Francesco
Di Ciaccia
Il messaggio universale
della devozione
mariana:
“A la Beatissima Vergine di Loreto” di
Torquato Tasso
Quando Torquato Tasso si recò a Loreto
il 27 ottobre 1587, scrisse
una Canzone che il critico Fabbroni definì «gravissima
e piena di sublimi sentimenti
ispiratigli dalla santità del luogo»[1].
Il poeta, da più di un anno ormai uscito
dall’isolamento di
Sant’Anna, avverte con evidente soddisfazione il largo panorama che gli
si
presenta intorno: da una parte, il «grande
e spazioso mare» (v. 2), e
dall’altra l’alta rupe, ov’in marmorea mole
è «custodita l’umil
casa» che «il mondo onora e cole» (vv. 19-20).
Il sollievo dell’autore è ravvisabile
già all’inizio della Canzone,
in quel suo contemplare lo «splendor» della «santa
Stella», che lo ha «scorto»
«fra le tempeste e i fieri venti» (v. 1), e in quel suo
riguardare al luogo «ove
il tuo lume scintillando appare / e porge al dubbio cor dolce conforto» (vv. 5-6).
C’è, in tutta la prima stanza, il
sentimento gratificato del
salvato, con l’intuizione e l’espressione che era stata già di Dante:
lo
scampato dalle onde si volge indietro a riguardar il pericoloso
tragitto, e,
ormai raggiunta la sicurezza del «lido»
o «porto»
(v. 10), si ripensa «in terribil
procella ov’altri
è morto» (v. 7).
Nel suo smarrimento dell’Inferno (canto
I), Dante aveva
usato appunto la stessa immagine, e francamente con molto più efficacia
(vv.
22-24): «E come quei
che con lena affannata / Uscito fuor dal pelago alla riva / Si volge
all’acqua
perigliosa, e guata».
Anche per l’Alighieri, come ora per il
Tasso, il pericolo
era costituito dalle «fiere» che impediscono all’uomo
di camminare per la retta via, e, ancora per i due poeti, la salvezza
sarebbe venuta
grazie all’intercessione di Maria, «donna
del ciel».
Ma nel Tasso – senz’altro più che in
Dante, la cui
determinazione psicologica e forza decisionale valevano da efficace
difesa sia
contro i «colpi di
sventura» sia contro
le «bramose voglie» –, la gioia del pericolo
scampato contiene tutta l’amarezza di quel pericolo medesimo, vissuto
nella sua
possibilità negativa e sottolineato dallo spavento per le «tempeste»:
termine che,
strutturalmente, appare ossessionante con tutte le sue varianti
lessicali.
Sono ricordati, con sollievo ma con
pesante insistenza, i «fieri venti» e l’onda «della
vita mortal» (v. 11), «in cui affonda»
(v. 12) spesso l’«alma gravosa e
carca» (v. 13).
Ancora grava sull’animo dell’autore la
terribile esperienza
dei conflitti interiori e della malattia mentale. È vero che anche in
Dante,
sperduto nella «selva
oscura» «aspra e
forte / Che nel pensier rinnova la paura»,
si erano alternate speranza[2]
e
disperazione[3],
orrore per il male
minacciante[4]
e fiduciosa allegrezza[5];
ma
bisogna dire che Dante era avvantaggiato dalla mediazione della
ragione. Il
Tasso è, invece, più sensitivo e tormentato psicologicamente, e per un
certo
verso più ancora di Francesco Petrarca, indeciso sì, ma con dei
riferimenti
ideologici più sicuri. Non dimentichiamo che Torquato Tasso vive in un
secolo
che aveva lasciato, in buona parte, alle sue spalle la problematica
religiosa e
che, se la riconquista, la riconquista nell’ambascia.
Tuttavia, è proprio per questo che, nel
Tasso, ottiene una particolare
valenza l’umiltà della preghiera mariana del poeta: non già perché nei
più
grandi autori precedenti la Vergine non si sia imposta nella sua
imponente
figura mediatrice; ma perché nel Tasso questa maternità benigna è
vissuta con
spirito forse più disarmato che in altri, più ancora che nello «sconsigliato»[6]
Petrarca. Qui il
Tasso esprime tutta la sua fragilità umana, la sua anima sofferente, le
sue
paure, e insieme tutto il suo abbandono quasi infantile.
Fin dalla prima stanza è rimarcabile la
contrapposizione costante
fra male e bene, tempesta e sereno: ciò evidenzia, qui, il messaggio
tassiano.
Tutto il panorama naturalistico ha, simbolicamente, un riferimento
morale: alla
tempesta fa contrasto la stella (v. 3), ripetuta nella seconda stanza
con
insistenza stilisticamente enfatica, a fine di verso e ad inizio del
successivo. Il termine, usato da San Bernardo[7]
e,
dopo di lui, molto comune nella poesia mariana del ‘200[8]
e del
secolo successivo, giustificato semanticamente da Tommaso d’Aquino[9]
ed introdotto
ufficialmente sia nella liturgia sia nei documenti pontifici[10],
ha
qui una coreografia appropriata nel contesto marittimo preso sia come
significato poetico sia come significato etico.
Maria «dimostra
co’ raggi / i sicuri viaggi»
(vv. 8-9), e il suo brillare conduce l’uomo, con sicurezza, là «onde nacque la serena
luce, / Luce di non creato e sommo Sole».
Il termine «luce»
è anch’esso classico per significare Gesù, addirittura biblico e poi
divenuto
pacifico nel dominio letterario; il «Sole» rimanda
all’Apocalisse[11].
Servendosi di questa terminologia, il
Tasso opera una
descrizione trinitaria tentando, nella iterazione di «luce»,
di imitare Dante[12].
Non
è all’altezza, onestamente, del poeta teologo. Ma il Tasso perviene ad
un apice
di bellezza stilistica e poetica nell’affettuosa contemplazione della
casa «che già Maria col santo
Figlio accolse» (v.
41). Accogliendo la tradizione sulla «casa
di Loreto» il poeta continua sul
filone strutturale del mare, poiché
gli angeli «portar (“il
santo albergo”, v. 40) sovra i nembi e sovra l’acque» (v. 42).
Dunque, «Questo
è quel monte ch’onorar ti piacque / delle tue sante mura, / Vergine
santa e
pura» (vv. 46-48).
Su questa base, egli eleva il «miracol
grande» (v. 43) alla
contrapposizione teologica tra il prodigioso
divino, «a cui
sollevo ed ergo / la mente»
(vv. 43-44), e il prodigioso umano: quest’ultimo è, per quanto
mirabile, pur
sempre limitato e, in fondo, avvilente, tale che sotto di esso l’anima «oppressa giacque» (v. 45).
L’orizzonte teorico è certamente
pessimistico; ma non
bisogna trascurare sia il sottofondo controriformistico dell’epoca, sia
la conflittualità
dello stesso autore, sia il debito letterario dal «classicismo»
petrarchesco. Ma, a parte ciò, non bisogna neppure
dimenticare che per la stessa spiritualità testamentaria il mondo
umano, pur
esaltato e ingrandito dalla presenza del Creatore e del Padre, risulta,
nei
riguardi di quella centralità assoluta che è il divino, senz’altro
inferiore e «posto nella
contraddizione».
Di fronte a questo segno del divino che
è la casa di Loreto,
il Tasso si sofferma, con una serenità che si configura anche in una
stilistica
classicheggiante, sull’eccezionalità di ciò «ch’io
rimiro» (v. 60): realtà più
grandiosa delle «altre meraviglie
antiche» (v. 56), soprattutto
perché – e questo è l’importante rilievo teologico – le opere di Loreto
sono «d’umiltà» (v. 65).
Infatti, al monumento lauretano hanno
contribuito scultori
superiori ai «magisteri
[...] di Fidia» (vv.
72-73), i quali hanno cinto di «marmo»
la «viva pietra / sì
rozza» (vv. 66-67)
della casa di Maria; vi hanno contribuito pittori con «il color, lo stile» degni del santuario.
Ma tutto ciò è stato compiuto in modo da
esprimere il senso
dell’umiltà interiore e della pietà commossa (cfr. vv. 76-78).
Arte e doni, opere dell’ingegno e
offerte materiali (cfr. v.
95) sono ordinati ad esaltare colei che «tutto
il cielo onora» (v. 70), per rendere
omaggio alla mediatrice di ogni
grazia (cfr. v. 69), e così gli uomini da tante parti del mondo sono
attratti a
«rimirar la santa
immago» (v. 79). Ed è
questa, sostiene il Tasso, la grandezza essenziale della casa lauretana.
Questa convinzione emerge
dall’intrecciarsi costante degli elementi
celebrativi e di quelli teologici. Da qui risulta che la composizione
tassiana,
pur occasionale e galvanizzata dallo stupore di fronte allo scenario
del luogo
e della Basilica, ha la sua ispirazione fondamentale nel pensiero
cattolico
della grazia che passa attraverso Maria, e dell’umiltà dell’uomo che
onestamente trova, attraverso di lei, fiducia in Gesù Cristo. Neppure
la
struttura classicheggiante (cfr. in particolare vv. 107-117), del resto
drammaticizzata
come in tutta l’opera tassiana dal travaglio della problematica
intimista, può
riuscire ad offuscare la teologia, e soprattutto la pietà, di questa
Canzone.
L’espressione «celeste Diva»
è di gusto classico, ma, nella sostanza, non è estranea
alla patristica e alla liturgia. L’aggettivazione è giustificata nella
Canzone
dal merito speciale di Maria, «che
scaccia i nostri mali» (v. 86), e «il cui pregar per grazia al cielo arriva» (v. 88).
È qui ripreso, con qualche eco anche
stilistica e lessicale,
il concetto dantesco del Paradiso,
XXXIII, 14 e petrarchesco della Vergine
bella che di sol vestita, 42. In questa poesia del Tasso
specificamente
intonata alla figura lauretana, l’eccezionalità di Maria, distributrice
di
grazia, trova quasi una materializzazione iconografica nell’«immagine esaltata» (v. 106) posta all’interno
della Basilica, simbolo di colei che è «sublime
/ sovra ogni altezza de’ celesti cori»
(vv. 106-107): ciò che
ricorda, letterariamente, il «trono
celeste» menzionato
da Sisto IV, ancora nel sec. XV, e poi l’immagine liturgica[13].
Alla fine della Canzone, il materiale
composito si determina
con chiarezza emotiva sul tema più intimo di tutta la problematica
tassiana: il
bisogno di misericordia. Se fin dall’inizio l’ispirazione poetica verte
sul
bisogno di pace, qui essa si formalizza come urgenza intuitiva del
pensiero.
Succede, ora, una stesura di umile preghiera.
Ancor sempre in uno schema tradizionale
di dichiarazione della
propria insufficienza a parlare della Vergine («di lodare il tuo nome indegno io sono», v. 120), seguito già da
Dante in forma ben più aulica, il Tasso pone un principio essenziale
alla religiosità
cristiana. Egli ritiene che non sia tanto importante il «canto»,
quanto il «pianto»
(v. 121):
«Quel
ch’io sperai cantando, / vagliami de’ lamenti il mesto suono» (vv. 126-127).
Con una perifrasi allegorica, e forse un
po’ appesantita da
un uso già barocco della metafora, come quell’«onde / dell’amorose lacrime» (vv. 121-122), il poeta «chiede»,
in sostanza, la risurrezione grazie ai meriti di Maria («sicch’io per te risurga», v. 132) «dal
fondo di mie colpe
oscure ed atre» (v.
34). E questo, riformulato senza gli orpelli rinascimentali di
imitazione petrarchesca,
significa conversione, «caro
della tua grazia e santo dono»
per colui «che
sovente impetrò pace e perdono» (vv.
123-124).
Pur nel suo debito letterario
petrarchesco, il Tasso si
distacca spiritualmente e ideologicamente dal più compiaciuto poeta del
Trecento nel non fare alcun assegnamento ai propri scritti, anche se è cosciente delle «cangiate rime»
(v. 109) rispetto alla
letteratura profana prodotta (cfr. vv. 33-34).
Alla «Regina
del ciel Vergine e Madre»
(v. 131), alla «consolatrice
degli uomini che mai si stanca di intercedere davanti al Re», come diceva Sisto IV,
il Tasso chiede l’essenziale: di salire «ove
tua gloria alfin rimiri / ... / su nel sereno dei
lucenti giri» (vv.
135 e 137). Al seguito dell’immaginazione poetica di Dante, il Tasso
congiunge
così il travaglio soggettivo con il concetto teologico, in cui esso si
sublima
religiosamente, come aveva unito, nella stessa Canzone, il momento
coreografico
della «casa di
Loreto» con il
momento devozionale.
[1]
Per il testo, cfr. Rime sacre e morali di Torquato Tasso,
in Scelta di poesie liriche, Firenze
1939, pp. 624 ss. Più recentemente, in Poesie,
a cura di F. Flora, Milano-Napoli 1952.
[2]
Inferno, I, 41 e 43: «Sì
che bene
sperar m’era cagione /.../ L’ora del tempo e la dolce stagione».
[4]
Cfr. ibidem, vv. 57, 90, e passim.
[5]
Cfr. ibidem, vv. 133 ss.
[6]
Vergine bella che di sol vestita, v. 26.
[8]
Es., in Garzo dall’Incisa,
nelle laudes in generale, in
Francesco Petrarca, ecc.
[10]
Es., in Sisto IV
(1471-1484). Cfr. E. CATTANEO, Il culto
cristiano in Occidente. Note storiche, Roma 1978, p. 315.
[11]
Ap 22, 5.
[12]
Paradiso, XXX, 40. Cfr. la perfetta definizione
trinitaria, ibidem, XXXIII, 124.
[13]
«Exaltata
est sancta Dei Genitrix super choros Angelorum ad coelestia regna», Assunzione di Maria.
Fonte : scritti
e appunti del Prof. Francesco Di Ciaccia .
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