Francesco
Di Ciaccia
Aspetti
della devozione Mariana nei Laudari
duecenteschi
Nella
poesia popolare del ‘200, che coincide con il nascere, in
Italia, del volgare letterario, o dei suoi albori, la letteratura
mariana
conosce forse la massima espressione della semplicità.
La
dottrina teologica non vi manca, ma è come sottesa e comunque
strettamente legata alla rappresentazione essenziale dei Vangeli, come
in
«verzene puella», «piena di
grazia», «ancilla» del
Signore, e ispirata all’interpretazione dommatica della
Patristica, come in «beata», «sovrana», «stella
resplendente».
Si può
dire che il dogma è dunque presente nella sua
sostanzialità, alieno da arditezze concettuali, anche se a volte
movimentato da
qualche tratto enfatico, tuttavia sempre dignitoso e contenuto.
Caratteristica
comune delle laudes è il presentarsi
come espressione della devozione mariana nella sua immediatezza, così
come è
sentita dall’anima comunitaria (l’autore è in genere collettivo, è una «compagnia» o «confraternita»), e
perciò non
soggetta a interpretazioni particolaristiche.
È vero
che, in ciò, sta anche il limite delle numerose
composizioni di questo genere, poiché esse non raggiungono sempre
livelli
originali e innovativi; tuttavia in esse è da segnalare quella aderenza
alla
parola biblica, di cui tuttavia non è una pura imitazione ma una
ricomposizione
emotiva. Esemplare in questo senso è un passo di una lauda bergamasca,
nella
cui citazione evangelica si coglie tutto il calore cordiale della
gente: «Ave,
Maria, de gracia
piena! / Dominus tecum! o salve, ragina. / Ave, Maria, de grande
sientia, / de’
a no gracia de far penitencia» (1).
Inoltre, le laudes
non sono neppure una ligia imitazione liturgica. Esse infatti sono il
canto di
un gruppo di fedeli che esprime pubblicamente la sua fede, nutrita sia
in
famiglia sia in chiesa, secondo una angolatura culturalmente legata al
tempo;
l’inno liturgico è invece la formulazione specificatamente sacrale dei
sentimenti religiosi dell’universalità del popolo di Dio, anche se
mediati o
esposti, in concreto, da qualche personalità singola. Per questo, la
teologia
si presenta nelle laudes, più che
nelle composizioni ufficiali, con le caratteristiche della propria
epoca, la
quale sente, influenzata dai cantari provenzali, il fascino dell’amore
tenero
e, colpita dalle sventure naturali o dal disorientamento politico e
religioso,
vive l’angoscia dei perturbamenti con spirito spesso avveniristico; e,
tutto
ciò, sempre ancorata alla figura «cortese» della donna protettrice e
sovrana.
Su queste premesse, si sviluppa una
devozione mariana, con
anticipazioni altomedioevali, molto sentita e partecipata, estesa a
tutte le
componenti del popolo fedele e per molti aspetti veramente innovativa:
la
creatività è determinata, qui, dal popolo medesimo, dalla «base».
Letterariamente, la documentazione ha anche come protagonisti singoli
individui: ma la fede e le realizzazioni concrete sono collettive, sono
«di
massa». Al riguardo ricordiamo l’introduzione della pratica dell’Ave
Maria,
come uso di suonare le campane ad ore determinate in onore della
Madonna e come
momento di preghiera corrispondente ad esso, fatta risalire a Bonvesin
da la
Riva, per altro dell’area patarina: e ciò sta a dimostrare
l’universalità della
pietà mariana, intatta nelle correnti divergenti in campo
ecclesiologico.
In un suo componimento specifico (2),
egli onora l’immagine
di un frate semplice e indotto, che «no sapeva dire ni canti ni lection
/ ni
paternost ni salmi ni altre oration» (vv. 21-22), ma che costantemente
«ave-maria diseva con grande devotion» (v. 23), e che fu premiato non
solo con
l’essere fatto degno di entrare nella città celeste dopo la morte (cfr.
vv.
30-31), ma anche con l’essere strumento di un prodigio rivelante
l’importanza
dell’Ave Maria.
Unitamente al tema della «mader
graciosa» (3), si trova
nelle laudes quello della «mader
dolorosa» (4), in rapporto sempre all'attitudine salvifica di Maria,
nella
preoccupazione medioevale del giorno della «sentenza», quale ben
risulta nel Dies irae di Tommaso da Celano. La
dinamica psicologica è che la madre, la quale si vede il figlio
ammazzato per
gli uomini, può capire gli uomini, anchessi nella disgrazia, e acquista
il
diritto di intercedere per loro. Da qui, la tendenza realistica del
filone
mariologico dello Stabat mater e la
ricorrente immagine della tradizione biblica in cui la Madonna appare
testimone
oculare della passione di Gesù: «su
la cros che vo l vedisef», dice la citata lauda bergamasca (5).
Come conseguenza tematica, risulta
radicata l’idea di Maria
intesa come «nostra advocata» (6), entrata a pieno titolo nella Salve Regina, composta nella prima met
del ‘200.
Dal punto di vista del vissuto
mariologico, dunque, le
caratteristiche delle laudes
duecentesche sono l’amorevolezza umana del rapporto tra Maria e Gesù,
la
sofferenza di Maria come madre, l’accoglienza pietosa di Maria come
«signora»
dei propri sudditi. Dal punto di vista letterario, esse ereditano lo
schema
delle canzoni del tipo della ballata.
Sposa
«amorosa»
L’amorevolezza mariana delle laudes
si inscrive nella visione della donna «piena d’ogne cortesia»
(7) di origine trobadorica e poi siciliana (passata quindi nella
poetica
stilnovista con interpretazione «borghese»), che informa la nobiltà dei
rapporti umani di quel genere di interrelazione che passa tra l’amato e
l'amata. Maria è definita l’«amorosa» («amoroxa») (8), «verzene
d’amore». Si
tratta della piacevolezza in sé, dell’amore che in sé è la Madonna come
figura
per antonomasia dell’affetto, come «amante» per eccellenza e al
contempo degna
d’amore, sempre come segno e veicolo prototipico dell’amore divino. Il
«piacesti a Dio» dantesco e poi, con affettività più che con
razionalità,
petrarchesco, è anticipato in una lauda bolognese con il linguaggio
immediato,
incolto ma sostanziale, della fede popolare (9):
fusti
a Dio
tanto piacente
più
che neuna
altra mai sia.
La menzione geografica della generazione
di Gesù da parte di
Maria, nella citata lauda, sembra a prima vista puramente occasionale
come
ricordo soltanto esteriore. In realtà, il «partoristi in Oriente» (v.
20)
richiama l'immagine della «stella resplendente» (v. 19), la quale,
molto comune
nei Laudari, è posta qui in relazione al significato simbolico
dell’«oriente»,
secondo il valore di tutta la simbologia medioevale compresa quella
dantesca
(10). L’importante particolare teologico, sotto la veste formale della
rima,
consiste nel connettere il «risplendere» di Maria, con il suo
privilegiato
parto in «oriente», al «piacere a Dio»: tutto il valore di Maria sta
nell’essere gradita a Dio; le sue stesse prerogative singolari si
conchiudono,
come nel proprio vertice essenziale, nel rapporto di «piacere»,
ovviamente reciproco,
con Dio.
È, questa, un’affermazione biblica; ma
nella lauda essa è
congiunta anche alla visione della donna come esemplare di «bellezza»
(v. 25), che evoca,
anticipando la donna petrarchesca, immagini floreali (cfr. v. 24): la
Madonna è
«oliva fresca e novella», che sottende la «radix Jesse»
veterotestamentaria e
che troverà riscontro nella «Virga Jesse» di Ser Pace (11); ella è
«fresca rosa
sì vermiglia» (v. 12), è «roxa del giardino», che richiama l’«hortus»
del Cantico dei Cantici, 4, 12, e che trova
riscontro nella «rosa bianca e vermiglia», nel fiore «aulente» di Garzo
dall’Incisa (12).
Anche la purezza è vista, qui, nella
medesima cornice: essa
è una virtù morale, ma come dote che conviene alla «donna gentile» (13)
secondo
la concezione del tempo per cui la gentilezza comprende un complesso di
qualità
nobili dell’animo, che vanno dalla bontà alla severità dei costumi.
Maria è
tutto questo, segno ed emblema sommo dell’ideale etico e civile
dell’uomo
medioevale, prototipo dei valori supremi della nuova società – che
perpetuava
quella più antica – aristocratico-borghese, o, più esattamente, della
società
«cortese» interpretata dalla coscienza popolare. Il «tanto pura te
vedeva» (14)
corrisponde alla tradizione evangelica, e soprattutto patristica, della
verginità di Maria; ma qui ha appunto un’orizzontalità più umana, quale
si
riscontra nell’«onesta palma» di Ser Pace e nell’espressione della
medesima
lauda bolognese, la quale rappresenta, con una simbologia al contempo
dotta ed
agreste, la purezza della Madonna come una «oliva fresca e novella /
che stadi
fresca tutavia» (vv. 29-30). Qui il dogma della verginità conserva
tutto il
valore teologico, ma con accenti familiari, con analogie tratte
dall’esperienza
quotidiana, con la semplicità e la naturalità di cui la «fresca oliva»
è
simbolo poetico e intuizione non mediata, «ricordo biblico e immagine
della
vita ordinaria.
La forza sorprendente della teologia
mariana della lauda
bolognese citata si impone in una definizione importante quanto rara:
Maria è
«de Cristo spoxa» (v. 16). Maria come figlia prediletta, dopo Cristo,
del
Padre, come Madre del Figlio di Dio e come Sposa della Spirito Santo è
ricorrente negli scrittori ecclesiastici e nelle stesse laudes.
Tra le attribuzioni antonomastiche, è pacifica quella della
sponsalità nei riguardi dello Spirito Santo, grazie alla quale
attribuzione la
Madonna fa parte, sul piano della grazia privilegiata, della famiglia
divina.
Ma l’essere sposa di Cristo, questo è originale.
La madre di Gesù è, al contempo, sposa
di Gesù. Qui c’è il
debito verso la visione duecentesca della donna, ma esso irrompe nella
lauda
con una profondissima portata teologica.
In parole povere, il testo indica, nel
quadro della cultura
duecentesca riguardante la figura femminile, la seguente verità più che
pacifica: Maria, madre di Gesù, ama Gesù. Ma tale verità si carica di
ulteriori
implicazioni teologiche, dagli orizzonti più vasti e ricchi: Maria è
madre
spirituale degli uomini (e su questo tutta la fede cattolica aveva
sempre insistito)
in quanto ella è compartecipe dell’opera salvifica di Gesù. La «sposa»
dunque
non è soltanto «colei che ama» suo figlio, ma colei che coopera con il
figlio,
unita dall’amore quanto dalla predestinazione. Sposa sta, da un punto
di vista
morale e giuridico – almeno per il medioevo – inequivocabilmente per
congiunta:
Maria è congiunta del Cristo nell’essere artefice della nostra
salvezza, come
direbbe San Paolo. Se Maria partecipa della generazione salvifica di
Gesù, è
dunque «sposa» di lui come lo è la cogenerante con il generante. In
questa
definizione del popolo di Bologna, l’amore materno di Maria acquista
una
ricchezza e delicatezza particolari, poichè la madre non è connessa al
padre
(Maria non è «madre» di Dio in parallello al «padre» del Verbo), né la
figlia è
connessa alla madre (la «figlia» del padre come «madre» del figlio di
Dio); ma
la madre è connessa alla sposa. Ovviamente senza nulla togliere alla
tradizionale e assodata posizione teologica di Maria, qui ella appare
amante,
nel senso più divino del termine, di colui che per gli uomini non
svolge la
funzione di padre, ma del fratello, del «simile» che comprende «in
tutto» le
miserie dell’uomo, avendole egli stesso sperimentate, come dice San
Paolo.
Ma non basta. Maria è una «dona» (come
madre o come sposa?
in effetti, come madre e come sposa) che addirittura poté vincere il
«Cristo
onnipotente» (v. 36). La spiegazione di questa «vittoria» sul Cristo è
posta
nella capacità di «catturare», per così dire, il Cristo stesso nel
proprio
«ventre» (v. 37), cioè il Dio «che in cielo e in terra non capia» (v.
38).
La forza soprannaturale di questa donna
consiste, dunque,
nell’essere madre di colui che cielo e terra non contengono. Ma non
solo
questo. Il fatto che «in ti venne il sole divino» (v. 33) sembra essere
conseguente; la condizione morale di questo fatto è indicata nella
definizione
di «prudente» (v. 35) di questa donna. La prudenza rimanda,
evangelicamente,
alla disponibilità costante, all’attesa affettuosa, all’atteggiamento,
appunto,
della sposa. E su questo tono insistono le laudes
duecentesche.
Una lauda genovese (15) vede la madre in
attitudine
particolarmente affettuosa: tipica cioè della donna che ha generato, ma
soprattutto che ha generato con amore. Ella tiene «sempre Jeso Criste
in brazo»
(v. 2), e con «quelo doze fiior» (v. 10) ella si diletta continuamente
«en
perpetua solazo» (v. 4). Le dolcezze di Maria presso Gesù sono prese in
considerazione anche dall’austero Jacopone da Todi (16). La figura
della Madre
di Dio jacoponiana è circonfusa di fascino non ignoto alla letteratura
e
all’iconografia sulla natività, e soprattutto trae ispirazione dal
sentimento
genuinamente e profondamente «umano» esaltato e consacrato dal
«poverello»
d’Assisi.
O
Maria, co’
facivi,
quando
tu lo
vidi vi?
or
co non te
morivi
de
l’amore
afocata?
C’è la meraviglia di fronte al «Dio
(che) ce contemplavi /
en quela carne velata»; ma c’è anche il gusto della donna-madre, colto
mirabilmente dall’autore, in quel «consumarsi» di Maria «quando tu lo
guardavi».
La delicatezza affettiva della Vergine spinge l’austero a seguire le
cure più
gratificanti della medesima donna-madre, ad esempio quando il Figlio
«sugea» il
latte (anzi, dice il testo, «te sugea»): l’intima dedizione materna è
rappresentata dall’autore, con un’arditezza finemente umana, con il
successivo
verso: «l’amor co te facea». L’esser «mate di Dio vocata» congiunge
l’umana con
la teologica considerazione, unisce il meraviglioso della tenerezza con
il
soprannaturale della dogmatica. Non è cosa da poco che il rigido
mistico
francescano, chiuso ai piaceri della vita, apra questi spazi di vita
piacevole
che intercorrono tra la madre-sposa e il suo figlio-sposo. Se non
altro, questa
sublimazione del flagellante convertito focalizza la costante
dell’esigenza
sentita dagli uomini del suo tempo, che nel prototipo della donna,
individuato
in Maria, vedevano ciò che avvicina, non ciò che allontana. Vedevano
l’umanità
amorevole.
O
Madonna,
quigli atti
che
tu avev’en
quigli fatti,
quigl’infocati
tratti
la
lingua m’han
mozzata.
Così, il Laudiam l’amor
divino, probabilmente dello stesso autore, ripete il quadro
trascendente e
terreno, in cui traluce, sottesa all’affettuosità che tutti gli uomini
conoscono, l’amorosa attitudine di Maria ad amare tutti gli uomini nei
quali
ella vede il «Santo Cristo». La madre, stringendolo al seno, dice il
testo, «di
Dio ti innamorasti, / quella bocca baciasti / di quel dolce Fantino».
Mater
«dolorosa»
La storia della Chiesa dopo il 1000 si
drammatizza nelle lotte
politiche e politico-religiose, accompagnate da movimenti «profetici»
che,
nella ricerca di un risanamento della compagine ecclesiale combattuta
tra
tentativi di rinnovamento e problemi temporali (rispettivamente, ad
esempio,
soprattutto con Leone IX e Gregorio VII), determinano a loro volta
conflitti sia
nel foro esterno sia nelle coscienze, e sviluppano attese
avveniristiche,
millenaristiche, nel terrore e per la speranza, ma più nell’angoscia
che nella
pace. La complessitè a volte tragica delle questioni di potere, di
certo non superate
dal IX Concilio Lateranense, venivano ad essere effettivamente
esacerbate da
quelle tendenze «profetiche» che ormai, nel corso del sec. XIII,
neppure la
catalizzazione delle crociate poteva in qualche modo assopire o
integrare.
Contro l’impostazione mondana di alcuni settori gerarchici – non
risparmiati,
poi, nel ‘300, dal medioevale e ortodosso Alighieri -, le correnti più
radicali
irrompevano nella vita della comunità cristiana con plastiva violenza
e,
soltanto per ricordare alcuni fenomeni meno lontani dall’obbedienza
romana,
riproponevano drasticamente il senso della «passione»: dalla povertà
assoluta
degli «spirituali», compresi alcuni protagonisti d’eccezione,
problematici ma
in fondo remissivi, come il francescano Pietro Giovanni Olivi (+ 1298),
alla mortificazione
corporale dei «flagellanti» (17). Si può dire che Valdo e i «poveri di
Lione»
riproposero l’urgenza della purezza della Chiesa in un contesto, anche
politico, di fuoco, in un susseguirsi di scomuniche e controffensive,
di
anatemi avallati dal braccio secolare, perlomeno dal Concilio
Lateranense del
1215, e di ribellione. In questa atmosfera, il «sangue divino del
Salvatore»,
già venerato e cantato nel secolo IX (18), perdeva la sua nota di
cristiana
serenità. Per di più, il movimento cataro si poneva, per un verso, in
antitesi
con la croce, considerata la carne un ostacolo allo «spirito» e la
passione di
Gesù contrapposta alla sua divinità. Il catarismo influì su molti
aspetti della
religiosità medioevale e la austerità albigese o umiliata ne furono una
contorta applicazione.
Contesto storico di dolore, dicevamo. Ma
qui ricordavo quell’ultimo
aspetto perché, a nostro avviso, la presenza del dolore e del tremore
nei
mistici e nei Laudari contemporanei rappresenta una assunzione della
dimensione
sofferente del cristianesimo, influenzata, sì, dal momento storico
oggettivo,
ma anche dall’istanza di recuperare, su un piano di maggior purezza e
serenità,
le tensioni esasperate dell’eterodossia, esaltanti e insieme neganti la
medesima dimensione. Per un altro riguardo, si pensi ad esempio a un
Francesco
d’Assisi, che alla visione, fortissimamente difesa, dell’aspetto
sofferente,
umiliato, povero del Cristo impresse anche uno spirito consapevolmente
gioioso,
che lo distinse da contemporanei o immediatamente precedenti fautori di
un Dio
più che triste, tristo.
Il sentimento generale dell’epoca, sotto
questo riguardo, può
essere comunque esemplificato nel Dies
irae, nobile inno in latino popolare, elevato a dignità liturgica
dalla
Chiesa.
Il concetto di «ira», «favilla», in cui
è rinchiuso e in cui
si conclude la storia, permea tutto l’animo del penitente, nel «tremore
del «giudice
che sta per venire immediatamente» a fare i conti, senza che ci sia
alcuna
possibilità da parte degli uomini di farsi passare per brava gente:
«stricte
discussurus!», «nil inultum remanebit». I paesi della bella crosta
terrestre,
così percorsa da furori di carne e da smanie di potere e di oro, sono
diventati
uno sterminato cimitero di «sepolcri», l’uomo è un miserabile, ed il
canto
termina ancora con la «favilla», l’«homo reus» va messo sotto processo.
Il
difensore ci sarà: ma è uno solo, ed è uno che non chiacchiera. È uno
che ha
sofferto. Ci si deve fidare: ma non si può barare.
La composizione, attribuita a Tommaso da
Celano, contiene
tutto lo spirito del cristiano: alla fine del canto, infatti, il «quel
giorno
lacrimoso», efficacissima espressione con l’aggettivo causativo, ha
perso tutta
la sua immagine terrificante. La «tremenda Maestà» incomincia ad essere
addolcita dalla «gratuità» della salvezza: verità pericolosa, ma
rasserenante
dal momento che la «grazia» dipende da uno che ha la volontà di
salvare. La
stessa «maestà» vien poi ad essere definita «fonte di pietà», e diventa
infine «Jesù
pietoso», quell’uomo che «ha cercato l’uomo sedendosi stanco» al pozzo,
o all’angolo
della strada, che «ha assolto Maria», «ha ascoltato il ladrone» e che è
innalzato, nel canto teologico e poetico, sulla croce quale «paziente»
non
inutile. Il francescano ha convertito la paura in speranza («mihi
quoque spem dedisti»),
l’angoscia in timore, la flagellazione del corpo in «contrizione del
cuore», la
stupida atrocità della passione, secondo il catarismo, in un «labor»,
in una
ricerca affettuosa, pur nella penosità fisica, da parte di Gesù.
Questi sono i sentimenti di fondo che
ispirano le
descrizioni della Madonna martirizzata delle laudes.
Tra il V e il VI secolo, il bizantino
Romano il Melode aveva
già cantato la Madonna ai piedi della croce. La poesia, però, innanzi
tutto è
centrata su «Colui che per noi fu crocifisso» (19), ed inoltre respira
di quell’aria
pacata che smorza in narrazione evangelica la sofferenza del morente e
della
Madre. Tutto ciò è tipico, in effetti, della cultura bizantina. Gesù
resta,
nella poesia, «il mio Dio», ripetuto ben quattro volte, alla chiusura
delle strofe.
L’«agnella», pur «gridando» al vedere il «suo agnello» «trascinato al
macello»,
pone tante questioni e domande, racconta tanti episodi della vita del
«Verbo»
(termine teologico inusitato nelle laudes!).
L’angoscia di Maria appare più simile allo stupore del teologo che
all’affranto
di una madre: «Non avrei mai creduto, o figlio, / di vederti in questo
stato».
La conclusione di Maria è anch’essa dottrinale: la «morte è ingiusta»,
per Geù,
ma con essa egli ha salvato tutti.
In un clima diverso, la passione di
Maria costituisce inoltre
uno dei temi ricorrenti nelle laudes.
Ancora in «volgare piemontese», nel ‘200, una lauda è costruita a forma
di «lamento»,
non ancora sviluppata in maniera rappresentativo-dialogica come in
Jacopone. In
queste composizioni popolari, Maria acquista un atteggiamento umano nel
senso
più naturale del termine, si comporta, pur nella sua dignità, come una
madre che,
al vedere il figlio «susa la crox mort e trapassa» (20), perde i sensi,
«lo cor li fal e tomba
strangosà», e sembra «a tuyt morta e trapassà»; poi ella si abbandona
quasi
alla disperazione, «se bat le palme e comenza a crider», e, mettendosi
«dolossamente»
a parlare con il «so car figl», esprime il proprio destino di
gioia-dolore. È
una riflessione ricorrente nelle laudes
sull’«addolorata» questo riferimento alla profezia di Simeone: Maria,
che è
beata per essere la madre del Salvatore atteso, ora le «crepa lo core
per sì
gran dolore».
La rappresentazione popolare di Maria
risulta dunque più «umanizzata»
rispetto a quella patristica, secondo la quale ella «sta» presso la
croce
(come, per la verità, anche nello Stabat Mater),
e non solo intrepida, ma quasi impassibile, sia per discrezione sia per
forza d’animo,
come aveva sottolineato Sant’Ambrogio (21).
Una lauda di Garzo
dall’Incisa al riguardo è particolarmente interessante per l’equilibrio
fra la
descrizione «addolorata» e la riflessione dogmatica, conformemente alla
consueta ricchezza teologica della sua poesia profondamente unitaria
(22).
Rivolgendosi alla Madonna, egli le ricorda quanto sia stata «amara»
«quella
pena» vedendo il figlio stare in ara. La croce è il primo altare, la
Madonna
sembra essere il primo sacerdote: Gesù, «com’agnello» di biblica
memoria, e sua
Madre risaltano per il loro patire con coraggio. E la madre soffre,
adesso,
quello che non ha sofferto nel parto, vede Gesù nell’immolazione
cruenta, «partecipa»
a quella sofferenza, la fa sua, vi si unisce senza cedere: e, con ciò,
ella ha
dato forza alla fede degli uomini. L’uomo sa che, per il Cristo, ha
dovuto
soffrire sua Madre: e in questo consiste la vera prudenza di Maria,
nell’accettare
cioè di essere partecipe alla croce del Cristo, croce di salvezza per
tutti i
fratelli di lui e figli di lei.
O
Maria, virgo
pura
molto
fosti
fort’e dura;
non
fallasti
per paura,
perché
tant’eri
prudente.
Nella succinta indicazione di
quest’ultimo verso è dunque sintetizzato
tutto il valore dell’economia della sofferenza cristiana – di cui Maria
è
prototipo materno -, la quale non è salvifica in sé e per sé, ma in
grazia
della volontà, decisa ed umile, di adeguarsi all’imperscrutabile
disegno di
Dio. Per questo, allora, la prudenza di Maria, che ricorda quella delle
«vergini
prudenti» del Vangelo, significa saper attendere, saper non cedere «per
paura»,
cioè per sfiducia impaziente. Le «vergini stolte» del Vangelo,
parametro di
contrapposizione a questa sapienza e prudenza, avevano, invece,
rinunciato ad «attendere
lo sposo» che tardava. Qui, sulla croce, lo sposo è invisibile, il
Cristo è
come uno sposo che tarda. Ma la Madonna, come il cristiano, sa che,
dopo, egli
arriva: dopo l’«oscuramento del sole», per dirla biblicamente, apparirà
la
gloria del Figlio dell’uomo. La costanza di Maria non è da intendersi
soltanto
in senso psicologico. Anche questo aspetto è inteso dalle laudes,
che individuano nella Madonna la tipicitàdella figura della
donna e della madre; ma la forza di »confermare la nostra fede perch
non sia
perdente» deriva direttamente dal significato teologico e morale
dell’atteggiamento
di Maria, la quale sta ad insegnare che la sofferenza di suo Figlio è
storicamente e individualmente salvifica in coloro i quali accettano la
dialettica della croce, cioè il passare con spirito fermo, certezza
interiore e
sottomissione obbediente attraverso le prove dell’abbandono e del
dolore.
È in questo contesto teologico che
bisogna leggere le laudes sulla passione di Maria,
spesso
descritta nei particolari momenti, narrati dai Vangeli, della
crocifissione e
morte di Gesù. Tipica in tal sensoè una lauda anonima (23), molto
semplice ed
efficace, che echeggia lo Stabat Mater.
Vedeva
il capo
che stava inchinato
e tutto il
corpo ch’era
tormentato
per
riscattar questo mondo
perverso.
Vede
l’aceto
ch’era col fiel misto
dato a bevere al dolce Jesu Christo
e un gran coltello il cor le trapassava.
La teologia della devozione popolare
delle laudes non travalica dalla tradizione
mariologica del cristianesimo primitivo. Le figure retoriche della
composizione, dall’alliterazione alla rima baciata, non fanno che
scavare l’immagine
dell’uomo dei tormenti, che è il Cristo, e, attraverso la testimonianza
oculare
di Maria, sottolineata efficacemente dalla ripetizione martellante del
verbo «vedere»
in posizione iniziale, quella non meno dolorosa della Madre stessa.
Vede
lo figlio
tutto passionato
dicer
colla
Scrittura: tutto è consumato:
fiume
di
pianto dagli occhi disserra.
La delicatezza della venerazione
medioevale verso questa madre
così sventurata si esprime nella compostezza delle immagini asciutte,
per
quanto vivide e drammatiche; la partecipazione è sincera ed umanissima,
cordiale e realistica, evidenziata dall’andamento prosaico dell’ultimo
verso di
ogni strofa. Ma non c’è esagerazione alcuna, non c’è enfasi retorica,
non c’è gusto
macabro. C’è solo dolore infinito, un dolore solitario quanto
riservato: c’è un
volto di donna bagnato di pianto. Un volto forte anche se provato, un
volto che
guarda al dolore, un pianto che ha il coraggio di seguire la morte:
«Vergine
Madre, come tu vedesti / il caro figlio, quando era spirato».
«Questo dolor» che fu «di tanta
possanza» giustifica l’attribuzione
da parte della Chiesa a Maria di Madre dei martiri, poiché esso è
«mille volte
ogni martire avanza», dato che, come dice Giacomo da Milano (24), Maria
stava
addirittura «in croce con Cristo». La Madre di Dio, benedetta e beata,
sembra
conseguire in questo suo dolore, assumendo per se stessa le piaghe di
Gesù
(25), la suprema vicinanza al Cristo. Gacomino da Verona pone
l’interrogativo,
senza scandalo ma con pietà, del destino doloroso della donna beata:
interrogativo
che, del resto, è lo stesso che la Scrittura prende in considerazione
riguardo a
Ges, e al quale essa aveva risposto con »opertebat»: «Perché hai tu fatto el vaso de
santità, vaso de
penalità?». In questa domanda pregna di stupore c’è tutta
l’affettuosità
filiale, tutto il dispiacere contristato di cui il termine medioevale «penalità»
esprime
meravigliosamente il dolore fisico e psicologico insieme.
Ma è un interrogativo, dicevo, anche
fiducioso: poiché la contraddizione
è vista in funzione del positivo finale e funzionale. E lo stesso
autore
dimostra sia la partecipazione affettiva sia la fede cristiana quando
chiede,
come altri mistici prima e dopo di lui, niente altro «se non le
piaghe»: «o tu
me togli la vita del corpo, o tu vulneri el core mio.
La certezza di essere ascoltato si fonda
sul fatto che «la natura della madre» è quella di «compiacere
al fiolo in
ogni cosa».
II concetto è sviluppato nella lauda
anonima citata precedentemente;
grazie alla sua partecipazione alla passione di Gesù Maria diventa la
«sola
speranza», acquista supremamente il diritto e la capacità di essere
«Madre di
misericordia umile e pia»; ella infatti non solo conosce il dolore, ma
attraverso di esso come Gesù attraverso la morte, ha vinto il «nemico»,
dandogli «scacco
matto», come si
esprime Garzo dall’Incisa.
Da qui la considerazione è portata
logicamente, e con
intuizione poetica, alla «pietà» di questa «donna», che è «dolorosa»
perché
sposa e madre, ed è «regina» perchédolorosa.
Regina
«pietosa»
La dottrina secondo la quale la Madonna,
grazie all’Incarnazione,
operatasi attraverso di lei, è diventata causa per cui «l’universo
intero
esulta di gioia» (26), risale alla Patristica ed è stata confermata
nella letteratura
italiana con i grandi poeti del ‘300. Nelle laudes
del ‘200, il termine «regina (o «reina») ha, nella sua denotazione
teologica,
esattamente il significato patristico, nel senso di «donna di pietà», e
non
ancora quello di signora avente un regno. Il contesto storico non è
quello
delle grandi monarchie, ma quello provenzale e poi cortese delle
piccole corti,
del potere esercitato quasi a conduzione familiare.
Bonvesin da la Riva, di famiglia
milanese (1240 ca.-1315
ca.), ricordato dalla storia della devozione popolare per aver
introdotto l’uso
del suono delle campane all’«Ave Maria» (27), accoglie nella seconda
metà del ‘200
il termine «regina» (28) già introdotto dal laudario cortonense, uno
fra i più
antichi del genere. Tale regalità è specificata dalla «sanctitae»
(v.11), senza
alcun riferimento alla concezione teocratica successivamente impostasi.
Infatti, sinonimo di «regina» è «dona dei angeli», che rimanda alla
concezione
duecentesca dell’eccellenza della donna in quanto tale – intesa come
esemplare
della virtù e mezzo ad essa-, di cui Maria rappresenterebbe qui il princeps analogatum, l’archetipo. Si
tratta dunque di quella regalità, che il dolcestilnovo avrebbe in
seguito
concettualizzato, sulle orme della cultura precedente, come ideale del
bello e
del buono in prospettiva antropologica, in rapporto intimo e personale
con il «gentil
core» (29). Bonvesin si esprime in effetti in tal senso quando
definisce la
Madonna «soprana per beltae» (v. 15) e la chiama «nostra donzella»,
generatrice
«de pietae» (v. 12).
La teologia della Madre di Dio come
«salute del mondo» – Sant’Anselmo
le aveva assegnato il ruolo di «riconciliazione del mondo»! (30) –
trova qui
una coincidenza con la tradizionale «salute» che la donna possiede e
dona (31).
Questa Vergine è coronata, invero, di tutti gli attributi della
regalità duecentesca:
ella è «plen d’onnia bontae» (v. 14), è al di sopra di «tute le
vergene», ed
infine è «magistra de cortesie e de grand humilitae» (v. 16), «conforto
e
alegrezza» (v. 19) di ogni uomo (32). L’impostazione personalistica
della lauda
risalta anche nelle parti più propriamente teologiche (cfr. vv. 25-48).
Il rapporto
polivalente con Dio («fiola e madre e sposa», v. 26), l’incolumità dal
peccato,
perché fin dal «ventre de la madre si fo sanctificadha», (v. 34), la
sua
condotta volontaria in cui «zamai non fe’ peccao» sia «picena» sia
«crezudha»
(vv. 39 e 37), la sua mediazione fra Dio e gli uomini (vv. 45-60) sono
inseriti
in un contesto di rapporti di vassallaggio, per cui il potere
costituisce una
difesa dagli «inimisi» (v. 53), e in cui trova
ancora posto la nobiltà «per sangue», del resto di biblica memoria,
della «regina-signora»
(v. 29).
Piuttosto rara nelle laudes,
questa nota mariana è allargata, con connotazioni di natura borghese
che preludono
la poetica toscana, all’aspetto morale, alla nobiltà della virtù:
aspetto, anche
questo, fondamentalmente derivato dalla S. Scrittura per quanto
riguarda il
contenuto concettuale. Maria è «com femena virtuosa» dai «bon costumi»;
ella è
«larga» (vv. 27 e 53) e accogliente, umile e «non dexdeniosa» (v. 28).
La funzione di mediatrice è attribuita
dunque ad una figura al
contempo del tutto speciale e aristocratica («altivosa», v. 29;
«gloriosa», v.
30; «speciosa», v. 31; «plu dignitosa», v. 32) e del tutto umana e
combattente
accanto agli uomini, anche se alla loro testa e dotata di particolare
potenza;
ella è «tutix», nostra «confalonera» (v. 41), come dice anche Giacomino
da
Verona nelle Laudes B. Mariae V. (v.
62); ella difende chi si pone «soto la soa bandera» (v. 39), cioè
coloro che le
prestano giuramento come vassalli («ki
voi star sego in sgiera», v. 42), e
per loro è sicura vittoria poiché ella
è «molt fort
guerrera» (v. 43).
Si tratta, dunque, di una regina
dall’aspetto della madre di
famiglia, di tutta «larghezza», come diceva Garzo dall’Incisa nella
lauda
citata (v. 80) (33), una «signora» nobile, sì, ma del paese familiare,
della
terra stessa dei suoi fedeli. È così che Bonvesin da la Riva può dire
di questa
«regina dolce» che «molt’ama li suoi amisi» (v. 49). È così che ne
consegue un rapporto
reciproco da parte dei «soi devoti» che sono «del so amor prisi» (v.
50).
Questi sudditi-amici, «se justamente la pregano », sono «molto ben
intìsi» (v.
51); e tutti possono accedere alla Signora «amorevre» (v. 53), ricchi e
poveri,
purché si adoperino di «plasevre» (v. 56) ed «entre soe brace sian
recomandati»
(v. 58). La lauda del ‘200 si inscrive dunque, anche sotto l’aspetto
della
rappresentazione della regalità di Maria, in quella visione
«umanizzata» della
Madre di Dio che, con l’arte gotica, si è imposta in pittura. Ci sono,
intorno
alla Madonna, non più o non soltanto gli angeli; ci sono «tugi i
afadighai» (v.
57) che in lei trovano «dolcezza e requie», ci sono «li tribulai» (v.
59), i «desperai»
(v. 60) o, come dice Giacomino da Verona nella lauda citata (v. 89),
«li
viandenti e li peregrini». Maria è «consolatris», ricorda di nuovo il
poeta Bonvesin
(v. 59), è «speranza grande» (v. 60), in piedi di fronte al Salvatore
(cfr. v.
61): lo è adesso (v. 61), ottenuta la piena «poestaria» (v. 68), per la
sua
maternità e la sua afflizione, a vantaggio di tutti «li peccaor» (v.
62). C’è
sempre l’insegnamento, qui, alto-medioevale (34) e la mariologia della
scolastica (35), ma inscritto in un clima domestico.
La «pietà» attribuita a Maria è lontana
da ogni
atteggiamento di sufficienza: non già perché sarebbe stato possibile
vedere in
lei un qualche sentimento di orgoglio, ma per il fatto che era ormai
superata
la concezione «pantocratica» della Madre di Dio. E a ciò contribuì
indubbiamente, oltre alla tendenza sopra ricordata, soprattutto la
spiritualit
francescana. In effetti, riscontriamo precise note di affettuosità, sia
pur
sullo sfondo più generale della «cortesia» duecentesca, nel laudario di
Giacomino
da Verona, frate francescano (36). L’epiteto di «nobel polcella» (vv. 1
e 43) è
messo in rapporto con chi intende «lo so amor» (v. 4). A lei il poeta
si
rivolge «com a dona»: donna che attira, donna che ispira, donna che
emana «aolimento»
e «dolcor», profumo di cortesia (cfr. vv. 17 ss.). Ella che è «de tute
le done
regina» (v. 13) emergendo fra le tante come nella migliore coreografia
stilnovista, abbellisce lo «stil» e guida la «penna» del poeta (v. 6),
così
come, spargendo tutt’intorno il suo «odor» (v. 20), rinnova tutto il
mondo che «par
ken redola» (v. 100). Già in una lauda, anteriore ed anonima (37),
nella quale
la Madonna riceve attributi come «vigorosa, potente, beata» (v. 44), la
sovranità è essenzializzata nella «bellezza» (v. 29), nell’esser
«letizia de
tutta la gente» (v. 41). Come successivamente in Giacomino da Verona,
l’amorevolezza
della figura regale di Maria è evidenziata dalla ripetizione di
semantemi di questo
genere: ben quattro identici, nella lauda anonima ricordata, senza
contare
quelli con la medesima connotazione. La «dolcezza» (v. 30) che deve
sentire per
lei ogni uomo la cui vita non sia «troppo ria» (v. 31), il «gustar» di
lei (v.
31), sono altrettante conseguenze di quel rapporto affettuoso, per il
quale essenziale
la bontà della vita e l’imitazione dell’esempio offerto da Maria.
Quando Giacomino da Verona indica
esplicitamente la «sovrana»
(v. 26) maestà imperiale della Madonna, rivela un quadro di costume da
alta
corte, poiché ella si «encorona», circondata dagli angeli su cui tutti
ella é «exaltaa»
(v. 26), «d’or de saphyr e d’ariento / claro più ke stella diana» (vv.
27-28).
Da notare che l’espressione «Diana stella lucente» è già della anonima
lauda
sopra ricordata, quindi più antica ed ereditata da San Bernardo. Ma
soprattutto
da notare è il clima di intimità del corteggio mariano, che richiama
più una
festa gioiosa di paese che non una scena imperiale. Più che una teoria
di
notabili, qui appare una processione di paesani; il paradiso, dove
regna Maria,
sembra una praticello fiorito di una villa signorile (vv. 65-72):
Dond’eo digo ke per vui se contrenco
lo paradis, quel aolente verger,
e cascaun ke abita en quello regno,
e cuncti e marchis e done e cavaler.
Li
quali,
Madona, de vui a tanta festa
ke per letitia igi canta una cancon.
Ke lo Segnor a la vostra maiesta
so(to)posta ognunca nation.
La sovranità di Maria su ogni comunità,
nazionalità e gente
è ritmata dall’armonia popolare del canto, la maestà è letizia, così
come il
paradiso è un giardino.
L’incoronazione di Maria desta la
«meraveja» degli angeli, e
segue, in Giacomino da Verona, la tradizione mariologica che,
interpretando
simbolicamente la Scrittura, si canonizza nella liturgia; «Chi è costei
che
ascende», assunta al «talamo celeste, in cui il Re dei re siede in
trono stellato?»
(v. 37). Ma la connotazione di questa sovrana è di esser «dolce» (38).
Questo
aggettivo si trova nelle laudes,
attribuito a Maria come «madre» (39), come «donna» (40), come «regina»
(41), ed
è esso, a nostro avviso, a indicare la natura del personaggio, nei suoi
diversi
aspetti. Tale natura è dunque la dolcezza; tale è l’essenza di colei
che svolge
il ruolo della maternità, della femminilità – intesa, duecentescamente,
come
fattore di interiorizzazione e di elevazione -, e della regalità – nel
senso
dell’«avvocata» e «tutrice».
L’interpretazione secondo cui le
funzioni di Maria,
interdipendenti fra loro, trovano il significato comune ed essenziale
nella
dolcezza è deducibile dal testo letterario. Ad esempio, la figura della
«madre»
è presentata intrinsecamente unita all’amabilità della donna, tanto
che, dice
la lauda anonima sopra indicata, ogni uomo dovrebbe rifiutare «tutto ‘l
mondo,
per te». Ancora, la «donna» di Giacomino da Verona ad esempio segue
subito l’espressione
«tanto si ( = sei) bella!», ma è subito seguita poi dal pensiero della
«tutela»
e della intercessione presso «el Fijol» (vv. 46-68). Questa «domina» è,
ovviamente, potente; ma «anche bella!». Ed è «bella», ma in funzione
amorevole.
Il termine «regina», ad esempio in Bonvesin, si dispiega nell’immediato
prosieguo, nella lauda citata, attraverso il processo di amore per «li
soi
amisi», cui corrisponde la «devozione» di questi nei suoi confronti
(42).
Le conseguenze, dal punto di vista
devozionale, sono
importanti. I testi rivelano il senso di questa «dolcezza»: è la
«pietà», l’amorevolezza
compassionevole. Il concetto della «pietate» domina infatti la
dimensione,
anche «regale», della Madonna delle laudes.
Una lauda bergamasca definisce
chiaramente Maria «Regina», «dona
de pietad» (43), ed una lauda bolognese indica la natura di questo
potere nell’attrarre
Dio stesso ad incarnarsi nel seno di lei, la cui grandezza è misurata
dal poter
contenere in sé colui che i cieli non comprendono (vv. 36-38):
Vencisti
Santo
Cristo onnipotente
che
si chiuse
nel to ventre,
che
in cielo e
in terra non capia (44).
Se il concetto di potenza è legato alla
funzione materna, innanzitutto
nei confronti di Dio, del Verbo incarnato, l’appellativo di «regina»
introduce
la dinamica dell’«umilidad» umana, ha cioè un
rapporto con la condizione degli uomini. Maria non umilia nessuno, è
una «regina»
che non affligge, ma che neppure concede a nessuno di insuperbirsi.
Maria non
ammette la prevaricazione. Ella fa, cortesemente, «grandi doni» (45):
ma ciò è
opera esclusivamente dell’«amor» suo che mai ci abbandona. E, il suo, è
un
amore innanzitutto verso Dio. Da qui, la fiducia, nelle laudes,
e l’abbandono in lei; ma non senza la consapevolezza che,
come vedremo, è indispensabile imitare la vita virtuosa di tale regina
e «donna».
Uno sguardo particolare è rivolto
all’ultimo giorno, «quando
veniarà ol dì de la sententia» (46). Maria si troverà al suo posto
accanto al
giudice, con la funzione di «advocata»: perciò, la preghiera che ella
«sie
denanzi al nostro Seniore» (47), perché ella ha, per grazia e come
mediatrice,
un titolo, per così dire, alla pari, comunque del tutto privilegiato.
Perciò, «pregànte
che tu ne perdoni / tutta la nostra villania» (48), dice
coraggiosamente e
arditamente una lauda anonima.
Un motivo, che compare con insistenza,
per cui la Madonna è
vista sicura difesa degna di affidabilità, è la sua esperienza
dolorosa. Sembra
che la sua «cortesia», di cui ella è esemplare principe e nella cui
sublimità è
fatta consistere fondamentalmente la sua regalità, tragga a sua volta
ragione
dal dolore. Anche nella sofferenza, Maria è stata tipica. Dichiarando
ad esempio
Maria la «speranza / da cui viene consolanza», Garzo dall’Incisa pone
il
rapporto tra la «gioia ed allegrezza» che è Maria per il mondo, e il
«tuo dolor»
(di Maria). Se prima abbiamo parlato di reciprocità di affetto, qui
possiamo
parlare di reciprocità di dolore: il fedele suddito, «cliente» e figlio
capisce
e percepisce il forte patimento della Madonna, dal quale appunto egli
trae
motivo di fiducia e garanzia per i propri bisogni spirituali (49).
Dal pensiero dell’addolorata, intesa qui
come fondamento della
regalità, nasce la convinzione, profondamente teologica e cristica,
della «sientia»
di Maria, come si esprime una lauda bergamasca citata: la Madonna «sa»,
perché
la sua comprensione deriva dal dolore. In Garzo dall’Incisa questa
sapienza è messa
diffusamente in relazione con la passione di Maria:
Quando
tu ‘l
vedisti morto
nel(la)
croce,
‘l tuo diporto,
la
speranza fo
conforto,
di
te, donna
cognoscente.
La definizione di Maria quale «arca di
dottrina», nel citato
poeta (vv. 63 ss.) non ha molto di intellettualistico; essa è una
conoscenza
morale, di vita, posta a servizio dell’uomo, tale che la rende valida
nell’«avvocatura»,
sia nell’ultimo giorno sia giorno per giorno in ordine alla
persuasione,
discreta e potente insieme, della penitenza (50).
La pienezza di grazia di Maria è
connessa alla capacità di compatire
pietosamente l’uomo nel suo dolore: dolore che, per la cultura
medioevale, non è
solo, né tanto, quello fisico, ma anche e soprattutto quello morale,
quello del
peccato, come afferma ad esempio Jacopone da Todi (51). Tale compatire
si
esercita non solo nel perdonare, o nel difendere dalla dura sentenza,
ma prima
di tutto nel convertire e nell’indurre ad una vita meritevole, degna
della «regina»
stessa. Perciò, come anticipavamo, Maria, regina «pietosa», è indicata
come
modello di santità. Ciò è sottolineato ad esempio da Garzo dall’Incisa,
il
quale enuncia anche il meccanismo teologico della santità,
primariamente di
Maria e quindi di ogni suo fedele suddito e cliente. La Madonna ha
posto le
basi della sua virtù e regalità credendo al messaggio evangelico e
custodendo
il «saluto» angelico con la «grazia fervente» (vv. 15-18). Con ciò,
ella ha confermato
la nostra fede perché non fosse perdente (vv. 31 ss.).
Con una religiosità più etica di quella
del futuro Petrarca,
il mondo duecentesco guarda alla Madonna per ottenere, sì, il pietoso
intervento salvifico, ma, prima ancora, per seguirne l’esempio. Ed è
infatti
questa l’autentica disposizione che fa ben sperare l’aiuto nel
giudizio, il
conforto nella debolezza, secondo la famosa esortazione fondamentale
del
teologo San Bernardo: «non dimenticare l’esempio della sua vita» (52).
Ed è
questa la «pietanza» che anche la Madonna di Jacopone da Todi invoca
per i
peccatori: perché la «benignitade» consiste nel far «ritornar a buona
via /
gente, ch’è senza furore» (53).
NOTE
(1) De ve salve, virgena Maria,
vv. 20-24,
in E. MONACI, Crestomazia italiana dei
primi secoli, II, Città di Castello 1889-1912, p. 456.
(2) De quodam monaco qui vocatur
frate Ave Maria,
in G. CONTINI, Poeti del Duecento,
Milano-Napoli 1960.
(3) De ve salve, virgina Maria,
cit., v. 28.
(4) Ibidem,
v. 31.
(5) Ibidem,
v. 29.
(6) Ibidem,
v. 33. Molto comune il termine,
cfr.
comunque l’«avocata» della lauda anonima Stava
la Vergine sotto de la croce, vv. 6 e 46, in G. CONTINI, op. cit.
(7) Ave, verzene Maria, v.
16, in Regola dei Servi della Vergine gloriosa,
Bologna 1281, poi G. Ferrero, Livorno 1875.
(8)
Cfr., es., la lauda bolognese Ave verzene
Maria, cit., v. 2. Per la cit. successiva, v. 7.
(9) Ibidem, vv. 21-22.
(10)
Cfr. Paradiso, XI, 54. Si riscontra
nel ‘200 anche in Garzo dall’Incisa: «chiara stella d’oriente».
(11)
Lauda LXXXVII, v. 7, in Raccolta di rime
antiche toscane, III, p. 352.
(12) Vergine gaudente, vv. 5
e 6, in G.
CONTINI, op. cit.
(13)
Cfr. il concetto stilnovistico di «tanto gentile».
(14)
Lauda bolognese Ave, verzene Maria,
cit., v. 26.
(15)
Lauda LXXXVII, De beata virgine Christum
tenente in gremio, in «Rime genovesi», N. LAGOMAGGIORE, Archivio
glottologico, II, p. 266.
(16) O Vergin più che femina,
1490, rist.
Ferri, Bari, e Papini, Firenze, in G. MAROTTA, Lirica
Mariana, Torino 1932, p. 24.
(17) «Fraticelli» e «beghini», dopo la
più tarda condanna di Giovanni XXII con la bolla Quorundam
exigit, 1317.
(18)
Cfr. A. AGNOLETTO, Storia del
Cristianesimo, Milano 1978, pp. 153.
(19)
Il testo in Inni, a cura di G.
Cammelli, Firenze 1930, ripubbl. In Donna
del Paradiso, a cura di M. Escobar, Torino 1962, pp. 28 ss.
(20)
Il testo in E. MONACI, op. cit., II,
p. 457.
(21) De institutione virginun,
cap. 7.
(22)
Testo in G. CONTINI, op. cit.
(23)
In NANNUCCI, Manuale della letteratura
italiana del I secolo, Firenze, vol. II, p. 111. Cfr. F. ERNINI, Lo Stabat Mater e i pianti della Vergine,
Città di Castello 1916.
(24) Stimulus amoris, in Mistici del Duecento, a cura di A. Levasti, Milano-Roma
1935.
(25) Ibidem: «piaghe
assumate » è un’espressione tanto
psicologicamente pregnante quanto teologicamente forte per la
connotazione
«dell’assunzione» partecipaliva della sofferenza salvifica di Gesù.
(26)
CIRILLO ALESSANDRINO, Homeliae, PL
LXXVII, 992.
(27)
Tra la fine del ‘300 e gli inizi del ‘400, con Giovanni Sercambi, tale
usanza
entrer nella novellistica (cfr. Novelle
inedite, a cura di R. Reiner, Torino 1889).
(28) Laudes B. Mariae V.,
cit., in G.
MARIOTTA, op. cit., p. 31.
(29)
Secondo la teorizzazione a partire da GUIDO GUINIZZELLI, Al
cor gentil reimpara sempre amore.
(30) Orationes et meditationes,
ed. Edimburgo
1946.
(31)
Cfr. il perfetto esempio di ciò in DANTE, Vede
perfettamente onne salute.
(32)
Cfr. le rispettive caratteristiche nella poesia stilnovista, e
particolare in Tanto gentile e tanto onesta pare.
(33) Lauda a Maria, v. 80,
di GARZO
DALL’INCISA, in Poeti del Duecento, a
cura di G. CONTINI, op. cit.
(34)
Cfr. GIOVANNI DAMASCENO, Octoecus-Paracletus,
a cura di G. GIOVANNELLI, Roma 1885: «speranza, protezione e aiuto
delle umane
genti».
(35)
Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Expositio
salutationis angelicae: «ogni speranza di vita e di virtù», che
cita Ecclesiastico 24, 25, interpretando
analogicamente la Sapienza come Maria.
(36)
Le Laudi della Vergine sono state
pubblicate dal MUSSAFIA in Sitztingsberichte
der Kaiserl. Akad. Der Wissenschaften, aprile-maggio 1864, pp.
191-196
(37) Venite a laudare, v.
40, in Poeti del Duecento, cit.
(38)
Antifona delle Lodi, Ufficio dell’Ascensione.
(39)
Come nella lauda Venite a laudare, v.
34, e in altre, es. nella lauda bergamasca citata, v. 5: «dolz amor».
(40)
Cfr. Venite a laudare, cit. v. 34.
(41)
Cfr. GIACOMINO DA VERONA, Laudi della
Vergine, cit., v. 45.
(42)
Cfr. BONVESIN DA LA RIVA, Eo Bonvesin da
la Riva, cit. v. 49.
(43) De ve salve, virgena Maria,
cit., v. 7,
in E. MONACI, op. cit., p. 456.
(44) Regola dei Servi della
Vergine gloriosa,
cit. Il concetto è quello liturgico del «quem
coeli capere non poterant, tuo gremio contulisti».
(45) Ibidem, v. 12.
(46) De ve salve, virgena Maria,
cit., v. 24.
(47) Ibidem, v. 25.
(48) Venite a laudare, cit.,
vv. 14-15.
(49)
GARZO DALL’INCISA, op. cit., vv. 67
ss.
(50) De ve salve, virgena Maria,
cit., v. 23.
(51) Cristo speranza mia, in
TRESATTI, Le poesie spirituali di Jacopone da Todi,
Misserini, Venezia MDCXVII: «Ch’à
vergogna et
à dolore / della sua grande offansa»,
vv.
9-10.
(52) Homilia II super “Missus
est”, in Xenia
Bernardina, Vienna, 1891.
(53) Cristo speranza mia,
cit., vv. 41 ss.
Fonte :
Francesco di Ciaccia, Aspetti della devozione Mariana
nei Laudari
duecenteschi, in «miles
immaculatae», ANNO XXI, 1-4 (1985) pp. 261-284.
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