mercoledì 17 luglio 2019

DAVIDE ORLER pittura come mistero della contemplazione


DAVIDE ORLER
pittura come mistero della contemplazione

 



“Entrando da Lei, l’angelo disse: “Ti saluto, Maria, o piena di grazia, il Signore è con Te! ”” (Lc. 1, 28). 

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Davide Orler nasce a Mezzano di Primiero, in Trentino, il 16 febbraio 1931. Autodidatta, si interessa di pittura fin da ragazzo insieme all'amico Riccardo Schweizer, più vecchio di lui di sei anni, che lo introduce nel «difficile mondo dell'arte moderna», come scrive l'artista stesso nella memoria-intervista redatta insieme a Martino Rizzi.
Nel 1946, a soli quindici anni, lascia il paese natale per recarsi a Venezia, città dei suoi sogni: il brevissimo soggiorno di una settimana sarà sufficiente a rafforzare la sua intenzione di trasferirvisi, appena possibile, per dedicarsi alla pittura.
A diciotto anni, «per evitare di essere trasferito negli alpini e per amore del mare», si arruola volontario in Marina, ove resterà per l'anno di addestramento e per tutti gli otto anni regolamentari della ferma, cioè fino al 1957, imbarcato sui dragamine e su altre imbarcazioni in servizio di pattugliamento nei mari italiani, soprattutto nello Ionio e nel Canale di Sicilia.
Nascono in questi anni i primi importanti paesaggi di Mezzano, altri scorci paesaggistici influenzati dalla luce e dai colori del Mediterraneo, roventi tele che registrano personaggi e vicende quotidiane (Stromboli, Vecchia siciliana) ed anche incidenti e tragedie che colpiscono a fondo il giovane (Terremoto a Salina, Il recupero degli alluvionati a Salerno).
Frutto fors'anche di questa dolente attenzione per il dolore dell'uomo, matura nell'artista un profondo travaglio spirituale che lo riavvicina alla religione e lo spinge verso l'arte sacra, filone espressivo che egli coltiverà negli anni successivi, dedicando un'attenzione particolare alla figura dell'Ecce Homo e del Cristo morto, fino a giungere alle rasserenate "visioni" vetero e neo-testamentarie degli ultimi dieci anni. Nel 1957, terminato il servizio nella Marina, Orler si stabilisce a Venezia, dove già nel marzo precedente ha tenuto la sua prima personale alla Galleria San Vidal. La sua opera riscuote immediato interesse nel vivacissimo ambiente artistico della Venezia di quegli anni, caratterizzato dalle ricche Biennali, dalla presenza di collezionisti e mecenati come Peggy Guggenheim e dalla continua attività di gallerie e associazioni come l'Opera Bevilacqua La Masa. Presso la sede di quest'ultima si tiene in novembre la seconda mostra dell'artista che espone 240 ceramiche, ben presto ripudiate e gettate in mare come atto di totale rifiuto. La personale gli vale in premio l'assegnazione per quattro anni di uno studio a Palazzo Carminati, dove già lavorano molti fra i più promettenti artisti veneziani.
A questo periodo che può essere definito "picassiano" (valgono a dimostrarlo fra tante opere i Collages del I956, fa appunto seguito un profondo ripensamento che nell'estate del 1958 porta il giovane artista a mutare il suo linguaggio, cercando di riallacciarsi alle sue radici culturali per dar vita a una pittura figurativa in bilico fra la descrizione minuziosa, analitica del paesaggio e dei suoi abitanti ed una dimensione di sogno in cui la realtà assume i colori della fiaba.
Nell'autunno del 1958 l'artista trentino, grazie all'invito dei curatori, tiene una personale con le sue nuove opere al Musée Picasso di Antibes. È per Orler l'occasione per far conoscere il proprio lavoro in ambito internazionale e per incontrare alcuni fra i maggiori protagonisti della vita artistica e culturale del periodo, dallo stesso Picasso a Germaine Richier, da Jean Cocteau a Jacques Prévert. Si tratta di un'esperienza estremamente importante e formativa per il ventisettenne pittore che negli anni immediatamente successivi, rafforzata la fiducia in se stesso e nei propri mezzi espressivi, continua a dipingere con entusiasmo e a esporre i risultati del suo lavoro in continue mostre personali a Venezia, Novara, Vercelli, Brescia, alla Biennale d'Arte Sacra dell'Antoniano di Bologna, alla Biennale di Milano e alla Quadriennale di Roma.
Lasciato l'atelier di Palazzo Carminati, nel 1962 il pittore apre con il fratello una bottega di tele e telai in Campo Santa Maria Mater Domini, bottega che diviene ben presto per gli artisti veneziani luogo di incontro e di scambio di opere, tanto che i fratelli Orler diventano anche un punto di riferimento per molti amici pittori, dei quali prendono a collezionare e a commerciare i lavori. Nel 1963 Orler si aggiudica ex aecquo con Vincenzo Eulisse il Primo Premio per la Pittura all'Opera Bevilacqua La Masa e in tale occasione la Galleria d'Arte Moderna di Ca' Pesaro gli acquista un grande dipinto dello stesso anno, Funerale a Mezzano.
Mentre si ripetono anche i viaggi e i soggiorni in Italia meridionale e soprattutto nell'amata Sicilia - nel 1964 e nel 1970 Orler è ancora a Palermo, Sciacca e a Stromboli - nel 1965 inizia in lui quella passione per la pittura russa di icone che lo porterà a diventare anche un appassionato collezionista del settore.
A causa di questo allargamento (che è anche un mutamento) di interessi, il pittore continua a dipingere soprattutto per sé nel suo nuovo studio di Favaro Veneto, senza più curarsi di mostre e premi, e senza più aspirare a una presenza significativa sulla ribalta artistica nazionale. La sua produzione si mantiene però costante con sperimentazioni di tecnica e linguaggi diversi: dalla ripresa del collage nel 1968-1972 - con inserti nei dipinti a olio o acrilico di particolari di pitture bizantine e altomedievali - agli assemblaggi con materiali di recupero dei primi anni Settanta (ciclo degli Inquinamenti); dalla pratica della decorazione a fresco in chiese del Transvaal in Sudafrica, nel 1972, e della Tanzania, nel 1978, alle sculture in ferro della fine degli anni Settanta.
Negli anni '90 Orler pare ritrovare una nuova giovinezza creativa con il ciclo de La Bibbia, un centinaio di dipinti dedicati al Vecchio e al Nuovo Testamento, e con la recente serie dei Miracoli.



 

[Gesù] giunse al posto chiamato ‘Cranio‘, in ebraico Golgota, dove lo crocifissero” (Gv. 19, 17-18).

La Crocifissione



Quasi un testamento artistico e spirituale ,
di Davide Orler
 
Il percorso dell’arte, in particolare dell’arte cristiana, che ha cercato di trasmettere e tradurre quel dialogo che Cristo stesso volle infondere all’intera umanità, non poteva e non può che girare attorno ai vari soggetti storici, interpretandoli. Iniziando dalle più lontane fonti bibliche e giungendo ai Vangeli, dalle catacombe in poi l’arte cercò un nuovo linguaggio. L’arte stessa tentò più volte di aprire la porta per arrivare al mistero divino, ma senza dare che qualche flebile intuizione di esso, rimanendo spesso un balbettio dell’uomo che tenta di sviscerare quel mistero stesso, quella poetica che, una volta raggiunta potrebbe giustificare gli sforzi dell’artista.
È questo, quindi, il compito dell’arte: tentar di tradurre quel messaggio che ci potrebbe condurre al mistero della contemplazione, esponendoci a quelle luci ‘taboriche’ che, in certi momenti, hanno raggiunto vette alte nell’iconografia occidentale e orientale.
Dopo il Rinascimento lentamente l’arte perde sempre più quell’intima spiritualità che nutriva la Chiesa dei primordi. Agli inizi del Novecento, tutto sfociò in quell’assoluta libertà di frantumare e dimenticare ogni canone che potesse servire al proseguimento della strada intrapresa in passato. L’arte ha acquisito nuovi linguaggi, ma tutti rivolti all’arte per l’arte, ma senza il supporto per il quale essa avrebbe dovuto servire, quindi come una nuvola in balia del vento, fine a se stessa, farneticante nella pretesa di spiegare tutto e creare valori. E in ultima analisi, autentiche frodi che concorrono solamente a sorreggersi a vicenda in questa pseudoarte.
Tutto ciò spinse Paolo VI nel 1964 a indirizzare quella lettera agli artisti, invitandoli a porre il loro operato al servizio dell’uomo e della Chiesa. Le nuove istanze artistiche devono essere rafforzate ed integrate, coniugando quanto è stato fatto nel passato, con le idee promosse dal Papa.
La libertà assoluta di accogliere qualsiasi forma di religiosità, in una sorta di sincretismo religioso, non può che condurre ad un panteismo dissacrante, fine a se stesso, al trionfo della materia sullo spirito, sostituendosi ai  veri ideali e valori che debbono essere perseguiti. Pochissimi artisti percepirono il pericolo e il baratro che l’arte aveva scavato agli inizi del Novecento, percorrendo una propria strada, priva di quel significato e di quella realtà spirituale verso cui deve tendere ogni sforzo umano. George Rouault fu il primo a capire ciò, avendo il coraggio di distruggere le vecchie opere e iniziare così una pittura di carattere esclusivamente religioso; lo stesso Marc Chagall affrontò temi biblici, influenzato forse dall’arte sacra russa, dopo aver trattato anche temi profani e proseguì fino alle splendide realizzazioni nella cappella di Saint Paul de Vence. Lo stesso Matisse era stato folgorato dalla spiritualità delle icone; Felice Carena, nel suo periodo veneziano propose nelle ultime deposizioni un profondo pathos, carico di sofferenza e di amore per l’umanità crocifissa del Figlio di Dio. Infine, quella miriade di illustri santi monaci che, nel silenzio e nella preghiera, trasmisero all’umanità le loro invocazioni ‘scritte’ con le icone, icone così bistrattate, odiate e vilipese da quei funesti regimi, nefasti per l’umanità e che, purtroppo ancora in parte perdurano. Eppure, sebbene in forme diverse quell’orrenda iconoclastia atea e materialistica è, in fondo, riproposta ancor oggi in varie sedicenti forme d’arte e quel messaggio lanciato da Paolo VI, di rinnovarsi cioè nel vero mistero cristiano, è completamente ignorato e disatteso.
Paul Gauguin, in una sua tela di Tahiti, si poneva il quesito esistenziale della vita dell’uomo e oggi, in quasi tutta la pittura contemporanea siamo sempre allo stesso punto o forse in una condizione peggiore, ignorando testardamente che tale domanda e la sua risposta se l’erano posta e avevano risolto il dilemma i primi cristiani con gli affreschi e i graffiti delle catacombe. I popoli antichi dagli Egiziani ai Greci, dagli Etruschi ai Romani, a loro modo, erano stati assai più onesti e sinceri, esprimendo in pittura quel senso della vita in cui credevano. Noi abbiamo, invece, preteso che la materia da sola giunga a vette sublimi. Tutto ciò ovviamente presuppone una fede e un credo, bisogna aver prodotto in noi una rivoluzione interiore, mediante una crisi salutare e risolutiva che elimini ogni nostra negazione e ogni nostra primordialità bestiale, ritornando ai colloqui-preghiera quotidiani e notturni con le fonti eterne della vita, della nostra essenza tutto e del nostro fine, assolutamente certo e preciso. Tutto ciò che è estraneo a questo non è che una dispersione di energie preziose, rivolte a quei lidi spesso funesti, o comunque inutili che, come un falò distruggono lo spirito, così importante e ricco da poter cantare ed esaltare in eterno quel “motor che move il sole e l’altre stelle”.



“Un gran segno apparve nel cielo: una Donna avvolta di sole, con la luna sotto I suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle”
(Apoc. 12, 1).

La donna vestita di sole










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