Francesco di Ciaccia
Teologia ed esistenza
nella canzone
“Vergine bella” di F. Petrarca
Fra
tutte le composizioni del Petrarca a contenuto religioso, quella
che veramente si avvicina alla densità teologica di cui è ricca l’opera
dantesca è la Canzone Vergine bella che
di sol vestita. Regolarissima nella forma e caratterizzata dalla
soavità
del linguaggio secondo la consueta scrittura petrarchesca, essa è al
contempo
densa di richiami psicologici in un’impostazione «soggettiva» che
informa l’ispirazione
e ne domina il contenuto, a differenza del canto dantesco. In effetti,
mentre
in quest’ultimo la teologia è intenzionata direttamente, sia pur
ingentilita
dall’afflato dolcestilnovista del Dante innamorato (1), in quello del
Petrarca
risalta in primo piano la soggettività, e, con il vissuto esistenziale,
emerge
la terrestrità. In una panoramica più globale, giustamente il Carducci
parlava
di «tradimento innocente fatto dal Petrarca al medio evo» (2): «il
paradiso della
Divina Commedia, vasto deserto di luce teologica […] si ristringe, si
limita,
si riempie di visioni leggiadre che rispecchiano la terra» (3). Quando
si
accorgeva di essere «uomo del mondo» più che «uomo della grazia», il
poeta
viveva drammaticamente questo dissidio che è espresso, sempre secondo
il
Carducci, nell’«ultima canzone, la più bella poesia che mai sorgesse di
cuore
cattolico alla Vergine».
Nella
Canzone, comunque, non è pregiudicata affatto l’esattezza dottrinale.
Lo stesso Carducci ammette che, come “inno”, in essa vi è tutto ciò
«che la
teologia disputò su la Vergine, tutto che i padri da Agostino a
Bernardo
immaginarono a gloria di lei, tutti i titoli onde la chiesa dei fedeli
la
invoca», «resi versi alti, solenni gentili […]» (4). In essa tuttavia
trascorre
quell’«onda di pianto» che «travolge a pié della Vergine tutto ciò che
l’artefice
ha amato e desiderato e patito, tutto ciò che egli ricorda e téme»: «ei
rimembrava i bei giorni della gioventù, dell’amore, della gloria, e,
sentendoli
irrevocabilmente passati, gli accusava di vanità e di peccato, tendendo
le
braccia al suo ultimo rifugio, alla ‘Vergine dolce e pia’».
Il
Carducci, indicando questo secondo aspetto della Canzone come «elegia»,
distingue una «duplicità» di ispirazione o «correnti», riscontrabile
anche
nella «forma». Ciò è senz’altro rilevabile; ma a noi sembra di
intravedere una
unità più solida, tale cioè che nella Canzone i due aspetti siano
compenetrati.
Il fondamento esperienziale di questa unitarietà di ispirazione è la
sincerità
del discorso e del vissuto dell’Autore. In altri casi, in cui la
partecipazione
non sia stata totalizzante, si è avuta una disorganicità emotiva,
benché non strutturale,
costituita dalla denotazione religiosa e dalla connotazione, invece,
terrestre.
Al contrario, a noi pare di individuare, in Vergine
bella, la compresenza di verità teorica e religiosa nel fremito del
poeta
che ricorda e teme, e una forza affettivamente religiosa nelle
attribuzioni
dottrinali.
Un
altro rilievo. Vero è, come afferma il Carducci, che la «Vergine
petrarchesca», se pur non sia stata convertita «in una quasi Venere
cristiana»,
è «diversa e lontana di molto dalla ‘mater dolorosa’ di Jacopo da Todi
e dalla ‘donna
del cielo’» dantesca. Non v’è dubbio. Si potrebbe, seguendo il generale
sentimento petrarchesco, discutere su quella «donna del ciel», di
imitazione
dantesca, cui fa seguito la frase «tu, nostra dea / (se dir lice e
convènsi)».
In effetti, l’espressione è ardita, e bisogna onestamente ritenere che
l’autore
tradisce la sua eterodossia temendo che quel titolo non «convenga». Ma
bisogna
tener conto sia del classicismo del Petrarca, sia della consuetudine,
anche
antica, di aggettivare la Madre di Dio con l’appellativo di «diva», da
«divus»
In conclusione, non concordo con il giudizio definitivo del Carducci,
secondo
cui «il medio evo è veramente tradito», e questo perché, come egli
argomenta,
sembra che «la Vergine di Jesse (sia) sul punto di staccarsi dalla
tavola di
Giotto per tergere le lacrime del poeta cristiano» (5). Se il poeta
vedeva, in
fondo, Laura nella Madonna, ed escludendo che, al limite, vedesse, nel
momento
biografico della composizione, la Madonna in Laura morta e ricordata, è
il
testo letterario che non ci permette di andare così avanti nella
proiezione di
Laura nella Vergine. Se mai, si potrebbe parlare di proiezione in Maria
del
bisogno materno. Ma questo è un altro discorso. Dinamiche indubbiamente
proiettive, nel senso riduttivo dell’oggetto cantato, sono
riscontrabili ad
esempio nel Leopardi giovane; non già in questa Canzone del Petrarca.
In
ogni caso, questa poesia offre la risonanza, nelle strutture
psichiche, del lato di fede. Ma ciò non significa, per la cultura
medioevale,
concludere l’inesistenza del «dato» stesso, quanto, al contrario, la
conferma
esistenziale di quelle. Nell’impianto teoretico del Medioevo, la verità
della
fede non si misura dall’esperienza; è l’esperienza, invece, che misura
la
propria verità dalla fede, e ne è giudicata. Fuori da una tale
impostazione, ma
fondamentalmente in linea con la metodologia tomista, possiamo
affermare che l’esperienza,
in quanto intrinsecamente autonoma, non può erigersi a giudice
teoreticamente
definitivo della fede. Negare l’oggetto di fede in quanto esso esprime
un
bisogno e si veicola attraverso un movimento psichico, è
metodologicamente
scorretto, perché travalica dall’esperienza stessa, la quale non può
pronunciarsi, per sua natura, sul non-sperimentabile, cioè
sull’«oggetto al di
là» del sentito. Elaborandosi come riflessione critica, l’esperienza
può solo
pronunciarsi su tale «sentito» che obiettiva un «bisogno» e,
correttamente,
valutare la natura del vissuto, appunto in quanto vissuto. Sulla verità
«in sé»
dell’oggetto può pronunciarsi solo la metafisica; sulla verità come
«rivelazione»,
il credente presta fede. Ciò vale anche al contrario: ciò che è creduto
per
Rivelazione non è dimostrato, teoricamente, dall’esperienza
obiettivante tale «creduto».
L’esperienza religiosa manifesta semplicemente ciò che biograficamente
un
soggetto vive e pensa. Possiamo, in conclusione, affermare che il
bisogno
coincide con il vero di fede.
Noi
qui diamo un cenno di queste coincidenze nel Petrarca,
evidenziandone anche le connessioni dottrinali.
I
La
presentazione della Madonna «coronata di stelle» (v. 2) ricalca
l’immagine
della «mulier amicta sole» (6) apocalittica, applicata dalla liturgia
alla
Vergine (7); è notevole questa referenza, perché unica al tempo
dell’autore. L’idea,
in effetti, era già nella mariologia patristica, ma l’espressione non
si
sarebbe imposta in letteratura se non nel ‘600, soprattutto con
Francesco Redi,
prima del quale si riscontravano enunciazioni molto più vaghe, come
«incoronata
in ciel regina» delle laudes
oratoriane del ‘500.
Gli
attributi che specificano la Madonna sono tutti consueti, con
denotazione
in genere morale ma con connotazione anche ontologica: «bella» (v. 1),
«saggia»
(v. 14), «pura» (v. 27), «sola al mondo» (v. 53), cioè «unica e sola»
(v. 133),
«dolce e pia» (v. 61), «benedetta» (v. 35), «beata» (v. 38), «santa»
(v. 40), «gloriosa»
(v. 48), «chiara e stabile» (v. 66), «sacra ed alma» (v. 87), «umana» e
«umile»
(v. 118). Il ritmo incalzante delle aggettivazioni, con funzione
emotiva
indubbiamente più che in un Alighieri – cioè esprimente lo stato
d’animo del
soggetto stesso – ma non senza una funzione anche enunciativa, riflette
il
pensiero patristico, per cui «conveniva che la Vergine fosse dotata di
qualità
tali, da essere piena di grazia, in quanto è stata ella […] a dare il
Signore
al mondo» (8). Se questa «bellezza» consiste nel «piacere a Dio» (cfr.
v. 3),
sulla quale Giacomo di Serug già aveva fondato il privilegio di
«divenir Madre
di Dio» (9), ne deriva, per il fedele, ch’«Amor mi spinge a dir di te
parole»
(v. 4). Ma, prima ancora, è quella stessa bellezza una conseguenza: è
«conseguenza
della predilezione di Colui, ch’amando in Te si pose» (v. 6).
Il
rapporto poliedrico di Maria nei confronti di Dio («Del tuo Parto
gentil figliola e madre», v. 28) è espresso forse con minor vigore
della
sintesi dantesca. Ma la figura retorica metonimica («parto» in luogo di
figlio), se da un lato appare inutile, dall’altro è efficace a
sottolineare la
dimensione reale della maternità di Maria, come già nella Patristica in
polemica anti-gnostica (10). Con questa terminologia il Petrarca si
conferma,
anche in teologia, più «sensitivo» di Dante, il quale esprimeva una
tendenza più
vicina all’ontologia di alcuni speculativi neotestamentari e
all’intellettualismo
tomista.
Per
altro verso, c’è da segnalare la potenza teorica e la forza
intuitiva del Petrarca nel rappresentare l’azione dello Spirito Santo
nell’Incarnazione.
A parte tutta l’importanza dell’attributo «gentil», semanticamente
pregnante
nel connotare, stilnovisticamente, la nobiltà, la graziosita, la
potenza «salutare»
del «Parto», qui notiamo che il «Colui, ch’amando in Te si pose»
richiede e
sottende, quanto meno, l’operazione dello Spirito Santo il quale,
secondo
Tommaso d’Aquino, «le fece nascere Cristo» (11). In questa espressione
il
Petrarca appare più incisivo dello stesso Alighieri, generalmente più
scavato
nel linguaggio teologico, il quale, ponendo in bocca al «fedel
Bernardo» un
discorso di intercessione, ha potuto guadagnare in questo caso in
diffusiva
dolcezza ed in chiarezza espositiva (12).
Concettualmente
precisa è la supplica a Maria mediatrice (13): lei, «che
ben sempre rispose / Chi la chiamò con fede» (vv. 7-8) e che soccorre
alla «Miseria
estrema dell’umane cose» (v. 10), può farlo perché è «del ciel Regina»,
è
opposta alla «terra». La perifrasi mariana echeggia quella del Paradiso
XXXI,
100 e risponde alla tradizione letteraria ormai consolidatasi con le laudes due-trecentesche; ma il contesto
sembra, soggettivamente, meno convinto, e lo rivela anche l’andamento
metrico e
strutturale poco fluido e al contempo poco tagliente (14). Il Petrarca
non è
così razionalmente compenetrato della «fralità» e della miseria estrema
dell’uomo,
anche se lo è, e drammaticamente, dal punto di vista psicologico. La
denuncia
del Petrarca ha, qui, ancora il carattere più dell’incostanza e del
travaglio
compiaciuto che della consapevolezza etica (15). La congiunzione
concessiva,
che motiva il ricorso alla misericordia di Maria verso chi
è «terra», indica qui che, se la motivazione è teologicamente
corretta, la dinamica è psicologicamente equivoca, poiché è fondata
dall’autore
sul rapporto posto con la «terra» medesima. La proposizione causale
dantesca
rivela meglio la determinazione volitiva, perché è proprio a causa
della
superiorità del divino, cui aderisce la preghiera del peccatore, che si
ha la
garanzia di essere certamente
liberato dalla «miseria». Il che indica la volontà di esserne liberato
davvero.
Se la concessiva petrarchesca avverte meglio della condizione misera
dell’uomo,
d’altra parte sottolinea più il distacco dal divino potere, cui si
ricorre, che
l’intenzione ferma di superare quel distacco. Simile incertezza emotiva
è
riscontrabile nel verso 18, in cui i «colpi di morte e di fortuna»
tradiscono
ancora un conflittuale attaccamento al loro opposto, cioè a «nostra
vita ch’ sì
bella» (Rotta è l’alta Colonna e ‘l verde
Lauro).
Ma
il Petrarca, sincero credente anche se titubante penitente, si
riscatta mirabilmente dal «cieco ardor ch’avvampa», ed eleva uno
sguardo, tra i
più belli del dolcestilnovo, a «que begli occhi» addolorati di Maria,
con
partecipazione filiale e commozione vibrante. Ed è vano commentare quel
lutto
forte, solenne e sereno stampato sul volto di Maria nel contemplare i
«dolci
membri del tuo caro Figlio» (v. 24). Qui c’è tutta la delicatezza del
Petrarca,
che in questa effigie dell’addolorata non mutua nulla dalle laudes,
ma ricompone in modo originale
la concettuosità dello Stabat Mater
duecentesco aggraziato dalla poetica dolcestilnovista.
Inoltre
l’Autore, sentendosi in qualche modo più vicino alla figura
della Madonna, anch’essa travagliata, si rivolge a lei «per consiglio»,
essendo
egli «sconsigliato». Poi le attribuzioni si caricano di concetti
tradizionali: «Vergine
pura d’ogni parte intera» sintetizza (v. 27), con echi patristici ma
con stile
originale, la dottrina ormai pacifica, nel Medioevo, della completa
verginità
della Madonna. L’immagine di «fenestra» del ciel (v. 31) rimanda ad
esempio a
Giovanni Damasceno (16), introdotta letterariamente già nelle laudes con il termine «porta», e nella
liturgia (17); e fa da richiamo e fondamento al «saldo scudo» (v. 17),
come già
nell’adattamento mariologico in liturgia: «Clypeus est omnibus
sperantibus in
se». La definizione «Sola […] eletta» spiega il «benedetta» per
antonomasia, che
trasformò «‘l pianto d’Eva in allegrezza piena» (vv. 34-36) (18). Né il
poeta
dimentica l’Incoronazione di Maria, «Già coronata nel supremo regno»
(v. 39),
dichiarata con semplicità e senza retorica. Il riferimento
all’enunciazione
tomista è d’obbligo (19), ma il pathos è tutto petrarchesco. Così, è
anche
petrarchesco, pregno di tensione psicologica, il ricordo della salvezza
operata
dal «Figlio» di Maria e del «sommo Padre» «in su gli estremi giorni»
(v. 30 e
32), in cui il semantema «estremo» è carico di stanchezza esistenziale
(come in
Movesi il vecchierel canuto e bianco);
ma, riferito esplicitamente alla redenzione, ha anche del «novissime,
diebus
istis» dell’Epistola agli Ebrei, 1, 2.
II
Fa
seguito quella che a mio avviso dovrebbe distinguersi come una
seconda parte della Canzone, in cui l’ispirazione sembra si faccia più
personale e, anche, concettualmente più originale, quasi che il poeta,
superato
un inizio volontaristico, si sia meglio identificato, penetrando nella
forma
universale del suo sentire e dell’oggetto sentito, con le ragioni della
«Vergine
santa, d’ogni grazia piena», con cui inizia la quarta stanza. Vi si
riscontreranno infatti concetti ed affetti già espressi.
Anche
questo inizio è solenne; densamente teologico e meno coreografico
del verso iniziale, fa riferimento all’asciutto saluto evangelico,
largamente
riscontrabile nella letteratura mariana. Ma qui esso è rivissuto con
originalità.
La definizione si giustifica infatti, nel contesto, in rapporto ad un
fatto
nuovo, tremendamente umano e rigorosamente teologico (o addirittura
teologale?): «Che per vera ed altissima umiltate, / Salisti al ciel
[…]». Qui
il Petrarca, che nella referenza lessicale al Cantico
di Francesco d’Assisi sembra sprigionare tutta una sua
consonanza con l’anima del «poverello», – evidenziatole in altre
evocazioni
successive –, penetra nelle profondità della natura di Maria: poiché la
grandezza è la verità di sé, accondiscesa con rettitudine.
L’«altissima» umiltà
di Maria, come del resto del Cristo, è la volontaria spoliazione dei
propri
titoli, amorosamente sussunta, di fronte alla suprema volontà di Dio.
Di ciò,
il Cristo è insieme il segno «princeps» e il modello reale (20). Maria
è stata
esaltata per la sua debolezza: infatti la debolezza, che nella
dialettica
cristiana è accettazione amorevole della propria contraddizione umana,
supera
questa contraddizione medesima e costituisce la vera umiltà della
grandezza. Ed
è qui che l’autore usa un «onde» che, affettivamente, indica una
consequenzialità: allora, tu «i miei prieghi ascolti».L’esaltazione
dunque ha
solo una funzione pontificale, è un servizio reso all’uomo per
soccorrerlo «in
auxilio opportuno». Il Petrarca pare allora accostarsi a Maria proprio
come
Maria si accosta a lui: la grandezza si aliena dal proprio «centro»
(21)
veracemente, come direbbe San Paolo, e si riacquista proprio in questa
alienazione; da qui il concetto, nel Petrarca, di «pietate» della
Madonna, che
il provenzale Lanfranco Cigala indicava mirabilmente come «nata per la
misericordia» (22). Il Petrarca appare qui meno generico dei Laudari
nelle loro
attribuzioni di «pietosa»; rispetto poi allo stesso Alighieri (23),
mostra una
acutezza originale: «Tu partoristi il fonte di pietate» (v. 43). La
«pietate» è
indicata come specificazione del «fonte» partorito: ora, specificare il
Figlio
significa estendere l’attribuzione alla Madre, secondo una analogicità
teologica molto antica e universalmente seguita, indubbiamente nota al
Petrarca.
Lo stesso vale per il «sol di giustizia» che «Tu partoristi», che, per
lo
schema stereometrico, è sinonimo della «pietate». Due sono dunque le
osservazioni che si impongono: il Petrarca parla di Maria attraverso
gli
attributi del Figlio, e parla di «pietate» congiuntamente alla
«giustizia». Sia
nel senso di santità sia nel senso di benignità, la pietà è collegata
alla
giustizia anch’essa polivalente, ma convergenti entrambi i significati
nella
seguente rappresentazione concettuale: salvare longanimemente,
rasserenare «Il
secol pien d’errori oscuri e folti» (v. 45). È qui sotteso il
riferimento alla «luce
che risplende nelle tenebre» di Giovanni
1,5 e della «benevolenza e umanità del Salvatore nostro Dio apparsa in
mezzo a
noi, che ci ha salvati per la sua misericordia» di Tito
3, 4.
Nel
Petrarca, la teologia si carica, attraverso la contrapposizione di
«rasserena»
e di «oscuri», di una valenza psicologica: il bisogno di pace. Su
questo
registro affettivo si susseguono musicalmente i cardini teologici della
mariologia
petrarchesca (vv. 47-49):
Tre
dolci e cari nomi hai in te raccolti,
Madre,
Figliola e Sposa;
Vergine
gloriosa,
Donna
del Re, che i nostri lacci hai sciolti.
La
ripresa delle attribuzioni, che si susseguono quasi con ossessività,
non hanno un valore solo formale, ma anche sostanziale. «Donna del Re»
parafrasa «Sposa», e «Vergine» di gloria sembra parafrasare sia «Madre»
sia «Figliola»,
in una forma stilistica molto più efficace delle relative espressioni
dei
Laudari e dei poeti del Duecento (24). La Vergine, infatti, è Madre,
quindi in
contraddizione concettuale con se stessa. La gloria è della figlia, la
quale
però è anche «Donna» del proprio «Re» o signore. Se è vero che il
«gloriosa» è
riferibile, nel contesto, alla relazione «filiale» di Maria nei
confronti del
proprio Figlio, allora il Petrarca non ricalca semplicemente la
consueta
concezione mariologica e la terminologia diffusa (25), ma intenziona un
nuovo
valore, che è tipicamente petrarchesco nella sua valenza psicologica ed
è
neotestamentario nella sua verità oggettiva: la gloria è nell’esser
figlio, cioè
nel ricevere. Più difficile è
ricevere che dare: ricevere non è possibile senza «umilitate». Il dare
non è
santo, se non con la stessa «umilitate». Il vero ricevere presuppone il
riconoscimento
della bontà e grandezza altrui, esige accettarsi dipendenti. Il dare è
giusto e
generoso, ma solo se è «nemico d’orgoglio», come Maria (v. 118). Per
questo, il
più puro e perfetto dare è quando si riceve di poter dare, come nel
caso della
Vergine, a somiglianza di Gesù (26).
L’umiltà
nell’accettare la volontà di Dio è dunque la condizione per
cui Maria innamorò il ciel di sue bellezze, assolutamente uniche al
mondo (cfr.
vv. 54-55). Il Petrarca passa poi al corredo morale di Maria: «Santi
pensier,
atti pietosi e casti», che l’autore annota come altrettante grazie che
Ella è
in grado di dare agli uomini. Anche
qui, gli attributi sono carichi di tutta una significazione
stilnovista, più
seguita da un Alighieri che da un Petrarca. È dunque notevole che
l’autore qui
vi ricorra a proposito della Madonna; ma c’è anche una base patristica
a tale
quadro spirituale di Maria, particolarmente in Giovanni Damasceno (27)
e in
Sant’Efrem (28).
Tale
santità, che fece da «tempio» «sacrato e vivo» (v. 57) a Dio, rimanda
alla concezione del «templum Dei» operato dallo Spirito Santo, e, più
specificatamente, alla patristica e alla scolastica, da San Gerolamo
(29) a San
Tommaso (30). La potenza dello Spirito Santo, fondamento della Santità,
è
connessa alla «Donna del Re»: Cristo è colui che «nostri lacci ha
sciolti» (v.
49), con riferimento semantico al petrino «lacci del diavolo» e alla
redenzione
che ha «fatto il mondo libero» (v. 50).
Il
Petrarca si rivolge poi, secondo la tradizione mariologica, a Maria
come a «vera beatrice» (v. 52): la Madonna compie, per grazia della sua
elezione («eletta»), ciò che Gesù compie in forza di se stesso.
L’immagine di «beatrice»
è ormai classica nella letteratura stilnovista: ed è l’immagine della
funzione
mediatrice, che veicola l’uomo a Dio. Se l’amore immanente del Petrarca
è «laura»,
che esprime la dolcezza della terra, l’amore trascendente è, ed è solo
esso, «beatrice».
Questo amore non risulta, in tutta la Canzone, per nulla e in nessun
senso
affliggente, come invece, si sa, quello di Laura.
La
seconda parte della Canzone si conclude con una pressante e
commossa, al limite del patetico, invocazione a Maria: «Con le
ginocchia de la
mente inchine» (v. 63). L’espressione trova una analogia letteraria
nella
Bibbia (31), ma anche in un altro testo del Petrarca, che nel suo
testamento si
esprime con un «flexit animae genibus». Tale umile genuflessione
spirituale di
fronte a colei che è «via de salvamento», come si era espresso Garzo
dall’Incisa,
è giustificata da una richiesta della massima importanza: «E la mia
torta via
drizzi a buon fine (v. 65). Il concetto dantesco che la Vergine «sia
mia scorta»
è ripreso ma senza imitazione pura e semplice, anche se il termine
«via» era
ormai divenuto obbligato.
III
La
terza parte, come a noi sembra dover distinguere, inizia con «Vergine
chiara e stabile in eterno»: contrapposizione stilisticamente e
concettualmente
precisa. Chi, infatti, può assicurare la retta «via» non può essere che
colei
che sulla via non-«torta» è stabile al punto che, predestinata a
santità,
illumina («chiara») la via stessa.
La
«stella» di «questo tempestoso mare» (v. 67) è un’immagine liturgica,
teologica e letteraria, documentata nell’«Ave maris stella», in San
Bernardo
(32), in San Tommaso (33) e in alcune laudes
(34). Essa si accompagna ad «ogni fedel nocchier fidata guida» (v. 68).
Ma è
splendida la struttura globale di tutta la stanza (vv. 66-78) per
l’armonia
stilistica, per l’andamento di stampo innodico, e per la serrata
concatenazione
delle figure analogiche che si incentrano sulla metafora del navigare,
il cui
significato logico trova maggior vigore nelle opposizioni semantiche o
concettuali come «stabile-tempestoso», «stella-procella», «guida-senza
governo»,
«in eterno-ultime strida», «Peccatrice-Vergine», «tuo (nemico)-mio
(mal)», «peccar
nostro-tuo verginal», «Dio-umana carne», e negli accostamenti
logico-espressivi, con alcune allitterazioni, come «chiara-stella»,
«fedel-fidata»,
«stabile-si fida», «di questo tempestoso-in che terribile»,
«mare-procella». L’esposizione
lirica è tipicamente petrarchesca; piuttosto imitativa della liturgia
nei versi
67-68, è tuttavia originale negli altri, e si distingue anche
dall’esortazione
così lirica di Bernardo da Chiaravalle, da cui il poeta trae comunque
immagini
come l’«essere agitato dalle onde» (35).
Il
tutto assume una caratterizzazione armoniosamente retorica, con
procedimenti a volte melodici, a volte prosaici come nel caso dei due
versi
che, con il settenario, esaltano in posizione enfatica la
contrapposizione «Peccatrice-Vergine»
e al contempo in posizione rimica la commossa avversativa: «i’ non
nego-ma ti
prego». Trascorre in questi versi un brivido esistenziale; ed è proprio
in
questo tremore che l’emotività informa la dottrina, e la dottrina
illumina la
commozione. Nella preghiera che «‘l tuo nemico del mio mal non rida»
(v. 75)
non c’è solo tecnicismo, né solo angoscia: c’è anche il «non gaudebit
inimicus
meus super me» del Salmista, e del Nuovo Testamento (36).
La
costante terminologica «mio duro avversario» (cfr. Padre
del ciel) e «mio nemico» (Io son sì stanco) esprime
una dimensione
conflittuale indubbiamente petrarchesca, ma con connotazione,
soprattutto qui,
concettualmente scritturistica (37). Viceversa, il riferimento dotto è
informato da un profondo vissuto esistenziale.
La
teoria, scritturistica e patristica, del «peccatum» che occasiona
l’Incarnazione
– teoria che nel Petrarca presenta una tinta devozionistica – non
appare né
cerebrale né esteriore, ma partecipata, nelle immagini teologiche e
tradizionali
dell’«Uman carne» e del «verginal chiostro» (38). Lo stesso vale per il
«tuo
nemico» (v. 75), secondo la lettura mariologica del Genesi
(39).
L’atmosfera
mestamente sentimentale del più tipico Petrarca, con il suo
autobiografismo esistenziale, compare nelle stanze successive con
commossa
vibrazione:
Vergine,
quante lagrime ho già sparte […]
Non
è stata mia vita altro che affanno (vv. 79 e 84).
In
verità, il
nostro penitente nostalgico è troppo abituato a piangere «lacrime»
ovunque
ritrovi un «porto / alle gravi tempeste» (O
cameretta, che già fosti un porto) (40). Il disinganno,
frequentissimo nel
Canzoniere (cfr. es. Se col cieco desir,
che il cor distrugge), ha colorazioni religiose (cfr. es. Padre del
ciel,
dopo i perduti giorni): il proprio affanno è dichiarato dal poeta «non
degno»,
un «fascio antico» di «colpe» (Io son sì
stanco sotto il fascio antico). Ma quest’«anima sconsolata» (Che fai? Che pensi? Che pur dietro guardi)
si autocommisera per il tempo «che tornar non puote omai» (ibidem);
per cui, il «Cerchiamo il ciel, se qui nulla ne piace», se
cioè l’amore è tanto penoso, come continua il Sonetto medesimo,
tradisce un
bisogno celeste ben poco sicuro. Il «ciel» appare non come
un’intenzione
diretta, ma come un ripiego altrettanto, anzi più penoso dell’amore. Il
cielo
non trova un fondamento in se stesso, ma in una mancanza d’altro che
appunto
costituisce il positivo. È questo il sotteso comune a tutti i Sonetti
«religiosi»
del Petrarca (41), ed esso ha indubbiamente una complicatezza
psicologica ed una
precarietà morale sconosciute alle simili dichiarazioni di «debolezza
volitiva»
dei poeti provenzali, come Lanfranco Cigala (42).
Nella
Canzone Vergine bella l’autore
porta con sé ancora un rammarico per non aver goduto la vita se non con
«affanno»
(v. 84) mentre ormai «sol morte m’aspetta» (v. 91); ma altre
commiserazioni non
compaiono: il discorso si fa più concreto dinanzi alla verità della
coscienza e
alla presenza della «Vergine sacra ed alma» (v. 87). «Miserie e
peccati» (v.
90) è un binomio sinonimico non consueto, nel Petrarca, con uno dei due
termini
semanticamente etico. «Vaneggiar» o «errar» sono segni equivoci:
indicano
deprecazione ma insieme affezione. In «peccato»,
invece, è intenzionata la colpa morale, sia pure con tutte le
complicanze psicologiche
petrarchesche: essa ha «tutta ingombrata l’alma» (v. 86).
Quando,
nella stanza successiva, l’autore introduce la figura di Laura,
perché la «Donna del ciel» ponga fine al rimpianto per l’amata, è
sostanzialmente assente l’antico giochetto di respingere e agognare.
L’andamento
lirico in effetti si fa più asciutto, come in un colloquio a carte
scoperte. Ci
sono ricordi, si fanno ipotesi, c’è del dispiacere: ma non vi vedi
narcisismo.
Sono versi, crudi e puntualizzati, che il Petrarca avrebbe potuto
scrivere in
prosa. È come se, qui, egli si trovi di fronte a se stesso senza
l’alibi del
penoso vaneggiare. E alla fine la stanza si conclude con il pensiero
teologico che
la salvezza del fedele è gloria di Dio e di Maria (cfr. v. 104).
IV
Nella
stanza successiva il canto perviene alla poeticità più
purificata, alla semplicità del fanciullo. La teologia non vi compare a
prima
lettura: la trovi sottesa nel profondo. Essa c’è come una preghiera,
inconsapevole e più vera, e non media più conflitti irrisolti. Vi
potresti
sentire accenti, immediati ed ingenui, dei migliori Padri e scrittori
ecclesiastici (43).
Questa
parte è introdotta dalla «Vergine» come ragione di «speranza»,
con una solennità allusivamente dottrinale pur nel riferimento
soggettivo alla
debolezza umana e personale. La convinzione che la Madre di Dio
rappresentasse
una mediazione privilegiata fra Dio e l’uomo e costituisse, in questo
senso,
salute per l’umanità, era così radicata nel ‘200 e nel ‘300, che tutte
le
testimonianze letterarie di natura religiosa non mancavano di
riferirvisi, da
Francesco d’Assisi a Jacopo Passavanti, da Jacopone da Todi a Caterina
da Siena
(44). Ricordiamo inoltre la formulazione mariana, proprio di questa
epoca, del Te Deum: «in te, Domina, speravi, non
confundar in aeternum».
L’esposizione
petrarchesca appare ispirata a tale concezione, che risponde
alla più pura tradizione patristica e medioevale. Ad esempio,
Sant’Agostino
aveva connesso la singolarità della grazia di Maria con la sua forza
salvifica
(45), e San Bartolomeo il Giovane aveva cantato la «protezione» e la
«difesa»
della Madonna verso chi avesse «speranza» in lei (46). Il «possa» e
«vogli
aitarme» della Canzone (v. 106) procede comunque con una semplicità
estrema, quasi
inconsueta nelle composizioni petrarchesche dello stesso genere
letterario,
piuttosto auliche e apparentemente studiate. Il pregare, fiducioso ed
umile, ed
il linguaggio soffuso di un afflato teologale, richiama, ancora, un
Sant’Anselmo,
che ad esempio aveva scritto: «Non è credibile che tu (Maria) non abbia
pietà
degli uomini miseri che ti supplicano» (47). Nel «gran bisogno» per il
quale l’autore
invoca «aiuto» non si può non scorgere, soprattutto per il rapporto che
il
testo pone con la morte, un turbamento esistenziale di fronte alla vita
che
sfugge, una vita intessuta di inganni, ma pur sempre «dolci». Ma la
direzione
coscienziale è senz’altro religiosa, e risponde ad esortazioni che il
poeta
certamente conosceva, come quelle di San Bernardo: «oppresso dalla
gravità
delle tue colpe […], preso da una tristezza abissale […], invoca Maria»
(48), e
alla riflessione scolastica: «In ogni pericolo tu puoi esser aiutato
dalla
Vergine» (49). E ciò vale soprattutto per «l’estremo passo» (cfr. anche
«guado»,
v. 129) che, con una simbologia consueta (usata anche da Dante), indica
la
morte.
Il
fondamento dell’aiuto sperato e chiesto dall’autore ha precedenti
biblici, come quando David si rivolge a Dio in «grazia del suo unto».
Nella
Canzone, la pietà è invocata a causa della paternità creatrice di Dio,
che ha
plasmato l’uomo a sua immagine e somiglianza e lo ha elevato alla
filiazione
adottiva per mezzo del Cristo (cfr. v. 109); argomenti cui si era già
riferito,
col pathos dell’amore e timore, il Dies irae
del ‘200.
Le
indicazioni del Petrarca circa la «bassezza» della propria vita (che
«Medusa e l’error mio m’han fatto un sasso», v. 111) sfociano in una
specie di
memoriale autobiografico, nel quale il poeta conclude circolarmente
tutta la
sua esistenza come tensione fondamentale verso Dio. In questo panorama
soggettivo, la Vergine è definita nella maniera forse più vicina alla
spiritualità di San Francesco, il quale, con una eccezionale intuizione
mistica
e teologica, aveva per così dire reincarnato il senso dell’umanità di
Gesù. Il «figlio
dell’uomo» dei Vangeli e il «simile a noi in tutto» di San Paolo,
infatti,
aveva raggiunto con il «povero» Francesco una riproposta rivoluzionaria
(50).
Il Petrarca, definendo Maria «umana» (v. 118), introduce dunque nella
mariologia letteraria una innovazione sorprendente. La Madonna, vista
abitualmente come «diva», aveva assunto, sì, tratti umani nelle
descrizioni
materne e «dolorose» dei Laudari, ma nello stupore del contrasto
determinato
dalla «divina» protagonista. Certamente, bisogna ricordare che la
svolta antropologica
in arte mariana era già avvenuta tra la fine del ‘200 e gli inizi del
‘300, ad
esempio con le «madonne del latte» di Pietro e Ambrogio Lorenzetti, le
sculture
di Nicola Pisano dagli sguardi «umani», con la «puerpera» di Arnolfo di
Cambio.
Tuttavia l’attribuzione del Petrarca investe un ambito più
specificamente
teologico, quando la collega con l’altra definizione: «nemica
d’orgoglio».
Con
quest’ultima espressione l’autore dice qualcosa di più che, con una
fraseologia, umile: egli afferma qualcosa mediante la negazione del suo
opposto. Il prosieguo immediato indica quale sia la negazione.
L’opposto in
questione non è la superbia umana, ma superbia della «regina». Maria
potrebbe
essere orgogliosa di sé, e la sua grandezza di umiltà consiste proprio
nel
trionfare di questa sua possibilità.
Non essere superbo per chi non ha ragione di esserlo, è normale. Ogni
uomo,
essendo un valore, potrebbe esserlo, e, se non è superbo, è virtuoso.
Ora,
questa virtù è proporzionata al valore che si è: e Maria è la più alta
«fra le
creature». Per questa sua grandezza di umiltà, è capace di riconoscere
il «comune
principio» (v. 119), in grazia del quale – l’autore non mostra
esitazioni –
Maria è indotta, per «amor», ad aiutare l’uomo. Il Magnificat
evangelico non è imitato: ma la poesia petrarchesca ne
contiene tutta la ricchezza teologica e tutta l’umana semplicità.
Con
questa premessa, è possibile leggere nei rimanenti versi della
Canzone, almeno psicologicamente se non strutturalisticamente, uno
spirito
liberato dell’egocentrismo narcisistico del Canzoniere. Il «Miserere
d’un cor
contrito, umile», anche se intenzionante il Miserere
mei, Domine del Salmista e della Chiesa, è consueto nel Petrarca
con
connotazioni di velleitarismo religioso. Anche la contrapposizione tra
l’amore
per la «mortal terra caduca» (v. 121) e per la «cosa gentile» (la
Madonna) è
tipica nell’opera petrarchesca. Ma qui non c’è nulla dell’enfasi
stilnovista, né
c’é mistificazione in quella prolungata promessa – per quanto un po’
letteraria
– di consacrarsi a Maria se per sua grazia egli potrà «resurgere» (cfr.
vv.
114-127). Come giustamente dice Mario Fubini, non è un virtuoso che
parla, ma,
in fondo, ancora un «uomo che lotta e che implora», (51). Il proposito
dell’ultima
stanza guarda, è vero, più al passato, «di cui è spento […] il fascino,
ma che è
tuttora vivo in lui», che non al futuro; ma il centro della poesia,
continua il
critico, è nella confessione «aperta e piena». In siffatta confessione
c’è
embrionalmente per lo meno, possiamo aggiungere, la coscienza autentica
del
bisogno di misericordia. Questa Canzone dunque non risponde solo ad un
bisogno
di autocompiacimento e di autocommiserazione, ma anche alla convinzione
tendenzialmente etica di superare questi stessi momenti affettivi.
L’ultimo
accenno alla «morte», che «punge» il poeta tanto quanto il
rimorso («coscienza») si affranca dalla sottesa equivocità mediante la
fede
nel«verace / Uomo e verace Dio» e nella mediazione di Maria:
«Ch’accolga il mio
spirto ultimo in pace».
«E l’ultima parola – conclude il
Fubini – […] è quella che dà voce all’ispirazione poetica della sua
anima
inquieta».
NOTE
(1) Come nella Vita Nova e
in numerosi passi della Commedia riguardanti Beatrice,
o altri personaggi conquisi
dall’amore.
(2) Presso
la tomba di Francesco Petrarca, discorso tenuto ad Arquà il 18
luglio 1874,
in Prose di Giosuè Carducci, Bologna
1911, p. 14.
(3) Op. cit.,
p. 13.
(4) Op.
cit., p. 15.
(5) Op.
cit., pp. 16-17.
(6) Ap
12,1.
(7) Come nell’inno «Solis, o Virgo,
radiis amicta / Bis caput senis redimita stellis» per la festa
dell’Assunzione.
(8) Ad es., in San Gerolamo, Sermo
de Assumptione B. Mariae Virginis.
La traduzione di tutti i testi latini è personale, salvo diversa
referenza.
(9) Omelie
mariologiche, a cura di C. Vona, Roma 1953.
(10) Cfr. ad es. «in utero concepit
Creatorem di San Giovanni Damasceno (Oratio
2 de Dormitione B.M.V.); «sic ingressus est ospitium ventris, ut
corporis
claustrum nesciret» e «sicque gestatus» di San Gerolamo (Sermo
de Assumptione B.M.V.). È doveroso precisare il realismo, in
ciò, anche di Dante («nel ventre tuo»), rispetto al quale ho tuttavia
creduto
di distinguere l’espressione petrarchesca, perché in Dante il termine
compare
in un contesto in cui esso diventa obbligato.
(11) Expositio
salutationis angelicae. Tommaso cita Ugo di San Vittore, De B.M. Virgintate perpetua, 2.
(12) Paradiso,
XXXIII, 7-9.
(13) Giustamente Sant’Ambrogio aveva
scolpito questa dinamica (Commentarium in
Lucam, 2,1): il superiore si porta verso l’inferiore perché
quest’ultimo
sia aiutato a sollevarsi.
(14) Per quanto ciò sia conforme a
diverse parti della produzione delle Canzoni del Petrarca.
(15) Cfr. invece Paradiso,
XXXIII, 34-37 e passim.
(16) Octoëcus-Paracletus,
a cura di G. Giovanelli, Roma 1885: «mistica porta».
(17) «ianua coeli»; «porta, ex qua mundo
lux est orta» dell’Ave, Maris stella.
La variante terminologica del Petrarca sembra giustificarsi in rapporto
alla
concezione stilnovista, per il quale l’amore è veicolato attraverso la
«finestra»
degli occhi.
(18) È chiaro il riferimento alla
liturgia del Sabato Santo che canta: «O felix culpa», e alle
considerazioni,
più specificamente mariologiche, dei Padri: «Ac per hoc quidquid
maledictionis
infusum est per Hevam, totum abstulit benedictio Mariae» (San Gerolamo,
Sermo de Assumptione B.M.V.), o, più
sinteticamente, «la morte per Eva, la vita per Maria» (San Girolamo, De custodiendis Virginibus, 208, 4).
(19) Expositio
salutationis angelicae, che cita Salmi,
131,8.
(20) Eb 2,17: «debuit per omnia
fratribus similari, ut misericors fieret, et fidelis pontifex ad Deum»;
Fil
2,7-8: «[…] in similitudinem hominum factus, et habitu inventus ut
homo».
(21) È un’espressione che prendo a
prestito dai teologi Bertoletti e Segneri della Pontificia Facoltà
dell’Italia
Settentrionale, in Teologia italiana oggi,
Milano 1979, e la mia recensione in «Nuova Rivista Storica».
(22) Cento
liriche provenzali, a cura di A. Cavaliere, Bologna 1938.
(23) Paradiso,
XXXIII, 19.
(24) Ad es., Garzo dall’Incisa: «de te
fece madre e figlia», in Poeti del Duecento,
a cura di G. Contini, II, Milano-Napoli 1960.
(25) L’espressione Vergine gloriosa era
ormai diffusa nella letteratura mariologica medioevale, soprattutto di
ispirazione francescana. La si trova in San Bonaventura (Sermo
de Assumptione V, ed. Quaracchi, 1901, IX, p. 695), che cita
San Bernardo (Sermo I in Assumptionem,
4), il quale già vedeva, come poi Dante, la Madonna nel consesso del
paradiso.
(26) Essendo Dio e pur «sapendo di non
compire una violenza od un arbitrio ponendo se stesso uguale a Dio,
umiliò se
stesso prendendo la naturalità del servo» (cfr. Fil 2,
6 ss). Per questo, non avendo egli «parlato da se stesso»,
ma essendosi sottoposto al Padre, da cui tutto «ha ricevuto», Dio lo ha
«esaltato al di sopra di ogni altro nome, e gli ha riservato il diritto
di
inviare agli uomini suoi fratelli lo Spirito del Padre stesso,
«clamantem Abba,
Pater».
(27) «nullis terrenis inquinata est
affectibus, sed coelestibus educata cogitationibus» (Oratio
2 de Dormitione B.M.V.).
(28) «nell’anima sua era sapiente, nel
corpo suo era santa, nei suoi pensieri era pura» (Inni alla
Vergine, a cura di G. Ricciotti, Torino 1939).
(29) In S. Dei Genitricis
Dormitione Sermo I: «tutto domicilio di Dio».
(30) Expositio
salutationis angelicae: «O dimora di Sion», che cita Isaia
12,6.
(31) «flecto genu cordis mei precans a
te bonitatem». L’uso della metafora in questo senso, consueto nella
letteratura
vetero-testamentaria, è reperibile anche in San Pietro: «i lombi della
vostra
mente». L’espressione petrarchesca sarà poi ripresa da scrittori
successivi,
come il Tasso, e comunque rispecchia, nel Medioevo, la sottomissione
religiosa
dell’anima di fronte alla divinità, con atteggiamento di vassallaggio.
(32) Homilia
II super ‘Missus est’, in Xenia
Bernardina, Vienna 1891: «guarda la stella», e, come direbbe il
provenzale
Lanfranco Cigala, «nella notte tenebrosa» (Cento
liriche provenzali, cit.).
(33) Secondo cui, sulla scia della
tradizione alto-medioevale, Maria significa «stella del mare» (Expositio salutationis angelicae, cit.).
(34) Celebre quella attribuita a
Giacomino da Verona (seconda metà del ‘200): «claro più ke stella
diana» (ed.
Mussafia in «Sitzungsberichte der Kaiserl. Akad. der Wissenschaften»,
aprile-maggio 1864, pp. 191 ss.
(35) Homilia
II super ‘ Missus est’, in Xenia,
Bernardina, Vienna 1891.
(36) I Pt, 5,8: «adversarius vester
diabolus».
(37) Prima ancora delle radicalizzazioni
medioevali sulla «lotta» tra Dio e Satana, come in Onorio di Autun e,
per
quanto concerne la liturgia della celebrazione eucaristica, in Johannes
Beleth
e Sicardo di Cremona, la Scrittura, sia antica che nuova, insiste sulla
opposizione Buono-cattivo, tanto da definire il nemico di Dio come
«maligno».
Oltre i testi citati, si ricordi la riflessione dell’apostolo Paolo che
attribuisce al «demonio» alcuni suoi impedimenti apostolici, e quella
di Gesù
stesso, sul simbolico «malvagio» che, di notte, semina la zizzania.
(38) Cfr. San Girolamo, Sermo de
Assumptione B.M.V.
(39) Al riguardo, Cirillo Alessandrino
aveva parlato esplicitamente di «demoni in rotta», e del «precipitare
del
Tentatore dal cielo» in virtù della funzione di Maria nella
Incarnazione (Homiliae, PL XXVII, 992-993). L’inno di
Acatisto, più poeticamente, aveva detto che Maria è una «folgore che
atterrisce
i nemici (a cura di G. Giovanelli, Grottaferrata 1940).
(40) L’autore impara, dal canto
dell’usignolo, «lagrimando… / Come nulla quaggiù diletta e dura» (Quel rosignol che sì soave piagne). Sui
«pianti» del Canzoniere, è qui comunque inutile insistere.
(41) Nel Padre del ciel, la
preghiera è più esplicita che negli altri
sonetti. Il senso religioso senz’altro c’è, ma il contesto mostra
quanto il
pentimento sia legato all’esperienza amorosa. C’è dunque più ambascia
che
contrizione, più stanchezza che determinazione.
(42) Cento
liriche provenzali, cit.: «debole il mio volere».
(43) Come nella preghiera di San
Bartolomeo il Giovane: «fa’ cessare le passioni (Gl’inni
sacri, a cura di G. Giovanelli, Grottaferrata 1955).
(44) Lo
specchio della vera penitenza, dist. III, cap. IV.
(45) «Odi il saluto dell’angelo stesso e
in me riconosci la tua salute»; cfr. La
Vergine Maria, a cura di M. Pellegrino, Roma 1954.
(46) Cfr. Gl’inni sacri, cit.
(47) Orationes
et meditationes, ed. di Edimburgo 1946. Notiamo come questa
considerazione
anselmiana corrisponda quasi alla lettera a quelle di un futuro poeta
travagliato, più del Petrarca: Giacomo Leopardi, nei suoi scritti
giovanili sul
Cristo e sulla Madonna.
(48) «Homilia II super ‘Missus est’», in
Xenia Bernardina, cit.
(49) Tommaso d’Aquino, Expositio
salutationis angelicae, che
cita il Cantico dei Cantici, 4,4.
(50) La figura iconografica di
Sant’Antonio di Padova non risponderebbe esattamente al personaggio
storico, se
non nel senso per cui il «bambino» Gesù era una centralità teologica
nel
pensiero francescano.
(51) Dizionario
letterario delle Opere e dei personaggi, v. II, Milano, pp. 70-71.
Fonte :
Francesco di Ciaccia, Teologia
ed esistenza nella Canzone “Vergine bella” di F. Petrarca, «miles
immaculatae», 1-2 (1986) pp. 121-137.
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