sabato 26 aprile 2025

Potenza della Bellezza, mistero e richiamo al trascendente, del Card. Gianfranco Ravasi


Potenza della Bellezza, Mistero e richiamo al Trascendente

del Card. Gianfranco Ravasi
 



È con qualche emozione che inizio questa riflessione, con emozione scontata anche se non è la prima volta che parlo nell’interno di questo spazio meraviglioso, mirabile. È un’emozione appunto per il contesto, ed è un’emozione anche per tutte le persone che sono qui presenti, a partire da chi rappresenta la città di Firenze, sia dal punto di vista civile sia dal punto di vista religioso. Desidero fare una riflessione piuttosto libera sul tema che dominerà poi dopo, che attraverserà in filigrana tutti gli interventi che seguiranno. Avevo pensato varie strade da percorrere attorno a un tema così immenso, dalle mille iridescenze come quello della bellezza. Avevo pensato anche di fermarmi su un argomento che in questo periodo mi affascina ma anche mi tormenta, ovvero quello del rapporto tra arte e fede fino ad arrivare all’arte e liturgia. Ho pensato, invece, di proporre un pensiero di natura più generale che presenta due momenti o due movimenti di riflessione. 

Comincio subito col primo elemento collocandolo sulla base di una frase (è una battuta soltanto) che si trova nell’interno della Bibbia, in un libro conosciuto, ma poco letto, dell’Antico Testamento, il Siracide. Gesù ben Sira è un autore che rappresenta certamente il giudaismo palestinese ma che avverte il respiro continuo dell’orizzonte che sta attorno che è quello dell’ellenismo incombente, con il quale non ha ancora il coraggio di confrontarsi del tutto. Siamo, quindi, nel clima forse anche di un Cortile dei Gentili, clima che sarà poi del tutto aperto, direi quasi dissolto da ogni ombra col libro della Sapienza, su un altro testo anticotestamentario sorto ad Alessandria d’Egitto, con un confronto ormai diretto col mondo greco, con la cultura greca. Ebbene la frase che troviamo – in verità la troviamo in uno dei tanti testi che sono giunti a noi, perché il testo del Siracide è piuttosto mobile – recita così: «nell’interno dell’elogio dei grandi d’Israele, uomini che si sono appassionati a cercare la potenza della bellezza». Ecco allora il primo elemento della mia riflessione, la potenza della bellezza e perché dobbiamo in qualche modo riproporla ai nostri giorni, per quale ragione? 
È una potenza, io direi grande ma anche oscura. I greci l’hanno capito chiaramente perché hanno messo alla genesi, se si vuole dell’arte, da una parte Apollo, se volete Ermes, che per esempio inventa la musica inciampando in un guscio di tartaruga e tendendo i fili su di esso e scoprendo l’armonia, oppure se volete anche dall’altra parte Orfeo, la seduzione, il fascino della musica ma dall’altra parte abbiamo anche Dioniso, l’aspetto dionisiaco, orgiastico, che la musica, l’arte e la bellezza crea fino ad avere persino l’ottundimento delle menti. Ecco ci sono due volti nell’interno della bellezza, tutti e due necessari, io direi, perché noi siamo impastati di oscurità e di luce e la bellezza è anche nell’oscurità, è anche nell’interno del “male” persino, del dolore, della lacerazione. De Mousseau diceva che i canti più belli sono i canti più disperati. Effettivamente se non ci fosse stato il problema del male, per esempio, pensate quanta letteratura non esisterebbe.
Tra poco sentiremo, come saprà fare il prof Givone, anche se su un aspetto particolare, la Leggenda del Grande Inquisitore, ma pensiamo Dostoevskij non esisterebbe semplicemente se non ci fosse il dramma del delitto e del castigo, della colpa, dei bassifondi, dei demoni che attraversano l’umanità. Nelle sue elegie udinesi, una figura di poeta e i poeti sono anche profeti a me particolarmente caro anche se devo riconoscere sommamente arduo nella lettura, Rilke, nelle elegie duinesi, scriveva nella prima delle elegie: il bello è nient’altro che l’inizio del tremendo. Il bello parte solare e poi precipita nel tremendo, nel terrore. Se volete ancora si possono ripetere definizioni che vanno in questa linea. Ho scelto ancora un’altra testimonianza molto diversa per cultura, Virginia Woolf, in una stanza tutta per sé quest’opera del 1929.

La bellezza ha sempre due tagli: uno di gioia, l’altro di angoscia e taglia in due il cuore. Anche l’allora cardinale Ratzinger, in un testo che ha scritto proprio sulla bellezza, ha questa espressione: la bellezza ferisce ma proprio così richiama l’uomo al suo destino ultimo. Vedete? Il negativo e il positivo: una ferita aperta che però ti fa tendere a una guarigione estrema, a una salvezza ultima. Ecco perché ho voluto evocare questo primo elemento, soltanto accennandolo, l’ho voluto evocare soprattutto tenendo conto del contesto in cui siamo ai nostri giorni in cui, e qui dico anche qualcosa a proposito del Cortile dei Gentili, è facilissimo incontrare, dialogare, trovarci insieme con grande frutto, con personalità anche non credenti che però hanno una tensione profonda dentro di sé comunque essa approdi. E dall’altra parte invece abbiamo, ecco il vero dramma, questo orizzonte, che è simile alla mucillaggine, incolore, inodore, insapore, la superficialità, l’indifferenza, la banalità, la stupidità, la volgarità che sono quasi come l’atmosfera fondamentale, quasi il basso continuo della nostra società. E nell’interno di questo orizzonte, la bellezza, se esiste, esiste per essere fotografata al massimo. Non c’è assolutamente la capacità di lasciarsi ferire da questa bellezza, per questo dobbiamo riproporla e rimetterla in tutta la sua forza perché inquieti, perché crei ancora, almeno un sussulto, un fremito. Vedete? C’era una ballata che ha scritto una poetessa ebrea tedesca, che si è rifugiata poi in Svezia per sfuggire alla persecuzione nazista, Nellis Axe, e ha ricevuto anche il premio nobel insieme a un grande scrittore ebreo, Shemuel Agnon. Ebbene, ha scritto una ballata sui profeti che ha una sorta di antifona, che a me piace ripetere spesso perché dovrebbe essere un po’ la funzione anche delle nostre parole che a volte, anche un po’ per colpa nostra sono anch’esse grigie, incolori, non hanno la forza offensiva che, per esempio, aveva la parola di Cristo. A me fa sempre impressione quel passo del Vangelo di Giovanni quando i sommi sacerdoti decidono di arrestare Gesù e mandano le guardie per arrestarlo e le guardie tornano a mani vuote e allora i sacerdoti dicono: ma perché non ce l’avete condotto? E questi poliziotti semplici rispondono con una dichiarazione straordinaria: mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo! La parola che non si arresta, non s’imprigiona e loro restano con le mani vuote. Ecco quindi l’importanza dell’avere una parola bella, nel senso pieno, potente, che riesca ancora a incrinare questo clima, che riesca ancora a lacerare, a ferire appunto. Diceva questa sorta di antifona: se i profeti rompessero per le porte della notte, incidendo ferite nei campi dell’abitudine (notate: proprio un ritratto del nostro tempo) incidere ferite nei campi dell’abitudine, nel terreno incolore. Se i profeti rompessero per le porte della notte cercando un orecchio come patria, orecchio degli uomini ostruito di ortiche, sapresti tu ascoltare? E la risposta è una domanda che resta sospesa, ai nostri giorni in maniera particolare, le chiacchiere, la volgarità, la miseria anche generale che ci ottunde l’ascolto, la conchiglia dell’ascolto non ha più l’eco del mare, ha l’eco piuttosto di un chiacchiericcio continuo, nel mondo appunto morirà in un mormorio, in una lania, diceva Eliott, non in un urlo. Ecco perché credo che sia importante ancora riproporre la potenza della bellezza, della parola, dell’arte in tutta la sua forza.

La seconda e ultima riflessione che voglio fare e questa è evidentemente a prima vista un po’ scontata. La bellezza, è stato ricordato, anzi anch’io vorrei recitare questa frase di Giovanni Paolo II nella lettera agli artisti citata dal prof Natali: la bellezza è cifra del mistero ed è richiamo al trascendente. 
La bellezza di sua natura tende all’oltre e all’altro; è per eccellenza il tentativo di varcare le frontiere e di dire l’ultima parola, di dire il tutto, di dire l’assoluto quasi. Io vorrei anche qui mettere alla base una frase della Bibbia, dell’Antico Testamento di matrice greca, quel libro della Sapienza a cui prima facevo cenno. Sorto ad Alessandria d’Egitto, alle soglie del cristianesimo in contatto con la cultura platonica, conosce certamente il pensiero stoico questo autore, vedete proprio col paganesimo che era l’ateismo allora, era in dialogo, in ascolto e si lascia anche, riceve dei riflessi, scrive al capitolo 13 versetto 5: dalla grandezza e bellezza delle creature (ana logos) per analogia, gradino per gradino, da questa bellezza ( theoreitai) l’autore, theoreitai di solito si traduce “si contempla” l’autore, ed è vero, theorei vuol dire vedere anche, ma theorei contiene anche la nostra parola “teoria”, quindi c’è anche la riflessione, c’è anche la razionalità che è se vogliamo dire l’arte ha una sua metarazionalità, non un’irrazionalità, è una razionalità superiore, la poesia, la grande poesia di sua natura suppone un’altra grammatica rispetto alla grammatica immediata. Ed ecco allora questa dimensione, la bellezza che ci porta ad andare verso orizzonti più alti, a salire sui sentieri d’altura. E dico qui in questo caso non solo per il credente, appunto come diceva, contempla l’autore, contempla Dio, anche per chi non lo è. E difatti io ricordo spesso quella testimonianza che aveva dato Fontana, Lucio Fontana, quando i giornalisti gli avevano chiesto ragione del suo taglio famoso che veniva letto o in maniera molto superficiale o comunque non veniva compreso nel suo significato simbolico e lui aveva detto semplicemente: ma io vorrei con questo taglio (almeno diceva così ai giornalisti ma lo diceva anche la vedova di Fontana) io volevo soltanto creare uno spiraglio sull’assoluto. È interessante questo. Vedete, qui “ferita” – prima dicevo – che diventa feritoia, feritoia su quell’infinito e quell’eterno verso cui si tende. E io sono appena reduce da Bucarest dove ho voluto evocare, quando mi hanno dato la laurea honoris causa all’Università di Bucarest, due grandi figure di atei, che però sono estremamente interessanti per questo discorso che stiamo facendo. Il sogno è se fossero ancora atei come Cioran e come Ionesco, io penso anche come Camus(Camù) per esempio. Ebbene c’è, lo ricordavo anche quando abbiamo inaugurato a Bologna il Cortile dei Gentili, c’è una frase, anzi una considerazione scagliata contro noi teologi da Cioran. Cioran, figlio di un prete ortodosso che abbandona completamente il cristianesimo ma che ininterrottamente dice: io sono il delatore di Dio, continuamente lo spio per vedere se il suo nome sia nulla o tutto. Ebbene egli scrive a un certo punto: voi teologi avete perso un’infinità di tempo e un’infinità di energie, uno scialo di energie intellettuali per cercare di dimostrare l’esistenza di Dio e avete dimenticato l’unica che avevate lì, così facile, disponibile: dopo che si è ascoltato la messa in si minore o una cantata o la passione di Bach, Dio deve esistere. Vedete, la via della bellezza, come via che apre il trascendente, che apre il mistero. Ed è per questo motivo che, e mi avvio alla conclusione, è stato significativo che a un certo momento nella teologia, un teologo molto noto del secolo scorso, von Balthasar, ha pensato di costruire, ed è interessante il titolo della sua grande opera monumentale “Gloria”, però sappiamo anche che il sottotitolo è ed è interessante “Per un’estetica teologica”, non per una teologia estetica. È la via dell’estetica la grande via. Nel medioevo si diceva la via pulchritudinis per riuscire a scoprire il trascendente, anzi egli affermava esplicitamente che è la categoria ermeneutica interpretativa fondamentale dell’essere e dell’esistere di Dio, dell’uomo e del cosmo ed è significativo perciò che il Nuovo Testamento, ma già l’Antico se si vuole, curiosamente usa ininterrottamente un aggettivo che è l’aggettivo kalos per indicare quello che noi abbiamo ininterrottamente tradotto con buono nelle nostre traduzioni, che è vera anche, perché appunto la trascendenza ha in sé verità, bellezza, bontà, giustizia e così via, è simbolica, circolare, perché non sappiamo, molti di voi lo sanno già che Cristo è il “Bel pastore” egò eimi o kalos poimeno kalos, ma dall’altra parte non sappiamo che per esempio nel Nuovo Testamento quando si deve dire nelle vostre bibbie avete opere buone, in greco c’è kalà: opere belle, buona condotta è bella condotta, buona coscienza è bella coscienza, fare il bene 2 lettera tessalonicesi al capitolo terzo di paolo, fare il bene, il verbo kalopoiein, fare il bello, e ancora, quando la folla nel vangelo di marco davanti a Gesù, vede la sua opera , dice: “ha fatto bene ogni cosa”, la traduzione greca è “ha fatto kalos (in bellezza) ogni cosa”. Ecco allora la categoria estetica come la grande categoria interpretativa dell’etica stessa ed è per questo motivo che ai nostri giorni abbiamo bisogno di ritrovare la bellezza che ci salvi da due grandi mostri che incombono. Sono in italiano basati sulla stessa radice, sulla stessa etimologia ma sono diversi dal punto di vista semantico questi due vocaboli anche se noi li confondiamo. Noi siamo assediati dalla “bruttura” che è una categoria di tipo etico e dalla “bruttezza” che è una categoria di tipo estetico. Ecco la bellezza ci libera da questo peso e ci fa tendere verso quella bellezza assoluta che per il credente è Dio, Dio è bello, il bel pastore ma che per il non credente è in assoluto, forse, il grande mistero che ci avvolge, quell’oceano nel quale Wittgenstein ci insegnava le cui onde battono sulla nostra pelle ed è al di fuori di noi. Io spesso ripeto, soprattutto quando facciamo questi incontri sul tema dell’arte una frase che vorrei mettere a conclusione ed è la voce di un non credente, di un ateo, di un anticristiano, ferocemente anticristiano, giunto fino al punto di, si dice, essersi fatto incidere nelle suole delle scarpe due croci per poter calpestare questo segno mentre si muoveva, era Henry Miller, un autore scandaloso, come ben sappiamo, “il tropico del capricorno”, “il tropico del cancro”
Il quale, in un suo saggio intitolato “La sapienza del cuore” ha questa frase che, a mio avviso, è il riassunto un po’ di tutto il discorso che ho fatto fin’ora e che unisce paradossalmente in maniera folgorante arte e fede: “l’arte e la fede non servono a nulla, tranne che a mostrare il senso della vita”.




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