LA COSTANZA DEL CIELO
di Gian Piero Stefanoni
Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2024
Nota critica di Flavia Buldrini
I versi di Gian Piero Stefanoni si susseguono tenui in filigrana alla trama segreta dei silenzi, sottratti alla frenetica giostra dei giorni, sussurrati come sospiri che affiorano sull’orlo degli abissi: “Sacro perché ti guarda, / perché è guardato il silenzio / che è in te dalle cose.” (Sabato); “Nella costanza dei morti, / nel loto tornare e aggiungerti al numero, / giunge poi al tempo del sogno degli altri, / della spinta che il mondo ti chiede, / dell’alba dispersa nei mondi ormai muti. / Giunge poi il tempo infestato dalle scimmie, / della casa bendata, delle mura bagnate. / Giunge poi il tempo in cui finalmente ti trovi.” (Il sogno degli altri). Ora sono lutti non mai sopiti che galleggiano in superficie: “La rosa dello spoglio dolore / non s’incurva, non recita / nel buio la propria iconoclastasi. / Ma crede – come io credo - / nel ferito splendore che dà luogo / alla forma, al ritorno d’impasto / che s’infibra nello stelo. / Abbiamo braccia, abbiamo mani / nel patire e morire insieme del padre.” (Non s’incurva); “La povertà della luce senza immagine, / la madre sola a dare figura. / Ma i portatori di fiori / nella superficie dell’assenza / restituiscono ciò che il sole nasconde / e resta nel conversare del buio. / Lo devi sentire, lo devi pensare / l’arrivo, il suo ritorno / nello scioglimento del ghiaccio. / Noi non vediamo tutto.” (La povertà della luce).
Sono rêveries amorose appese agli sguardi fugaci, intercettate da divini misteri: “Ma arrotonda il frammento / al compimento, sfugge alla morte, / all’idea che ha di sé: sempre / del presente l’amore.” (Campanule); “Comporta un peso quest’ombra leggera / che si distende nel mare. / La terra, come gli amanti, non è sola / nella finitudine della forma. / Esclama e riapprende da una parola non sua. / L’amore il perché dell’amore. / L’amore il mattino dei corpi.” (Lessico madre).
I paesaggi sono i naturali sfondi degli stati d’animo, messaggi cifrati che alludono ad un altrove:
“- e il mare / non ha confini non accettando più di bussare. / Così, nel sonno, sei ancora tu l’intruso, / l’occhio lungo la spina di pesce, la notte / senza riflessi nel giorno che cede alla sete.” (Tutti gli addomesticabili mondi); “Perché per questa partecipata terra / quest’alito breve, questo profumo / al termine della salita che apre all’azzurro / nell’immagine scoperta dell’uomo. / Perché ancora chiede e dà vita / nell’idea dell’acqua la viola del giorno, / nello stelo la mano rupestre, lo sguardo eretto / che chiama ogni ora nel volto / alla ragione dell’altro.” (Salite).
Sono flebili singulti di dolore che scavano voragini sulla faccia della terra, rintocchi sommessi dalla notte alle porte dell’aurora: “Ha una doglia lo sguardo / della luce sulla terra / non rincorre albe / nel volo di notte dell’uccello.” (Doglie).
Un furtivo straniamento sradica dalle rassicuranti certezze, mentre si è sospesi sul confine tra la vita e la morte: “Non è di nessuno questa terra, / questo battesimo / ma il colpo batte il confine, / il lago sembrando fango / nella nostra interpretazione del sangue. / All’occhio insiste ancora, / bussa alla porta / la frattura dell’ombra, / la mai sopita negazione / in nome del padre.” (La fodera, per Czeslav Misloz).
“Il cacciator di fede” fruga tra “le ombre del giorno” per scovare “la cellula versata”, la perla rara deposta dal mare della vita sulla sponda dell’Eternità. Tuttavia, non riesce a passare il guado, a spiccare il balzo verso l’altra riva dove arride il sole: “Tu credi ma il vento / in te non può riposare / né adagiarsi la nuvola / o l’albero finalmente / alla sua maturata infanzia / dare respiro nel piccolo nido. / Tu credi ma non riesce / a passare / basso allo sguardo / il sole, l’oriente.” (Tu credi). L’anelito religioso insorge dal sepolcro del passato: “Perché un inizio questo Dio di pietra, / un inizio questa visione del tutto / che lentamente nella separazione ci consuma.” (Del cuore). Il divino tesse l’armonia tra cielo e terra nel canto unanime della creazione: “Quale parola dice la paura, / quale la nasconde? / Non è umano questo premere / senza toccare e che chiede l’assenso / nella conta dormiente degli angeli. / Non è da Dio il tormento, / la divisione della luce, l’impaziente / sottrazione delle orme. / È scritto infatti – l’uomo alla fine del cielo, / il salto alla fine dell’acque.” (Quale parola). Gli oppressi sono gli interlocutori più vicini a Dio, capaci di schiudersi all’annunzio angelico del Kerigma: “E li vedi ogni anno / sempre più piegati fino a toccare la terra, / gli occhi fissi, la bocca aperta al ruminare del cielo. / Ma poi passi / e dimentichi il velo, dimentichi la veste, / l’odore dell’agnello nella tosatura delle mani.” (Kerigma). L’anima è lago di luce che affluisce dalla sorgente perenne dell’amore: “Siamo quasi arrivati / ma abbiamo smesso di andare / mentre scendeva la luce sulla terra. / Così se non trovi l’infezione / cura lo stesso, bel limite dell’amore, / nel tema degli occhi. / Quest’anima sei tu, l’elemento / tagliato, la variante che nessuno / considera nel compagno lasciato / solo – noi di qua lui di là - / nel tuo povero tempio.” (Siamo quasi arrivati).
Eppure sottentra anche una vocazione all’abisso, ai fondali sommersi dell’essere: “Su questa terra dove è stato posto il pozzo / nel punto esatto dove il padre non ha potuto frenare / come stelle perturbate all’approdo / ruotiamo attorno nell’ignoto della riserva / dentro a quel grido che a quell’abisso ci chiama. / Danza finché cade nel sabato, nella rimessa / ogni sette giorni del fango, l’oscurità rivelata dal volto, / il silenzio delle statue nella bocca dei piccoli.” (Danza finché cadi).
La poesia è un respiro che avvolge tutte le cose: “È la politica del gesto / che fa il frammento, il mondo / che si percepisce al suo passo, / l’ordine della poesia nella preghiera” (La politica del gesto).
L’autore rivolge lo sguardo anche alla realtà più cruda, come in Non resti insepolto Caino, ove forse solo il cuore di un poeta sa indulgere ad uno sguardo di compassione e intonare un requiem a chi muore sotto il segno dell’estrema solitudine e maledizione, come Cristo sulla croce: “Chi piangerà adesso questo ragazzo? / Quale latte di padre o di madre / lo nutrirà, la gola stretta, il nodo teso? / Quale terra, quale mano lo accompagnerà / finalmente a una pace di acque e di parola? / Quale luce? / Avvolgetelo, lavatelo, sia per lui carezza. / Non ha odi il Dio senza oscurità.” (Per Jabar Al Bakr, rifugiato siriano, morto suicida nel carcere di Lipsia il 12 ottobre 2016).
La condizione ontologica dell’uomo è segnata da un’originaria ferita fin dallo “strappo sanguinoso della nascita” – secondo l’icastica definizione della Morante -: “Svegliato e bagnato dal sole / al riflesso breve del mistero, / l’Uomo strappato al suo posto. / Appena nato al corpo denso dell’asfalto / ha il grumo lieve della madre; / non geme, non ha richieste / nel torpore acceso della ferita.” ((Re)Incarnazioni).
La bellezza celeste sovrasta con la sua trascendenza divina l’umanità frale: “Ma il mondo a sé rivolto non muta, / non dà pace, tutto occultando, / tutto spegnendo nell’ispirazione sorda, / nel desiderio scevro. / Il cielo non è uno spazio, la rosa / una facile voce nell’ipotesi divina.” (Dorsali); “Prende bagliore dai corpi / l’inavvertita altezza dell’arca, / il libero azzurrarsi del tramonto / nel profilo dorato del salmo.” (Non cede bel passo, s’illumina).
Gian Piero Stefanoni in questi testi si effonde in meditazioni profonde, raggiungendo esiti di intenso lirismo: “Sanno prima del buio la chiamata nuda, / l’offerta dell’azzurro.” (Prima del buio).
La costanza del cielo è il permanere del bene sopra la terra, nonostante noi, un seme di luce incastonato nell’anima che silenziosamente fiorisce “e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano tra i suoi rami” (Mt 13,32): “Prepara al silenzio e al fiume / la parola nel greto che guarda al fiorire / Ancora si specchia, ancora ci segue: / più forte il dolore screpolato alla terra, / sa della luce l’esercizio, il cadere dell’ombra.”; “Sa da dove il frutto / è fatto opera, di quale annuncio, / di quali scaglie l’ombra ora riluce / nello strappo di vita delle forme. / Sa per femminile trasparenza / la visione dell’ultimo nato, / sul ramo la costanza del cielo che non cede.”
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