La fede e la teologia ai giorni nostri
del Card. Joseph Ratzinger
La crisi della teologia della liberazione
Negli anni Ottanta la teologia della liberazione,
nelle sue espressioni più radicali, costituiva la provocazione più
incalzante alla fede della Chiesa, con la sua richiesta di una risposta e
di una chiarificazione. Essa infatti offriva una risposta nuova,
plausibile e nello stesso tempo pratica, al problema fondamentale del
cristianesimo: la redenzione. Il termine liberazione era destinato ad
esprimere, solo in una maniera diversa e più comprensibile, ciò che nel
linguaggio tradizionale della Chiesa era stato chiamato redenzione. In
realtà, il problema fondamentale resta sempre lo stesso: siamo posti di
fronte ad un mondo che non corrisponde alla bontà di Dio. La povertà,
l'oppressione, le ingiustizie di ogni sorta, la sofferenza dei giusti e
degli innocenti sono i segni del tempo, di ogni tempo. E ogni uomo
soffre; nessuno può dire a questo mondo e alla propria vita: dura per
sempre, perché sei così bella. La teologia della liberazione, di fronte a
queste nostre esperienze, si esprimeva nel modo seguente: una tale
situazione, che non può perdurare, può essere superata solo con un
mutamento radicale delle strutture del nostro mondo, che sono le
strutture del peccato, le strutture del male. Se quindi il peccato fa
sentire la sua forza sulle strutture e da queste ne deriva
necessariamente una situazione di miseria, lo si può vincere non con una
conversione personale, ma solo lottando contro le strutture
dell'ingiustizia. Questa lotta però, così si diceva, doveva essere di
ordine politico, poiché le strutture si consolidano e si sostengono
attraverso la politica.
Pertanto la redenzione diventava un processo
politico, al quale la filosofia marxista forniva gli orientamenti di
fondo. Essa diventava un compito che gli uomini potevano, anzi dovevano
assumersi direttamente, e si trasformava perciò nello stesso tempo in
una speranza del tutto pratica: la fede da "teoria" si trasformava in
una prassi, in un'azione concreta e liberatrice, attraverso il processo
di liberazione.
La caduta dei sistemi di governo di ispirazione
marxista nell'est europeo trasformò questa teologia, fondata su una
prassi liberatrice di tipo politico, in una specie di crepuscolo degli
dèi: proprio dove l'ideologia marxista della liberazione era stata
adottata in maniera sistematica, si era instaurata una mancanza totale
di libertà, i cui orrori stavano inesorabilmente davanti agli occhi di
tutti.
Quando la politica vuole essere liberatrice, promette
troppo. Quando vuole sostituirsi a Dio nel suo agire, diventa non
divina ma demoniaca. Gli eventi politici del 1989 hanno mutato perciò
anche lo scenario teologico. Il marxismo aveva rappresentato l'ultimo
tentativo di fornire una valida formula generale, che intendeva dare al
corso della storia la sua giusta configurazione. Riteneva di conoscere
quale fosse l'impianto della storia universale e di poter insegnare
perciò come questa storia potesse essere condotta definitivamente sulla
retta via. Il suo enorme fascino gli derivava dal fatto di fondarsi su
metodi in apparenza strettamente scientifici e di sostituire la fede con
la scienza, trasformando la scienza in azione pratica. Tutte le
promesse disattese delle religioni sembravano realizzarsi tramite una
prassi politica scientificamente fondata. La caduta di questa speranza
era destinata a provocare un enorme disinganno, che non si è ancora
placato del tutto. Ritengo senz'altro possibile che si debba assistere
ancora ad altre nuove manifestazioni di una concezione marxista del
mondo. Il venir meno dell'unico sistema che proponeva una soluzione dei
problemi umani su base scientifica poteva lasciare spazio solo al
nichilismo, o per lo meno ad un relativismo totale.
Il relativismo come filosofia dominante
Il relativismo è diventato perciò effettivamente il
problema fondamentale della fede dei nostri giorni. Esso non si esprime
solo come una forma di rassegnazione di fronte alla verità
irraggiungibile, ma si definisce anche positivamente ricorrendo alle
idee di tolleranza, conoscenza dialogica e libertà, che erano state
coartate dalla concezione di una verità universalmente valida. Il
relativismo si presenta inoltre come la base filosofica della
democrazia, la quale si fonderebbe appunto sul fatto che nessuno può
pretendere di conoscere la strada giusta, la democrazia deriverebbe cioè
dal fatto che tutte le strade si riconoscono reciprocamente come
tentativi parziali di raggiungere ciò che è migliore e ricercano nel
dialogo una qualche comunione, alla quale arreca il proprio contributo
anche la conoscenza, che però in ultima analisi non si può ricondurre ad
una forma comune. Un sistema di libertà dovrebbe essere per sua natura
un sistema di posizioni relative che comunicano tra loro, che dipendono
inoltre da varie combinazioni storiche e restano aperte a nuovi
sviluppi. Una società liberale dovrebbe essere una società relativista;
solo a queste condizioni essa è in grado di rimanere libera e di
mantenersi aperta.
In ambito politico questo modo di vedere è esatto
fino a un certo punto. Non vi è un'opzione politica che possa dirsi
esclusivamente giusta. Ciò che è relativo, ossia l'instaurazione di
un'ordinata convivenza umana su basi liberali, non può essere assoluto:
l'aver pensato il contrario è stato appunto l'errore del marxismo e
delle teologie politiche. Certo, anche sul piano politico con il
relativismo totale non si risolve nulla: vi è un'ingiustizia che non può
mai diventare giusta (per esempio l'uccisione degli innocenti o il
negare alle persone o ai gruppi il diritto della dignità umana e di ciò
che essa comporta) e vi è una giustizia che non può mai diventare
ingiustizia. In ambito politico-sociale non si può pertanto negare al
relativismo una qualche legittimità. Ma il problema deriva dal fatto che
esso non si pone dei limiti. Infatti viene adottato espressamente anche
sul piano della religione e dell'etica. Su questo punto, posso
accennare solo a qualche fattore che condiziona in tal senso il dialogo
teologico. La cosiddetta teologia pluralista delle religioni si era già
affermata gradualmente fin dagli anni Cinquanta, ma solo oggi ha assunto
un'importanza fondamentale per la coscienza cristiana (1). Per la
rilevanza della sua problematica e per la sua presenza nei più diversi
settori culturali essa assume ora il posto che nel decennio scorso
spettava alla teologia della liberazione; del resto spesso si riallaccia
a quest'ultima e tenta di presentarne un volto più nuovo ed attuale. Le
sue configurazioni sono molto diverse, per cui è impossibile ridurla ad
una formula unica e delinearne brevemente i tratti essenziali. Da un
lato essa è un prodotto tipico del mondo occidentale e delle sue
concezioni filosofiche, ma dall'altro si pone in contatto con le
intuizioni filosofiche e religiose dell'Asia, soprattutto con quelle del
subcontinente indiano, ed è proprio anzi il collegamento tra questi due
mondi ciò che determina la sua particolare influenza sul momento
storico che stiamo vivendo.
Il relativismo in teologia: l'abolizione della cristologia
Questa situazione può essere colta con particolare
evidenza nelle affermazioni di uno dei fondatori ed esponenti principali
di tale teologia, il presbiteriano americano J. Hick, che prende le
mosse dalla distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno: non siamo in
grado di raggiungere la realtà ultima in se stessa, ma possiamo solo
vederla con diverse "lenti" nel suo apparire, attraverso il nostro modo
di percepire. Tutto quello che percepiamo non è la realtà vera e
propria, come è in se stessa, ma solo il suo riflesso nel nostro sistema
di misura. Questo principio, che Hick in un primo tempo aveva tentato
di formulare ancora in un contesto cristocentrico, dopo un soggiorno in
India, durato un anno, con una rivoluzione copernicana del suo pensiero
(come egli stesso afferma) è stato da lui trasformato in una nuova forma
di teocentrismo. L'identificazione di una singola figura storica, Gesù
di Nazareth, con la "realtà" stessa, ossia con il Dio vivente, viene
respinta come una ricaduta nel mito; Gesù viene espressamente
relativizzato come uno dei tanti geni religiosi. Ciò che è assoluto,
oppure Colui che è l'assoluto, non può darsi nella storia, dove si hanno
solo modelli, solo figure ideali che ci rinviano al totalmente altro,
il quale non si può afferrare come tale nella storia. È chiaro che anche
la Chiesa, il dogma, i sacramenti non possono più avere il valore di
necessità assoluta. Attribuire a questi mezzi finiti un carattere
assoluto, considerarli anzi come un incontro reale con la verità, valida
per tutti, del Dio che si rivela, significherebbe collocare su un piano
assoluto ciò che è particolare e travisare perciò l'infinità del Dio
totalmente altro.
In base a questa concezione, che ha assunto oggi una
posizione rilevante, anche al di là delle tesi di Hick, il ritenere che
vi sia realmente una verità, una verità vincolante e valida nella storia
stessa, nella figura di Gesù Cristo e della fede della Chiesa, viene
ritenuto un fondamentalismo che si presenta come un autentico attentato
contro lo spirito moderno e come una minaccia multiforme contro il suo
bene principale, la tolleranza e la libertà. Anche il concetto di
dialogo, che nella tradizione platonica e cristiana aveva acquisito una
funzione significativa, assume ora un senso diverso. Diventa addirittura
l'essenza del Credo relativista e l'opposto della "conversione" e della
missione: in una concezione relativista dialogo significa porre su uno
stesso piano la propria posizione o la propria fede e le convinzioni
degli altri, e in linea di principio non ritenerla più vera della
posizione dell'altro. Solo se suppongo veramente che l'altro abbia tanto
ragione quanto me, o anche di più, sono realmente all'altezza del
dialogo. Il dialogo dovrebbe essere uno scambio tra posizioni
fondamentalmente paritetiche e perciò tra loro relative, con lo scopo di
raggiungere il massimo di cooperazione o d'integrazione tra le varie
concezioni religiose (2). Il dissolvimento relativista della cristologia
e quindi anche dell'ecclesiologia diventa perciò un precetto
fondamentale della religione. Per tornare a Hick: la fede nella divinità
di uno solo, così egli dice, condurrebbe al fanatismo e al
particolarismo, alla dissociazione tra fede e amore; ma questo è appunto
ciò che si deve evitare (3).
Il richiamo alle religioni asiatiche
Secondo J. Hick, che qui consideriamo in particolare
come l'esponente di maggior spicco del relativismo religioso, la
filosofia post-metafisica dell'Europa si collega meravigliosamente alla
teologia negativa dell'Asia, per la quale il divino, in se stesso e
direttamente, non può mai entrare nel mondo delle apparenze, nel quale
viviamo: si mostra solo nei riflessi relativi e resta al di là di tutte
le parole e al di là di ogni pensiero nella sua trascendenza assoluta
(4). Queste due filosofie sono radicalmente diverse nei loro presupposti
fondamentali e per i principi su cui regolano l'esistenza umana. Ma nel
loro relativismo metafisico e religioso esse sembrano confermarsi a
vicenda. Il relativismo areligioso e pragmatico dell'Europa e
dell'America può ricevere dall'India una specie di consacrazione
religiosa, che sembra conferire alla sua rinunzia al dogma la dignità di
un timore più nobile di fronte al Mistero di Dio e dell'uomo.
Viceversa, l'appellarsi del pensiero europeo ed americano alla visione
filosofica e teologica dell'India rafforza la relativizzazione di tutte
le figure religiose, caratteristica per la cultura indiana. Sembra
perciò necessario che in India anche la teologia cristiana debba privare
la figura di Cristo, considerata occidentale, del suo carattere di
unicità e la debba collocare quindi sullo stesso piano dei miti indiani
di salvezza: il Gesù storico (così si pensa ora) non è il Logos, come
non lo è qualunque altra figura di salvatore che appartenga alla storia
(5). Il fatto che il relativismo si presenti, all'insegna dell'incontro
delle culture, come la vera filosofia dell'umanità, gli conferisce (come
già abbiamo accennato) una grande forza di persuasione, che in pratica
non ammette rivali. Chi vi si contrappone non prende solo posizione
contro la democrazia e la tolleranza, che sono i precetti fondamentali
della convivenza umana, ma si irrigidisce anche ostinatamente nella
preminenza della propria cultura, quella occidentale, e rifiuta
l'incontro tra le culture, che è oggi l'imperativo più urgente. Chi vuol
rimanere nella fede della Bibbia e della Chiesa si trova relegato
anzitutto in una terra di nessuno, e deve orientarsi nuovamente nella
"stoltezza di Dio" (1 Cor 1,18), per potervi riconoscere la vera
sapienza.
Ortodossia e ortoprassi
Per ricercare questa sapienza, che si trova nella
stoltezza della fede, possiamo tentare di chiarire, almeno per sommi
capi, a che cosa serva la teoria relativista della religione, sostenuta
da Hick e quali strade essa indichi all'uomo. In ultima analisi, per
Hick la religione significa che l'uomo passa dalla self-centredness, che
caratterizza l'esistenza del vecchio Adamo, alla reality-centredness
che contraddistingue l'esistenza dell'uomo nuovo, e quindi si proietta
al di fuori del proprio Io verso il Tu del prossimo (6). Questo è bello a
parole, ma a ben guardare nel suo contenuto è insignificante e vuoto,
come già l'appello di Bultmann all'autenticità, che egli aveva tratto da
Heidegger. Per questo non c'è bisogno della religione. P. Knitter,
ex-sacerdote cattolico, avvertendo questa difficoltà, ha cercato di
superare il vuoto di una teoria della religione, che si riduce in
sostanza all'imperativo categorico, con una nuova e più concreta sintesi
tra Asia ed Europa, più ricca nel suo contenuto (7). La sua proposta è
quella di dare una nuova concretezza alla religione collegando la
teologia pluralista della religione con le teologie della liberazione.
In tal modo il dialogo interreligioso viene semplificato radicalmente e
nello stesso tempo viene reso efficace sul piano pratico, in quanto
resta fondato su di un'unica premessa: "il primato dell'ortoprassi
sull'ortodossia" (8). Questa preminenza accordata alla prassi rispetto
alla conoscenza è anch'essa un'eredità marxista, ma il marxismo da parte
sua concretizza soltanto ciò che si presenta come una conseguenza
logica, una volta che si è rinunciato alla metafisica: se la conoscenza
diventa impossibile rimane solo l'agire. Per Knitter, l'assoluto non lo
si può pensare, ma solo fare. La questione però è: È vera questa
affermazione? Da dove mi può venir suggerito il retto agire, se non so
che cosa è giusto? Il fallimento dei regimi comunisti è dovuto proprio
al fatto che si è cambiato il mondo senza sapere ciò che è buono per il
mondo e ciò che non lo è, senza sapere in quale direzione esso deve
essere mutato, per diventare migliore. La semplice prassi non è una
luce.
È allora opportuno chiarire criticamente il concetto
di ortoprassi. La storia delle religioni tradizionale aveva sostenuto
che le religioni dell'India non conoscono in genere un'ortodossia, ma
solo un'ortoprassi; di qui probabilmente questo concetto è passato alla
teologia moderna. Ma in riferimento alle religioni dell'India esso aveva
un senso ben preciso: si voleva dire per suo tramite che queste
religioni non conoscono una concezione della fede che sia
fondamentalmente vincolante e che l'aderirvi non è condizionato
dall'accettazione di un Credo particolare. Queste religioni conoscono
però senza dubbio un sistema di pratiche rituali, che viene considerato
necessario per la salvezza e distingue i "fedeli" dagli infedeli. Esso
non è caratterizzato da particolari contenuti dottrinali, ma
dall'adesione scrupolosa ad un rituale che interessa tutta quanta la
vita. Ciò che l'ortoprassi significa, ciò che è dunque un "retto agire",
viene definito in modo molto preciso: si tratta di un codice di riti.
Del resto il termine ortodossia nella Chiesa primitiva e nelle Chiese
orientali aveva più o meno lo stesso significato. In questa parola
infatti l'elemento -dossia si riferisce a doxa, che non veniva certo
inteso nel senso di "opinione" (la giusta opinione): per i Greci le
opinioni sono sempre relative. Doxa era inteso invece nel senso di
"gloria", "glorificazione". Essere ortodosso significa perciò conoscere e
praticare il modo esatto in cui Dio deve essere glorificato. Si
riferisce al culto e dal culto viene proiettato nella vita. In questo
senso si getterebbe certo un ponte solido per un dialogo fruttuoso tra
l'Oriente e l'Occidente.
Ma torniamo all'adozione del termine ortoprassi nella
teologia moderna. Qui non si è più pensato al fatto di seguire un
rituale. La parola ha assunto un significato del tutto nuovo, che non ha
nulla a che fare con le concezioni autentiche dell'India. Resta però
una cosa: se l'esigenza di un'ortoprassi deve avere un suo significato e
non serve solo a mascherare l'arbitrio, vi deve essere allora anche
un'ortoprassi comune, riconosciuta da tutti, che va al di là di un
semplice parlare dell'incentrarsi sull'Io e del relazionarsi ad un Tu.
Se si esclude il significato rituale, come lo si intendeva in Asia, il
termine "prassi" può essere adottato in senso etico o politico.
L'ortoprassi richiederebbe, nel primo caso, un'etica chiaramente
definita nel suo contenuto. Questo però viene espressamente escluso
nella discussione sull'etica di impronta relativista: non esisterebbe
ciò che è bene in sé e ciò che è male in sé. Se si intende ortoprassi in
senso politico-sociale, sorge analogamente il problema di ciò che debba
essere un retto agire politico. Le teologie della liberazione, le quali
erano convinte che il marxismo ci dicesse chiaramente qual era la retta
prassi politica, potevano usare il termine ortoprassi in modo corretto.
In quest'ambito non esisteva ciò che non era vincolante, ma una forma
di prassi corretta, valida per tutti, ossia una vera ortoprassi che si
estendeva a tutta la società e ne escludeva coloro che rifiutavano il
retto agire. In questo senso le teologie della liberazione di
ispirazione marxista erano a loro modo logiche e coerenti. Come si può
constatare, questa ortoprassi si fonda certamente su una qualche
ortodossia (in senso moderno), ossia su un complesso di teorie
vincolanti che definiscono la via che conduce alla libertà. Knitter
resta vicino a questo assunto quando afferma che il criterio che
permette di distinguere l'ortoprassi dalla pseudoprassi è la libertà
(9). Ma egli deve ancora spiegarci in maniera persuasiva e pratica che
cosa sia la libertà e che cosa porti alla reale liberazione dell'uomo:
certo non è l'ortoprassi marxista, come abbiamo constatato. Una cosa
però è chiara: le teorie relativiste sfociano necessariamente
nell'arbitrio e si rendono perciò superflue, oppure emanano norme
assolute che hanno valore nella pratica e creano degli assolutismi
proprio là dove in realtà non possono avere alcuna consistenza. È certo
comunque che oggi anche in Asia vengono divulgate palesemente delle idee
fondate su una teologia della liberazione, le quali vengono presentate
come forme di cristianesimo che si ritengono più aderenti allo spirito
dell'Asia e che traspongono sul piano politico gli elementi essenziali
dell'agire religioso. Quando il mistero viene a perdere di valore, è la
politica che diventa religione. Ma proprio questo è profondamente
contrario alla concezione della religione che è tipica dell'Asia.
Il New Age
Il relativismo di Hick, Knitter e teorie analoghe si
fonda in ultima analisi su un razionalismo che, alla maniera di Kant,
ritiene che la ragione non possa conoscere ciò che è metafisico (10); la
rifondazione della religione segue una strada pragmatica che assume una
tonalità più etica o più politica. Vi è però anche una reazione
espressamente antirazionalista all'esperienza che "tutto è relativo", e
che si riassume nell'etichetta polivalente del New Age (11). Qui la via
di uscita dal dilemma della relatività non viene individuata in un nuovo
incontro di un Io con un Tu o con il Noi, ma nel superamento del
soggetto, nel ritorno estatico nel processo cosmico. Come già la gnosi
antica, questa via ritiene di essere in sintonia con tutto ciò che la
scienza insegna e pretende inoltre di valorizzare le conoscenze
scientifiche di ogni genere (biologia, psicologia, sociologia, fisica).
Nello stesso tempo però, partendo da queste premesse, intende offrire un
modello del tutto antirazionalista di religione, una moderna "mistica":
l'assoluto non lo si può credere, ma sperimentare. Dio non è una
persona che sta di fronte al mondo, ma l'energia spirituale che pervade
il Tutto. Religione significa l'inserimento del mio Io nella totalità
cosmica, il superamento di ogni divisione. K.-H. Menke descrive molto
bene la svolta spirituale che ne deriva, quando afferma: "Il soggetto,
che pretendeva sottomettere a sé ogni cosa, si trasfonde ora nel
"Tutto"" (12). La ragione oggettivante, così ci avverte il New Age, ci
sbarra la via che conduce al mistero della realtà; l'essere Io ci
esclude dalla pienezza della realtà cosmica, sconvolge l'armonia del
Tutto ed è la causa autentica del nostro irredentismo. La redenzione
consiste nello svincolamento dell'Io, nell'immergersi nella pienezza
della vita, nel ritorno nel Tutto. Si ricerca l'estasi, l'ebbrezza
dell'infinito, che si può sperimentare nel suono della musica, nel
ritmo, nell'eccitazione della luce e del buio, nella massa umana. Così
facendo, non solo si capovolge la strada dell'epoca moderna al dominio
assoluto del soggetto; al contrario l'uomo stesso, per essere liberato,
deve sciogliersi nel "Tutto". Ritornano gli dei. Essi appaiono più
credibili di Dio. Bisogna rinnovare i riti primordiali, con i quali l'Io
viene iniziato ai misteri del Tutto e viene liberato da se stesso.
Questo rinnovarsi delle religioni e dei culti
precristiani, che oggi viene praticato in molte maniere, trova diverse
spiegazioni. Se non vi è una verità comune, che ha valore proprio perché
è vera, il cristianesimo diventa solo un prodotto importato
dall'esterno, un imperialismo spirituale, che bisogna scuotersi di dosso
al pari di quello politico. Se nei sacramenti non si realizza un
incontro di tutti gli uomini con l'unico Dio vivente, essi diventano dei
riti privi di contenuto, che non ci dicono e non ci danno nulla, o
tutt'al più ci fanno percepire il numinoso che è presente in tutte le
religioni. È più sensato cercare ciò che ci appartiene originariamente,
piuttosto che lasciarci imporre ciò che è estraneo e antiquato. Ma
soprattutto, se la "sobria ebbrezza" del mistero cristiano non ci può
rendere ubriachi di Dio, bisogna allora evocare l'ebbrezza reale delle
estasi efficaci, la cui passione ci eccita e ci rende dèi almeno per un
attimo, ci fa sentire per un momento il gusto dell'infinito e ci fa
dimenticare la miseria del finito. Quanto più si rende manifesta
l'inutilità degli assolutismi politici tanto più diventa forte
l'attrattiva dell'irrazionalità, la rinuncia alla realtà del quotidiano
(13).
Il pragmatismo nella vita quotidiana della Chiesa
Oltre a queste soluzioni radicali e al grande
pragmatismo delle teologie della liberazione vi è anche però il grigio
pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale in apparenza
ogni cosa procede normalmente, ma in realtà la fede si logora e decade
nella meschinità. Penso qui a due fenomeni, ai quali guardo con
preoccupazione. Il primo riguarda il tentativo che si manifesta a
diversi livelli, di estendere il principio della maggioranza alla fede e
ai costumi e quindi di "democratizzare" decisamente la Chiesa. Ciò che
non è gradito alla maggioranza non può essere vincolante, così sembra.
Ma di quale maggioranza si tratta in realtà? Domani sarà diversa da
oggi? Una fede che siamo in grado di stabilire noi non è una vera fede. E
una minoranza non può lasciarsi imporre una fede da una maggioranza. La
fede e la sua pratica ci provengono dal Signore attraverso la Chiesa e
l'esercizio dei sacramenti, altrimenti non esistono. Molti rinunciano a
credere perché sembra loro che la fede possa essere definita da una
qualche istanza burocratica, che sia cioè una specie di programma di
partito, chi ne ha il potere può definire ciò che bisogna credere, e
quindi tutto dipende dal fatto di giungere al potere nella Chiesa
oppure, cosa più logica e più plausibile, non credere affatto.
L'altro punto, su cui voglio richiamare l'attenzione,
riguarda la liturgia. Le varie fasi della riforma liturgica hanno fatto
sorgere l'idea che la liturgia possa venir mutata a piacere. Se c'è
qualcosa che non si può cambiare questo riguarderebbe tutt'al più le
parole della consacrazione, mentre tutto il resto lo si potrebbe fare
anche diversamente. Ne deriva una conseguenza logica: se questo lo può
fare un'autorità centrale, perché non anche le istituzioni locali? E se
le istituzioni locali, perché allora non anche la stessa comunità? Essa
dovrebbe infatti potersi esprimere e ritrovare se stessa nella liturgia.
Dopo le tendenze razionaliste e puritane degli anni Settanta e anche
degli anni Ottanta ci si è stancati oggi delle liturgie delle parole e
si desidera una liturgia dell'esperienza, che si avvicina molto agli
orientamenti del New Age: si ricerca ciò che è rumoroso ed estatico, non
la "logikè latreia", la rationabilis oblatio (la liturgia secondo
ragione, conforme al logos), di cui parla Paolo e con lui la liturgia
romana (Rom 12, 1).
Certo, esagero un po'; quello che voglio sottolineare
non si riferisce alla situazione normale delle nostre comunità. Ma
queste tendenze sono comunque evidenti. Si richiede perciò una certa
vigilanza, per non cadere in potere di un vangelo diverso da quello che
il Signore ci ha donato, pietre invece di pane.
I compiti della teologia
Ci troviamo dunque, in sostanza, di fronte ad una
strana situazione: la teologia della liberazione aveva tentato di dare
al cristianesimo, stanco di dogmi, un nuovo assetto pratico, attraverso
il quale la redenzione doveva diventare ancora una volta un evento. Ma
questa pratica ha lasciato dietro di sé delle rovine, invece di
instaurare la libertà. È rimasto quindi il relativismo e il tentativo di
adeguarsi ad esso. Ma quello che ne è derivato è ancora una volta così
vuoto, che le teorie relativiste cercano aiuto presso la teologia della
liberazione per potere trovare attraverso di essa uno sbocco nella
pratica. Il New Age giunge a dire: abbandoniamo l'avventura del
cristianesimo, che è fallito, e torniamo invece agli dèi, perché lì si
vive meglio. Ma sorgono allora diversi problemi. Accenniamo solo a
quello più pratico: come mai la teologia classica si è mostrata così
impreparata di fronte a questi eventi? Dove si trovano i punti deboli
che l'hanno resa così inefficace?
Desidero solo rilevare due punti, che emergono dalle
posizioni di Hick e Knitter. Questi ultimi si appellano all'esegesi per
giustificare la loro distruzione della cristologia: l'esegesi avrebbe
provato che Gesù non si è ritenuto il Figlio di Dio, il Dio incarnato,
ma che solo in seguito i suoi seguaci lo avrebbero reso tale (14).
Ambedue, anche se Hick in modo più chiaro rispetto a Knitter, si
richiamano inoltre all'evidenza filosofica. Hick ci assicura che Kant
avrebbe dimostrato inconfutabilmente che l'assoluto, o Colui che è
l'assoluto, non può essere conosciuto nella storia e come tale non può
trovarsi in essa (15). In base alla struttura della nostra conoscenza,
secondo Kant, non può essere possibile quello che afferma la fede
cristiana: i miracoli i misteri e i mezzi della grazia sono un
illusione, così spiega Kant nella sua opera La religione entro i limiti
della semplice ragione (16). Penso che il problema dell'esegesi e quello
dei limiti e delle possibilità della nostra ragione, ossia delle
premesse filosofiche della fede, costituiscano effettivamente il vero
punto dolente dell'odierna teologia, per il quale la fede, e in misura
crescente anche la fede dei semplici, entra in crisi.
Voglio solo tentare di delineare qui il compito che
ne deriva per noi. Anzitutto, per quanto riguarda l'esegesi bisognerebbe
dire in primo luogo che Hick e Knitter non possono certo appellarsi
all'esegesi in modo globale, come tutto ciò sarebbe un risultato
indiscutibile e riconosciuto da tutti gli esegeti. Ciò non è possibile
nell'ambito della ricerca storica, che non conosce questo tipo di
certezza. Ed è ancor meno possibile quando si tratta di un problema che
non è puramente storico o letterario, ma implica delle decisioni su dei
valori, le quali vanno al di là di una semplice ricostruzione del
passato e di una pura interpretazione di un testo. È vero però che se si
guarda all'esegesi moderna nel suo complesso si può ricavarne
un'impressione che è simile a quella di Hick e Knitter.
Quale grado di certezza vi si può attribuire? Pur
supponendo che la maggioranza degli esegeti pensi così (cosa che però
resta da provare), rimane il problema di vedere su che cosa si fondi una
tale opinione della maggioranza. La mia tesi è la seguente: se molti
esegeti pensano come Hick e Knitter e ricostruiscono la storia di Gesù
in modo simile, ciò è dovuto al fatto che condividono la loro filosofia.
Non è l'esegesi che prova la filosofia, ma è la filosofia che produce
l'esegesi (17). Se so a priori (parlando come Kant) che Gesù non può
essere Dio, che i miracoli, i misteri e i mezzi della grazia sono tre
forme di illusione, allora non posso neppure ricavare dai testi sacri un
dato di fatto che tale non può essere. Posso solo cercare di vedere
come si è giunti a simili affermazioni, come esse si sono formate
gradualmente.
Ma vediamo le cose un po' più da vicino. Il metodo
storico-critico è uno strumento eccellente per leggere le fonti storiche
ed interpretare i testi. Ma esso racchiude anche una sua filosofia,
alla quale in genere si dà poco peso per esempio quando si tratta di
conoscere la storia degli imperatori medievali. Con esso infatti voglio
conoscere il passato, e nulla più. Ma anche in questo caso non si può
prescindere da un insieme di valori, e perciò in questo senso il metodo
ha i suoi limiti. Se si prende in considerazione la Bibbia, subentrano
inoltre due altri fattori. Il metodo intende conoscere il passato come
passato. Vuole afferrare il più possibile ciò che è avvenuto nella sua
fattualità, nel punto preciso in cui è accaduto. E ciò presuppone che la
storia in linea di principio sia uniforme: l'uomo in tutta la sua
varietà, il mondo in tutte le sue differenziazioni, è governato dalle
medesime leggi e dai medesimi limiti per cui io sono in grado di
escludere ciò che è impossibile. Quello che oggi non può accadere in
nessun modo, non poteva accadere neppure ieri e non potrà accadere
domani.
Se questo si applica alla Bibbia, viene a dire che un
testo, un fatto, una persona resta fissato rigidamente nel suo passato.
Si vuole ricavare ciò che l'autore ha detto allora o può aver detto in
passato. Tutto dipende dalla "storicità", da "ciò che è accaduto
allora". Perciò l'esegesi storico-critica non mi trasfonde la Bibbia
nell'oggi, nella mia vita attuale. Questo resta escluso. Al contrario,
essa la allontana da me e me la mostra ben ancorata nel passato. Questo è
il punto su cui Drewermann ha giustamente criticato l'esegesi
storico-critica, in quanto ritiene di essere autosufficiente. Per sua
natura essa non parla dell'oggi, di me, ma di ciò che era ieri, di
un'altra cosa. Perciò essa non può mai mostrarmi il Cristo di oggi, di
domani e dell'eternità, ma soltanto, se vuole restare fedele a se
stessa, del Cristo di ieri. Vi è poi il secondo presupposto,
l'omogeneità del mondo e della storia, quello cioè che Bultmann chiama
la moderna visione del mondo. M. Waldstein con un'approfondita analisi
ha mostrato che la teoria della conoscenza di Bultmann è influenzata
completamente dal neokantismo di Marburgo (18). Di qui egli ha tratto
l'idea di ciò che può esserci o non esserci. Altri esegeti possono avere
una coscienza filosofica meno chiara, ma i presupposti che derivano
dalla teoria kantiana della conoscenza si fanno sentire ugualmente,
anche se solo nel sottofondo, come una chiave ermeneutica spontanea che
guida il cammino della critica. Stando così le cose, l'autorità
ecclesiastica non può semplicemente imporre che si debba trovare nella
Scrittura una cristologia della figliolanza divina. Essa tuttavia può e
deve esortare a valutare criticamente la filosofia che soggiace al
metodo che si adotta. Infine, con la rivelazione divina Egli, il Vivente
e il Vero, irrompe in questo mondo e apre il carcere delle nostre
teorie, con le cui sbarre tentiamo di difenderci contro questa venuta di
Dio nella nostra vita. Per fortuna, nonostante la crisi della filosofia
e della teologia, che stiamo vivendo, si è venuta affermando oggi
nell'esegesi una nuova riflessione sui principi fondamentali,
elaboratasi anche grazie ai dati emersi da un'accurata analisi storica
dei testi (19). Esse ci aiutano a liberarci dal carcere di presupposti
filosofici, di cui soffre l'esegesi: la parola ci si apre nuovamente in
tutta la sua vastità.
Il problema dell'esegesi, come abbiamo visto,
coincide ampiamente con il problema della filosofia. Le difficoltà della
filosofia, ossia le difficoltà in cui si è dibattuta la ragione
orientata in senso positivista, sono diventate le difficoltà della
nostra fede. Quest'ultima non può divenire libera, se la ragione stessa
non si apre nuovamente. Se rimane chiusa la porta della conoscenza
metafisica, se restano invalicabili i confini posti da Kant alla
conoscenza umana, la fede è destinata ad atrofizzarsi: le manca il
respiro. Certo, il tentativo di volersi tirare fuori dalla palude
dell'incertezza, per così dire prendendosi per i capelli, attraverso una
ragione strettamente autonoma, che non vuole sapere nulla in fatto di
fede, non può avere successo. La ragione umana infatti non è per nulla
autonoma. Essa vive sempre in particolari contesti storici. Le
contingenze le offuscano la vista (come possiamo constatare); perciò
essa ha bisogno anche di venir soccorsa sul piano storico, per poter
superare le barriere che le provengono dalla storia (20). Ritengo che il
razionalismo neoscolastico sia fallito nel suo tentativo di voler
ricostruire i Preambula Fidei con una ragione del tutto indipendente
dalla fede, con una certezza puramente razionale; tutti gli altri
tentativi che procedono su questa medesima strada, otterranno alla fine
gli stessi risultati. Su questo punto aveva ragione Karl Barth, nel
rifiutare la filosofia come fondamento della fede, indipendentemente da
quest'ultima: la nostra fede si fonderebbe allora, in fondo, su mutevoli
teorie filosofiche. Ma Barth sbagliava nel definire perciò stesso la
fede come un semplice paradosso, che può sussistere solo contro la
ragione e in totale indipendenza da essa. Una delle funzioni della fede,
e non tra le più irrilevanti, è quella di offrire un risanamento alla
ragione come ragione, di non usarle violenza, di non rimanerle estranea,
ma di ricondurla nuovamente a se stessa. Lo strumento storico della
fede può liberare nuovamente la ragione come tale, in modo che
quest'ultima, messa sulla buona strada dalla fede, possa vedere da sé.
Dobbiamo sforzarci di ottenere un simile dialogo nuovo tra fede e
filosofia perché esse hanno bisogno l'una dell'altra. La ragione non si
risana senza la fede, ma la fede senza la ragione non diventa umana.
Per concludere
Se si guarda all'attuale situazione religiosa, di cui
ho cercato di presentare qualche elemento illustrativo, c'è addirittura
da restare meravigliati che nonostante tutto si continui ancora a
credere cristianamente, non solo nelle forme sostitutive di Hick,
Knitter e altri, ma con la fede piena e gioiosa del Nuovo Testamento,
della Chiesa di tutti i tempi. Come mai la fede ha ancora una sua
possibilità di successo? Direi perché essa trova corrispondenza nella
natura dell'uomo. L'uomo infatti possiede una dimensione più ampia di
quanto Kant e le varie filosofie postkantiane gli abbiano attribuito.
Kant stesso con i suoi postulati lo ha dovuto ammettere in qualche modo.
Nell'uomo vi è un inestinguibile desiderio di infinito. Nessuna delle
risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso
finito, per infrangere la nostra finitezza e condurla nella dimensione
della sua infinità, è in grado di venire incontro alle esigenze del
nostro essere. Il nostro compito è quello di servire a lui con animo
umile, con tutta la forza del nostro cuore.
-----------------------------------
NOTE
(1) Una
panoramica sugli esponenti di maggior rilievo della teologia pluralista
si trova in P. Schmidt-Leukel "Das Pluralistische Modell in der
Theologie der Religionen. Ein Literaturbericht", in: Theologische Revue
89 (1993) 353-370. Per una critica: M. von Brück-J. Werbick, Der einzige
Weg zum Heil? Die Herausforderung des christlichen
Absolutheitsanspruchs durch pluralistische Religionstheologien (QD 143,
Freiburg 1993), K.-H. Menke, Die Einzigkeit Jesu Christi im Horizont der
Sinnfrage (Freiburg 1995), spec. 75-176. Menke offre un'eccellente
introduzione alle posizioni di due rappresentanti principali di questa
corrente: J. Hick e P.F. Knitter; me ne servo ampiamente per le
riflessioni che seguono. Nella trattazione di questi problemi, nella
seconda parte della sua opera, Menke offre degli spunti rilevanti e
degni di considerazione, ma suscita anche qualche problema. Un
interessante tentativo sistematico di affrontare la questione delle
religioni in una prospettiva cristologica è quello di B. Stubenrauch,
Dialogisches Dogma. Der christliche Auftrag zur interreligiosen
Begegnung (QD 158, Freiburg 1995). Del problema della teologia
pluralista delle religioni si occupa anche un documento della
Commissione Teologica Internazionale in via di preparazione.
(2) Cfr in proposito l'istruttivo editoriale della
Civiltà Cattolica, quaderno 1, 1996, pp. 107-120: "Il cristianesimo e le
altre religioni". In esso si stabilisce un confronto serrato
soprattutto con Hick, Knitter e P. Panikkar.
(3) Cfr per es. J. Hick, An Interpretation of Religion. Human Responses to Transcendent (London 1989); Menke, loc. cit. 90.
(4) Cfr E. Frauwallner, Geschichte der indischen
Philosophie, 2 voll. (Salzburg 1953 e 1956); H. v. Glasenapp, Die
Philosophie der Inder (Stuttgart 19854); S.N. Dasgupta, History of
Indian Philosophy, 5 voll. (Cambridge 1922-1955), K.B. Ramakrishna Rao,
Ontology of Advaita with special reference to Maya (Mulki 1964).
(5) Si muove decisamente in questa direzione F.
Wilfred, Beyond settled foundations. The Journey of Indian Theology
(Madras 1993); Id., "Some tentative reflections on the language of
Christian uniqueness: An Indian Perspective", in: Pont. Cons. pro
Dialogo inter Religiones. Pro Dialogo. Bulletin 85-86 (1994/1) 40-57.
(6) J. Hick, Evil and the Cod of Love (Norfolk 19754) 240s.; An Interpretation of Religion, 236-240; cfr Menke, loc. cit. 81s.
(7) L'opera principale di J. Knitter: No Other Name! A
Critical Survey of Christian Attitudes towards the World Religions (New
York 1985) è stata tradotta in molte lingue. Cfr in proposito Menke,
loc. cit. 94-110. A. Kolping ne presenta un'accurata valutazione critica
nella sua recensione in: Theologische Revue 87 (1991) 234-240.
(8) Cfr Menke, loc. cit. 95.
(9) Cfr Menke, 109.
(10) Knitter e Hick, nel rifiutare l'assoluto nella storia, si richiamano a Kant; cfr Menke 78 e 108.
(11) Il concetto di New Age, o era dell'Acquario, è
stato coniato verso la metà del nostro secolo da Raul Le Cour (1937) e
Alice Bailey (la quale affermò di aver ricevuto nel 1945 dei messaggi
relativi ad un nuovo ordine universale e una nuova religione
universale). Tra il 1960 e il 1970 è anche sorto in California
l'istituto Esalen. Oggi l'esponente più famosa del New Age è Marilyn
Ferguson. Michael Fuss ("New Age: Supermarkt alternativer
Spiritualität", in: Communio 20, 1991, 148-157) vede nel New Age una
combinazione di elementi giudeocristiani con il processo di
secolarizzazione in cui confluiscono anche correnti gnostiche ed
elementi delle religioni orientali. Un utile orientamento su questa
tematica si trova nella lettera pastorale del Card. G. Danneels,
tradotta in diverse lingue, Le Christ ou le Verseau (1990). Cfr anche
Menke, loc. cit. 31-36; J. Le Bar (a cura di), Cults, Sects and the New
Age (Huntington, Indiana, s.a.).
(12) Loc. cit. 33.
(13) Bisogna rilevare che si vanno configurando
sempre più chiaramente due diverse correnti del New Age: una
gnostico-religiosa, che ricerca l'essere trascendente e transpersonale e
in esso l'Io autentico, e una ecologico-monista, che si rivolge alla
materia e alla Madre Terra e nell'eco-femminismo si collega al
femminismo.
(14) Le prove sono esposte in Menke, loc. cit. 90 e 97.
(15) Cfr nota 10.
(16) B 302.
(17) Questo si può constatare molto chiaramente
nell'incontro fra A. Schlatter e A. von Harnack alla fine del secolo
scorso, come è descritto accuratamente in base alle fonti in W. Neuer,
Adolf Schlatter. Ein Leben fur Theologie und Kirche (Stuttgart 1996)
301ss. Ho cercato di esporre la mia opinione su questo problema nella
"Quaestio disputata" da me curata: Schriftauslegung im Widerstreit
(Freiburg 1989) 15-44. Cfr anche l'opera collettiva: I. de la Potterie,
R. Guardini, J. Ratzinger, G. Colombo, E. Bianchi, L'esegesi cristiana
oggi (Casale Monferrato 1991).
(18) M. Waldstein, "The foundations of Bultmann's work", in: Communio am. 1987, pp. 115-145.
(19) Cfr per es. il volume collettivo curato da C.E.
Braaten e R. W. Jensson: Reclaiming the Bible for the Church (Cambridge,
USA 1995), e in particolare il contributo di B.S. Childs, "On
Reclaiming the Bible for Christian Theology", ibid. pp. 1-17.
(20) L'aver trascurato questo e l'aver voluto cercare
un fondamento razionale della fede che fosse presumibilmente del tutto
indipendente da essa (una posizione che non persuade per la sua pura
razionalità astratta) è a mio avviso l'errore essenziale, sul piano
filosofico, del tentativo compiuto da H.J. Verweyen, Gottes letztes Wort
(Düsseldorf 1991), di cui parla Menke, loc. cit. 111-176, anche se
quello che egli dice contiene molti elementi importanti e validi.
Ritengo invece più fondata storicamente e obiettivamente la posizione di
J. Pieper (si veda la nuova edizione dei suoi libri: Schriften zum
Philosophiebegriff, Hamburg Meiner 1995).
(12) Loc. cit. 33.
(13) Bisogna rilevare che si vanno configurando
sempre più chiaramente due diverse correnti del New Age: una
gnostico-religiosa, che ricerca l'essere trascendente e transpersonale e
in esso l'Io autentico, e una ecologico-monista, che si rivolge alla
materia e alla Madre Terra e nell'eco-femminismo si collega al
femminismo.
(14) Le prove sono esposte in Menke, loc. cit. 90 e 97.
(15) Cfr nota 10.
(16) B 302.
(17) Questo si può constatare molto chiaramente
nell'incontro fra A. Schlatter e A. von Harnack alla fine del secolo
scorso, come è descritto accuratamente in base alle fonti in W. Neuer,
Adolf Schlatter. Ein Leben fur Theologie und Kirche (Stuttgart 1996)
301ss. Ho cercato di esporre la mia opinione su questo problema nella
"Quaestio disputata" da me curata: Schriftauslegung im Widerstreit
(Freiburg 1989) 15-44. Cfr anche l'opera collettiva: I. de la Potterie,
R. Guardini, J. Ratzinger, G. Colombo, E. Bianchi, L'esegesi cristiana
oggi (Casale Monferrato 1991).
(18) M. Waldstein, "The foundations of Bultmann's work", in: Communio am. 1987, pp. 115-145.
(19) Cfr per es. il volume collettivo curato da C.E.
Braaten e R. W. Jensson: Reclaiming the Bible for the Church (Cambridge,
USA 1995), e in particolare il contributo di B.S. Childs, "On
Reclaiming the Bible for Christian Theology", ibid. pp. 1-17.
(20) L'aver trascurato questo e l'aver voluto cercare
un fondamento razionale della fede che fosse presumibilmente del tutto
indipendente da essa (una posizione che non persuade per la sua pura
razionalità astratta) è a mio avviso l'errore essenziale, sul piano
filosofico, del tentativo compiuto da H.J. Verweyen, Gottes letztes Wort
(Düsseldorf 1991), di cui parla Menke, loc. cit. 111-176, anche se
quello che egli dice contiene molti elementi importanti e validi.
Ritengo invece più fondata storicamente e obiettivamente la posizione di
J. Pieper (si veda la nuova edizione dei suoi libri: Schriften zum
Philosophiebegriff, Hamburg Meiner 1995).
(da: L'Osservatore Romano, 1 novembre 1996)
Nessun commento:
Posta un commento