DAVIDE ORLER
pittura come mistero della contemplazione
“Entrando da Lei, l’angelo disse: “Ti saluto, Maria, o piena di
grazia, il Signore è con Te! ”” (Lc. 1, 28).
Annunciazione
Davide
Orler nasce a Mezzano di Primiero, in Trentino, il 16 febbraio 1931.
Autodidatta, si interessa di pittura fin da ragazzo insieme all'amico Riccardo
Schweizer, più vecchio di lui di sei anni, che lo introduce nel «difficile mondo
dell'arte moderna», come scrive l'artista stesso nella memoria-intervista
redatta insieme a Martino Rizzi.
Nel 1946, a soli quindici anni, lascia il paese
natale per recarsi a Venezia, città dei suoi sogni: il brevissimo soggiorno di
una settimana sarà sufficiente a rafforzare la sua intenzione di trasferirvisi,
appena possibile, per dedicarsi alla pittura.
A diciotto anni, «per evitare di essere trasferito
negli alpini e per amore del mare», si arruola volontario in Marina, ove resterà
per l'anno di addestramento e per tutti gli otto anni regolamentari della ferma,
cioè fino al 1957, imbarcato sui dragamine e su altre imbarcazioni in servizio
di pattugliamento nei mari italiani, soprattutto nello Ionio e nel Canale di
Sicilia.
Nascono in questi anni i primi importanti paesaggi
di Mezzano, altri scorci paesaggistici influenzati dalla luce e dai colori del
Mediterraneo, roventi tele che registrano personaggi e vicende quotidiane (Stromboli,
Vecchia siciliana) ed anche incidenti e tragedie che colpiscono a fondo
il giovane (Terremoto a Salina, Il recupero degli alluvionati a
Salerno).
Frutto fors'anche di questa dolente attenzione per
il dolore dell'uomo, matura nell'artista un profondo travaglio spirituale che lo
riavvicina alla religione e lo spinge verso l'arte sacra, filone espressivo che
egli coltiverà negli anni successivi, dedicando un'attenzione particolare alla
figura dell'Ecce Homo e del Cristo morto, fino a giungere alle
rasserenate "visioni" vetero e neo-testamentarie degli ultimi dieci anni. Nel
1957, terminato il servizio nella Marina, Orler si stabilisce a Venezia, dove
già nel marzo precedente ha tenuto la sua prima personale alla Galleria San
Vidal. La sua opera riscuote immediato interesse nel vivacissimo ambiente
artistico della Venezia di quegli anni, caratterizzato dalle ricche Biennali,
dalla presenza di collezionisti e mecenati come Peggy Guggenheim e dalla
continua attività di gallerie e associazioni come l'Opera Bevilacqua La Masa.
Presso la sede di quest'ultima si tiene in novembre la seconda mostra
dell'artista che espone 240 ceramiche, ben presto ripudiate e gettate in mare
come atto di totale rifiuto. La personale gli vale in premio l'assegnazione per
quattro anni di uno studio a Palazzo Carminati, dove già lavorano molti fra i
più promettenti artisti veneziani.
A questo periodo che può essere definito "picassiano"
(valgono a dimostrarlo fra tante opere i Collages del I956, fa appunto
seguito un profondo ripensamento che nell'estate del 1958 porta il giovane
artista a mutare il suo linguaggio, cercando di riallacciarsi alle sue radici
culturali per dar vita a una pittura figurativa in bilico fra la descrizione
minuziosa, analitica del paesaggio e dei suoi abitanti ed una dimensione di
sogno in cui la realtà assume i colori della fiaba.
Nell'autunno del 1958 l'artista trentino, grazie
all'invito dei curatori, tiene una personale con le sue nuove opere al Musée
Picasso di Antibes. È per Orler l'occasione per far conoscere il proprio lavoro
in ambito internazionale e per incontrare alcuni fra i maggiori protagonisti
della vita artistica e culturale del periodo, dallo stesso Picasso a Germaine
Richier, da Jean Cocteau a Jacques Prévert. Si tratta di un'esperienza
estremamente importante e formativa per il ventisettenne pittore che negli anni
immediatamente successivi, rafforzata la fiducia in se stesso e nei propri mezzi
espressivi, continua a dipingere con entusiasmo e a esporre i risultati del suo
lavoro in continue mostre personali a Venezia, Novara, Vercelli, Brescia, alla
Biennale d'Arte Sacra dell'Antoniano di Bologna, alla Biennale di Milano e alla
Quadriennale di Roma.
Lasciato l'atelier di Palazzo Carminati, nel 1962 il
pittore apre con il fratello una bottega di tele e telai in Campo Santa Maria
Mater Domini, bottega che diviene ben presto per gli artisti veneziani luogo di
incontro e di scambio di opere, tanto che i fratelli Orler diventano anche un
punto di riferimento per molti amici pittori, dei quali prendono a collezionare
e a commerciare i lavori. Nel 1963 Orler si aggiudica ex aecquo con Vincenzo
Eulisse il Primo Premio per la Pittura all'Opera Bevilacqua La Masa e in tale
occasione la Galleria d'Arte Moderna di Ca' Pesaro gli acquista un grande
dipinto dello stesso anno, Funerale a Mezzano.
Mentre si ripetono anche i viaggi e i soggiorni in
Italia meridionale e soprattutto nell'amata Sicilia - nel 1964 e nel 1970 Orler
è ancora a Palermo, Sciacca e a Stromboli - nel 1965 inizia in lui quella
passione per la pittura russa di icone che lo porterà a diventare anche un
appassionato collezionista del settore.
A causa di questo allargamento (che è anche un
mutamento) di interessi, il pittore continua a dipingere soprattutto per sé nel
suo nuovo studio di Favaro Veneto, senza più curarsi di mostre e premi, e senza
più aspirare a una presenza significativa sulla ribalta artistica nazionale. La
sua produzione si mantiene però costante con sperimentazioni di tecnica e
linguaggi diversi: dalla ripresa del collage nel 1968-1972 - con inserti nei
dipinti a olio o acrilico di particolari di pitture bizantine e altomedievali -
agli assemblaggi con materiali di recupero dei primi anni Settanta (ciclo degli
Inquinamenti); dalla pratica della decorazione a fresco in chiese del
Transvaal in Sudafrica, nel 1972, e della Tanzania, nel 1978, alle sculture in
ferro della fine degli anni Settanta.
Negli anni '90 Orler pare ritrovare una nuova
giovinezza creativa con il ciclo de La Bibbia, un centinaio di dipinti
dedicati al Vecchio e al Nuovo Testamento, e con la recente serie dei
Miracoli.
“[Gesù]
giunse al posto chiamato ‘Cranio‘, in ebraico Golgota, dove lo crocifissero” (Gv.
19, 17-18).
La Crocifissione
Quasi un testamento artistico e
spirituale ,
di Davide Orler
Il percorso dell’arte, in particolare dell’arte cristiana,
che ha cercato di trasmettere e tradurre quel dialogo che Cristo stesso volle
infondere all’intera umanità, non poteva e non può che girare attorno ai vari
soggetti storici, interpretandoli. Iniziando dalle più lontane fonti bibliche e
giungendo ai Vangeli, dalle catacombe in poi l’arte cercò un nuovo linguaggio.
L’arte stessa tentò più volte di aprire la porta per arrivare al mistero divino,
ma senza dare che qualche flebile intuizione di esso, rimanendo
spesso un balbettio dell’uomo che tenta di sviscerare quel mistero stesso,
quella poetica che, una volta raggiunta potrebbe giustificare gli sforzi
dell’artista.
È
questo, quindi, il compito dell’arte: tentar di tradurre quel messaggio che ci
potrebbe condurre al mistero della contemplazione, esponendoci a quelle luci
‘taboriche’ che, in certi momenti, hanno raggiunto vette alte nell’iconografia
occidentale e orientale.
Dopo
il Rinascimento lentamente l’arte perde sempre più quell’intima spiritualità che
nutriva la Chiesa dei primordi. Agli inizi del Novecento, tutto sfociò in quell’assoluta
libertà di frantumare e dimenticare ogni canone che potesse servire al
proseguimento della strada intrapresa in passato. L’arte ha acquisito nuovi
linguaggi, ma tutti rivolti all’arte per l’arte, ma senza il supporto per il
quale essa avrebbe dovuto servire, quindi come una nuvola in balia del vento,
fine a se stessa, farneticante nella pretesa di spiegare tutto e creare valori.
E in ultima analisi, autentiche frodi che concorrono solamente a sorreggersi a
vicenda in questa pseudoarte.
Tutto
ciò spinse Paolo VI nel 1964 a indirizzare quella lettera agli artisti,
invitandoli a porre il loro operato al servizio dell’uomo e della Chiesa. Le
nuove istanze artistiche devono essere rafforzate ed integrate, coniugando
quanto è stato fatto nel passato, con le idee promosse dal Papa.
La
libertà assoluta di accogliere qualsiasi forma di religiosità, in una sorta di
sincretismo religioso, non può che condurre ad un panteismo dissacrante, fine a
se stesso, al trionfo della materia sullo spirito, sostituendosi ai veri ideali
e valori che debbono essere perseguiti. Pochissimi artisti percepirono il
pericolo e il baratro che l’arte aveva scavato agli inizi del Novecento,
percorrendo una propria strada, priva di quel significato e di quella realtà
spirituale verso cui deve tendere ogni sforzo umano. George Rouault fu il primo
a capire ciò, avendo il coraggio di distruggere le vecchie opere e iniziare così
una pittura di carattere esclusivamente religioso; lo stesso Marc Chagall
affrontò temi biblici, influenzato forse dall’arte sacra russa, dopo aver
trattato anche temi profani e proseguì fino alle splendide realizzazioni nella
cappella di Saint Paul de Vence. Lo stesso Matisse era stato folgorato dalla
spiritualità delle icone; Felice Carena, nel suo periodo veneziano propose nelle
ultime deposizioni un profondo
pathos,
carico di sofferenza e di amore per l’umanità crocifissa del Figlio di Dio.
Infine, quella miriade di illustri santi monaci che, nel silenzio e nella
preghiera, trasmisero all’umanità le loro invocazioni ‘scritte’ con le icone,
icone così bistrattate, odiate e vilipese da quei funesti regimi, nefasti per
l’umanità e che, purtroppo ancora in parte perdurano. Eppure, sebbene in forme
diverse quell’orrenda iconoclastia atea e materialistica è, in fondo, riproposta
ancor oggi in varie sedicenti forme d’arte e quel messaggio lanciato da Paolo
VI, di rinnovarsi cioè nel vero mistero cristiano, è completamente ignorato e
disatteso.
Paul
Gauguin, in una sua tela di Tahiti, si poneva il quesito esistenziale della vita
dell’uomo e oggi, in quasi tutta la pittura contemporanea siamo sempre allo
stesso punto o forse in una condizione peggiore, ignorando testardamente che
tale domanda e la sua risposta se l’erano posta e avevano risolto il dilemma i
primi cristiani con gli affreschi e i graffiti delle catacombe. I popoli antichi
dagli Egiziani ai Greci, dagli Etruschi ai Romani, a loro modo, erano stati
assai più onesti e sinceri, esprimendo in pittura quel senso della vita in cui
credevano. Noi abbiamo, invece, preteso che la materia da sola giunga a vette
sublimi. Tutto ciò ovviamente presuppone una fede e un credo, bisogna aver
prodotto in noi una rivoluzione interiore, mediante una crisi salutare e
risolutiva che elimini ogni nostra negazione e ogni nostra primordialità
bestiale, ritornando ai colloqui-preghiera quotidiani e notturni con le fonti
eterne della vita, della nostra essenza tutto e del nostro fine, assolutamente
certo e preciso. Tutto ciò che è estraneo a questo non è che una dispersione di
energie preziose, rivolte a quei lidi spesso funesti, o comunque inutili che,
come un falò distruggono lo spirito, così importante e ricco da poter cantare ed
esaltare in eterno quel “motor che move il sole e l’altre stelle”.
“Un gran segno apparve nel cielo: una Donna avvolta di sole, con
la luna sotto I suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle”
(Apoc. 12, 1).
La donna
vestita di sole
Nessun commento:
Posta un commento