Il presepe nella storia, quando fede e arte firmano il Natale
«Vorrei fare memoria di quel Bambino che è nato a Betlemme e in
qualche modo intravedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è
trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu
adagiato in una mangiatoia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’
asinello». Era l’ anno 1223 e mancavano quindici giorni al Natale:
san Francesco – che due settimane prima aveva avuto la gioia di veder
approvata da papa Onorio III la Regola dei suoi frati – esprime questo
desiderio a un certo Giovanni, «un uomo molto caro» al santo. E la notte
di Natale «Greccio diventa la nuova Betlemme», con la scena della
nascita di Cristo resa viva e palpitante, mentre Francesco «vestito da levita, perché era diacono, canta con voce sonora il santo Vangelo e parla poi al popolo con parole dolcissime».
Anche
se tutti conoscono questa storia della genesi del presepio, ho voluto
rievocarla attraverso la testimonianza di un suo contemporaneo, Tommaso da Celano nella sua biografia del santo, nota come Vita Prima. È ancora lui a spiegare il senso di quella sacra rappresentazione natalizia: «In quella scena si onora la semplicità, si esalta la povertà, si loda l’ umiltà». Sono
queste le tre stelle simboliche che brillano nella notte del Natale di
Gesù ed è proprio questa costellazione a far comprendere quanto il
presepio travalichi la stessa fede cristiana e diventi un segno
universale per tutti gli uomini e le donne dal cuore e dalla vita
semplice, povera e umile.
Anzi, quel quadretto,
modellato un po’ liberamente sul racconto dell’evangelista Luca
(2,1˗20), da allora si è trasformato in un caposaldo della storia dell’
arte e, quindi, cancellarlo dalla conoscenza delle giovani generazioni
attuali vorrebbe dire rendere incomprensibile una serie sterminata di
opere d’ arte distribuite nei secoli.
Qualche tempo fa ero stato invitato a stendere una lista di raffigurazioni della nascita di Cristo selezionando i maggiori pittori nei secoli: dopo aver iniziato la ricerca, ho dovuto abbandonarla perché in pratica avrei dovuto inseguire tutta la storia dell’ arte occidentale, da Giotto all’ Angelico, da
Masaccio a Donatello, da Duccio di Buoninsegna a Jacopo della Quercia,
da Botticelli a Raffaello, al Correggio al Bassano e così via, solo per
fare alcuni nomi.
Inoltre, è curioso notare che
miniscene raffiguranti il presepio erano già scolpite sui sarcofagi
cristiani dei primi secoli e, a partire dalle icone della scuola
pittorica russa di Novgorod (XV sec.), era facile vedere il Bambino
deposto in una mangiatoia a forma di sepolcro. Si voleva, così, esaltare
il nesso tra la vita fisica di Gesù e la vita gloriosa e divina che
sarebbe sfolgorata nella sua risurrezione. Perdere il presepio, perciò, vuol dire non solo cancellare un emblema spirituale
nel quale si possono ritrovare le famiglie misere dei barconi che
approdano alle nostre coste con madri che stringono al seno bambini
denutriti e sfiniti, ma è anche strappare un numero enorme di pagine
della nostra storia culturale più alta.
Nel presepio, dunque, s’ incontrano componenti squisitamente cristiane, come l’ incarnazione del Figlio di Dio
(«Il Verbo divenne carne», scriverà san Giovanni), assumendo un volto,
una storia, una patria terrena, o temi come la maternità divina di Maria
e il compimento dell’ attesa messianica. Essi, però, s’ intrecciano con soggetti universali,
come la vita, la maternità, l’ infanzia, la sofferenza, la povertà, l’
oppressione, la persecuzione. L’ altezza teologica, spirituale, umana di
questi temi è espressa con grande sobrietà e intensità nel racconto
evangelico, ma è stata anche resa più calda e colorita attraverso la
tradizione popolare e persino il folclore.
Pensiamo solo alla pittoresca sequenza dei presepi napoletani che dal Settecento cercano
di attualizzare il Natale di Gesù con l’ introduzione di elementi delle
vicende contemporanee, cadendo talora nel cattivo gusto, ma dimostrando
sempre l’ importanza di quel segno religioso per la vita quotidiana
delle persone semplici. Dopo tutto, come è noto, l’ entrata in scena –
già con san Francesco – dell’ asino e del bue è apocrifa e non
evangelica, perché nasce dall’ applicazione molto libera all’ evento di
Betlemme di un passo del profeta Isaia il quale bollava così l’
indifferenza del popolo ebraico nei confronti del suo Dio: «Il bue
conosce il suo proprietario e l’ asino la greppia del suo padrone, ma
Israele non conosce e il mio popolo non comprende» (1,3).
Siamo
partiti dalla figura di un santo che è davanti al presepio. Vorremmo
ora concludere con un ateo, il celebre drammaturgo tedesco Bertolt Brecht,
che in una sua poesia ricompone il suo presepio vivente costituito da
una famiglia povera, simile a quella dei tanti profughi che vivono negli
accampamenti o nelle città sotto l’ incubo della guerra e anche di non
poche case italiane che stanno vivendo momenti difficili. «Oggi siamo
seduti, alla vigilia di Natale, / noi, gente misera / in una gelida
stanzetta. / Il vento corre di fuori, / il vento entra. / Vieni, buon
Signore Gesù, da noi!/ Volgi lo sguardo: / perché Tu ci sei davvero
necessario».
https://m.famigliacristiana.it/articolo/quando-fede-e-arte-firmano-il-natale.htm
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