lunedì 15 luglio 2019

Chiara Rita Benedetta



CHIARA RITA BENEDETTA

 
Maria donna innamorata (+Tonino Bello) , 2000 , 
oli e acrilici su tavola 50x100cm


Chiara Rita Benedetta : una passione per i classici
presentazione del prof. Alessio Varisco

Il conflitto fra l’aspirazione e il disconoscimento della bellezza, sia essa intesa come causa formale portatrice di eufonia e consonanza assolute che come compimento hanno il destino dell’uomo, è sotteso a tutta la creazione artistica di Chiara Rita Benedetta. Emerge in quella lieve sensazione di inquietudine che l’ambiguità delle immagini adombra le sue opere la sua carica ancestrale.
Tutto ha inizio nei classici. Chiara con intelletto ed amore affina la sua arte, a margine dei manuali al Ginnasio e poi al liceo, e traccia segni “provati” guardando la mamma dipingere. L’emozione che si ha nell’osservare le sue creazioni è stupore misto a gioia per come si possa descrivere sensazioni profonde che vengono dalle letture.
Il tema di una bellezza assoluta cui offrire religiosamente tutta la propria forza poetica, nonché il valore di una tecnica istruita sottoposta a lenti processi di raffreddamento, si sfamano tanto di rigore morale, quanto di capacità di riproduzione artistica percepibile in ogni lavoro, seppure giovanissima, -e soprattutto in quelli a tecniche miste, di vaste dimensioni- ed in ogni frammento della pittura, senza mai cedimenti, perdita di ritmo o di intensità trovata.
L’ansia spirituale sottaciuta in questo misticismo della pittura non può non cozzare dolorosamente con la scarsa resistenza e debolezza dell’uomo. Così l’ostinata resistenza della insipidezza e della grossolanità racchiuse nel quotidiano delinearsi delle congiunture trova spazio in un mondo ideale dove il classico ci è modello. L’identica improrogabilità del vivere e del dipingere può introdurre elementi eterodossi rispetto all’intuizione originaria di un’immagine/forma iniziante del processo creativo. Trattasi di elementi degni di attenzione che, sicuramente, abbozzano quadri globali diversi da quelli prospettati dal mondo. All’artista il compito più alto di guidare, fino a suscitare -anche all’interiore dei percorsi freddi- variazioni iconografiche e pittoriche importanti soprattutto sul piano iconologico. La variazione dal tema dei classici (cui si affianca, come si vedrà, il concetto della poesia) nasce, in questo senso, come motivo propriamente pittorico ed immerge le sue riflessioni in situazioni di tipo psichico, delineandosi come una nuova e svagata immaginativa.
Qualcosa di somigliante è del resto risaputo alla pittura. Si pensi al Manierismo che ha al suo fondo questo umanissimo contrasto formale e morale fra il primato delle cause formali e l’incapacità epocale di uguagliarla. Dissidio che si trascinerà fin agli albori del Barocco, rappresentandosi anche più diffusamente come divario tra terra e cielo, fra vita e morte. Paradigmatico il Canestro di frutta del Caravaggio che segna forse l’istante più acuto e simbolico di questo patimento. In esso il tema della magnificenza naturale assume significati ontologici nell’evidenziazione dell’inizio di un suo acre e pungente logoramento. Nel Bacchino malato il tema di un’ambigua verità suggerisce, con il precedente, lo scandaglio di un mondo interiore in cui bellezza e verità vivono come desiderio e bisogno inappagabili, aggredibili dal dubbio, dal senso di smarrimento e di paura. E così che la bellezza, portatrice dell’essenza stessa della vita, finisce col confondersi col senso della morte e ad adombrarne il presagio. Disgiunta da un destino divino, la bellezza non è un assoluto, ma la nostalgia di esso. E qui che il sentimento può anche smarrirsi, o la ragione intridersi di ironia.
Anche questi sono spazi della creatività. L’immagine che la mente intuisce e intravede e subito perde, viene trattenuta dalla pittura, ma la riduzione inevitabile dis-vela una bellezza guastata e in ciò più intensamente e psicologicamente vera. E come la frutta in Caravaggio, in altro tempo e in altro ambito, la Leda in L’amore coniugale di Moravia, al quale non fugge mai la smorfia, o il gesto, o il tic che, modificando quasi lievissimamente un’immagine, in realtà la stravolge rivelando, non senza fare sorgere inquietudine, un’inconcepibile e celata potenza generatrice. Di confronto tutto immateriale con la autenticità fa sorgere il dramma e, soprattutto, l’inquieto e amletico interpellarsi. E non è accidentale che l’Amleto sia corrispondente a livello cronografico al Canestro di frutta; così come non è involontario che Chiara Rita Benedetta delinei nelle sue Genesi un’atmosfera shakespeariana. «Il resto è silenzio» pronuncia Amleto prima di esalare l’ultimo respiro. E il silenzio cala dalla tragedia di Amleto a quella intima di ogni possibile spettatore; così come sprigiona il Canestro di frutta e così come emanata da qualsiasi opera umana che metta in congiunto e sfuggente rapporto l’esistenza e la morte, l’ordine ed il caos, il naturale e l’insensato, il celestiale e il diabolico.
Chiara ha bisogno di silenziosità poiché nello spazio della sua tela la lotta tace. Vede ancora i dissidi, ma ora può rivolgere lo sguardo verso l’alto. Tutto ciò mi riporta recentemente Chiara Rita Benedetta, il carattere delle figure è l’infinitezza, a volte evocante forme dell’infanzia, il senso di sempiterno che ha sconfitto il frastuono regge lo spazio in un astratto non essere. In questa dimensione si fa largo il volo in silenzio. Fino a dimenticarsi di sé e del mondo, come una mistico divendo Altro. Ed il conflitto tra spirituale e corporeo è irrisolvibile. Da qui il tragico. Ma anche la abbondante forza dell’immaginazione.
L’irreparabilità del combattimento e la successiva dimensione tragica stabiliscono i termini della “questione pittura” in Chiara Rita Benedetta. Il silenzio non è pace, né sosta, piuttosto uno spazio e un tempo ove “i demoni” (nell’accezione greca del termine) non facciano opposizione di guardare verso l’alto, e l’artista abbia la capacità di registrare la “sensazione dell’eterno”.
La pittura è il luogo di questo spazio e di tale tempo differenti, in cui totalmente si destabilizza ed acquista valore oscuro e canzonatorio. Ma questo “sconcertamento” è solo un’immagine periferica della pittura di Chiara Rita Benedetta, la conseguenza non marginale di un radicato atteggiamento poetico. Si desidera confermare che nessuna volontà precostituita influenza questo scoordinamento spaziale e questo sconcertamento dello spettatore, che sono come fatti sorgere, irrimediabilmente, da una maniera - questa sì relativa a un programma: di mettere in chiaro e quindi rappresentare ciò che l’immaginazione mette insieme quando la lotta fa silenzio e lo sguardo si rialza. La pittura di Chiara Rita Benedetta non va, allora, vagliata meramente nei suoi aspetti di comunicazione.
Le sue ragioni sono sempre da scandagliarsi nel recondito della riflessione solitaria dell’artista e quindi all’interno della pittura. E per questo le sue opere sono certamente ineplosive e non esplosive, da leggersi in margini psicoanalitici e quindi in rinvio anche all’inconscio, ma soprattutto al principio fra esso e la coscienza, dove l’Artista, come in una visione onirica, si sottrae dalla natura, dal mondo e persino da sé. Come Alice entra nello specchio, dove tutto è già adocchiato, ma dissimile, e la consapevolezza stessa delle cose si perde nell’ambiguità del loro indecifrabile rendersi noto. Questo è forse il tema regnante della poetica di Chiara Rita Benedetta: sciogliere aspetti ed enti da quella che lei chiama “Richiami del Mito”, perchè consentano di intravedere “un altrove illimitato”, a cui l’arte volge la sua attenzione.
A tale scopo Chiara Rita Benedetta adopera ogni mezzo pittorico atto all’individuazione dell’indefinibile e weiningeriana tenacia delle cose. La stessa costruzione prospettica, pure fortemente presente all’artista, procede continuamente negata dall’intersecazione di piani, così che si viene ad abbozzare uno spazio inverosimile (ma indiscutibilmente non immobile), dove non è acconsentita una descrizione incessante o comunque sorretta da uno allargamento razionale. Si traccia così, da subito, una posizione anticlassica ed antirinascimentale, per un verso rinviabile alla narrazione della pittorica senese –del 1300-, ma soprattutto apparentabile a tutta la poetica dell’assurdo nell’arte e nel teatro del Novecento. L’evocazione non di oggetti o figure, ma della loro enigmaticità, è certamente dechirichiana. Come De Chirico Chiara Rita Benedetta pare non conoscere le cose che dipinge, o quanto meno non accoglierle come dati incontrovertibili dell’oggettività, bensì come nuove e successive occasioni di scandaglio di un mondo tutto da decifrare, perchè enigmatico. Ogni cosa pare indossare «due aspetti: uno corrente quello che vediamo quasi sempre e che vedono gli uomini in genere, l’altro lo spettrale o metafisico che non possono vedere che rari individui in momenti di chiaroveggenza e di astrazione metafisica. [G. De Chirico, Sull’arte metafisica, inValori Plastici’, n. 4-5, 1919]». La meta-fisica, nel senso più letterale del termine, quale metodo per restituire possibile una vera conoscenza del mondo presente è fortemente sostenuta da Schopenhauer che la considera «un sapere attinto dal reale mondo esteriore e dall’esplicazione che di questo fornisce il più intimo fatto dell’autocoscienza» [A. Schopenhauer, Die Weltals Wille und Vorstellung, voi. I!, librol, cap. XVII, Leipzig, Brockhaus 1859, p. 200].
La relazione con la metafisica, nel senso sopra descritto, vale a contenere un ambito di rimando a cui è doveroso far cenno, senza, per altro spingerci oltre. Le stesse parentele con il Surrealismo non possono che essere accolte indeterminatamente, continuando insistentemente che in Chiara Rita Benedetta una spiccata inclinazione ad una pittura di pensiero, non direttamente in connessione col miraggio o consumabile nell’inconscio. Si tratta piuttosto, come si è detto, della comprensione dell’enigmaticità delle cose, con il successivo spaesamento che ne deriva. Il carattere fortemente dinamico ed energico che, comunque, tale situazione mantiene riferisce, se mai, consanguineità con il linguaggio e la struttura formale non con la poetica - dei futuristi.
Il ritmo incalzante, le strutture rigorose e l’inclinazione, specie nelle opere ultime, per una pittura filamentosa sono tutti ingredienti del primo Futurismo e possono, nel nostro caso, a schiarire una situazione artistica complessa, ricca di occorrenti e persistenti richiami storici che possono aiutare ad abbracciare la sostanza della storia pittorica di Chiara Rita Benedetta e la sua non estraneità alla tradizione lombarda.
In questo senso - e anche in riferimento al futurismo (n.d.r.: non si dimentichi che Chiara è figlia d’arte, la madre è Pittrice espressionista ed il nonno un allievo di Pio Semeghini, Arturo Martini e Marino Marini all’ISIA monzese) “miscelato subito, e per necessità espressive, ancor prima che per necessità culturali al cubismo” -  è doveroso ripensare soprattutto a Sironi, alle sue
angolose volumetrie, alle corrispondenti spazialità e soprattutto al suo periodo metafisico, nonché, come si è detto, ai suoi lavori futuristi.  
Un’opera come Autoritratto trova nel contesto che si è venuto fin qui delineando, alcune delle sue ragioni fondamentali. La convergenza delle diagonali sul piano quasi frontale della grande immagine consente - unitamente al cono della luce dei fanalini e alla filamentosità della pennellata gessosa
- non improbabili raffronti col Futurismo
. E per restare all’interno dei riferimenti già fatti, pare lecito guardare al Cavallo e Cavaliere di Sironi (1915). In Ciclista la situazione spaziale è comunque diversa, per un allentarsi della tensione (si vorrebbe dire anche del rumore) che concede alle forme di delinearsi in una spazialità più enigmatica che compressa. Il valore metafisico delle forme - come non far cenno a Carrà? - è volto alla definizione di una situazione resa sconcertante non solo e non tanto dal dito nel naso, quanto dall’attuarsi di ciò che già si è detto in merito alla variazione della forma. Non un punto di vista, ma più punti di vista; non un dato verisimile, ma il continuo gioco della deformazione, per consentire la percezione di nuove e recondite verità di quell’altrove indefinito cui, come si diceva, Chiara Rita Benedetta si volge. In questo senso il dito del naso ha lo stesso valore dei piani sghembi, di quelle porte che non potranno mai chiudersi, ma anche della smorfia della Leda di Moravia o dell’iniziale guasto della frutta di Caravaggio. Situazioni in cui il tempo non scorre, perchè tutto avviene lì, senza che sia possibile considerare il prima e il poi. Esiste solo il presente dell’immagine dipinta e la sua possibilità di evocare eternamente l’ambiguità della vita.
Chiara Rita Benedetta deve il suo debito formativo ai classici: Ifigenia in Taurine, la tradizione greco-mitologica è permeata in tutta la poetica di Chiara, il tema della caduta in un abisso (o del risucchio da esso) è ancora sironiano. L’oro luminoso della donna, o forse con le braccia levate, tenta di risalire; la memoria dell’adulto ritrova l’inquietudine del bambino di allora. La caduta di Chiara Rita Benedetta sconfina nell’assurdo, e questo è logicamente estraneo a Sironi. Ma in Chiara Rita Benedetta vi è anche l’influsso del Nord, e soprattutto dell’Espressionismo tedesco. Quest’opera si colloca precedentemente alle altre di questa rassegna. Vale ad individuare una poetica, ma è artisticamente più immatura. Chiara Rita Benedetta qui non ha ancora scoperto sino in fondo le potenzialità del segno, e soprattutto soffre di horror vacui. Nelle altre opere la liberazione dei valori propri della pittura e del colore gli consentiranno di dilatare, senza per questo rinunciare a comprimere, gli spazi, così che il tema dello spaesamento non sarà consegnato solo ad un’azione, ma ad ogni elemento della combinazione e ad essa stessa nel suo insieme.
Il tema della caduta, o della gravità dei corpi, ricorre in ogni opera di Chiara Rita Benedetta. Figure senza peso, liberate dalla corporeità, aleggiano (o nuotano, o annaspano) nel cielo in una giostra che è la vita. Il silenzio esercita il dominio, assoluto, mentre i dati minimali della luce evocata dai filamenti cromatici che escono dai suoi supporti, assumono valore emblematico, forse simbolico.
Le scene si delineano come apparizioni sacre ed è fuor di dubbio lo scontro fra l’elemento celestiale e il dato accidentale. Il dubbio amletico non perde vigore, ed anzi si accolla delle diverse apparizioni un’intonazione di struggente nostalgia.
I grandi occhi dei suoi “Autoritratti” chiedono: in quale luogo?, mentre l’attesa pare dominare i silenziosi dialoghi e lascino pure intravedere un altrove indefinito. Lo spazio –determinato con decisione dai gesti che paiono richiamare una rinnovata action painting- evoca nuove vorticose forme che si muovono tra loro in sospensione, creando un’armonia obliqua superiore. Volano in cerca di un cielo immenso medievale che non trovano ancora nei miei dipinti. Là il frastuono della rissa è lontano. Silenzio.
L’immagine ritratta è al centro della composizione, ed una serena impassibilità o stasi ispira i suoi lineamenti, configurandola come una santa della pala d’altare. Ma poi tutto è sconvolto dall’apparizione (angelica o demoniaca) che irrompe come contrasto, disordine. Ritornano alla mente due versi di Paul Valéry: (...) «deux dangers ne cessent de menacer le monde:/l’ordre et le désordre».
Nella Donna l’elemento frastornante (le
désordre) non è tanto la mano che distrattamente finisce nel vaso, quanto quella sorta di trance in cui la donna pare persa e che specifica il gesto sbagliato. Ma ancor più interessante è il contrasto fra la rigida e geometrica spazialità del divano con la linea curva della figura. Tutto ciò non ha un tempo, solamente accade, disvelando in sé l’allarmante rapporto fra la razionalità (simboleggiata dalla rigida, anche se improbabile, geometria) e il trance, o sensuale smarrimento della coscienza.
In Donna blu, come nella Grandi nuotatrici di Carrà e nelle Piccole nuotatrici di Carrà, Chiara Rita Benedetta sfida, con il medesimo rigore, tematiche nuove. Il nascondimento come dato ineludibile della permanenza in vita, definisce modificazioni tecniche importanti, quali il ridursi in frantumi leggero ed impalpabile della pennellata, curvilinea, l’articolarsi più mosso del segno e la scoperta di un colore più denso, più sporco. Ma il nascondimento ha valore anche a rivelare sembianze differentemente inavvertibili, i molteplici e possibili volti in Donna blu, la natura angelica dell’umanità, e comunque un’atmosfera vibratile, attinente di un effusivo e lieve ascoltarsi mentale. Il riferimento alle Nuotatrici di Carrà del 1910-12 è un dichiarato omaggio di Chiara Rita Benedetta al Futurismo, ma anche la denuncia di un’affinità insospettata con molta pittura contemporanea, in cui si pone in termini discutibili un nuovo rapporto con la figurazione. Ma è opportuno serbar ricordo che dalla figurazione Chiara Rita Benedetta disloca, con un percorso che è quindi in senso contrario a quello cui si accennava. E la sua diviene una figurazione mentale, si è visto, volta da un lato a scoperchiare il vero ambito della vita e dall’altro a dis-velarne l’inganno. Il firmamento si può desiderare, ma non possedere poiché «da una parte c’è il sole e dall’altra parte il nulla!» [Ifigenia in Tauride]
 
 




Fonte  : prof. Alessio Varisco ,  www.alessiovarisco.it  




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