sabato 20 luglio 2019

LA BELLEZZA CHE RENDE VISIBILE LA FEDE : L'ARTE DI MATISSE, di Yaryna Moroz Sarno



 










Yaryna Moroz Sarno


      LA BELLEZZA CHE RENDE VISIBILE LA FEDE :
L'ARTE DI MATISSE 
 
“Ogni essere umano, in un certo senso è sconosciuto a se stesso.
Gesù Cristo non soltanto rivela Dio, ma ‘svela pienamente l’uomo all’uomo....’
A contatto con le opere d’arte, l’umanità di tutti i tempi – anche quella di oggi aspetta di essere illuminata sul proprio cammino e sul proprio destino” 

                                                                     Giovanni Paolo II, 
Lettera agli artisti, 4 aprile del 1999




    Il rapporto tra cristianesimo e arti visive si configura nel mondo europeo, pur tra alterne vicende, come la storia di una stretta e feconda alleanza. La relazione tra arte e fede trova le sue giustificazioni negli stessi testi fondatori del cristianesimo, a cominciare dal celebre versetto del Prologo del Vangelo di Giovanni: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria di grazia e verità” (Gv 1, 14). Il Dio invisibile si è reso visibile attraverso una forma.
    Il rinnovamento del rapporto tra Chiesa e arte nell’epoca industriale inizia dal movimento liturgico. Il Movimento Liturgico ebbe origine nel XIX secolo e fu intimamente collegato alla rinascita monastica. La sua matrice teologica va individuata in una particolare visione della Chiesa nel Concilio Vaticano I (1869-1870). Con l’elezione al pontificato di Pio X (1903) il Movimento Liturgico entra in una nuova fase. Nel Movimento Liturgico si prefiggono nuovi scopi, tra questi il ritorno all’arte sacra della Chiesa. Gli insegnamenti di SS. Pio X (in particolare nel suo Motu Proprio) invitano e ispirano gli artisti chiamati ad esercitare un’arte sacra e quindi una formazione che faccia loro conoscere lo spirito e le regole del culto della santa Chiesa.
   Tra i Concili del Vaticano I e del Vaticano II aiutono al diffondersi delle nuove idee le riviste di cultura generale, di storia e di cronache artistiche, e le riviste che propriamente appartengono al mondo della ricerca spirituale e teologica e della formazione pastorale liturgica. Lì si potevano leggerre contributi teorici e anche pratici relativi al decoro e alla bellezza dei luoghi sacri e dove si approfondivano i nessi tra arte e teologia, tra arte e pastorale liturgica. Alle radici della Modernità, tra i secoli XIX e XX, le riviste costituiscono un luogo privilegiato del dibattito culturale, letterario e musicale: attenzione particolare è data al mondo dell’arte e vi si confrontano diverse ipotesi critiche in occasioni di importanti mostre di attualità o di ricognizione storica, soprattutto in Francia e Germania. Nel generale risveglio della cultura cattolica europea, tra fine Ottocento e inizi Novecento,  nella ripresa di un associazionismo cattolico laicale, in cui molti raggruppamenti fanno mostra della propria identità artistica, si evidenzia una professionalità specifica all’argomento dell’arte sacra colto in relazione con la vita del magistero della Chiesa.
  Nel 1931 esce il primo numero di "Arte Sacra". In apertura compare un articolo di Giovanni Battista Montini il futuro Paolo VI: “L’arte sacra deve rinnovarsi. Non ci può essere una semplice imitazione di modelli del passato. Ogni epoca deve creare le proprie forme espressive, secondo la stretta relazione di tradizione tomista Bene-Bello: “Il bello è bene che si offre come spettacolo per fare amare l’essere”.
  Il 7 maggio del 1964 papa Montini nel famoso discorso della Sistina, invita gli artisti a essere protagonisti della vita della Chiesa. Papa Paolo VI disse: «Noi abbiamo bisogno di voi. Il nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché come sapete, il nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligibili, voi siete maestri. È il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è proprio quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità». Tuttavia occorre un rapporto di responsabilità reciproca: «Dobbiamo lasciare alle vostre voci il canto libero e potente di cui siete capaci. E voi dovete essere così bravi da esprimere, da venire ad attingere da noi il motivo, il tema, e qualche volte più del tema, quel fluido segreto che si chiama l’ispirazione, che si chiama la grazia, che si chiama il carisma dell’arte. E, a Dio piacendo, ve lo daremo» (Paolo VI, Omelia nella «Messa degli artisti» [Cappella Sistina, 7 maggio 1964]. Lui invita gli artisti a essere protagonisti della vita della Chiesa. Il 7 maggio, nella cappella Sistina, Papa Paolo VI rivolse agli artisti uno storico discorso: “...Vi abbiamo trattati male, siamo ricorsi ai surrogati, all’opera d’arte di pochi pregi e di poca spesa... Siamo andati anche noi – il culto di Dio sono stati male serviti... non si sa cosa dite, non lo sapete tante volte neanche voi... Ricarichiamo la pace?”[1] Nel 1966 è pubblicata la nota pastorale della Conferenza episcopale sull’Adeguamento delle Chiese secondo la riforma liturgica, documento che sottolinea il rapporto che deve sussistere tra immagini e spazio architettonico. 
  Nel 1999 Giovanni Paolo II si rivolge agli artisti, mettendo in rilievo l’arte come ponte verso l’esperienza religiosa, anche da parte di chi non si riconosce in una esplicita esperienza di fede. Questo ultimo punto costituisce certamente un tentativo importante per ricucire una frattura che sembra risanarsi solo con grande difficoltà: «Voi sapete […] che la Chiesa ha continuato a nutrire un grande apprezzamento per il valore dell’arte come tale. Questa, infatti, anche al di là delle sue espressioni più tipicamente religiose, quando è autentica, ha un’intima affinità con il mondo della fede, sicché, persino nelle condizioni di maggior distacco della cultura dalla Chiesa, proprio l’arte continua a costituire una sorta di ponte gettato verso l’esperienza religiosa. In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, essa è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione» (Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti [4 aprile 1999]. Giovanni Paolo II anche scrive agli artisti: “La vostra arte contribuisca all’affermarsi di una bellezza autentica che, quasi riverbero dello Spirito di Dio, trasfiguri la materia, aprendo gli animi al senso dell’eterno”. Secondo Giovanni Paolo II (nella sua Lettera agli artisti), l’opera d’arte viene considerata come uno strumento di “conoscenza del loro intimo”, ovvero come ricerca di Verità che porta dritto alla scoperta ed all contemplazione della bellezza del Mistero di Dio.
   La Chiesa del XX s. cercava come comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. La Chiesa stava cercando una testimonianza con un linguaggio contemporaneo, il nuovo lingauaggio liturgico e artistico. L’arte è stato un modo per rendere visibile la fede nel mondo contemporaneo. Due tra più importante artisti del XX s. hanno fatto questo ognuno nel suo modo.
                                            Matisse
  Matisse è uno di più grandi artisti del XX secolo. Alla formazione della poetica matissiana concorsero le impressioni di Van Gogh e di Gauguin, la conoscenza delle arti orientali, delle stoffe moresche, della ceramica persiana, i motivi giapponesi, oltre che l’arte africana. Durante la sua lunga vita abbiamo un continuo decantamento dello stile. Abbandonati gli studi giuridici per dedicarsi alla carriera artistica, frequentò a Parigi l'Académie Julian, l'Ècole des Arts Décoratifs e quindi, dal 1895 al 1899, lo studio di G. Moreau all'École des Beaux-Arts, risentendo in questo periodo, attraverso i contatti con Pissarro, delle esperienze dell'impressionismo (La desserte, 1897, Parigi, collezione privata). Dopo alcuni soggiorni in Inghilterra, in Corsica e nella regione di Tolosa, nel 1902 figura con Marquet e Flandrin ad alcune mostre presso la galleria di Berthe Weil a Parigi. Sono di questi anni alcuni orientamenti ben precisi della sua pittura, già volta all'espressione del colore come fatto autonomo, distaccato da ogni rapporto col disegno costruttivo e di riferimento descrittivo (Veduta di Notre-Dame nel tardo pomeriggio, 1902, Buffalo, Albright-Knox Art Gallery). Fu in questi anni che Matisse meditò con rigoroso approfondimento le esperienze neo-impressioniste (Seurat, Signac) e le scoperte dell'arte africana e asiatica attraverso la lezione di Van Gogh e soprattutto di Gauguin.
   Credeva in Dio. Cristiano a modo suo, era persuaso che esistesse una dimensione ulteriore. Per lui Dio era la Bellezza assoluta e quel che contava era raggiungere questa Bellezza. Questo sforzo per accedere al Bello è paragonabile a quello che compie chi cerca di corrispondere alla volontà di Dio.
   Alla soglia degli 80 anni decorò anche la cappella delle suore domenicane di Vence in Francia. Stabilitosi a Vence nel 1943, si dedicò tra il 1948 e il 1951 alla realizzazione della cappella dei domenicani della Madonna del Rosario, il capolavoro dell'ultima attività, esempio fondamentale delle nuove concezioni e dei nuovi orientamenti dell'arte sacra moderna.
   Matisse desiderava fare di quella cappella un insieme organico di bellezza spirituale. La funzione creativa del colore, il colore che crea forme, la vivezza coloristica che tende all’espressione. Un'ampia retrospettiva che ha riunito dipinti, sculture e disegni dell'artista, dai primi paesaggi giovanili fino alle curiose composizioni con forbici e colla create dal Matisse sessantenne, è stata inaugurata nel 1992 al Metropolitan Museum di New York.
    La cappella del Rosario presso il convento delle suore domenicane di Vence, nel Sud della Francia, è un'opera "totale" di un grande maestro del XX secolo: Henri Matisse. Così lui la definiva "la mia opera", e ad essa lavorò nell'ultimo decennio della sua vita.
   Nel 1941 Matisse, convalescente a Nizza, suo luogo di elezione per la luce mediterranea, è curato da una giovane infermiera che, a guarigione avvenuta, decide di farsi suora.






   Ma tra i due è scattata un'intesa spirituale. Infermiera di Matisse, poi modella dei suoi quadri, poi suora, colei senza la quale “la cappella di Vence non è completa”, secondo le parole stesse di Matisse. Monique Bourgeois è la giovane donna che, nel settembre del 1942, a Nizza, divenne infermiera del maestro Henri Matisse, appena operato di tumore all'intestino. Lei stessa, ammalata, si ritirerà in un convento domenicano a Vence dove si incontrerà nuovamente con Matisse. Il convento necessita di una cappella.
  L'ordine domenicano, nell'immediato dopo guerra, è all'avanguardia nel costruire chiese e nel commissionare vetrate e arredi liturgici affidandosi ai maggiori artisti contemporanei. Su consiglio di suor Jacques-Marie un giovane domenicano entusiasta del rinnovamento dell’arte sacra fra Rayssiguier, istruito da padre Couturier, va a trovare il pittore e gli espone il progetto per una cappella.
   Nelle parole di Matisse stesso o di sr. Jacques-Marie o dei consulenti che lo coadiuvarono nella progettazione, intravediamo spesso, il cosciente richiamo a questa storia, alla tradizione cristiana che da forma alla bellezza. Il reciproco rapporto fra linea e colore viene, nella cappella di Vence, volutamente utilizzato ad esprimere il rapporto fra la creazione e la salvezza, fra l'opera di Dio nella natura e nella incarnazione di Cristo, opera rinnovata continuamente nell'evento liturgico della celebrazione che avviene in un edificio sacro.
   Matisse ha carta bianca, fa tutto: un'architettura di luce semplice e razionale con vetrate che vestono di colore la cappella. L'ambiente è decorato con grandi pannelli di mattonelle in ceramica bianca disegnate con un largo tratto di pennello nero. Una stupenda Madonna con Bambino, una superba Via Crucis e un gran San Domenico. Tutto è luce, tutto è colore e spirito.
  La prima pietra viene posta nel 1949 e l'inaugurazione e la consacrazione a Nostra Signora del Rosario avvengono nel 1951. H. Matisse, commentando la Cappella di Vence, diceva: “Il mio lavoro consiste nell'imbevermi delle cose”. Henri Matisse anche disse: “...quest'opera mi ha richiesto 4 anni di lavoro esclusivo e assiduo ed è il risultato di tutta la mia vita attiva. La considero nonostante tutte le sue imperfezioni, come il mio capolavoro”.
   Matisse propone una arte sintetica del tutto. Suo capolavoro è appunto l’opera della sintesi, della complessità espressa con la massima semplicità, è la sintesi delle arti, sintesi di rappresentazione e decorazione, di simbolo, di coloce e linea. Sua concezione è che l’arte può penetrare le supreme verità dell’essere, le infinite armonie dell’universo, che bisogna andare oltre. Il bello già non è come una forma finita, ma continua, ritmica, non può essere equilibrio statico, un ritmo regolare, ma elastico, e il salire d’intensità e verticalità dove la sensibilità eccitata vola oltre il proprio limite, nella dimensione transcendente.
   La linea è una delle sue caratteristishe fondamentali. La linea di contorno divenne protagonista della sua arte sin dall’inizio, assieme alla radiosità dei toni puri. Le figure senza volto sono una delle caratteristiche stilistiche dell’opere di Matisse. Il motivo della perdita del volto è da ricollegare all’influssi dell’Orienre nell’opera di Matisse.
   Dal 1941 Matisse è costretto su una sedia a rotelle in seguito all’asportazione di un tumore all’intestino continua a lavorare nel suo studio dell’Hotel Regina di Nizza.
    É l’inizio di una nuova tecnica di espressione: Matisse raccoglir fogli colorati a tempera e li ritaglia formando composizione. Sono i papiers découpés, fusione ultima di luce e colore, apoteosi della stesura à plats, esplosione di grandi macchie di tinte pure, sintesi bidimensionale privilegiata dall’artista. Forme e colori diventano i protagonisti assoluti di un universo, è il gioco dell’armonia.
   Dal 1948 al 1951 Matisse si dedica alla decorazione della Cappella del Rosario a Vence, iniziata per ringraziare le suore domeniche che lo hanno assistito come infermiere nell’ospedale in cui è stato operato. L’albero della vita si compone di due pannelli delle vetrate dell’abside della Cappella.
  Scelta per la qualità della luce, una “pittura architettonica” che potrebbe rappresentare l’esito ultimo delle sue precedenti ricerche. 

Il disegno con forbici.
I cartoni diventano ora il pezzo forte della Collezione d’Arte Religiosa Moderna dei Musei Vaticani
  Le vetrate proiettano la luce ed il colore sull’altare in modo da rappresentare la Gerusalemme celeste di Apocalisse 21. Matisse accolse l’idea. Cercando il materiale da utilizzare dichiarò: “Pensando a questo “vetro cattedrale” ho rivisto il passaggio della Gerusalemme celeste: un fiume d’acqua viva, chiara come il cristallo, che sgorga dal trono di Dio e dell’Agnello”. Scrive Matisse : "La scelta dei miei colori non si fonda su alcuna teoria scientifica: si basa sull’osservazione della mia sensibilità. ... cerco semplicemente di metter giù colori che rendano la mia sensazione...".
  L'idea che sovrana si impose a lui è quella dell'Albero della Vita, quell’albero perso da Adamo ed Eva, quell'albero che solo resta alla fine dell'Apocalisse, quando, con la scomparsa del peccato, non ha più posto l'albero della conoscenza del bene e del male, ma solo la vita continuamente donata e rinnovata da Dio. Matisse chiamò la vetrata “L'Albero della Vita”: “La vetrata l'Albero della Vita porta sempre sovranamente la mia idea”.




















  La linea nera sulle ceramiche bianche, riproponendo le figure cristiane di S. Domenico, della Madonna, e soprattutto del Cristo che sale la via della croce, diviene, invece, il luogo espressivamente più significativo dell'edificio, pur nel continuo rimando al colore che dalle finestre viene proiettato sul bianco e nero delle pareti.
  Nella sua ricerca pittorica, Matisse aveva già sperimentato la rappresentazione di figure umane senza i lineamenti degli occhi e del naso, ma solo con i contorni del viso. Dopo esitazioni – possediamo i disegni preparatori della Vergine e del Bambino con i lineamenti delineati – si decise per la stessa soluzione per le figure della cappella.













   La Via Crucis non è una processione. Di fronte a quel dramma più profondo dell’umanità, l’artista non può rimanere soltanto uno spettatore. Via della Croce è l'incontro dell’artista con il grande dramma di Cristo che fa riversare sulla cappella lo spirito appassionato dell’artista. Invece di riprodurre questo dramma, egli l’ha vissuto e l’ha espresso così.















La Cappella del Rosario concepito da Henri Matisse dal 1948 al 1951 è un monumento d’arte sacra unico al mondo. Matisse elabora i piani dell'edificio e tutti i dettagli della sua decorazione: vetrate, ceramiche, stalli, acquasantiere, oggetti di culto, paramenti sacri.... Per la prima volta un pittore realizza interamente un monumento dall'architettura al mobilio, alle vetrate.































H. Matisse, Il tondo con la Vergine ed il Bambino all'esterno della Cappella












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[1] Paolo VI, Incontro con gli artisti nella cappella Sistina, in Insegnamenti di Paolo VI, II. 1964. Città del Vaticano 1965, pp. 315-316.
[2] Giovanni XXIII, Discorso all’Adunanza di chiusura della IX Sattimana di studio promossa dalla Pontificia Accdemia di Arte Sacra in Italia, 27 ottobre, Libreria Editrice Vaticana.




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Fonte : scritti e appunti della dott.ssa Yaryna Moroz Sarno, e-mail: yarynamorozsarno@gmail.com .
Sito web: https://yarynamorozsarno.blogspot.com










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