stesso. La rivelazione non altera i percorsi
investigativi della ragione umana, ma li integra nel vasto campo della verità dell’uomo e del mondo.
«Le risposte implicite nell’evento della rivelazione sono significative soltanto nella misura in cui
sono in correlazione con domande che riguardano l’intera nostra esistenza, cioè con domande
esistenziali. Solo coloro che hanno sperimentato lo shock della transitorietà, l’ansietà con la quale
prendono coscienza della loro finitudine e la minaccia del non-essere, possono capire che cosa
significhi la nozione di Dio»3
.
Anzi, il vero problema che attraversa le diverse situazioni dell’esistenza è quello del senso4
.
E’ a questo livello che realtà quali felicità, amore, fallimento, dolore, morte diventano cifre
dell’interrogarsi sul senso e sul non-senso della vita e configurano l’inquietudine radicale
dell’uomo. E che l’interrogativo nasca in tali situazioni è perché in esse l’uomo può giungere alla
salvezza della propria esistenza, proprio nel fare esperienza che senso e non-senso convivono nella
fatica del quotidiano, in una storia che è essenzialmente determinata dalla libertà umana e dalla sua
scelta di amare. La questione fondamentale sta, dunque, nella possibilità che l’uomo ha di dare un
fondamento e una giustificazione alla sua libertà che, sovente, oscilla tra il desiderio di un progresso
inesauribile e benefico e l’imprevedibilità della storia che sfugge ai programmi umani, lasciando
tracce di regresso e di violenza. Difficile dire se questa esperienza globale di ricerca di senso apra o
chiuda l’uomo all’incontro con Dio. E’ certo che nella dinamica di ricerca si pone il problema di Dio che, se può essere compreso come il «”perché” ultimo imposto dal problema stesso
dell’uomo»5
, lo è in virtù del fatto che Dio nel provocare la domanda si mostra come colui che
ricerca e viene incontro all’uomo. Dio si rivela come Libertà trascendente e Futuro ultimo che dà
origine alla speranza dell’uomo, suscitando quella libertà decisionale che rompe la piattezza dei
giorni. La rivelazione non aliena l’uomo dalle sue responsabilità, né riduce la libertà, ma colloca
l’uomo nella possibilità di rispondere e di essere aperto alla imprevedibile iniziativa di Dio, perché
svela che libertà e speranza possono dare senso alla vita solo se non si ripiegano su se stesse,
contraddicendo alla propria identità. Se il farsi incontro di Dio rende possibile la risposta alla sua
autorivelazione, se la soggettività dell’uomo e il suo essere storico costituiscono dimensioni
decisive per l’evento assolutamente gratuito dell’amore, ciò sta a significare che l’uomo è
contrassegnato da un’apertura che configura l’eventualità dell’incontro con Dio come una
possibilità reale e significativa per la sua identità. E’ più di un’ipotesi, perché si affaccia come
itinerario nell’avvenimento storico di Gesù Cristo che costituisce l’essenziale della verità di Dio e
dell’uomo; «anzi, la verità nell’accoglimento della quale risiede l’unica possibilità di salvezza per il
singolo. La rivelazione di Gesù è intesa realmente come “questione di vita o di morte”: la decisione
a suo favore è discriminante in termini assoluti»6
.
2 L’amore come mistero personale
L’evento dell’incarnazione rappresenta una parola differente, inaudita nella grammatica
dell’amore, per il fatto che si offre come problema e compito dell’uomo, sorprendendolo nella sua
abituale logica interpretativa della vita, del mondo, degli altri e di se stesso Non meraviglia, dunque,
lo scandalo provocato dal sopraggiungere in modo pieno e definito della parola di Dio in Gesù di
Nazaret7
. In Lui, Dio entra nella storia e agisce nel qui ed ora, in ciò che egli compie e nelle stesse
parole che pronuncia. Gesù è la Parola fatta carne (cf Gv 1, 1-14), a tal punto che la meravigliosa
notizia che annuncia non si compone di riti o pratiche particolari, ma è lui stesso, la sua persona che
nella dinamica dell’amore inaugura un nuovo ordine di salvezza. Se è vero che solo Dio può parlare
di sé e che l’uomo è segnato dalla sua capacità di ascolto, allora l’autocomunicazione di Dio mostra
che solo in ragione del suo amore inafferrabile può avvenire nella storia l’evento della rivelazione,
parola che richiede la meraviglia dell’attesa e la fatica dell’ascolto. In virtù di quanto detto, si
comprende perché la rivelazione è mistero, cioè realtà che appartiene al divino e, in quanto «di Dio»
(Col 2,2; 1Cor 2,1) esige l’avvicinarsi a Colui che solo può svelare il senso del suo progetto. Nel
definire la rivelazione mistero non si intende assimilarla ad un enigma della conoscenza non ancora
risolto dalla ragione umana. Se così fosse, la ragione risulterebbe essere la chiave di lettura e la
misura del mistero, la cui unica finalità è quella di rimanere all’oscuro prima di tradursi in categorie
razionali. Al contrario, la rivelazione non rappresenta la conclusione di un procedimento
conoscitivo dell’uomo, ma il punto di partenza offerto all’uomo per avviare la sua ricerca8
. Da
questa angolatura, la rivelazione non elimina il mistero, ma lo propone nella sua ulteriorità di
significato, in quanto mostra Dio come mistero dell’uomo e del mondo, progetto di libertà e di
liberazione di cui l’uomo non può impadronirsi, se non correndo il rischio di trasformare Dio in un
idolo, provocando, di fatto, quella distanza che l’autocomunicazione di Dio intende colmare.
In definitiva, la particolarità presente nella realtà del cristianesimo è che la rivelazione non è
manifestazione di un qualcosa di inspiegabile che attiene alla sfera del sacro, ma è lo svelarsi di Dio all’amato, fino a non sopportare l’idea che si possa perdere. Ma in tal modo diventa inconcepibile
anche il pensare ad un volgersi di Dio all’uomo. Ha senso una rivelazione di Dio solo là dove Dio
venga pensato e sperimentato come origine libera del mondo, come processo nel quale avviene
qualcosa di sempre nuovo, e dove pertanto l’uomo è chiamato a porsi in continua attesa
dell’improbabile e dell’incredibile. In altre parole, dell’incarnazione come forma
dell’autocomunicazione di Dio-Trinità.
3 Il novum trinitario dell’amore
Se l’amore mette in evidenza la particolarità del cristianesimo, è perché esso narra e tematizza
la memoria della passione, morte e resurrezione di Gesù, che esplicita la rivelazione quale avvento
della Trinità. Certamente, la morte di Gesù scardina l’idea di un Dio apatico e indifferente al
destino dell’uomo e rende visibile un inedito volto di Dio che non vive per se stesso, ma si
consegna alla libertà dell’uomo. In ciò, l’apparente contraddizione del Dio crocifisso12 comunica un
principio importante: la rivelazione avviene nel diverso e nell’alterità, vale a dire in una prospettiva
che spiazza l’uomo per orientarlo al segreto della realtà di Dio. La morte in croce pone l’uomo alla
presenza di un Dio che nella condizione di impotenza e di assenza dalla scena del mondo, si rivela
come essere-per-l’altro. Per questo, la storia della salvezza trova in essa il suo punto cruciale, in
quanto il dono radicale di Gesù è possibile solo in virtù della condivisione tra il Figlio e il Padre, il
Figlio e lo Spirito, mistero insondabile dell’amore. La morte di Gesù realizza l’avvento della
Trinità, la pasqua del Dio Padre-Figlio-Spirito che lungi dall’essere storia dell’incomprensibile
eclissi dell’Assoluto, è l’evento che ristabilisce la vicinanza dell’uomo a Dio: «La croce è storia
nostra perché è storia trinitaria di Dio: essa non proclama la bestemmia di una morte di Dio, che
faccia spazio alla vita dell’uomo prigioniero della sua autosufficienza, ma la buona novella della
morte in Dio, perché l’uomo viva della vita di Dio immortale, nella partecipazione alla comunione
trinitaria resa possibile grazie a quella morte»13. Nell’affermare, pertanto, l’identificazione di Dio
nel mistero della morte di Gesù, si vuole indicare che in Gesù la rivelazione tocca il nucleo
profondo e autentico della storia umana, perché in essa si comunica e si mostra la diversità e
originalità del Dio di Gesù che offre la vita per trasformarla, inaugurando così un mondo nuovo
quale condizione di possibilità per la resurrezione di ogni giusto. Non è superfluo ricordare che la
resurrezione è stata intesa come l’anticipazione reale del futuro di Dio, divenendo fondamento della
certezza della speranza della resurrezione. La risurrezione rivela che il principio della speranza abita
la concretezza della vita umana e dinanzi ad essa neanche la morte ha più potere. Nel CrocifissoRisorto il futuro della vita e dell’amore, della libertà e della giustizia non rimane più un semplice
desiderio per i senza-speranza, ma una possibilità reale, un già che significa per ogni uomo,
soprattutto per quanti vivono in condizioni subumane, la capacità di riscoprire la vocazione
originaria della vita e di lottare perché si realizzi. Alla luce di ciò, la speranza che proviene dalla
croce differenzia la fede cristiana sia dalla superstizione sia dalla incredulità, così come la libertà
nata dal dono della vita distingue il cristianesimo dall’ottimismo ingenuo delle ideologie. Il mistero
pasquale di Gesù di Nazareth, dunque, non ha eguali nella storia e per questo va considerato come
un evento che produce storia, che mette in questione, illumina e muta lo scorrere dei giorni. Sullo sfondo di tali considerazioni, la risurrezione rende l’evento cristologico universale. E’ vero che la
storia presente resta imbavagliata nelle bende del non-senso, della violenza gratuita, del male
sovente strutturale, quasi ad allontanare le energie del Regno di liberazione. Eppur vero, però, che,
lo Spirito inviato dal Padre per il Cristo risorto, alimenta nella vita dei credenti quel principiosperanza (cf Rm 8, 18-30) che non si disarma neanche dinanzi agli insuccessi e ai fallimenti, ma
innesta una tensione agapica che ribalta qualsiasi pregiudizio sulla reale possibilità di
trasformazione della storia. Da quanto emerso, si comprende che l’annuncio cristiano punti la sua
attenzione sull’evento trinitario di Dio14, la cui configurazione storica emerge nella particolarità
messianica di Gesù. Ciò significa che non vi è altro luogo per poter conoscere Dio e fare esperienza
del suo mistero, e che l’amore costituisce la condizione di possibilità per pensare Dio a partire dalla
sua prospettiva. Per questo, la riflessione teologica rintraccia nella rivelazione trinitaria modalità
analoghe dell’amore che è Dio. Innanzitutto, nel sottolineare la gratuità dell’amore di un Dio padre
(e madre)15 che solo può provocare e mettere in movimento la logica dell’amore, perché Egli solo
può iniziare ad amare senza motivo. E’ questa la motivazione che, sulla scorta della novità
cristologica, presiede alla tradizione che chiama Dio come Padre: Dio è l’origine di se stesso, la cui
distinzione con ciò che esiste non è indifferente lontananza o impassibilità, ma condizione perché
l’uomo possa entrare in una relazione unica e affascinante. L’evidenza della impensabilità di un tale
evento è racchiuso in ciò che scrive 1 Gv 4, 7-10.16: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché
l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio […], perché Dio è amore. […]
Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell’amore
dimora in Dio e Dio dimora in lui». Dio è amore: è questa la definizione neotestamentaria di Dio,
una definizione, però, che va compresa non nell’ottica di un amore che si autoespande e del quale
l’uomo partecipa, ma quale amore capace di suscitare, dimenticandosi, un’identità nuova. L’amore
di Dio è un amore che dischiude il primato dell’alterità, in cui l’io non si costituisce come principio
assoluto di fronte all’altro, ma quale spazio per l’altro perché possa vivere. «Il Padre non è una
persona chiusa, ma è da sempre colui che, consegnandosi, dà l’essere al Figlio e allo Spirito Santo.
L’amore, che nel Padre ha la sua fonte, è il principio interno della vita della Trinità, che fa si che il
Padre mandi il Figlio che già prima ha amato (Gv 17,24). Nella vita trinitaria tutto avviene nella
radicale gratuità dell’amore che le persone si scambiano»16.
Nell’amore del Padre, va letto l’evento del Figlio, la cui esistenza non è stata altro che
l’espressione della com-passione di Dio per l’uomo. In tal senso, la rivelazione di Gesù è unica e
singolare e nella sua storia prende concretezza la risposta alla domanda di salvezza che costituisce
l’uomo nella ricerca della verità e della felicità. Ciò sta a significare che in Gesù l’apertura
dell’uomo e il suo essere non è uno spazio vuoto o un itinerario verso il nulla e l’assurdo, ma è una
cammino che conduce alla pienezza della vita in Dio. In questo scenario, la singolarità e
particolarità rivelativa di Gesù non si inquadra in ciò che l’umanità già conosce, così come non è
del tutto estranea a quanto l’uomo ricerca e che, spesso, non riesce a trovare. Piuttosto, risponde agli
interrogativi che l’uomo si pone, mostrando come il suo messaggio e la sua prassi sono qualcosa di
profondamente umano e umanizzante, proprio perché legati alla relazione con Dio. Questo, però,
implica la condivisione del progetto di Gesù, la cui sequela espone alla forza critica nei riguardi di qualsiasi chiusura dell’uomo in sé e nel mondo. Scrive D. Bonhoeffer che si tratta di «partecipare
oggi alla realtà di Dio e del mondo in Gesù Cristo e di farlo in modo tale da non sperimentare mai
la realtà di Dio senza la realtà del mondo e la realtà del mondo mai senza la realtà di Dio»17. Gesù
Cristo è, allora, il reale e il parametro della realtà e la sua rivelazione sigilla la vittoria sulla
neutralità, perché in lui l’incondizionato amore che sa fare spazio diventa fonte ineusaribile di
realizzazione del mondo. Ecco perché il suo esserci-per-gli-altri (proesistenza) rivela la concretezza
della libertà e della salvezza. «Solo dalla libertà da se stessi, solo nell’”esserci-per-gli-altri” fino alla
morte nasce l’onnipotenza, l’onniscienza, l’onnipresenza. Fede è partecipare a questo essere di
Gesù […] Il trascendente non è l’impegno infinito, irraggiungibile, ma il prossimo che è dato di
volta in volta, che è raggiungibile»18.
Ne consegue che è proprio dello Spirito Santo, portare a pienezza il movimento dell’amore
secondo il paradigma cristologico. Infatti, secondo il Nuovo Testamento, lo Spirito ha il compito di
fare memoria della realtà storica e oggettiva di Gesù: «Ma il Consolatore, lo Spirito santo che il
Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto»
(Gv 14, 26). Nel fare memoria, lo Spirito rende capace il credente di vivere la propria esistenza
nella condivisione e in conformità con l’atteggiamento di Gesù che ha accettato la fragilità della
vita e della morte nell’accettarsi dal Padre, senza imporre la logica della propria visione delle cose.
Su tale sfondo, si comprende perché lo Spirito è fonte dell’esercizio della libertà (cf 2Cor 3, 17), in
quanto manifesta Dio padre e il Figlio come comunione, condivisione, capacità di fare spazio
all’altro. Egli è Persona-dono, nel senso che realizza il donarsi stesso nella libertà e reciprocità
delle tre persone divine, mostrando come il Dio della rivelazione cristiana altro non è che mistero
dell’amore che suscita le differenze come ricchezza e che indica all’uomo la frustrazione del
desiderio del possesso di un’identità chiusa. Il Padre, il Figlio e lo Spirito si comunicano tutto tra
loro, in un modo tale che il loro essere persone sussiste nella relazione, nell’essere l’uno rivolto
verso l’altro. Vivere l’uno per l’altro, realizzare la convivialità delle differenze è il compito che lo
Spirito rivela, ma anche l’espressione che lascia trasparire come Padre, Figlio e Spirito siano
principio architettonico della costruzione della storia. Per questo la riflessione teologica e la
tradizione cristiana hanno riconosciuto nello Spirito un ruolo dinamico e creativo, perché «egli è
Colui che suscita altre differenze. Egli è l’apertura della comunione divina a ciò che non è divino.
E’ l’abitazione di Dio là ove Dio è, in un certo senso, “fuori di se stesso”. Per questo fu chiamato
‘amore’. E’ l’’estasi’ di Dio verso il suo ‘altro’: la creatura […] Quindi, il movimento
dell’Incarnazione e il dono dello Spirito, la compromissione cioè di Dio con la nostra storia, non gli
sono estranei, quasi che Egli non fosse minimamente toccato da coloro verso i quali viene»19.
Proprio per il fatto che l’amore esprime e configura l’irruzione del Dio Trino nelle vicende
umane, essa è un evento che crea storia; vale a dire che vive nei ritmi del tempo e dello spazio
aperta alla possibilità o meno della sua realizzazione. La religione ebraico-cristiana20, dunque,
inaugura il tempo della vita nel quale gli interventi di Dio non sono più legati al determinismo della
natura o alle necessità della storia, ma alla libertà umana suscitata dalla libertà di Dio. Nel gioco
delle due libertà, si profila il significato della storia, vale a dire della quotidiana fatica nel tradurre il
progetto del Regno per dare senso al cammino dell’uomo. Non è esagerato affermare che per il
cristianesimo l’attenzione alla storia e la passione per il possibile sono un elemento determinante.
L’accettazione del mondo e della sua organizzazione della vita non significa istituire un rapporto
ingenuo e aproblematico. Piuttosto, implica un’accoglienza in grado di lottare contro la violenza
delle ideologie e il rassegnato scetticismo di chi pensa che nulla potrà cambiare. Ne consegue che la
responsabilità delle comunità cristiane non può essere realizzata al di fuori del mondo e del suo
futuro, ma deve concretizzarsi nella trasformazione operativa, alimentata dalla serietà della fraternità quale chance per sperimentare la vicinanza di Dio. La Chiesa «non può e non deve
neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia» (Deus caritas est, n. 28).
Affermare che nella rivelazione cristologica l’amore è evento storico significa, allora, istituire
una relazione particolarmente significativa tra messaggio cristiano e realtà sociale, non solo perché
entrando nella storia la sottrae ai suoi schemi e determinismi, siano essi economici, politici,
ideologici, psicologici; ma anche perché svela all’interno degli avvenimenti quell’orientamento che
appartiene a Dio e che, se accolto, diventa creatore di senso e di salvezza. Tale orientamento fa
riferimento ad un’esperienza ben precisa di amore: l’alleanza quale dono di Dio che inaugura la
relazione e che trova nel principio dialogico la sua realizzazione. E’ una costante quella che legge
la storia dell’alleanza come un’inesausta dichiarazione di amore che non può essere pensato nella
logica di una parità simmetrica tra Dio e l’uomo, né secondo una qualsiasi forma di donazione di sé.
Tutt’altro. L’alleanza, quale spazio storico della rivelazione, mentre esplicita la serietà e la gravità
della donazione che chiede all’uomo di essere accolta e compresa, mettendosi dalla parte del
donatore, contemporaneamente indica come l’esistenza è continuamente nelle mani dell’uomo che è
invitato alla scelta decisiva e responsabile di fronte all’alternativa tra la vita e la morte, tra il senso e
il non senso, tra la speranza costruttiva e la disperazione rassegnata. E’ in questa libertà decisionale
che l’uomo emerge dall’ordine della necessità naturale e sociale per affidarsi all’ordine dell’amore
quale scelta provocata dal Dio che interpella. Certo, nella libertà dell’uomo è presente un elemento
radicale di incertezza, un imprevedibile autonomia che Dio non forza, ma che sollecita con la sua
iniziativa gratuita. Sta forse, qui, la radice della novità ultima e definitiva, cioè escatologica,
dell’amore. L’ingresso di Dio nella storia opera effettivamente una rivoluzione, perché apre il
tempo dell’uomo al futuro di Dio che non è ricavabile da alcuna premessa legata al calcolo dei
giorni. La storia si riscopre aperta e capace di volgersi verso il Dio che viene, perché nel dono di Sé
risplende l’irruzione del nuovo della promessa salvifica che rappresenta l’orizzonte ultimo della
libertà umana, ciò che dà valore al tempo penultimo della vita. Nello straordinario avvenimento
della venuta del Regno di Dio, l’uomo percepisce come l’improgrammabile proposta di Gesù Cristo
è in grado di determinare il suo presente nella misura in cui spinge l’uomo ad una decisione per il
Vangelo che nessun altro può prendere al suo posto. E’ in gioco la verità di se stesso, il senso della
propria esistenza, l’autenticità delle relazioni che danno sapore alle scelte e agli impegni di ogni
giorno.
Ma l’amore imprime nella storia un di più che spinge l’uomo alla speranza trasformatrice che
inaugura un nuovo modo di pensare e agire nei rapporti con la realtà. Essere caratterizzati dalla
speranza significa adeguare i ritmi della vita al futuro promesso e realizzato da Gesù Cristo, aperti
alle sorprese che l’incontro con Dio riserva lungo il divenire della storia. Per questo, la rivelazione
non ferma la storia, né la chiude in ciò che è già conosciuto. Al contrario, la storia che si affida al
futuro di Dio è in grado di vivere non sulla nostalgia del ricordo o nella evasione idealistica, ma
sulla u-topia che si fa impegno di costruzione di un mondo differente e liberazione da quanto
incatena l’oggi nel tempo del disincanto e della sfiducia nella verità21. Chi spera e si affida in Gesù
Cristo non può adattarsi alla realtà così com’è, bensì afferma come la comprensione del mistero
dell’amore apre l’uomo alla sua radice più autentica22, in cui ne va del valore stesso della vita.
Come evidenzia Benedetto XVI, l’icona del Giudizio finale (cf, Mt 25, 31-46) sintetizza
l’impensabile dell’amore che «diventa criterio per la decisione definitiva sul valore o il disvalore di
una vita umana» (Deus caritas est, n. 15).
4 L’originalità dell’agape
Quanto detto lascia emergere come l’amore costituisca un orizzonte privilegiato per cogliere
concretamente l’incidenza tra rivelazione e storia: se la rivelazione non può prescindere
dall’esperienza umana, perché costituisce l’inizio di una esistenza che si dimostra capace di
attraversare le domande dell’uomo e di offrire un senso alla sua ricerca di felicità, così l’amore
cristiano ritrascrive il linguaggio complesso e polimorfo dell’amore. L’essenza del cristianesimo si
situa nella capacità di interrelazione tra eros e agape
23, innestandosi con originalità nell’«originario
fenomeno umano che è l’amore» (Deus caritas est, n. 8; anche nn. 3; 4; 9). L’uomo, nella sua
storicità, è un essere in continuo divenire, progetto che abita sin dall’inizio in una incompiutezza
che appare, al tempo stesso, come limite e possibilità di trascendenza del limite stesso. E’ in questa
contraddizione che l’uomo sperimenta come la sua realizzazione può compiersi solo nell’itinerario
di una nuova modalità di comprensione che l’amore lascia trasparire. L’incontro con la novità
messianica della pro-esistenza di Gesù, mette l’uomo in una condizione di movimento, attratto dal
richiamo di non poter fare a meno di una verità che rompa i limiti dell’ovvio e del banale. La verità
che l’amore proclama non si riferisce, infatti, solo all’emergenza di un diverso statuto esistenziale,
ma riguarda la vocazione originaria dell’uomo nella sua relazione con l’alterità. In ciò il paradigma
agapico di Gesù di Nazareth può aprire il mondo della vita ad una comprensione differente. Una
simile esperienza, insolita e imprevedibile, scuote dal profondo l’esistenza facendola uscire dalla
chiusura del proprio orizzonte di riferimento. Qui si coglie un dato importante: rivelazione ed
esperienza non si oppongono; anzi, l’esperienza è un momento interno al movimento della
rivelazione. Certo, «la rivelazione, come libera iniziativa dell’amore divino, trascende ogni
esperienza umana, ma essa non può essere percepita se non nelle esperienze storiche fatte
dall’uomo»24. In tal senso, l’amore non si accontenta del sentito dire, ma coinvolge tutta la persona
modificandola nella propria visione della vita e nella comprensione della storia. In particolare, se
tale esperienza chiama ad un movimento esodale, di superamento di quelle ideologie e pregiudizi
che bloccano l’esperienza o la relegano al rango di arbitraria valutazione di un evento, di una
valore, di una verità. Ciò non diminuisce la significatività della esperienza, ma al contrario la esige
come un contesto rilevante per un discorso sensato su Dio e sull’uomo. Il motivo sta nel fatto che la
rivelazione del mistero dell’amore costituisce la condizione per recuperare la natura particolare
dell’esperienza, in quanto l’esperienza della rivelazione modifica la struttura dell’orizzonte del
nostro incontro con la realtà, aprendo la soggettività ad una inedita interazione sociale e storica.
Può risultare emblematica la vicenda originaria dell’incontro tra Gesù e i discepoli, un
incontro affascinante che provocò il decisivo mutamento nella loro impostazione di vita e
rappresentò una svolta per la comprensione della salvezza: «La struttura d’esperienza della
rivelazione si esprime, nel modo più pregnante, nella rivelazione cristiana, che ha preso inizio in un
incontro storico dell’uomo con un prossimo: Gesù di Nazareth. In modo quanto mai sorprendente
lui manifesta nella storia ciò che noi uomini non avevano potuto nemmeno immaginare. E questo
che gli uomini non avevano pensato compare nell’immanenza delle nostre esperienza storiche.
Nell’incontro con Gesù l’autorità dell’esperienza (cristiana) da lui suscitata coincide con l’autorità
della rivelazione divina»25. Quello che è accaduto è stata una ridefinizione della propria identità,
sospinta ad incontrare l’altro e relazionare la libertà dinanzi al mondo con la responsabilità per il
mondo di fronte a Dio. Proprio per il fatto che Gesù convoca l’uomo e lo interpella, ciò sta a significare che l’uomo è costitutivamente responsabilità, posto, cioè, nella condizione di non poter
non rispondere, ma di giocare la propria identità nella forma della libera risposta della fede e
dell’amore. Dalla dinamica di tale incontro, la rivelazione emerge come l’orizzonte interpretativo
della storia umana e come il nome nuovo dell’uomo, perché l’autocomunicazione di Dio nella
persona di Gesù Cristo permette all’uomo di riscoprire e di riappropriarsi della sua identità di
immagine di Dio. Anche se questo può apparire contrastante, affermare che l’uomo è creatura
significa comprendrlo nella sua costituiva relazione con Dio: l’identità dell’uomo è direttamente
proporzionale alla sua dipendenza-relazione con Dio e alla relazione con l’altro, evento che traduce
la scoperta del tu come condizione di possibilità per esistere.
Ecco perché l’amore è forma della rivelazione che dà forma alla esistenza, è il comandamento
che inaugura una qualità del tutto particolare del credere e del comprendere26. L’intera narrazione
biblica e lo stesso discorso teologico evidenziano con forza l’impossibilità di scindere l’amore di
Dio con l’amore per l’altro, il prossimo che incrocia le vie della vita. In primo luogo, va messo in
risalto il fatto che l’amore è l’evento che connota l’essere di Dio. E’ questa la semplice verità che la
bibbia proclama, una verità che diventa paradossale perché si inscrive nella logica dell’imperativo,
del comandamento. Strano, si può pensare, che ciò che rappresenta l’espressione più alta della
libertà umana e della naturalezza del suo destino sia espressione di un comando. Ebbene, il motivo
per cui la bibbia usa il linguaggio del comandamento è perché l’amore non è una forza naturale che
si espande nella volontà di unificare le differenze, né un impulso divino che spinge spontaneamente
al Bene come valore in sé. Amare come Dio ama significa modellare la propria vita sulla potenza
sovversiva della bontà che si autolimita per l’altro, che fa spazio alla differenza consegnandosi e
affidandosi alla libertà dell’uomo nell’attesa della risposta. «Questo non significa che la rivelazione
del Dio-agape ci faccia conoscere di Dio soltanto una decisione che, tutta rivolta verso l’esterno,
non lo coinvolga realmente, diremmo in prima persona. Al contrario, abbiamo visto come questo
coinvolgimento sia uno dei tratti incancellabili della rivelazione biblica di Dio. Dire di lui che è
amore (l’amore di agape) significa davvero manifestare qualcosa che egli è, non soltanto qualcosa
che fa: quello che egli è in se stesso per noi»27.
In seconda istanza, comprendere il paradosso del comandamento è possibile solo nella
radicalizzazione dell’amore (agape) operata da Gesù Cristo. Non è superfluo indicare nel termine
agape un ampliamento del campo semantico della parola amore (cf. Deus caritas est, n. 2), da
leggersi come indicazione di un tracciato antropologicamente significativo. «In opposizione
all’amore indeterminato e ancora in ricerca, questo vocabolo esprime l’esperienza dell’amore che
diventa ora veramente scoperta dell’altro, superando il carattere egoistico prima chiaramente
dominante» ( Deus caritas est, n. 4). E’ in questo interstizio che si intravede la complementarietà e
differenza tra eros e agape, che indicano due modalità d’amare interpretative di una stessa
intenzionalità. Affermare che l’eros è centripeto e l’agape centrifuga, implica riconoscere una
diversità di direzione dell’amore, non di intensità e, forse, nemmeno di qualità. Il motivo sta nel
fatto che sia l’eros sia l’agape cercheranno sempre la felicità dell’altro nell’avvicinarsi all’altro (cf.
Deus caritas est, n. 8). Eppure, la dimensione agapica dell’amore sembra evidenziare un di più di
significato. Essa disegna un nuovo asse ontologico, perché inserisce l’alterità e la prossimità come
strutturale per la capacità autentica dell’amare28. Il che significa dare all’amore la possibilità di
realizzarsi oltre gli slanci provvisori dell’eros e della simpatia relazionale. L’agape è condizione di
possibilità dell’eros, perché lo libera dalla prospettiva della competizione e dell’ideologia classista.
Non è un caso che il paradigma del buon samaritano (cf Lc 10, 25-37) ridisegna il senso dell’amore
come farsi prossimo e, dunque, allarga la comprensione dell’identità che non sussiste se non fa spazio all’altro, nell’accoglienza e nella disponibilità all’ospitalità29 L’amore, secondo l’intenzione
del Nuovo Testamento30, implica l’inversione del movimento connaturale dell’io verso l’io e
l’instaurazione della esistenza come scelta dell’amore che può modificare le relazioni umane basate
sulla logica della proprietà e della autosufficienza. Si può dire che la novità che Gesù Cristo
imprime all’amore sta nell’esperienza del decentramento di sé e nel dono di sé agli altri, fino al
limite inimmaginabile del dare la vita e del sacrificio. Tale autoannullamento a vantaggio dell’altro
che non esclude l’estrema conseguenza della morte, tale amore che mira alla promozione
dell’alterità dell’uomo, è l’evento della kenosis (cf. Fil 2, 6-8) che costituisce la condizione per
comprendere quel significato autentico dell’amore che lo stesso Paolo esprime nel famoso testo di
1Cor 13, 4-8: «La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si
gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male
ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera,
tutto sopporta. La carità non avrà mai fine».
Ora, ciò che dà un tenore inedito a tali caratteri è che essi hanno in Dio il soggetto dell’amore:
Dio stesso è amore e relazionandosi ad altro si rivela come dono incondizionato e gratuito che si
incarna nella figura di Gesù Cristo. Si comprende, allora, come la risposta possibile alla domanda
circa l’amore-comandamento e al perché l’uomo ama, è questa: Dio ama così e l’amore si esprime
come responsabilità di fronte all’amore di Dio e non come iniziativa spontanea dell’uomo. «Vi è
certamente, nell’uomo, una disposizione di fondo ad amare, una possibilità di farlo, la quale è legata
al fatto che Dio ama l’uomo e che questo, all’uomo, è stato rivelato. Ma l’uomo, in ogni caso, deve
voler amare, deve cioè assumere e sperimentare quei caratteri dell’ agape che proprio 1Cor 13
elenca e descrive. Insomma: io, certamente, posso amare, perché Dio per primo mi ha amato. Ma di
nuovo, per amare davvero, io debbo voler amare»31.
L’esistenza nuova che inaugura la rivelazione nella forma dell’amore, diventa il segno di una
speranza profetica: il cristianesimo è lo spazio nel quale poter lottare per la capacità di futuro
dell’uomo, riserva critica contro la morte dell’uomo e denuncia della menzogna che assolutezza la
storia di emancipazione dell’uomo come storia di autosufficienza. «L’amore promette infinità,
eternità, una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere. Ma al
contempo è apparso che la via per tale traguardo non sta semplicemente nel lasciarsi sopraffare
dall’istinto. Sono necessarie purificazioni e maturazioni, che passano anche attraverso la strada
della rinuncia. Questo non è rifiuto dell’eros. Non è il suo avvelenamento, ma la sua guarigione in
vista della sua vera grandezza»» (Deus caritas est, n. 5). Sebbene il mondo mostri segni di una
maturità crescente, nondimeno essa porta le ferite di una diffusa disumanizzazione, in cui l’uomo è
degradato ad oggetto di pianificazione dominatrice del mondo stesso. In questo contesto, acquista
un ruolo decisivo la Chiesa che, nel servizio alla realizzazione del Regno, è testimone della potenza
critica dell’amore e della solidarietà nel compito di forza critica e liberante della società (cf. Deus
caritas est, n. 30). In una permanente tensione tra esperienza del Dio di Gesù Cristo e le realtà
storico-culturali delle quali si fa carico, la comunità dei credenti si fa interprete della ricerca di
condizioni sociali più rispettose della dignità umana, segno di pace, libertà e riconciliazione che
costituiscono le condizioni per la costruzione di una cultura della vita e non della morte32.
L’umanizzazione del mondo passa, dunque, per itinerari di rispetto e promozione dei diritti e
bisogni di ogni uomo, in particolare degli oppressi e indifesi, che richiede un amore capace di
reciprocità e alterità. Il contributo del cristianesimo sta nel consentire processi di attenzione alla
dignità umana, in ragione della logica dell’amore che rappresenta una particolare Weltanschauung:
quella che in Gesù Cristo desta la meraviglia per la libertà, la giustizia, la compassione, luoghi nei quali il riconoscimento dell’alterità di Dio si affianca all’affermazione del prossimo come
compagno di viaggio. L’essenza dell’agape è, in definitiva, creativa, perché apre all’uomo lo spazio
di un’esistenza significativa. «Abbiamo l’incarico di continuare la creazione, di essere con-creatori,
con il dono, in modo nuovo, dell’essere all’altro nel sì dell’amore di far diventare il dono dell’essere
veramente un dono»33
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1
Cf. le annotazioni di K. LEHMANN, Dogmatica ecclesiale ed immagine di Dio, in J. RATZINGER (ed.), Saggi sul
problema di Dio, Morcelliana, Brescia 1975, pp. 135-163.
2
Cf. A. DARTIGUES, La rivelazione dal senso alla salvezza, Queriniana, Brescia 1988, pp. 186-212; C. ZUCCARO, La
vita umana nella riflessione etica, Queriniana, Brescia 2000, pp. 74-82; G. PASQUALE, La storia della salvezza. Dio
Signore del tempo e della storia, Paoline Editoriale Libri, Milano 2002, pp. 93-104.
3
P. TILLICH, Teologia sistematica I. Religione e rivelazione. L’essere e Dio, Claudiana, Torino 1996, p. 77.
4
Sono significative alcune riflessioni di K. RAHNER, Dio e rivelazione. Nuovi saggi VII, Paoline, Roma 1981, pp. 133-
154.
5
J. ALFARO, Dal problema dell’uomo al problema di Dio, Queriniana, Brescia 1991, p. 22.
6
P. SEQUERI, La cattiva infinità della dialettica e la salutare finitezza della rivelazione, in E. GUERRIERO – A. TARZIA
(edd.), L’ombra di Dio. L’Ineffabile e i suoi nomi, Paoline, Cinisello Balsamo 1991, p. 33.
7
Scrive R. FISICHELLA, La fede come risposta di senso. Abbandonarsi al mistero, Paoline Editoriale Libri, Milano
2005, p. 49: «”Dio è amore”, comunque, permette di accedere a un’ulteriore novità che costituisce il paradosso della
fede cristiana. L’amore di Dio, infatti, non è un’idea astratta né un sentimento più o meno generico; esso si incarna in
una persona che lo rende evidente nella sua vita e nella sua morte. L’amore ha un volto: Gesù di Nazaret».
8
Cf. le riflessioni di R. GUARDINI, Fede – Religione –Esperienza. Saggi teologici, Morcelliana, Brescia 19952
, pp. 169-
178.
9
Si veda K. RAHNER, Sul concetto di mistero nella teologia cattolica, in ID., Saggi teologici, Paoline, Roma 1965,
pp.391-465; W. KASPER, Rivelazione e mistero. Sulla concezione cristiana di Dio, in ID., Teologia e Chiesa,
Queriniana, Brescia 1989, pp. 143-154.
10 Va notato che la categoria di persona ha il suo analogato principale nella determinazione ontologica di Dio e, come
scrive W. KASPER, Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 1984, pp. 213-214, dice un triplice significato: indica
l’indisponibilità e misteriosità di Dio; attesta l’infinita differenza qualitativa col mondo; esprime l’unicità dell’essersoggetto di Dio, il cui «senso dell’essere non è quindi la sostanza in se stessa bensì l’amore che si comunica» (p. 215). Si
vedano anche le riflessioni di E. JÜNGEL, Dio, mistero del mondo. Per una fondazione della teologia del Crocifisso nella
disputa fra teismo e ateismo, Queriniana, Brescia 1982, pp. 410-430; G. GRESHAKE, Il Duo Unitrino. Teologia trinitaria,
Queriniana, Brescia 2000, pp. 190-244; A. GESCHÉ, Dio per pensare. Il Senso, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, pp.
63-85.
11 Cf. L. BOFF, Passione di Cristo Passione del mondo il fatto, le interpretazioni e il significato ieri e oggi, Cittadella
Editrice, Assisi 1978, pp. 129-159; J. SOBRINO, La fede in Gesù Cristo saggio a partire dalle vittime, Cittadella
Editrice, Assisi 2001, pp. 348-363.; S. KIZHAKKEYIL, Compassion and Christian Spirituality, in “Jnanatirtha” 5 (2005)
31-48. E’ indicativo quanto scrive C. DI SANTE, Lo straniero nella bibbia. Saggio sull’ospitalità, Città Aperta Edizioni,
Troina 2002, p. 32: «Narrando di un divino come compassione, non solo il testo biblico sovverte la concezione di Dio
che da eromenos, cioè amato, si fa amante, ma capovolge la stessa concezione umana (cosmologica, antropologica e metafisica) dove il principio di costituzione e di lettura del reale non è più la ricerca del valore che at-tira e at-trae l’io,
bensì l’io che con la sua sollecitudine coglie e registra il soffrire dell’altro».
12 In tal senso importante è la riflessione di H. U. von BALTHASAR. Si veda, ad esempio, Teodrammatica IV: L’azione,
Jaca Book, Milano 1986, p. 297. Scrive in Solo l’amore è credibile, Borla, Roma 1991, p. 137: «L’amore cristiano non
è la parola – e neppur l’ultima – del mondo su se stesso, ma la Parola conclusiva di Dio su di sé e proprio perciò anche
sul mondo. Nella croce, alla parola del mondo si giustappone una Parola completamente diversa, che il mondo non
vuole ascoltare a nessun costo». Cf. P. MARTINELLI, La morte di Cristo come rivelazione dell’amore tratrinitario in
Hars Urs von Balthsar, Jaca Book, Milano 1996, pp. 279-366.
13 B. FORTE, Trinità come storia. Saggio sul Dio cristiano, Paoline, Cinisello Balsamo 1985, p. 40
14 Scrive G. COLOMBO, La ragione teologica, Glossa, Milano 1995, p. 151: «Effettivamente riconoscendo la rivelazione
della verità nella persona e nella storia di Gesù di Nazareth, nel quale la Trinità si è autocomunicata agli uomini, la
costituzione conciliare Dei Verbum libera la nozione di verità dalla precomprensione astorica tendenzialmente
oggettivante, restituendola alla sua identità propria di evento storico. La verità infatti, non si dà “fuori” dall’evento
storico. […] L’evento storico, d’altro lato, è da comprendere solo nel riferimento al “compimento”, cioè al tutto, e
precisamente alla realtà/verità di Dio/la Trinità, rivelata nella persona e nella storia di Gesù».
15 Cf. GIOVANNI PAOLO II, Dives in misericordia, in Enchiridion Vaticanum 7, EDB, Bologna 1982, nn.857-956. Per
un inquadramento generale cf. A. AMATO, Paternità-maternità di Dio. Problemi e prospettive, in ID. (ed.), Trinità in
contesto, LAS, Roma 1994, 273-296. Da una prospettiva teologica al femminile S. MCFAGUE, Modelli di Dio.
Teologia per un’era nucleare ecologica, Claudiana, Torino 1998, 133-168; E. A. JOHNSON, Colei che è. Il mistero di
Dio nel discorso teologico femminista, Queriniana, Brescia 1999, 373-433.
16 L. F. LADARIA, Il Dio vivo e vero. Il mistero della Trinità, Piemme, Casale Monferrato 1999, pp. 353-354. Cf. anche
G. GIORGIO (ed.), Dio Padre Creatore. L’inizio della fede, EDB, Bologna 2002.
17 D. BONHOEFFER, Etica, Queriniana, Brescia 1995, p. 35.
18 D. BONHOEFFER, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Paoline, Cinisello Balsamo 1988, p. 462.
19 C. DUQUOC, Un Dio diverso. Saggio sulla simbolica trinitaria, Queriniana, Brescia 19852
, p. 117.
20 Cf. D. C. MAGUIRE, Il cuore etico della tradizione ebraico-cristiana. Una lettura laica della Bibbia, Cittadella
Editrice, Assisi 1998, pp.283-312.
21 Si veda J. MOLTMANN, Dio nel progetto del mondo moderno. Contributi per una rilevanza pubblica della teologia,
Queriniana, Brescia 1999, pp. 115-161.
22 Scrive J. B. Metz, Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 19712
, p. 74: «Dio ci si fa incontro come il mistero
trascendente dell’unità e della pienezza dell’esistenza umana messa continuamente in pericolo nel pluralismo della
propria coscienza; come il futuro assoluto della libertà umana che opera nel mondo stesso; infine come il Dio la cui
vicinanza si schiude nell’incontro con il fratello. La fede ha quindi un autentico futuro in un mondo ominizzato, forse
meno vistoso e visibile, ma tuttavia più necessario che mai».
23 Cf. il testo ormai classico di A. NYGREN, Eros e agape. La nozione cristiana dell’amore e le sue trasformazioni,
EDB, Bologna 1971, pp. 184-204.
24 C. GEFFRÉ, La rivelazione e l’esperienza storica degli uomini, in R. FISICHELLA (ed), Gesù Rivelatore. Teologia
Fondamentale, Piemme, Casale Monferrato 1988, p. 165. Si veda anche G. O’COLLINS, Teologia fondamentale,
Queriniana, Brescia 19842
, pp. 44-68.
25 E. SCHILLEBEECKX, Il Cristo. La storia di una nuova prassi, Queriniana, Brescia 1980, p. 60
26 Cf. C. DOTOLO, The Christian Revelation. Word. Event, and Mystery, The Davies Group, Aurora, Colorado 2006, pp.
101-106.
27 A. RIZZI, Dio in cerca dell’uomo. Rifare la spiritualità, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1987, p. 46.
28 Scrive A. RIZZI, Ibid., p. 73: «L’”altro nella sua alterità”: questa espressione, che per l’eros sarebbe soltanto
formulazione dialettica dell’irraggiungibile, nell’agape diventa la più elementare positività, diventa il prossimo».
29 Cf. G. BENTOGLIO, “Mio padre era un arameo errante…”. Temi di teologia biblica sulla mobilità umana, Urbaniana
University Press, Città del Vaticano 2006, pp. 198-219.
30 Cf. R. SCHNACKENBURG, Il messaggio morale del Nuovo Testamento I. Da Gesù alla chiesa primitiva, Paideia,
Brescia 1989, pp. 107-119.
31 A. FABRIS, I paradossi dell’amore fra grecità, ebraismo e cristianesimo, Morcelliana, Brescia 2000, p.117.
32 Cf. K. POMBO, Eros e Agape in un’antropologia personalistica, “Redemptoris Missino” XXII (2006) 1, 6-20.
33 J. RATZINGER, Guardare Cristo. Esercizi di fede, speranza e carità, Jaca Book, Milano 20054
, p. 73.
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