venerdì 14 febbraio 2020

LEONE PP. XIII LETTERA ENCICLICA GRANDE MUNUS sui Santi Cirillo e Metodio





GRANDE MUNUS

LETTERA ENCICLICA

DI SUA SANTITÀ

LEONE PP. XIII


A tutti i Venerabili Fratelli Patriarchi, Primati,


Arcivescovi e Vescovi del mondo cattolico

che hanno grazia e comunione con la Sede Apostolica.
Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.


  Il grande compito di diffondere il nome cristiano, affidato in modo particolare al Beato Pietro, Principe degli Apostoli, ed ai suoi successori, spinse i Pontefici Romani a mandare annunziatori del Santo Vangelo in tempi diversi ai vari popoli della terra, come era richiesto dalle circostanze e dalla volontà del misericordioso Iddio. Pertanto, come destinarono Agostino curatore di anime presso gli Inglesi, Patrizio presso gli Irlandesi, Bonifacio presso i Germani, Villebrordo presso i Frisii, i Batavi e i Belgi, ed altri sovente presso altri popoli, così concessero a Cirillo e a Metodio, uomini santissimi, di esercitare l’apostolico ministero presso i popoli Slavi, i quali, grazie alla loro premura e al loro impegno, conobbero la luce del Vangelo, e da una vita selvatica furono condotti ad una società umana e civile.
   Se gli Slavi, memori dei benefici, non cessarono mai di celebrare Cirillo e Metodio, Apostoli nobilissimi, con non minore studio la Chiesa Romana li ebbe sempre in grande culto, rendendo onore all’uno e all’altro in molte occasioni mentre vissero, e custodendo le ceneri di uno di essi quando morì.  
   Fin dall’anno 1863 agli Slavi della Boemia, Moravia e Croazia, i quali solevano festeggiare ogni anno Cirillo e Metodio il 9 marzo, fu concesso dalla benignità di Pio IX, Nostro Predecessore di immortale memoria, di celebrare per l’avvenire quella festa il 5 luglio, e di onorare la memoria di Cirillo e Metodio con la sacra officiatura. Né passò molto tempo che, all’epoca del grande Concilio Vaticano, molti Vescovi supplicarono questa Sede Apostolica affinché il culto di quei Santi e la decretata solennità si estendessero a tutta la Chiesa. Ma poiché la proposta fino ad oggi non ha avuto seguito, ed essendosi in quelle contrade mutato lo stato della cosa pubblica, Ci parve giunta l’opportunità di soddisfare i popoli Slavi, della cui incolumità e salute siamo grandemente solleciti. Dunque, poiché non possiamo permettere che in alcuna cosa venga meno ad essi la Nostra paterna carità, vogliamo ampiamente estendere ed accrescere il culto religioso di quegli uomini santissimi, i quali, come una volta, spargendo il seme della fede cattolica tra le genti Slave, le richiamarono dalla morte alla salvezza, così ora col celeste loro patrocinio le difenderanno validamente. E perché più chiaramente emerga quali sono questi personaggi che proponiamo alla venerazione ed al culto dell’orbe cattolico, Ci piace narrare brevemente la storia delle loro gesta. 
 Cirillo e Metodio, fratelli germani, nati a Tessalonica da nobilissima famiglia, in tenera età si trasferirono a Costantinopoli per imparare le umane discipline nella principale città dell’Oriente. Né stette nascosta la scintilla dell’ingegno, che già fin d’allora splendeva nei due giovanetti; infatti l’uno e l’altro impararono moltissimo e rapidamente, soprattutto Cirillo, il quale conseguì nelle scienze tale lode che in segno di onore singolare fu chiamato Filosofo. Non andò molto che Metodio si fece monaco. Cirillo fu poi ritenuto degno dall’imperatrice Teodora, su consiglio del Patriarca Ignazio, di istruire nella fede cristiana i Khazari, che abitavano oltre il Chersoneso, i quali avevano chiesto a Costantinopoli ministri idonei nelle cose sacre. Egli accettò tale incarico di buon grado. Pertanto, recatosi in Crimea tra i Tauri, studiò per qualche tempo, come alcuni affermano, la lingua di quel popolo, e nello stesso tempo gli avvenne, e fu ottimo auspicio, di trovare le ceneri di San Clemente I P. M., che non gli fu difficile riconoscere, sia per il ricordo degli anziani, sia per l’ancora con la quale quel fortissimo martire fu gettato in mare per ordine dell’imperatore Traiano e, come si sapeva, successivamente tumulato. 
 Impadronitosi di questo tesoro così prezioso, penetrò nelle città e nelle case dei Khazari; i quali, istruiti dai suoi precetti e mossi dalla grazia di Dio, distrutte le tante superstizioni, furono da lui condotti a Gesù Cristo. Ottimamente costituita questa nuova comunità cristiana, egli diede una memorabile prova di temperanza e di carità, rifiutando tutti i doni offerti dagli indigeni, eccettuato l’affrancamento degli schiavi che professassero il cristianesimo. Poscia Cirillo ritornò rapidamente a Costantinopoli e si rinchiuse nel monastero di Policrone, nel quale Metodio si era già ritirato. 
 Frattanto la fama delle cose da lui felicemente operate presso i Khazari era giunta a Ratislao, Principe della Moravia. Questi, mosso dall’esempio dei Khazari, chiese all’imperatore Michele III alcuni operai evangelici di Costantinopoli; né ebbe difficoltà ad ottenere quello che richiedeva. Pertanto la virtù nobilitata da tanti fatti e la manifesta volontà che Cirillo e Metodio avevano di giovare al prossimo fecero sì che essi venissero destinati alla missione nella Moravia. Mentre viaggiavano per la Bulgaria, già iniziata alla religione cristiana, in nessun luogo si lasciarono sfuggire l’opportunità di diffondere la religione. Incontrati ai confini del Principato da gran moltitudine di popolo, furono ricevuti in Moravia da moltissima disponibilità e con straordinaria gioia. Né tardarono un momento dall’intraprendere ad educare gli animi nelle dottrine cristiane ed a confortarli con la speranza dei beni celesti. Ciò fecero con tanta efficacia e con tanto operoso impegno, che in poco tempo il popolo Moravo abbracciò con tutto l’animo la religione di Gesù Cristo. 
 A tale opera non poco giovò la conoscenza della lingua Slava, che Cirillo aveva imparato prima, e molto servirono i libri del nuovo e dell’antico Testamento che egli aveva tradotto nella lingua di quel popolo. Per la qual cosa tutta la nazione degli Slavi deve moltissimo a questo uomo, poiché da lui ricevette non solo il beneficio della fede cristiana, ma anche quello della civiltà: infatti Cirillo e Metodio trovarono per primi quelle lettere con le quali è rappresentata ed espressa la lingua Slava, della quale, non a torto, sono ritenuti i padri. 
 Da così lontane e separate province la fama aveva recato a Roma il felice annunzio di quelle imprese. E avendo Nicolò I, Pontefice Massimo, ordinato ai due ottimi fratelli di venire a Roma, questi senza indugio obbedirono e, messisi in viaggio per Roma, portarono con sé le reliquie di San Clemente. A tale notizia, Adriano II, che era succeduto al defunto Nicolò, accompagnato dal Clero e dal popolo per testimoniare un grande onore, uscì incontro agli illustri ospiti. Il corpo di San Clemente, glorificato da improvvisi prodigi, con solenne pompa fu portato nella Basilica innalzata al tempo di Costantino sui ruderi della casa paterna del coraggiosissimo martire. Poi Cirillo e Metodio, presente il Clero, resero conto al Pontefice Massimo dell’Apostolica missione alla quale santamente e laboriosamente si erano dati. E poiché fu loro contestato che avevano operato contro il costume degli antichi e contro regole santissime, in quanto avevano usato la lingua Slava negli uffici sacri, addussero ragioni così forti e sicure che il Pontefice e tutto il Clero li lodarono ed approvarono.     Allora ambedue, dopo aver fatto, secondo la formula cattolica, la professione di fede e aver giurato che si sarebbero mantenuti fedeli al Beato Pietro e ai Romani Pontefici, furono creati e consacrati Vescovi dallo stesso Adriano, e molti loro discepoli furono iniziati a vari gradi dei sacri Ordini. 
 Era però divinamente stabilito che Cirillo finisse in Roma il corso della sua vita il 14 febbraio 869, maturo più nella virtù che negli anni. Furono fatti pubblici funerali, e con magnifico apparato, quello stesso che si usa per i Romani Pontefici; fu posto con ogni onore in quel sepolcro che Adriano aveva preparato per se stesso. Il sacro corpo del defunto, poiché il popolo romano non permise che si trasportasse a Costantinopoli, benché ne facesse accorata domanda la madre, fu portato alla Chiesa di San Clemente e sepolto vicino alle ceneri di questi, che Cirillo aveva per tanti anni custodite con venerazione. E mentre si portava la sua salma per la città, tra il canto solenne dei salmi, con una pompa piuttosto di trionfo che di funerale, parve che il popolo romano volesse tributare all’uomo santissimo un saggio degli onori celesti. 
 Ciò fatto, Metodio, per ordine e sotto gli auspici del Pontefice Massimo, ritornò Vescovo in Moravia, ad esercitarvi i consueti uffici del ministero apostolico. In quella provincia, divenuto con tutto l’animo un esemplare del gregge, si diede tutto agl’interessi cattolici con uno zelo che cresceva di giorno in giorno; resistette fortemente a faziosi innovatori, perché con insane opinioni non guastassero il nome cattolico; istruì nella religione il principe Suentopolco che era succeduto a Ratislao; ammonì il medesimo, che non curava il proprio dovere, lo riprese e infine lo punì con l’interdetto da ogni cosa sacra. Per tali motivi si attirò l’odio dell’empio e impurissimo tiranno, dal quale fu cacciato in esilio. Ma richiamato dopo poco tempo, con opportune esortazioni ottenne che il Principe desse segno di ravvedimento e comprendesse il bisogno di riacquistare con un nuovo tenore di vita l’antico comportamento. È poi meraviglioso che la vigilante carità di Metodio, superati i confini della Moravia, come già ai tempi di Cirillo era arrivata ai Croati e ai Serbi, così ora abbracciava gli Ungari, il cui Principe, di nome Cocelo, egli istruì nella religione cattolica e mantenne nella carica; i Bulgari, i quali unitamente al loro re Bogoris confermò nella fede cristiana; i Dalmati, con i quali divideva e ai quali comunicava i celesti carismi, e i Carinzi, per i quali molto operò al fine di condurli alla conoscenza ed al culto dell’unico vero Dio.  
 Ma ciò gli procurò dei guai. Infatti, alcuni della nuova comunità cristiana, portando invidia ai fatti preclari e alla virtù di Metodio, intervennero presso Giovanni VIII, successore di Adriano, accusando lui, innocente, di sospetta fede e di violata tradizione dei maggiori, i quali nelle sacre funzioni avevano solitamente usato soltanto la lingua latina o la greca, e nessun’altra. Allora il Pontefice, assai preoccupato dell’integrità della fede e dell’antica disciplina, comandò a Metodio di recarsi a Roma per difendersi e liberarsi delle accuse. Questi, sempre pronto a obbedire e confortato dalla testimonianza della propria coscienza, nell’anno 880, presentatosi dinanzi a Giovanni, ad alcuni Vescovi ed al Clero urbano, facilmente provò che egli aveva sempre professato ed insegnato quella fede che, in presenza di Adriano e con la sua approvazione, aveva dichiarato e confermato con giuramento presso il sepolcro del Principe degli Apostoli. Quanto alla lingua Slava, usata nelle sacre funzioni, lo aveva fatto per giuste ragioni, con il consenso dello stesso Pontefice Adriano, non contraddicendovi le Sacre Scritture. Con tale discorso egli si liberò da ogni sospetto, tanto che il Pontefice subito lo abbracciò, e di buon grado gli conferì la potestà arcivescovile e approvò la sua missione nella Slavonia. 
 Inoltre, scelti alcuni Vescovi che dovevano dipendere da Metodio, e della cui opera egli si sarebbe giovato nell’amministrazione delle cose sacre, il Pontefice, munitolo di lettere commendatizie, lo rimandò in Moravia con pieni poteri. Tutte queste cose il Sommo Pontefice volle poi confermare con lettere mandate a Metodio, quando di nuovo egli dovette subire l’invidia dei malevoli.  
 Pertanto, sicuro nell’animo, unito con strettissimo vincolo di carità e di fede al Sommo Pontefice e alla Chiesa Romana, Metodio perseverò con sempre maggior impegno ad espletare la missione assegnatagli; né il positivo frutto della sua opera si fece a lungo desiderare. Infatti, avendo dapprima egli stesso condotto alla fede cattolica Borzivoio, Principe dei Boemi, e poscia Ludmilla, sua moglie, con l’aiuto di un sacerdote, in breve ottenne che fra quella gente il nome cristiano si divulgasse assai e per ogni dove.  Nello stesso tempo si adoperò per introdurre la luce del Vangelo nella Polonia, dove entrò e dove fondò la sede episcopale di Leopoli, dopo avere attraversato la Galizia. Successivamente, come alcuni raccontano, recatosi nella Moscovia propriamente detta, fondò il trono pontificale di Kiev. Con questi allori non certo caduchi, tornò ai suoi in Moravia. Sentendo avvicinarsi la morte, scelse il proprio successore, e dopo avere esortato alla virtù il Clero e il popolo con le ultime raccomandazioni, placidamente uscì da quella vita che per lui era stata la via verso il cielo.  
 Come Roma pianse Cirillo, così la Moravia pianse la morte di Metodio; celebrò con dolore la sua perdita e onorò in tutti i modi i suoi funerali. 
 Di questi fatti, Venerabili Fratelli, torna a Noi graditissimo il ricordo; Ci commuoviamo non poco quando osserviamo splendidamente iniziata fin da tempi remoti l’unione delle genti Slave con la Chiesa Romana. 
 Effettivamente questi due propagatori del nome cristiano, dei quali abbiamo parlato, se ne andarono da Costantinopoli presso popoli pagani, tuttavia fu necessario che la loro missione fosse intieramente comandata da questa Sede Apostolica, centro dell’unità cattolica, o regolarmente e santamente approvata, come fu fatto più volte. Infatti qui, nella città di Roma, essi resero ragione dell’opera intrapresa e risposero alle accuse; qui, presso i sepolcri di Pietro e Paolo effettuarono il giuramento della fede cattolica e ricevettero la consacrazione episcopale, insieme con il potere di costituire la sacra gerarchia, conservando la diversità degli Ordini. 
 Infine, qui fu autorizzato l’uso della lingua Slava nei santissimi riti, e quest’anno si compie il decimo secolo dacché Giovanni VIII, Pontefice Massimo, scrisse a Suentopolco, Principe della Moravia, queste parole: "Approviamo giustamente che le lodi dovute a Dio risuonino nella lingua slava, e comandiamo che nella medesima lingua si narrino gli elogi e le opere di Gesù Cristo Signor Nostro.  Né alcunché si oppone alla sana fede o alla dottrina, sia che si cantino le messe nella stessa lingua slava, si che si leggano il santo Vangelo o le lezioni divine del Nuovo e Antico Testamento, bene tradotte ed interpretate, e si salmeggi nelle altre ore della ufficiatura". Dopo molte vicende, Benedetto XIV sanzionò tale consuetudine con lettera apostolica del 25 agosto 1754. I Pontefici Romani, poi, tutte le volte che furono richiesti di aiuto dai Principi che comandavano sui popoli convertiti al cristianesimo per opera di Cirillo e Metodio, non permisero mai che si avesse a desiderare la loro benignità nel soccorrere, la loro umanità nell’istruire, la loro benevolenza nel consigliare, la loro buona volontà in tutte le cose che potevano. Fra gli altri, Ratislao, Suentopolco, Cocelo, santa Ludmilla, Bogoris sperimentarono, secondo le circostanze e il tempo, l’insigne carità dei Nostri Predecessori. 
 Né con la morte di Cirillo e di Metodio cessò o si indebolì la paterna sollecitudine dei Romani Pontefici per i popoli Slavi, ma sempre rifulse nel tutelare presso di loro la santità della religione e nel conservare la prosperità pubblica. Infatti Nicolò I mandò da Roma, presso i Bulgari, sacerdoti che istruissero il popolo, e i Vescovi di Populonia e di Porto perché ordinassero quella nuova comunità di cristiani. Del pari, a proposito delle frequenti controversie dei Bulgari intorno al diritto sacro diede amorevolissime risposte, nelle quali anche coloro che per nulla sono favorevoli alla Chiesa Romana, lodano ed ammirano la somma prudenza. E dopo la luttuosa calamità dello scisma, è merito di Innocenzo III l’avere riconciliato con la Chiesa Cattolica i Bulgari; e poi di Gregorio IX, di Innocenzo IV, di Nicolò IV, di Eugenio IV di averli mantenuti nella compiuta riconciliazione. Similmente verso i popoli della Bosnia e dell’Erzegovina, ingannati dal contagio di prave opinioni, in modo insigne risplendette la carità dei Nostri Predecessori, cioè di Innocenzo III e di Innocenzo IV, i quali si adoperarono per sradicare l’errore dagli animi; di Gregorio IX, Clemente VI e Pio II, che si adoperarono per fermare stabilmente in quelle regioni i gradi della sacra gerarchia. 
 Né si deve credere che Innocenzo III, Nicolò IV, Benedetto XI e Clemente V abbiano rivolto piccola od ultima parte delle loro cure ai Serbi, dai quali tennero provvidissimamente lontane le frodi, escogitate astutamente per contaminarne la religione. Anche i Dalmati e i Liburni, per la costanza nella fede e per l’adempimento dei loro doveri, si meritarono singolare favore e grandi lodi da Giovanni X, Gregorio VII, Gregorio IX e Urbano IV. Infine, nella stessa Chiesa di Srijem, distrutta nel sesto secolo da invasioni barbariche e successivamente ricostruita con amorosa pietà da Santo Stefano I, re dell’Ungheria, sono molti i monumenti della benevolenza di Gregorio IX e di Clemente XIV. 
 Pertanto Ci pare doveroso rendere grazie a Dio che Ci ha offerto l’occasione opportuna di far cosa gradita alla gente Slava e di esserle utile certamente con non minore premura di quella che mostrarono in ogni tempo i Nostri Predecessori. A questo Noi miriamo, questo desideriamo unicamente: di adoperarci in ogni modo affinché tutte le genti Slave vengano istruite dal maggior numero di Vescovi e di Sacerdoti; affinché si confermino nella professione della vera fede, nell’obbedienza alla vera Chiesa di Gesù Cristo e ogni giorno di più sentano per esperienza quanta ricchezza di beni ridondino dalle istituzioni della Chiesa Cattolica sulla società domestica e su tutti gli ordini della cosa pubblica. 
 Quelle Chiese certamente esigono gran parte delle Nostre cure; né vi è cosa che più desideriamo quanto il provvedere alla loro comodità e alla loro prosperità, a unirle tutte a Noi con quel perpetuo legame di concordia che è il massimo e migliore vincolo di salute. Resta che Iddio, ricco di tutte le misericordie, arrida ai Nostri propositi e assecondi quanto abbiamo intrapreso. Frattanto Noi poniamo quali intercessori presso di Lui Cirillo e Metodio, maestri della Slavonia, dei quali, come vogliamo amplificarne il culto, così confidiamo non Ci mancherà il patrocinio celeste. 
 Pertanto ordiniamo che il 5 luglio, giorno stabilito da Pio IX di felice memoria, sia inserita nel Calendario Romano e della Chiesa universale e si faccia ogni anno la festa dei santi Cirillo e Metodio con Officio e Messa propria, di rito doppio minore, come venne approvato dalla Sacra Congregazione dei Riti. 
 A Voi tutti poi, Venerabili Fratelli, ordiniamo che curiate la pubblicazione di questa Nostra Lettera e comandiate che le cose in essa prescritte siano osservate da tutti i sacri ministri che celebrano l’Ufficio divino della Chiesa Romana, ciascuno nelle proprie chiese, province, città, diocesi e case dei Regolari. Infine vogliamo che per Vostra esortazione e Vostro consiglio, in tutto il mondo si preghino Cirillo e Metodio, perché con quel favore di cui godono presso Dio, in tutto l’Oriente tutelino gli interessi cristiani, implorando costanza per i cattolici e il proposito di riconciliarsi con la vera Chiesa per i dissidenti. 
 Queste cose, come furono sopra scritte, così comandiamo siano stabili e ferme, nonostante le Costituzioni apostoliche emanate dal Pontefice San Pio V, Nostro Predecessore, e da altri sulla riforma del Breviario e del Messale romano, e nonostante gli statuti e le consuetudini, anche immemorabili, e ogni altra cosa contraria. 
 Auspice dei doni celesti e pegno della Nostra particolare benevolenza, a Voi tutti, Venerabili Fratelli, e a tutto il Clero e al popolo affidato ad ognuno di Voi, impartiamo con tutto l’affetto nel Signore la Benedizione Apostolica. 

Dato a Roma, presso San Pietro, il 30 settembre 1880, anno terzo del Nostro Pontificato.

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