lunedì 15 luglio 2019

Teologia ed esistenza nella canzone “Vergine bella” di F. Petrarca, di Francesco di Ciaccia



Francesco di Ciaccia


Teologia ed esistenza nella canzone 

“Vergine bella” di F. Petrarca




Fra tutte le composizioni del Petrarca a contenuto religioso, quella che veramente si avvicina alla densità teologica di cui è ricca l’opera dantesca è la Canzone Vergine bella che di sol vestita. Regolarissima nella forma e caratterizzata dalla soavità del linguaggio secondo la consueta scrittura petrarchesca, essa è al contempo densa di richiami psicologici in un’impostazione «soggettiva» che informa l’ispirazione e ne domina il contenuto, a differenza del canto dantesco. In effetti, mentre in quest’ultimo la teologia è intenzionata direttamente, sia pur ingentilita dall’afflato dolcestilnovista del Dante innamorato (1), in quello del Petrarca risalta in primo piano la soggettività, e, con il vissuto esistenziale, emerge la terrestrità. In una panoramica più globale, giustamente il Carducci parlava di «tradimento innocente fatto dal Petrarca al medio evo» (2): «il paradiso della Divina Commedia, vasto deserto di luce teologica […] si ristringe, si limita, si riempie di visioni leggiadre che rispecchiano la terra» (3). Quando si accorgeva di essere «uomo del mondo» più che «uomo della grazia», il poeta viveva drammaticamente questo dissidio che è espresso, sempre secondo il Carducci, nell’«ultima canzone, la più bella poesia che mai sorgesse di cuore cattolico alla Vergine».
Nella Canzone, comunque, non è pregiudicata affatto l’esattezza dottrinale. Lo stesso Carducci ammette che, come “inno”, in essa vi è tutto ciò «che la teologia disputò su la Vergine, tutto che i padri da Agostino a Bernardo immaginarono a gloria di lei, tutti i titoli onde la chiesa dei fedeli la invoca», «resi versi alti, solenni gentili […]» (4). In essa tuttavia trascorre quell’«onda di pianto» che «travolge a pié della Vergine tutto ciò che l’artefice ha amato e desiderato e patito, tutto ciò che egli ricorda e téme»: «ei rimembrava i bei giorni della gioventù, dell’amore, della gloria, e, sentendoli irrevocabilmente passati, gli accusava di vanità e di peccato, tendendo le braccia al suo ultimo rifugio, alla ‘Vergine dolce e pia’».
Il Carducci, indicando questo secondo aspetto della Canzone come «elegia», distingue una «duplicità» di ispirazione o «correnti», riscontrabile anche nella «forma». Ciò è senz’altro rilevabile; ma a noi sembra di intravedere una unità più solida, tale cioè che nella Canzone i due aspetti siano compenetrati. Il fondamento esperienziale di questa unitarietà di ispirazione è la sincerità del discorso e del vissuto dell’Autore. In altri casi, in cui la partecipazione non sia stata totalizzante, si è avuta una disorganicità emotiva, benché non strutturale, costituita dalla denotazione religiosa e dalla connotazione, invece, terrestre. Al contrario, a noi pare di individuare, in Vergine bella, la compresenza di verità teorica e religiosa nel fremito del poeta che ricorda e teme, e una forza affettivamente religiosa nelle attribuzioni dottrinali.
Un altro rilievo. Vero è, come afferma il Carducci, che la «Vergine petrarchesca», se pur non sia stata convertita «in una quasi Venere cristiana», è «diversa e lontana di molto dalla ‘mater dolorosa’ di Jacopo da Todi e dalla ‘donna del cielo’» dantesca. Non v’è dubbio. Si potrebbe, seguendo il generale sentimento petrarchesco, discutere su quella «donna del ciel», di imitazione dantesca, cui fa seguito la frase «tu, nostra dea / (se dir lice e convènsi)». In effetti, l’espressione è ardita, e bisogna onestamente ritenere che l’autore tradisce la sua eterodossia temendo che quel titolo non «convenga». Ma bisogna tener conto sia del classicismo del Petrarca, sia della consuetudine, anche antica, di aggettivare la Madre di Dio con l’appellativo di «diva», da «divus» In conclusione, non concordo con il giudizio definitivo del Carducci, secondo cui «il medio evo è veramente tradito», e questo perché, come egli argomenta, sembra che «la Vergine di Jesse (sia) sul punto di staccarsi dalla tavola di Giotto per tergere le lacrime del poeta cristiano» (5). Se il poeta vedeva, in fondo, Laura nella Madonna, ed escludendo che, al limite, vedesse, nel momento biografico della composizione, la Madonna in Laura morta e ricordata, è il testo letterario che non ci permette di andare così avanti nella proiezione di Laura nella Vergine. Se mai, si potrebbe parlare di proiezione in Maria del bisogno materno. Ma questo è un altro discorso. Dinamiche indubbiamente proiettive, nel senso riduttivo dell’oggetto cantato, sono riscontrabili ad esempio nel Leopardi giovane; non già in questa Canzone del Petrarca.
In ogni caso, questa poesia offre la risonanza, nelle strutture psichiche, del lato di fede. Ma ciò non significa, per la cultura medioevale, concludere l’inesistenza del «dato» stesso, quanto, al contrario, la conferma esistenziale di quelle. Nell’impianto teoretico del Medioevo, la verità della fede non si misura dall’esperienza; è l’esperienza, invece, che misura la propria verità dalla fede, e ne è giudicata. Fuori da una tale impostazione, ma fondamentalmente in linea con la metodologia tomista, possiamo affermare che l’esperienza, in quanto intrinsecamente autonoma, non può erigersi a giudice teoreticamente definitivo della fede. Negare l’oggetto di fede in quanto esso esprime un bisogno e si veicola attraverso un movimento psichico, è metodologicamente scorretto, perché travalica dall’esperienza stessa, la quale non può pronunciarsi, per sua natura, sul non-sperimentabile, cioè sull’«oggetto al di là» del sentito. Elaborandosi come riflessione critica, l’esperienza può solo pronunciarsi su tale «sentito» che obiettiva un «bisogno» e, correttamente, valutare la natura del vissuto, appunto in quanto vissuto. Sulla verità «in sé» dell’oggetto può pronunciarsi solo la metafisica; sulla verità come «rivelazione», il credente presta fede. Ciò vale anche al contrario: ciò che è creduto per Rivelazione non è dimostrato, teoricamente, dall’esperienza obiettivante tale «creduto». L’esperienza religiosa manifesta semplicemente ciò che biograficamente un soggetto vive e pensa. Possiamo, in conclusione, affermare che il bisogno coincide con il vero di fede.
Noi qui diamo un cenno di queste coincidenze nel Petrarca, evidenziandone anche le connessioni dottrinali.

I

La presentazione della Madonna «coronata di stelle» (v. 2) ricalca l’immagine della «mulier amicta sole» (6) apocalittica, applicata dalla liturgia alla Vergine (7); è notevole questa referenza, perché unica al tempo dell’autore. L’idea, in effetti, era già nella mariologia patristica, ma l’espressione non si sarebbe imposta in letteratura se non nel ‘600, soprattutto con Francesco Redi, prima del quale si riscontravano enunciazioni molto più vaghe, come «incoronata in ciel regina» delle laudes oratoriane del ‘500.
Gli attributi che specificano la Madonna sono tutti consueti, con denotazione in genere morale ma con connotazione anche ontologica: «bella» (v. 1), «saggia» (v. 14), «pura» (v. 27), «sola al mondo» (v. 53), cioè «unica e sola» (v. 133), «dolce e pia» (v. 61), «benedetta» (v. 35), «beata» (v. 38), «santa» (v. 40), «gloriosa» (v. 48), «chiara e stabile» (v. 66), «sacra ed alma» (v. 87), «umana» e «umile» (v. 118). Il ritmo incalzante delle aggettivazioni, con funzione emotiva indubbiamente più che in un Alighieri – cioè esprimente lo stato d’animo del soggetto stesso – ma non senza una funzione anche enunciativa, riflette il pensiero patristico, per cui «conveniva che la Vergine fosse dotata di qualità tali, da essere piena di grazia, in quanto è stata ella […] a dare il Signore al mondo» (8). Se questa «bellezza» consiste nel «piacere a Dio» (cfr. v. 3), sulla quale Giacomo di Serug già aveva fondato il privilegio di «divenir Madre di Dio» (9), ne deriva, per il fedele, ch’«Amor mi spinge a dir di te parole» (v. 4). Ma, prima ancora, è quella stessa bellezza una conseguenza: è «conseguenza della predilezione di Colui, ch’amando in Te si pose» (v. 6).
Il rapporto poliedrico di Maria nei confronti di Dio («Del tuo Parto gentil figliola e madre», v. 28) è espresso forse con minor vigore della sintesi dantesca. Ma la figura retorica metonimica («parto» in luogo di figlio), se da un lato appare inutile, dall’altro è efficace a sottolineare la dimensione reale della maternità di Maria, come già nella Patristica in polemica anti-gnostica (10). Con questa terminologia il Petrarca si conferma, anche in teologia, più «sensitivo» di Dante, il quale esprimeva una tendenza più vicina all’ontologia di alcuni speculativi neotestamentari e all’intellettualismo tomista.
Per altro verso, c’è da segnalare la potenza teorica e la forza intuitiva del Petrarca nel rappresentare l’azione dello Spirito Santo nell’Incarnazione. A parte tutta l’importanza dell’attributo «gentil», semanticamente pregnante nel connotare, stilnovisticamente, la nobiltà, la graziosita, la potenza «salutare» del «Parto», qui notiamo che il «Colui, ch’amando in Te si pose» richiede e sottende, quanto meno, l’operazione dello Spirito Santo il quale, secondo Tommaso d’Aquino, «le fece nascere Cristo» (11). In questa espressione il Petrarca appare più incisivo dello stesso Alighieri, generalmente più scavato nel linguaggio teologico, il quale, ponendo in bocca al «fedel Bernardo» un discorso di intercessione, ha potuto guadagnare in questo caso in diffusiva dolcezza ed in chiarezza espositiva (12).
Concettualmente precisa è la supplica a Maria mediatrice (13): lei, «che ben sempre rispose / Chi la chiamò con fede» (vv. 7-8) e che soccorre alla «Miseria estrema dell’umane cose» (v. 10), può farlo perché è «del ciel Regina», è opposta alla «terra». La perifrasi mariana echeggia quella del Paradiso XXXI, 100 e risponde alla tradizione letteraria ormai consolidatasi con le laudes due-trecentesche; ma il contesto sembra, soggettivamente, meno convinto, e lo rivela anche l’andamento metrico e strutturale poco fluido e al contempo poco tagliente (14). Il Petrarca non è così razionalmente compenetrato della «fralità» e della miseria estrema dell’uomo, anche se lo è, e drammaticamente, dal punto di vista psicologico. La denuncia del Petrarca ha, qui, ancora il carattere più dell’incostanza e del travaglio compiaciuto che della consapevolezza etica (15). La congiunzione concessiva, che motiva il ricorso alla misericordia di Maria verso chi è «terra», indica qui che, se la motivazione è teologicamente corretta, la dinamica è psicologicamente equivoca, poiché è fondata dall’autore sul rapporto posto con la «terra» medesima. La proposizione causale dantesca rivela meglio la determinazione volitiva, perché è proprio a causa della superiorità del divino, cui aderisce la preghiera del peccatore, che si ha la garanzia di essere certamente liberato dalla «miseria». Il che indica la volontà di esserne liberato davvero. Se la concessiva petrarchesca avverte meglio della condizione misera dell’uomo, d’altra parte sottolinea più il distacco dal divino potere, cui si ricorre, che l’intenzione ferma di superare quel distacco. Simile incertezza emotiva è riscontrabile nel verso 18, in cui i «colpi di morte e di fortuna» tradiscono ancora un conflittuale attaccamento al loro opposto, cioè a «nostra vita ch’ sì bella» (Rotta è l’alta Colonna e ‘l verde Lauro).
Ma il Petrarca, sincero credente anche se titubante penitente, si riscatta mirabilmente dal «cieco ardor ch’avvampa», ed eleva uno sguardo, tra i più belli del dolcestilnovo, a «que begli occhi» addolorati di Maria, con partecipazione filiale e commozione vibrante. Ed è vano commentare quel lutto forte, solenne e sereno stampato sul volto di Maria nel contemplare i «dolci membri del tuo caro Figlio» (v. 24). Qui c’è tutta la delicatezza del Petrarca, che in questa effigie dell’addolorata non mutua nulla dalle laudes, ma ricompone in modo originale la concettuosità dello Stabat Mater duecentesco aggraziato dalla poetica dolcestilnovista.
Inoltre l’Autore, sentendosi in qualche modo più vicino alla figura della Madonna, anch’essa travagliata, si rivolge a lei «per consiglio», essendo egli «sconsigliato». Poi le attribuzioni si caricano di concetti tradizionali: «Vergine pura d’ogni parte intera» sintetizza (v. 27), con echi patristici ma con stile originale, la dottrina ormai pacifica, nel Medioevo, della completa verginità della Madonna. L’immagine di «fenestra» del ciel (v. 31) rimanda ad esempio a Giovanni Damasceno (16), introdotta letterariamente già nelle laudes con il termine «porta», e nella liturgia (17); e fa da richiamo e fondamento al «saldo scudo» (v. 17), come già nell’adattamento mariologico in liturgia: «Clypeus est omnibus sperantibus in se». La definizione «Sola […] eletta» spiega il «benedetta» per antonomasia, che trasformò «‘l pianto d’Eva in allegrezza piena» (vv. 34-36) (18). Né il poeta dimentica l’Incoronazione di Maria, «Già coronata nel supremo regno» (v. 39), dichiarata con semplicità e senza retorica. Il riferimento all’enunciazione tomista è d’obbligo (19), ma il pathos è tutto petrarchesco. Così, è anche petrarchesco, pregno di tensione psicologica, il ricordo della salvezza operata dal «Figlio» di Maria e del «sommo Padre» «in su gli estremi giorni» (v. 30 e 32), in cui il semantema «estremo» è carico di stanchezza esistenziale (come in Movesi il vecchierel canuto e bianco); ma, riferito esplicitamente alla redenzione, ha anche del «novissime, diebus istis» dell’Epistola agli Ebrei, 1, 2.

II

Fa seguito quella che a mio avviso dovrebbe distinguersi come una seconda parte della Canzone, in cui l’ispirazione sembra si faccia più personale e, anche, concettualmente più originale, quasi che il poeta, superato un inizio volontaristico, si sia meglio identificato, penetrando nella forma universale del suo sentire e dell’oggetto sentito, con le ragioni della «Vergine santa, d’ogni grazia piena», con cui inizia la quarta stanza. Vi si riscontreranno infatti concetti ed affetti già espressi.
Anche questo inizio è solenne; densamente teologico e meno coreografico del verso iniziale, fa riferimento all’asciutto saluto evangelico, largamente riscontrabile nella letteratura mariana. Ma qui esso è rivissuto con originalità. La definizione si giustifica infatti, nel contesto, in rapporto ad un fatto nuovo, tremendamente umano e rigorosamente teologico (o addirittura teologale?): «Che per vera ed altissima umiltate, / Salisti al ciel […]». Qui il Petrarca, che nella referenza lessicale al Cantico di Francesco d’Assisi sembra sprigionare tutta una sua consonanza con l’anima del «poverello», – evidenziatole in altre evocazioni successive –, penetra nelle profondità della natura di Maria: poiché la grandezza è la verità di sé, accondiscesa con rettitudine. L’«altissima» umiltà di Maria, come del resto del Cristo, è la volontaria spoliazione dei propri titoli, amorosamente sussunta, di fronte alla suprema volontà di Dio. Di ciò, il Cristo è insieme il segno «princeps» e il modello reale (20). Maria è stata esaltata per la sua debolezza: infatti la debolezza, che nella dialettica cristiana è accettazione amorevole della propria contraddizione umana, supera questa contraddizione medesima e costituisce la vera umiltà della grandezza. Ed è qui che l’autore usa un «onde» che, affettivamente, indica una consequenzialità: allora, tu «i miei prieghi ascolti».L’esaltazione dunque ha solo una funzione pontificale, è un servizio reso all’uomo per soccorrerlo «in auxilio opportuno». Il Petrarca pare allora accostarsi a Maria proprio come Maria si accosta a lui: la grandezza si aliena dal proprio «centro» (21) veracemente, come direbbe San Paolo, e si riacquista proprio in questa alienazione; da qui il concetto, nel Petrarca, di «pietate» della Madonna, che il provenzale Lanfranco Cigala indicava mirabilmente come «nata per la misericordia» (22). Il Petrarca appare qui meno generico dei Laudari nelle loro attribuzioni di «pietosa»; rispetto poi allo stesso Alighieri (23), mostra una acutezza originale: «Tu partoristi il fonte di pietate» (v. 43). La «pietate» è indicata come specificazione del «fonte» partorito: ora, specificare il Figlio significa estendere l’attribuzione alla Madre, secondo una analogicità teologica molto antica e universalmente seguita, indubbiamente nota al Petrarca. Lo stesso vale per il «sol di giustizia» che «Tu partoristi», che, per lo schema stereometrico, è sinonimo della «pietate». Due sono dunque le osservazioni che si impongono: il Petrarca parla di Maria attraverso gli attributi del Figlio, e parla di «pietate» congiuntamente alla «giustizia». Sia nel senso di santità sia nel senso di benignità, la pietà è collegata alla giustizia anch’essa polivalente, ma convergenti entrambi i significati nella seguente rappresentazione concettuale: salvare longanimemente, rasserenare «Il secol pien d’errori oscuri e folti» (v. 45). È qui sotteso il riferimento alla «luce che risplende nelle tenebre» di Giovanni 1,5 e della «benevolenza e umanità del Salvatore nostro Dio apparsa in mezzo a noi, che ci ha salvati per la sua misericordia» di Tito 3, 4.
Nel Petrarca, la teologia si carica, attraverso la contrapposizione di «rasserena» e di «oscuri», di una valenza psicologica: il bisogno di pace. Su questo registro affettivo si susseguono musicalmente i cardini teologici della mariologia petrarchesca (vv. 47-49):
Tre dolci e cari nomi hai in te raccolti,
Madre, Figliola e Sposa;
Vergine gloriosa,
Donna del Re, che i nostri lacci hai sciolti.
La ripresa delle attribuzioni, che si susseguono quasi con ossessività, non hanno un valore solo formale, ma anche sostanziale. «Donna del Re» parafrasa «Sposa», e «Vergine» di gloria sembra parafrasare sia «Madre» sia «Figliola», in una forma stilistica molto più efficace delle relative espressioni dei Laudari e dei poeti del Duecento (24). La Vergine, infatti, è Madre, quindi in contraddizione concettuale con se stessa. La gloria è della figlia, la quale però è anche «Donna» del proprio «Re» o signore. Se è vero che il «gloriosa» è riferibile, nel contesto, alla relazione «filiale» di Maria nei confronti del proprio Figlio, allora il Petrarca non ricalca semplicemente la consueta concezione mariologica e la terminologia diffusa (25), ma intenziona un nuovo valore, che è tipicamente petrarchesco nella sua valenza psicologica ed è neotestamentario nella sua verità oggettiva: la gloria è nell’esser figlio, cioè nel ricevere. Più difficile è ricevere che dare: ricevere non è possibile senza «umilitate». Il dare non è santo, se non con la stessa «umilitate». Il vero ricevere presuppone il riconoscimento della bontà e grandezza altrui, esige accettarsi dipendenti. Il dare è giusto e generoso, ma solo se è «nemico d’orgoglio», come Maria (v. 118). Per questo, il più puro e perfetto dare è quando si riceve di poter dare, come nel caso della Vergine, a somiglianza di Gesù (26).
L’umiltà nell’accettare la volontà di Dio è dunque la condizione per cui Maria innamorò il ciel di sue bellezze, assolutamente uniche al mondo (cfr. vv. 54-55). Il Petrarca passa poi al corredo morale di Maria: «Santi pensier, atti pietosi e casti», che l’autore annota come altrettante grazie che Ella è in grado di dare agli uomini. Anche qui, gli attributi sono carichi di tutta una significazione stilnovista, più seguita da un Alighieri che da un Petrarca. È dunque notevole che l’autore qui vi ricorra a proposito della Madonna; ma c’è anche una base patristica a tale quadro spirituale di Maria, particolarmente in Giovanni Damasceno (27) e in Sant’Efrem (28).
Tale santità, che fece da «tempio» «sacrato e vivo» (v. 57) a Dio, rimanda alla concezione del «templum Dei» operato dallo Spirito Santo, e, più specificatamente, alla patristica e alla scolastica, da San Gerolamo (29) a San Tommaso (30). La potenza dello Spirito Santo, fondamento della Santità, è connessa alla «Donna del Re»: Cristo è colui che «nostri lacci ha sciolti» (v. 49), con riferimento semantico al petrino «lacci del diavolo» e alla redenzione che ha «fatto il mondo libero» (v. 50).
Il Petrarca si rivolge poi, secondo la tradizione mariologica, a Maria come a «vera beatrice» (v. 52): la Madonna compie, per grazia della sua elezione («eletta»), ciò che Gesù compie in forza di se stesso. L’immagine di «beatrice» è ormai classica nella letteratura stilnovista: ed è l’immagine della funzione mediatrice, che veicola l’uomo a Dio. Se l’amore immanente del Petrarca è «laura», che esprime la dolcezza della terra, l’amore trascendente è, ed è solo esso, «beatrice». Questo amore non risulta, in tutta la Canzone, per nulla e in nessun senso affliggente, come invece, si sa, quello di Laura.
La seconda parte della Canzone si conclude con una pressante e commossa, al limite del patetico, invocazione a Maria: «Con le ginocchia de la mente inchine» (v. 63). L’espressione trova una analogia letteraria nella Bibbia (31), ma anche in un altro testo del Petrarca, che nel suo testamento si esprime con un «flexit animae genibus». Tale umile genuflessione spirituale di fronte a colei che è «via de salvamento», come si era espresso Garzo dall’Incisa, è giustificata da una richiesta della massima importanza: «E la mia torta via drizzi a buon fine (v. 65). Il concetto dantesco che la Vergine «sia mia scorta» è ripreso ma senza imitazione pura e semplice, anche se il termine «via» era ormai divenuto obbligato.

III

La terza parte, come a noi sembra dover distinguere, inizia con «Vergine chiara e stabile in eterno»: contrapposizione stilisticamente e concettualmente precisa. Chi, infatti, può assicurare la retta «via» non può essere che colei che sulla via non-«torta» è stabile al punto che, predestinata a santità, illumina («chiara») la via stessa.
La «stella» di «questo tempestoso mare» (v. 67) è un’immagine liturgica, teologica e letteraria, documentata nell’«Ave maris stella», in San Bernardo (32), in San Tommaso (33) e in alcune laudes (34). Essa si accompagna ad «ogni fedel nocchier fidata guida» (v. 68). Ma è splendida la struttura globale di tutta la stanza (vv. 66-78) per l’armonia stilistica, per l’andamento di stampo innodico, e per la serrata concatenazione delle figure analogiche che si incentrano sulla metafora del navigare, il cui significato logico trova maggior vigore nelle opposizioni semantiche o concettuali come «stabile-tempestoso», «stella-procella», «guida-senza governo», «in eterno-ultime strida», «Peccatrice-Vergine», «tuo (nemico)-mio (mal)», «peccar nostro-tuo verginal», «Dio-umana carne», e negli accostamenti logico-espressivi, con alcune allitterazioni, come «chiara-stella», «fedel-fidata», «stabile-si fida», «di questo tempestoso-in che terribile», «mare-procella». L’esposizione lirica è tipicamente petrarchesca; piuttosto imitativa della liturgia nei versi 67-68, è tuttavia originale negli altri, e si distingue anche dall’esortazione così lirica di Bernardo da Chiaravalle, da cui il poeta trae comunque immagini come l’«essere agitato dalle onde» (35).
Il tutto assume una caratterizzazione armoniosamente retorica, con procedimenti a volte melodici, a volte prosaici come nel caso dei due versi che, con il settenario, esaltano in posizione enfatica la contrapposizione «Peccatrice-Vergine» e al contempo in posizione rimica la commossa avversativa: «i’ non nego-ma ti prego». Trascorre in questi versi un brivido esistenziale; ed è proprio in questo tremore che l’emotività informa la dottrina, e la dottrina illumina la commozione. Nella preghiera che «‘l tuo nemico del mio mal non rida» (v. 75) non c’è solo tecnicismo, né solo angoscia: c’è anche il «non gaudebit inimicus meus super me» del Salmista, e del Nuovo Testamento (36).
La costante terminologica «mio duro avversario» (cfr. Padre del ciel) e «mio nemico» (Io son sì stanco) esprime una dimensione conflittuale indubbiamente petrarchesca, ma con connotazione, soprattutto qui, concettualmente scritturistica (37). Viceversa, il riferimento dotto è informato da un profondo vissuto esistenziale.
La teoria, scritturistica e patristica, del «peccatum» che occasiona l’Incarnazione – teoria che nel Petrarca presenta una tinta devozionistica – non appare né cerebrale né esteriore, ma partecipata, nelle immagini teologiche e tradizionali dell’«Uman carne» e del «verginal chiostro» (38). Lo stesso vale per il «tuo nemico» (v. 75), secondo la lettura mariologica del Genesi (39).
L’atmosfera mestamente sentimentale del più tipico Petrarca, con il suo autobiografismo esistenziale, compare nelle stanze successive con commossa vibrazione:
Vergine, quante lagrime ho già sparte […]
Non è stata mia vita altro che affanno (vv. 79 e 84).
In verità, il nostro penitente nostalgico è troppo abituato a piangere «lacrime» ovunque ritrovi un «porto / alle gravi tempeste» (O cameretta, che già fosti un porto) (40). Il disinganno, frequentissimo nel Canzoniere (cfr. es. Se col cieco desir, che il cor distrugge), ha colorazioni religiose (cfr. es. Padre del ciel, dopo i perduti giorni): il proprio affanno è dichiarato dal poeta «non degno», un «fascio antico» di «colpe» (Io son sì stanco sotto il fascio antico). Ma quest’«anima sconsolata» (Che fai? Che pensi? Che pur dietro guardi) si autocommisera per il tempo «che tornar non puote omai» (ibidem); per cui, il «Cerchiamo il ciel, se qui nulla ne piace», se cioè l’amore è tanto penoso, come continua il Sonetto medesimo, tradisce un bisogno celeste ben poco sicuro. Il «ciel» appare non come un’intenzione diretta, ma come un ripiego altrettanto, anzi più penoso dell’amore. Il cielo non trova un fondamento in se stesso, ma in una mancanza d’altro che appunto costituisce il positivo. È questo il sotteso comune a tutti i Sonetti «religiosi» del Petrarca (41), ed esso ha indubbiamente una complicatezza psicologica ed una precarietà morale sconosciute alle simili dichiarazioni di «debolezza volitiva» dei poeti provenzali, come Lanfranco Cigala (42).
Nella Canzone Vergine bella l’autore porta con sé ancora un rammarico per non aver goduto la vita se non con «affanno» (v. 84) mentre ormai «sol morte m’aspetta» (v. 91); ma altre commiserazioni non compaiono: il discorso si fa più concreto dinanzi alla verità della coscienza e alla presenza della «Vergine sacra ed alma» (v. 87). «Miserie e peccati» (v. 90) è un binomio sinonimico non consueto, nel Petrarca, con uno dei due termini semanticamente etico. «Vaneggiar» o «errar» sono segni equivoci: indicano deprecazione ma insieme affezione. In «peccato», invece, è intenzionata la colpa morale, sia pure con tutte le complicanze psicologiche petrarchesche: essa ha «tutta ingombrata l’alma» (v. 86).
Quando, nella stanza successiva, l’autore introduce la figura di Laura, perché la «Donna del ciel» ponga fine al rimpianto per l’amata, è sostanzialmente assente l’antico giochetto di respingere e agognare. L’andamento lirico in effetti si fa più asciutto, come in un colloquio a carte scoperte. Ci sono ricordi, si fanno ipotesi, c’è del dispiacere: ma non vi vedi narcisismo. Sono versi, crudi e puntualizzati, che il Petrarca avrebbe potuto scrivere in prosa. È come se, qui, egli si trovi di fronte a se stesso senza l’alibi del penoso vaneggiare. E alla fine la stanza si conclude con il pensiero teologico che la salvezza del fedele è gloria di Dio e di Maria (cfr. v. 104).

IV

Nella stanza successiva il canto perviene alla poeticità più purificata, alla semplicità del fanciullo. La teologia non vi compare a prima lettura: la trovi sottesa nel profondo. Essa c’è come una preghiera, inconsapevole e più vera, e non media più conflitti irrisolti. Vi potresti sentire accenti, immediati ed ingenui, dei migliori Padri e scrittori ecclesiastici (43).
Questa parte è introdotta dalla «Vergine» come ragione di «speranza», con una solennità allusivamente dottrinale pur nel riferimento soggettivo alla debolezza umana e personale. La convinzione che la Madre di Dio rappresentasse una mediazione privilegiata fra Dio e l’uomo e costituisse, in questo senso, salute per l’umanità, era così radicata nel ‘200 e nel ‘300, che tutte le testimonianze letterarie di natura religiosa non mancavano di riferirvisi, da Francesco d’Assisi a Jacopo Passavanti, da Jacopone da Todi a Caterina da Siena (44). Ricordiamo inoltre la formulazione mariana, proprio di questa epoca, del Te Deum: «in te, Domina, speravi, non confundar in aeternum».
L’esposizione petrarchesca appare ispirata a tale concezione, che risponde alla più pura tradizione patristica e medioevale. Ad esempio, Sant’Agostino aveva connesso la singolarità della grazia di Maria con la sua forza salvifica (45), e San Bartolomeo il Giovane aveva cantato la «protezione» e la «difesa» della Madonna verso chi avesse «speranza» in lei (46). Il «possa» e «vogli aitarme» della Canzone (v. 106) procede comunque con una semplicità estrema, quasi inconsueta nelle composizioni petrarchesche dello stesso genere letterario, piuttosto auliche e apparentemente studiate. Il pregare, fiducioso ed umile, ed il linguaggio soffuso di un afflato teologale, richiama, ancora, un Sant’Anselmo, che ad esempio aveva scritto: «Non è credibile che tu (Maria) non abbia pietà degli uomini miseri che ti supplicano» (47). Nel «gran bisogno» per il quale l’autore invoca «aiuto» non si può non scorgere, soprattutto per il rapporto che il testo pone con la morte, un turbamento esistenziale di fronte alla vita che sfugge, una vita intessuta di inganni, ma pur sempre «dolci». Ma la direzione coscienziale è senz’altro religiosa, e risponde ad esortazioni che il poeta certamente conosceva, come quelle di San Bernardo: «oppresso dalla gravità delle tue colpe […], preso da una tristezza abissale […], invoca Maria» (48), e alla riflessione scolastica: «In ogni pericolo tu puoi esser aiutato dalla Vergine» (49). E ciò vale soprattutto per «l’estremo passo» (cfr. anche «guado», v. 129) che, con una simbologia consueta (usata anche da Dante), indica la morte.
Il fondamento dell’aiuto sperato e chiesto dall’autore ha precedenti biblici, come quando David si rivolge a Dio in «grazia del suo unto». Nella Canzone, la pietà è invocata a causa della paternità creatrice di Dio, che ha plasmato l’uomo a sua immagine e somiglianza e lo ha elevato alla filiazione adottiva per mezzo del Cristo (cfr. v. 109); argomenti cui si era già riferito, col pathos dell’amore e timore, il Dies irae del ‘200.
Le indicazioni del Petrarca circa la «bassezza» della propria vita (che «Medusa e l’error mio m’han fatto un sasso», v. 111) sfociano in una specie di memoriale autobiografico, nel quale il poeta conclude circolarmente tutta la sua esistenza come tensione fondamentale verso Dio. In questo panorama soggettivo, la Vergine è definita nella maniera forse più vicina alla spiritualità di San Francesco, il quale, con una eccezionale intuizione mistica e teologica, aveva per così dire reincarnato il senso dell’umanità di Gesù. Il «figlio dell’uomo» dei Vangeli e il «simile a noi in tutto» di San Paolo, infatti, aveva raggiunto con il «povero» Francesco una riproposta rivoluzionaria (50). Il Petrarca, definendo Maria «umana» (v. 118), introduce dunque nella mariologia letteraria una innovazione sorprendente. La Madonna, vista abitualmente come «diva», aveva assunto, sì, tratti umani nelle descrizioni materne e «dolorose» dei Laudari, ma nello stupore del contrasto determinato dalla «divina» protagonista. Certamente, bisogna ricordare che la svolta antropologica in arte mariana era già avvenuta tra la fine del ‘200 e gli inizi del ‘300, ad esempio con le «madonne del latte» di Pietro e Ambrogio Lorenzetti, le sculture di Nicola Pisano dagli sguardi «umani», con la «puerpera» di Arnolfo di Cambio. Tuttavia l’attribuzione del Petrarca investe un ambito più specificamente teologico, quando la collega con l’altra definizione: «nemica d’orgoglio».
Con quest’ultima espressione l’autore dice qualcosa di più che, con una fraseologia, umile: egli afferma qualcosa mediante la negazione del suo opposto. Il prosieguo immediato indica quale sia la negazione. L’opposto in questione non è la superbia umana, ma superbia della «regina». Maria potrebbe essere orgogliosa di sé, e la sua grandezza di umiltà consiste proprio nel trionfare di questa sua possibilità. Non essere superbo per chi non ha ragione di esserlo, è normale. Ogni uomo, essendo un valore, potrebbe esserlo, e, se non è superbo, è virtuoso. Ora, questa virtù è proporzionata al valore che si è: e Maria è la più alta «fra le creature». Per questa sua grandezza di umiltà, è capace di riconoscere il «comune principio» (v. 119), in grazia del quale – l’autore non mostra esitazioni – Maria è indotta, per «amor», ad aiutare l’uomo. Il Magnificat evangelico non è imitato: ma la poesia petrarchesca ne contiene tutta la ricchezza teologica e tutta l’umana semplicità.
Con questa premessa, è possibile leggere nei rimanenti versi della Canzone, almeno psicologicamente se non strutturalisticamente, uno spirito liberato dell’egocentrismo narcisistico del Canzoniere. Il «Miserere d’un cor contrito, umile», anche se intenzionante il Miserere mei, Domine del Salmista e della Chiesa, è consueto nel Petrarca con connotazioni di velleitarismo religioso. Anche la contrapposizione tra l’amore per la «mortal terra caduca» (v. 121) e per la «cosa gentile» (la Madonna) è tipica nell’opera petrarchesca. Ma qui non c’è nulla dell’enfasi stilnovista, né c’é mistificazione in quella prolungata promessa – per quanto un po’ letteraria – di consacrarsi a Maria se per sua grazia egli potrà «resurgere» (cfr. vv. 114-127). Come giustamente dice Mario Fubini, non è un virtuoso che parla, ma, in fondo, ancora un «uomo che lotta e che implora», (51). Il proposito dell’ultima stanza guarda, è vero, più al passato, «di cui è spento […] il fascino, ma che è tuttora vivo in lui», che non al futuro; ma il centro della poesia, continua il critico, è nella confessione «aperta e piena». In siffatta confessione c’è embrionalmente per lo meno, possiamo aggiungere, la coscienza autentica del bisogno di misericordia. Questa Canzone dunque non risponde solo ad un bisogno di autocompiacimento e di autocommiserazione, ma anche alla convinzione tendenzialmente etica di superare questi stessi momenti affettivi.
L’ultimo accenno alla «morte», che «punge» il poeta tanto quanto il rimorso («coscienza») si affranca dalla sottesa equivocità mediante la fede nel«verace / Uomo e verace Dio» e nella mediazione di Maria: «Ch’accolga il mio spirto ultimo in pace».
«E l’ultima parola – conclude il Fubini – […] è quella che dà voce all’ispirazione poetica della sua anima inquieta».






NOTE
(1) Come nella Vita Nova e in numerosi passi della Commedia riguardanti Beatrice, o altri personaggi conquisi dall’amore.
(2) Presso la tomba di Francesco Petrarca, discorso tenuto ad Arquà il 18 luglio 1874, in Prose di Giosuè Carducci, Bologna 1911, p. 14.
(3) Op. cit., p. 13.
(4) Op. cit., p. 15.
(5) Op. cit., pp. 16-17.
(6) Ap 12,1.
(7) Come nell’inno «Solis, o Virgo, radiis amicta / Bis caput senis redimita stellis» per la festa dell’Assunzione.
(8) Ad es., in San Gerolamo, Sermo de Assumptione B. Mariae Virginis. La traduzione di tutti i testi latini è personale, salvo diversa referenza.
(9) Omelie mariologiche, a cura di C. Vona, Roma 1953.
(10) Cfr. ad es. «in utero concepit Creatorem di San Giovanni Damasceno (Oratio 2 de Dormitione B.M.V.); «sic ingressus est ospitium ventris, ut corporis claustrum nesciret» e «sicque gestatus» di San Gerolamo (Sermo de Assumptione B.M.V.). È doveroso precisare il realismo, in ciò, anche di Dante («nel ventre tuo»), rispetto al quale ho tuttavia creduto di distinguere l’espressione petrarchesca, perché in Dante il termine compare in un contesto in cui esso diventa obbligato.
(11) Expositio salutationis angelicae. Tommaso cita Ugo di San Vittore, De B.M. Virgintate perpetua, 2.
(12) Paradiso, XXXIII, 7-9.
(13) Giustamente Sant’Ambrogio aveva scolpito questa dinamica (Commentarium in Lucam, 2,1): il superiore si porta verso l’inferiore perché quest’ultimo sia aiutato a sollevarsi.
(14) Per quanto ciò sia conforme a diverse parti della produzione delle Canzoni del Petrarca.
(15) Cfr. invece Paradiso, XXXIII, 34-37 e passim.
(16) Octoëcus-Paracletus, a cura di G. Giovanelli, Roma 1885: «mistica porta».
(17) «ianua coeli»; «porta, ex qua mundo lux est orta» dell’Ave, Maris stella. La variante terminologica del Petrarca sembra giustificarsi in rapporto alla concezione stilnovista, per il quale l’amore è veicolato attraverso la «finestra» degli occhi.
(18) È chiaro il riferimento alla liturgia del Sabato Santo che canta: «O felix culpa», e alle considerazioni, più specificamente mariologiche, dei Padri: «Ac per hoc quidquid maledictionis infusum est per Hevam, totum abstulit benedictio Mariae» (San Gerolamo, Sermo de Assumptione B.M.V.), o, più sinteticamente, «la morte per Eva, la vita per Maria» (San Girolamo, De custodiendis Virginibus, 208, 4).
(19) Expositio salutationis angelicae, che cita Salmi, 131,8.
(20) Eb 2,17: «debuit per omnia fratribus similari, ut misericors fieret, et fidelis pontifex ad Deum»; Fil 2,7-8: «[…] in similitudinem hominum factus, et habitu inventus ut homo».
(21) È un’espressione che prendo a prestito dai teologi Bertoletti e Segneri della Pontificia Facoltà dell’Italia Settentrionale, in Teologia italiana oggi, Milano 1979, e la mia recensione in «Nuova Rivista Storica».
(22) Cento liriche provenzali, a cura di A. Cavaliere, Bologna 1938.
(23) Paradiso, XXXIII, 19.
(24) Ad es., Garzo dall’Incisa: «de te fece madre e figlia», in Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, II, Milano-Napoli 1960.
(25) L’espressione Vergine gloriosa era ormai diffusa nella letteratura mariologica medioevale, soprattutto di ispirazione francescana. La si trova in San Bonaventura (Sermo de Assumptione V, ed. Quaracchi, 1901, IX, p. 695), che cita San Bernardo (Sermo I in Assumptionem, 4), il quale già vedeva, come poi Dante, la Madonna nel consesso del paradiso.
(26) Essendo Dio e pur «sapendo di non compire una violenza od un arbitrio ponendo se stesso uguale a Dio, umiliò se stesso prendendo la naturalità del servo» (cfr. Fil 2, 6 ss). Per questo, non avendo egli «parlato da se stesso», ma essendosi sottoposto al Padre, da cui tutto «ha ricevuto», Dio lo ha «esaltato al di sopra di ogni altro nome, e gli ha riservato il diritto di inviare agli uomini suoi fratelli lo Spirito del Padre stesso, «clamantem Abba, Pater».
(27) «nullis terrenis inquinata est affectibus, sed coelestibus educata cogitationibus» (Oratio 2 de Dormitione B.M.V.).
(28) «nell’anima sua era sapiente, nel corpo suo era santa, nei suoi pensieri era pura» (Inni alla Vergine, a cura di G. Ricciotti, Torino 1939).
(29) In S. Dei Genitricis Dormitione Sermo I: «tutto domicilio di Dio».
(30) Expositio salutationis angelicae: «O dimora di Sion», che cita Isaia 12,6.
(31) «flecto genu cordis mei precans a te bonitatem». L’uso della metafora in questo senso, consueto nella letteratura vetero-testamentaria, è reperibile anche in San Pietro: «i lombi della vostra mente». L’espressione petrarchesca sarà poi ripresa da scrittori successivi, come il Tasso, e comunque rispecchia, nel Medioevo, la sottomissione religiosa dell’anima di fronte alla divinità, con atteggiamento di vassallaggio.
(32) Homilia II super ‘Missus est’, in Xenia Bernardina, Vienna 1891: «guarda la stella», e, come direbbe il provenzale Lanfranco Cigala, «nella notte tenebrosa» (Cento liriche provenzali, cit.).
(33) Secondo cui, sulla scia della tradizione alto-medioevale, Maria significa «stella del mare» (Expositio salutationis angelicae, cit.).
(34) Celebre quella attribuita a Giacomino da Verona (seconda metà del ‘200): «claro più ke stella diana» (ed. Mussafia in «Sitzungsberichte der Kaiserl. Akad. der Wissenschaften», aprile-maggio 1864, pp. 191 ss.
(35) Homilia II super ‘ Missus est’, in Xenia, Bernardina, Vienna 1891.
(36) I Pt, 5,8: «adversarius vester diabolus».
(37) Prima ancora delle radicalizzazioni medioevali sulla «lotta» tra Dio e Satana, come in Onorio di Autun e, per quanto concerne la liturgia della celebrazione eucaristica, in Johannes Beleth e Sicardo di Cremona, la Scrittura, sia antica che nuova, insiste sulla opposizione Buono-cattivo, tanto da definire il nemico di Dio come «maligno». Oltre i testi citati, si ricordi la riflessione dell’apostolo Paolo che attribuisce al «demonio» alcuni suoi impedimenti apostolici, e quella di Gesù stesso, sul simbolico «malvagio» che, di notte, semina la zizzania.
(38) Cfr. San Girolamo, Sermo de Assumptione B.M.V.
(39) Al riguardo, Cirillo Alessandrino aveva parlato esplicitamente di «demoni in rotta», e del «precipitare del Tentatore dal cielo» in virtù della funzione di Maria nella Incarnazione (Homiliae, PL XXVII, 992-993). L’inno di Acatisto, più poeticamente, aveva detto che Maria è una «folgore che atterrisce i nemici (a cura di G. Giovanelli, Grottaferrata 1940).
(40) L’autore impara, dal canto dell’usignolo, «lagrimando… / Come nulla quaggiù diletta e dura» (Quel rosignol che sì soave piagne). Sui «pianti» del Canzoniere, è qui comunque inutile insistere.
(41) Nel Padre del ciel, la preghiera è più esplicita che negli altri sonetti. Il senso religioso senz’altro c’è, ma il contesto mostra quanto il pentimento sia legato all’esperienza amorosa. C’è dunque più ambascia che contrizione, più stanchezza che determinazione.
(42) Cento liriche provenzali, cit.: «debole il mio volere».
(43) Come nella preghiera di San Bartolomeo il Giovane: «fa’ cessare le passioni (Gl’inni sacri, a cura di G. Giovanelli, Grottaferrata 1955).
(44) Lo specchio della vera penitenza, dist. III, cap. IV.
(45) «Odi il saluto dell’angelo stesso e in me riconosci la tua salute»; cfr. La Vergine Maria, a cura di M. Pellegrino, Roma 1954.
(46) Cfr. Gl’inni sacri, cit.
(47) Orationes et meditationes, ed. di Edimburgo 1946. Notiamo come questa considerazione anselmiana corrisponda quasi alla lettera a quelle di un futuro poeta travagliato, più del Petrarca: Giacomo Leopardi, nei suoi scritti giovanili sul Cristo e sulla Madonna.
(48) «Homilia II super ‘Missus est’», in Xenia Bernardina, cit.
(49) Tommaso d’Aquino, Expositio salutationis angelicae, che cita il Cantico dei Cantici, 4,4.
(50) La figura iconografica di Sant’Antonio di Padova non risponderebbe esattamente al personaggio storico, se non nel senso per cui il «bambino» Gesù era una centralità teologica nel pensiero francescano.
(51) Dizionario letterario delle Opere e dei personaggi, v. II, Milano, pp. 70-71.


 




Fonte :
Francesco di Ciaccia, Teologia ed esistenza nella Canzone “Vergine bella” di F. Petrarca, «miles immaculatae», 1-2 (1986) pp. 121-137. 












Nessun commento:

Posta un commento

Post più popolari negli ultimi 30 giorni