CHIARA RITA BENEDETTA
Maria donna innamorata (+Tonino
Bello) , 2000 ,
oli e acrilici su tavola 50x100cm
Chiara Rita Benedetta : una passione per i classici
presentazione del
prof. Alessio Varisco
Il
conflitto fra l’aspirazione e il disconoscimento della bellezza, sia essa
intesa come causa formale portatrice di eufonia e
consonanza assolute che come compimento hanno il destino dell’uomo, è sotteso
a tutta la creazione artistica di Chiara Rita Benedetta. Emerge in quella
lieve sensazione di inquietudine che l’ambiguità
delle immagini adombra le sue opere la sua carica ancestrale.
Tutto ha
inizio nei classici. Chiara con intelletto ed amore affina la sua arte, a
margine dei manuali al Ginnasio e poi al liceo, e traccia segni “provati”
guardando la mamma dipingere. L’emozione che si ha nell’osservare
le sue creazioni è stupore misto a gioia per come si possa descrivere
sensazioni profonde che vengono dalle letture.
Il tema di
una bellezza assoluta cui offrire religiosamente tutta la propria forza
poetica, nonché il valore di una tecnica istruita
sottoposta a lenti processi di raffreddamento, si sfamano tanto di rigore
morale, quanto di capacità di riproduzione artistica percepibile in ogni
lavoro, seppure giovanissima, -e soprattutto in quelli a tecniche miste, di
vaste dimensioni- ed in ogni frammento della pittura, senza mai cedimenti,
perdita di ritmo o di intensità trovata.
L’ansia
spirituale sottaciuta in questo misticismo
della pittura non può non cozzare dolorosamente con la scarsa
resistenza e debolezza dell’uomo. Così l’ostinata resistenza
della insipidezza e della grossolanità racchiuse
nel quotidiano delinearsi delle congiunture trova spazio in un mondo ideale
dove il classico ci è modello. L’identica improrogabilità del vivere e del
dipingere può introdurre elementi eterodossi rispetto all’intuizione
originaria di un’immagine/forma iniziante del processo creativo. Trattasi
di elementi degni di attenzione che, sicuramente,
abbozzano quadri globali diversi da quelli prospettati dal mondo. All’artista
il compito più alto di guidare, fino a suscitare
-anche all’interiore dei percorsi freddi- variazioni iconografiche e
pittoriche importanti soprattutto sul piano iconologico.
La variazione dal tema dei classici (cui si affianca, come si vedrà, il
concetto della poesia) nasce,
in questo senso, come motivo propriamente pittorico ed immerge le sue
riflessioni in situazioni di tipo psichico, delineandosi
come una nuova e svagata immaginativa.
Qualcosa
di somigliante è del resto risaputo alla pittura. Si pensi al Manierismo che
ha al suo fondo questo umanissimo contrasto formale
e morale fra il primato delle cause
formali e l’incapacità epocale
di uguagliarla. Dissidio che si trascinerà fin
agli albori del Barocco, rappresentandosi anche più diffusamente come divario
tra terra e
cielo, fra
vita e
morte. Paradigmatico il
Canestro di frutta del Caravaggio
che segna forse l’istante più acuto e simbolico di
questo patimento. In esso il tema della
magnificenza naturale assume significati ontologici nell’evidenziazione
dell’inizio di un suo acre e pungente logoramento. Nel
Bacchino
malato il tema di un’ambigua verità suggerisce, con il precedente,
lo scandaglio di un mondo interiore in cui bellezza e verità vivono come
desiderio e bisogno inappagabili, aggredibili dal dubbio, dal senso di
smarrimento e di paura. E così che la bellezza, portatrice dell’essenza stessa
della vita, finisce col confondersi col senso della morte e
ad adombrarne il presagio. Disgiunta da un destino
divino, la bellezza non è un assoluto, ma la
nostalgia di
esso. E qui che il sentimento può anche smarrirsi, o la ragione
intridersi di ironia.
Anche
questi sono spazi della creatività. L’immagine che la mente intuisce e
intravede e subito perde, viene trattenuta dalla
pittura, ma la riduzione inevitabile
dis-vela una bellezza
guastata e in ciò più intensamente e psicologicamente vera. E come la frutta
in Caravaggio, in altro tempo e in altro ambito, la Leda in
L’amore coniugale di Moravia, al
quale non fugge mai la smorfia, o il gesto, o il tic che, modificando quasi
lievissimamente un’immagine, in realtà la stravolge
rivelando, non senza fare sorgere inquietudine, un’inconcepibile e celata
potenza generatrice. Di confronto tutto immateriale con la
autenticità fa sorgere il dramma e, soprattutto, l’inquieto e amletico
interpellarsi. E non è accidentale che
l’Amleto sia corrispondente a livello
cronografico al Canestro di frutta;
così come non è involontario che Chiara Rita Benedetta
delinei nelle sue
Genesi un’atmosfera
shakespeariana. «Il resto è silenzio» pronuncia
Amleto prima di esalare l’ultimo respiro. E il silenzio cala dalla tragedia
di Amleto a quella intima di ogni possibile
spettatore; così come sprigiona il
Canestro di frutta e così come emanata da qualsiasi opera umana che
metta in congiunto e sfuggente rapporto l’esistenza e la morte, l’ordine ed il
caos, il naturale e l’insensato, il celestiale e il diabolico.
Chiara ha
bisogno di silenziosità poiché nello spazio della
sua tela la lotta tace. Vede ancora i dissidi, ma ora può rivolgere lo sguardo
verso l’alto. Tutto ciò mi riporta recentemente Chiara Rita Benedetta, il
carattere delle figure è l’infinitezza, a volte
evocante forme dell’infanzia, il senso di sempiterno che ha sconfitto il
frastuono regge lo spazio in un astratto
non essere. In questa dimensione si fa largo il volo in silenzio.
Fino a dimenticarsi di sé e del mondo, come una mistico
divendo Altro. Ed il
conflitto tra spirituale e corporeo è irrisolvibile. Da qui il tragico. Ma
anche la abbondante forza dell’immaginazione.
L’irreparabilità del combattimento e la successiva dimensione tragica
stabiliscono i termini della “questione pittura” in Chiara Rita Benedetta. Il
silenzio non è pace, né sosta, piuttosto uno
spazio e un
tempo ove “i demoni”
(nell’accezione greca del termine) non facciano opposizione di guardare verso
l’alto, e l’artista abbia la capacità di registrare
la “sensazione dell’eterno”.
La pittura
è il luogo di questo spazio e
di tale tempo differenti, in
cui totalmente si destabilizza ed acquista valore
oscuro e canzonatorio. Ma questo “sconcertamento” è
solo un’immagine periferica della pittura di Chiara Rita Benedetta, la
conseguenza non marginale di un radicato atteggiamento poetico. Si desidera
confermare che nessuna volontà precostituita influenza questo scoordinamento
spaziale e questo sconcertamento dello spettatore, che
sono come fatti sorgere, irrimediabilmente, da una maniera - questa sì
relativa a un programma: di mettere in chiaro e quindi rappresentare ciò che
l’immaginazione mette insieme quando la lotta fa silenzio e lo sguardo si
rialza. La pittura di Chiara Rita Benedetta non va, allora, vagliata meramente
nei suoi aspetti di comunicazione.
Le sue
ragioni sono sempre da scandagliarsi nel recondito della riflessione solitaria
dell’artista e quindi all’interno della pittura. E per questo le sue opere
sono certamente
ineplosive e
non esplosive, da leggersi in
margini psicoanalitici e quindi in rinvio anche all’inconscio, ma soprattutto
al principio fra esso e la coscienza, dove
l’Artista, come in una visione onirica, si sottrae dalla natura, dal mondo e
persino da sé. Come Alice entra nello specchio, dove tutto è già
adocchiato, ma dissimile, e la consapevolezza
stessa delle cose si perde nell’ambiguità del loro indecifrabile rendersi
noto. Questo è forse il tema regnante della poetica di Chiara Rita Benedetta:
sciogliere aspetti ed enti da quella che lei chiama “Richiami del Mito”,
perchè consentano di intravedere “un altrove illimitato”, a cui l’arte volge
la sua attenzione.
A tale
scopo Chiara Rita Benedetta adopera ogni mezzo pittorico atto
all’individuazione dell’indefinibile e weiningeriana
tenacia delle cose. La stessa costruzione prospettica, pure fortemente
presente all’artista, procede continuamente negata dall’intersecazione di
piani, così che si viene ad abbozzare uno spazio inverosimile (ma
indiscutibilmente non immobile), dove non è acconsentita una descrizione
incessante o comunque sorretta da uno allargamento
razionale. Si traccia così, da subito, una posizione anticlassica ed
antirinascimentale, per un verso rinviabile alla narrazione della pittorica
senese –del 1300-, ma soprattutto apparentabile a tutta la poetica
dell’assurdo nell’arte e nel teatro del Novecento. L’evocazione non
di oggetti o figure, ma della loro enigmaticità, è
certamente dechirichiana. Come
De Chirico Chiara Rita Benedetta pare non conoscere le cose che dipinge, o
quanto meno non accoglierle come dati incontrovertibili dell’oggettività,
bensì come nuove e successive occasioni di scandaglio di un mondo tutto da
decifrare, perchè enigmatico. Ogni cosa pare indossare «due aspetti:
uno corrente quello che vediamo quasi sempre e che
vedono gli uomini in genere, l’altro lo spettrale o metafisico che non possono
vedere che rari individui in momenti di chiaroveggenza e di astrazione
metafisica. [G. De Chirico, Sull’arte
metafisica, in ‘Valori
Plastici’, n.
4-5, 1919]». La meta-fisica, nel senso più
letterale del termine, quale metodo per restituire possibile una vera
conoscenza del mondo presente è fortemente sostenuta da
Schopenhauer che la considera «un
sapere attinto dal reale mondo esteriore e dall’esplicazione che di questo
fornisce il più intimo fatto dell’autocoscienza» [A.
Schopenhauer,
Die
Weltals Wille und
Vorstellung, voi. I!,
librol, cap. XVII, Leipzig,
Brockhaus 1859, p. 200].
La
relazione con la metafisica, nel senso sopra descritto, vale a contenere un
ambito di rimando a cui è doveroso far cenno, senza, per altro spingerci
oltre. Le stesse parentele con il Surrealismo non possono che essere accolte
indeterminatamente, continuando insistentemente che in Chiara Rita Benedetta
una spiccata inclinazione ad una pittura di pensiero, non direttamente in
connessione col miraggio o consumabile nell’inconscio. Si tratta piuttosto,
come si è detto, della comprensione dell’enigmaticità
delle cose, con il successivo spaesamento che ne deriva. Il carattere
fortemente dinamico ed energico che, comunque, tale
situazione mantiene riferisce, se mai, consanguineità con il linguaggio e la
struttura formale non con la poetica - dei futuristi.
Il ritmo
incalzante, le strutture rigorose e l’inclinazione, specie nelle opere ultime,
per una pittura filamentosa sono tutti ingredienti del primo Futurismo e
possono, nel nostro caso, a schiarire una situazione artistica complessa,
ricca di occorrenti e persistenti richiami storici
che possono aiutare ad abbracciare la sostanza della storia pittorica di
Chiara Rita Benedetta e la sua non estraneità alla tradizione lombarda.
In questo
senso - e anche in riferimento al futurismo (n.d.r.:
non si dimentichi che Chiara è figlia d’arte, la madre è Pittrice
espressionista ed il nonno un allievo di Pio Semeghini, Arturo Martini e
Marino Marini all’ISIA monzese) “miscelato subito, e per necessità espressive,
ancor prima che per necessità culturali al cubismo” - è doveroso ripensare
soprattutto a Sironi, alle sue
angolose volumetrie, alle corrispondenti spazialità e soprattutto al suo periodo metafisico, nonché, come si è detto, ai suoi lavori futuristi.
angolose volumetrie, alle corrispondenti spazialità e soprattutto al suo periodo metafisico, nonché, come si è detto, ai suoi lavori futuristi.
Un’opera
come Autoritratto trova nel
contesto che si è venuto fin qui delineando, alcune
delle sue ragioni fondamentali. La convergenza delle
diagonali sul piano quasi frontale della grande immagine consente - unitamente
al cono della luce dei fanalini e alla filamentosità
della pennellata gessosa
- non improbabili raffronti col Futurismo. E per restare all’interno dei riferimenti già fatti, pare lecito guardare al Cavallo e Cavaliere di Sironi (1915). In Ciclista la situazione spaziale è comunque diversa, per un allentarsi della tensione (si vorrebbe dire anche del rumore) che concede alle forme di delinearsi in una spazialità più enigmatica che compressa. Il valore metafisico delle forme - come non far cenno a Carrà? - è volto alla definizione di una situazione resa sconcertante non solo e non tanto dal dito nel naso, quanto dall’attuarsi di ciò che già si è detto in merito alla variazione della forma. Non un punto di vista, ma più punti di vista; non un dato verisimile, ma il continuo gioco della deformazione, per consentire la percezione di nuove e recondite verità di quell’altrove indefinito cui, come si diceva, Chiara Rita Benedetta si volge. In questo senso il dito del naso ha lo stesso valore dei piani sghembi, di quelle porte che non potranno mai chiudersi, ma anche della smorfia della Leda di Moravia o dell’iniziale guasto della frutta di Caravaggio. Situazioni in cui il tempo non scorre, perchè tutto avviene lì, senza che sia possibile considerare il prima e il poi. Esiste solo il presente dell’immagine dipinta e la sua possibilità di evocare eternamente l’ambiguità della vita.
- non improbabili raffronti col Futurismo. E per restare all’interno dei riferimenti già fatti, pare lecito guardare al Cavallo e Cavaliere di Sironi (1915). In Ciclista la situazione spaziale è comunque diversa, per un allentarsi della tensione (si vorrebbe dire anche del rumore) che concede alle forme di delinearsi in una spazialità più enigmatica che compressa. Il valore metafisico delle forme - come non far cenno a Carrà? - è volto alla definizione di una situazione resa sconcertante non solo e non tanto dal dito nel naso, quanto dall’attuarsi di ciò che già si è detto in merito alla variazione della forma. Non un punto di vista, ma più punti di vista; non un dato verisimile, ma il continuo gioco della deformazione, per consentire la percezione di nuove e recondite verità di quell’altrove indefinito cui, come si diceva, Chiara Rita Benedetta si volge. In questo senso il dito del naso ha lo stesso valore dei piani sghembi, di quelle porte che non potranno mai chiudersi, ma anche della smorfia della Leda di Moravia o dell’iniziale guasto della frutta di Caravaggio. Situazioni in cui il tempo non scorre, perchè tutto avviene lì, senza che sia possibile considerare il prima e il poi. Esiste solo il presente dell’immagine dipinta e la sua possibilità di evocare eternamente l’ambiguità della vita.
Chiara
Rita Benedetta deve il suo debito formativo ai classici:
Ifigenia
in Taurine,
la tradizione greco-mitologica è permeata in tutta
la poetica di Chiara,
il tema della caduta in un abisso (o del
risucchio da esso) è ancora
sironiano. L’oro luminoso della donna, o forse con le braccia levate,
tenta di risalire; la memoria dell’adulto ritrova l’inquietudine del bambino
di allora. La caduta di Chiara Rita Benedetta sconfina nell’assurdo, e questo
è logicamente estraneo a Sironi.
Ma in Chiara Rita Benedetta vi è anche l’influsso
del Nord, e soprattutto dell’Espressionismo tedesco.
Quest’opera si colloca precedentemente alle
altre di questa rassegna. Vale ad individuare una poetica, ma è artisticamente
più immatura. Chiara Rita Benedetta qui non ha ancora scoperto sino in fondo
le potenzialità del segno, e soprattutto soffre di
horror vacui. Nelle altre opere la
liberazione dei valori propri della pittura e del colore gli consentiranno di
dilatare, senza per questo rinunciare a comprimere, gli spazi, così che il
tema dello spaesamento non sarà consegnato solo ad un’azione, ma ad ogni
elemento della combinazione e ad essa stessa nel
suo insieme.
Il tema
della caduta, o della gravità dei corpi, ricorre in ogni opera di Chiara Rita
Benedetta. Figure senza peso, liberate dalla corporeità, aleggiano (o nuotano,
o annaspano) nel cielo in una giostra che è la vita. Il silenzio esercita il
dominio, assoluto, mentre i dati minimali della luce evocata dai filamenti
cromatici che escono dai suoi supporti, assumono valore
emblematico, forse simbolico.
Le scene
si delineano come
apparizioni
sacre ed è fuor di dubbio lo
scontro fra l’elemento celestiale e il dato accidentale. Il dubbio amletico
non perde vigore, ed anzi si accolla delle diverse apparizioni un’intonazione
di struggente nostalgia.
I grandi
occhi dei suoi “Autoritratti”
chiedono: in quale luogo?, mentre l’attesa pare
dominare i silenziosi dialoghi
e lascino pure intravedere un altrove indefinito. Lo spazio –determinato con
decisione dai gesti che paiono richiamare una rinnovata
action
painting- evoca nuove vorticose forme
che si muovono tra loro in sospensione, creando un’armonia obliqua superiore.
Volano in cerca di un cielo immenso medievale che non trovano ancora nei miei
dipinti. Là il frastuono della rissa è lontano. Silenzio.
L’immagine
ritratta è al centro della composizione, ed una serena impassibilità o stasi
ispira i suoi lineamenti, configurandola come una santa della pala d’altare.
Ma poi tutto è sconvolto dall’apparizione (angelica
o demoniaca) che irrompe come contrasto, disordine.
Ritornano
alla mente due versi di Paul Valéry: (...) «deux
dangers ne cessent de menacer le monde:/l’ordre et le désordre».
Nella Donna l’elemento frastornante (le désordre) non è tanto la mano che distrattamente finisce nel vaso, quanto quella sorta di trance in cui la donna pare persa e che specifica il gesto sbagliato. Ma ancor più interessante è il contrasto fra la rigida e geometrica spazialità del divano con la linea curva della figura. Tutto ciò non ha un tempo, solamente accade, disvelando in sé l’allarmante rapporto fra la razionalità (simboleggiata dalla rigida, anche se improbabile, geometria) e il trance, o sensuale smarrimento della coscienza.
Nella Donna l’elemento frastornante (le désordre) non è tanto la mano che distrattamente finisce nel vaso, quanto quella sorta di trance in cui la donna pare persa e che specifica il gesto sbagliato. Ma ancor più interessante è il contrasto fra la rigida e geometrica spazialità del divano con la linea curva della figura. Tutto ciò non ha un tempo, solamente accade, disvelando in sé l’allarmante rapporto fra la razionalità (simboleggiata dalla rigida, anche se improbabile, geometria) e il trance, o sensuale smarrimento della coscienza.
In
Donna blu, come
nella Grandi
nuotatrici di
Carrà e nelle
Piccole nuotatrici di
Carrà, Chiara Rita Benedetta sfida, con il medesimo rigore,
tematiche nuove. Il nascondimento
come dato ineludibile della permanenza in
vita, definisce modificazioni tecniche importanti, quali il ridursi in
frantumi leggero ed impalpabile della pennellata, curvilinea, l’articolarsi
più mosso del segno e la scoperta di un colore più denso, più sporco. Ma il
nascondimento ha valore anche a rivelare sembianze differentemente
inavvertibili, i molteplici e possibili volti in
Donna blu, la natura angelica
dell’umanità, e comunque un’atmosfera vibratile,
attinente di un effusivo e lieve ascoltarsi mentale. Il riferimento alle
Nuotatrici di
Carrà del 1910-12 è un dichiarato omaggio di Chiara Rita Benedetta al
Futurismo, ma anche la denuncia di un’affinità insospettata con molta pittura
contemporanea, in cui si pone in termini discutibili un nuovo rapporto con la
figurazione. Ma è opportuno serbar ricordo che dalla figurazione Chiara Rita
Benedetta disloca, con un percorso che è quindi in senso contrario a
quello cui si accennava. E
la sua diviene una figurazione mentale,
si è visto, volta da un lato a scoperchiare il vero ambito della vita e
dall’altro a dis-velarne l’inganno. Il firmamento
si può desiderare, ma non possedere poiché «da una parte c’è il sole e
dall’altra parte il nulla!» [Ifigenia in Tauride]
Fonte : prof. Alessio Varisco , www.alessiovarisco.it
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