WILLIAM CONGDON , pittore (1912-1998),
nota biografica di Alessio Varisco
William
Grosvenor Congdon
nasce a Providence
il 15 aprile 1912 nel Rhode island, da una ricca a prestigiosa famiglia che fa
parte dell’aristocrazia economica e sociale del New England. Il padre è un
industriale dell’acciaio, Gilbert, mentre, la madre, Caroline Grosvenor, nasce
in una delle famiglie più rinomate per la produzione industriale del cotone.
Riceve il battesimo
nella Chiesa Episcopale.
William si laurea in letteratura inglese e
spagnola a Yale nel 1934.
Nonostante il dottorato in lettere -e
l’interesse per le arti letterarie americane e spagnole- si dedica con interesse
alle arti figurative. Nel 1934 inizia un
apprendistato in
pittura e poi scultura presso insegnanti privati:
frequenta a Provincetown, sino al 1936, corsi di pittura tenuti dall’artista
Henry Hensche. Tra gli anni ‘36 e ‘38 si dà allo studio della scultura, sotto la
guida di George Demetrios.
Nel 1938 congiuntamente all’amico pittore Thomas
Blagden, apre uno studio di scultura a Lakeville nel Connecticut. In questi anni
la sua produzione è dedita soprattutto ad una produzione ritrattistica.
Partecipa ad alcune collettive ed alla Philadelphia Academy of the Fine Arts e
al Whitney.
L’esperienza decisiva
per la sua crescita umana e artistica sarà l’adesione, come autista volontario
di ambulanze alla seconda guerra mondiale[1].
Dapprima partecipa alle campagne
del Nord Africa (EI Alamein), mentre trasferito in Europa prende parte alla
missione in italia e, nel ‘45, presta opera di soccorso nel lager di Bergen
Belsen. Questa, maggiormente ad altre esperienze di fronte, si traduce in molte
delle sue pagine di testimonianza e in molteplici disegni.
Impegnato su vari
fronti nel Conflitto mondiale ha modo di partecipare alla catastrofe di tante
popolazioni civili. In lui si aprono molteplici domande inquietanti sul senso
della storia, sull’esistenza e sul dolore... Interrogazioni, quesiti che si pone
di continuo e che si faranno ancora più urgenti e stridenti quando in Germania
sarà tra i primi testimoni diretti dell’olocausto in uno dei lager del Terzo
Reich.
L’Europa lo segna profondamente. Possiamo dire
che indelebilmente entra con i suoi drammi nella sua quotidianità, la sua una
vita che avrebbe potuto essere semplice, agiata, sempre in vetta alle
classifiche di vendita, successo, critica e pubblico. Ma una sorta di misterioso
legame lo richiama in Italia. Nel nostro Paese ritorna nell’anno 1946,
occupandosi –sempre come volontario- della ricostruzione del Molise. Nel 1947 ha
modo di soggiornare a Capri. È qui che riprende la prima vocazione pittorica.
Dinanzi la bellezza dei paesaggi campani riesce a trovare la forza di ritornare
a creare, a colorare, a “fare a arte”.
Dall’Italia, da quest’anno in poi, senza
interruzioni trasmetterà le sue emozioni mediante il supporto bidimensionale.
Gli esordi –possiamo chiamarli così dopo tanti anni di campagne in fronti di
guerra e la sua scelta verso la ritrattistica- sono costituiti da piccole
tecniche miste su carta, ribadite anche al ritorno, dopo qualche mese, a
Providence.
La sua carriera di
pittore, tuttavia, prende l’avvio a New York tra il 1948 e il 1950, con
l’ingresso nella prestigiosa Betty Parsons Gallery. Qui egli ha modo di
conoscere e di condividere idee ed esperienze con gli artisti della nascente
Scuola di New York, Pollock, Barnett Newman, Rothko, Pousette-Dart e altri. Sono
gli anni in cui matura il suo linguaggio pittorico che, nonostante i più arditi
sperimentalismi, non abbandona mai la figurazione orientandosi verso vedute,
fortemente drammatiche ed espressionistiche, di città e monumenti, soprattutto
dell’Europa e dell’Italia dove egli periodicamente soggiorna.
Nell’anno 1948 –durante la primavera- si colloca
a New York. Nella città, in crescente espansione, avvia la stagione delle
raffigurazioni di città, a partire dagli
slums
della Bowery.
L’anno 1949 segna l’inizio di un’attività
fervente e della prestigiosa collaborazione con la “Betty Parsons Gallery”.
Grazie all’ambiente creativo ed alle frequentazioni presso quest’ultima galleria
viene a contatto con i protagonisti dell’Espressionismo Astratto americano.
Rapporti questi intensi, seppure sporadici, anche a causa dei numerosi viaggi
che lo distanziano dalla metropoli riconducendolo in Italia -a Roma, Venezia e
Napoli-, ma anche in Messico e in Egitto.
Elegge a propria dimora abituale e principale
fonte di ispirazione la bella e molle città di Venezia. Correva l’anno 1950. Nel
frattempo le sue opere si procurano allettanti successi di critica ed anche di
pubblico.
Gli anni successivi sono determinati ad una
sempre maggiore partecipazione di Congdon alle più importanti rassegne d’arte
americana. I suoi quadri vengono acquistati dai più apprezzabili musei nel mondo
ed continua la sua attività espositiva, che si fa regolare, presso la Betty
Parsons Gallery.
Come detto dal 1950
aveva eletto a sua nuova domicilio la città veneta di Venezia, ove
principalmente risiede. La città lagunare viene da lui rappresentata con una
forza visionaria inedita. È questo il periodo dell’esodo di
Congdon per diverse
città monumentali dell’Italia e del mondo fra le
quali Atene, Parigi, Istanbul, Roma, Assisi. Le sue opere gli procurano un
notevole successo in patria e vengono anche acquistate dai musei più importanti.
Al fianco di un
periodo così fervente di vendite, viaggi e successi approfondisce letture e
meditazioni religiose. La metà degli anni Cinquanta segnano la svolta spirituale
dell’Artista, segnata da una diuturna.
Di particolare
importanza l’incontro con sant’Agostino e le sue Confessioni che
divengono il suo livre de chevet di quel periodo.
Questa ricerca,
quest’inquietudine di agostiniana memoria segna indelebilmente anche la sua
arte. È così che anche la pittura vaga, come l’Artista, alla ricerca sempre più
di segni di una possibile “redenzione” da una condizione di vita avvertita come
disancorata ed errabonda.
Dalla metà degli anni ‘50 si intensificano con
maggior frequenza i viaggi, che lo portano prima in Nord Africa, poi a Parigi,
in Grecia, nel Vicino Oriente e in America Latina.
Nell’agosto del 1959
si converte a alla Chiesa cattolica.
Per l’Artista inizia
presso la comunità della Cittadella di Assisi un
nuovo e proficuo periodo: quasi cinquantenne incomincia una nuova fase della sua
vita e della sua attività artistica.
Nella città umbra vive presso una torre sopra
San Damiano, poco fuori le mura, proprio sotto il complesso della Basilica di
Santa Chiara che custodisce il Crocifisso che parlò a San Francesco, si dedica -
per un po’ di tempo e con un’enorme passione enfatizzata dalla recente
conversione- ad una pittura di tipo religioso[2].
In questo periodo -di ritiro quasi monacale
nella cittadina umbra- si affievoliscono per poi esaurirsi quasi del tutto verso
la fine degli anni ’60 i suoi rapporti con il mondo dell’arte. Nonostante questo
la sua pittura, fatta di gesti emozionali, colori grumosi e da una produzione
figurativa comunque ricca, continua negli studi di Assisi e Subiaco.
Negli anni ‘70 ritrova soprattutto le
ispirazioni, con una nuova serie di viaggi che lo conducono, in particolare, in
Africa e in india. È questo il periodo del suo ritorno alla pittura di
paesaggio.
Singolare la produzione, al fianco di questa più
“naturalistica” legata al paesaggio, di una sua “personale ed intensissima
produzione” di opere sacre dedicate al tema del Cristo crocefisso, vero
leit-motiv[3].
Dal 1979 si sposta presso un monastero
benedettino, a Gudo Gambaredo, in una cascina della Bassa milanese. Quivi
dimora stabilmente, occupato con passione in una nuova stagione di pittura
ispirata alla terra e ai campi che lo circondano.
Nel contempo l’attività espositiva lo impegna
prima a Rimini nel 1980 e nel 1984, poi a Ferrara nel 1981 e 1986, poi a Como
nel 1983 ed infine a Milano nel 1992. L’ultima fase
della sua vita coincide con il suo soggiorno nella campagna milanese, dal 1979
al 15 aprile del 1998 proprio il giorno dell’anniversario della sua nascita.
L’Europa scoperta nella pittura di Congdon
In quest’ultimo dopoguerra l’Italia e l’Europa
hanno scoperto l’America, in quanto la sua cultura e, più ancora, il suo stile
di vita sono divenuti un modello per buona parte del mondo. Qualcosa è avvenuto
anche in senso inverso. Pochi ricordano che il grande poeta Thomas Stearns Eliot,
una delle maggiori figure della letteratura anglosassone di questo secolo, è
americano per nascita, ma che è riuscito a farlo dimenticare - come del resto il
suo amico e collega Ezra Pound -, integrandosi totalmente nella cultura europea,
ed anzi penetrandola con una profondità di cui ben pochi europei sarebbero stati
capaci. Eliot ha saputo risalire la corrente della tradizione dell’Occidente, di
fronte alla quale gli europei risultano sovente distratti o immemori: e credo
che in questo risalire abbia pesato la sua conversione, il suo riscoprire la
Chiesa, a partire da quei Padri Pellegrini, ch’erano sbarcati agli inizi del
XVII secolo sulle coste del Massachusetts, da cui la sua famiglia discendeva.
Non diversamente accade per William Congdon, un
altro artista americano che ha scoperto l’Europa. Come Eliot, anche Congdon
appartiene ad un ceppo particolare della nazione americana. E’ nato a Providence,
nel Rhode Island, una città poco lontana da Boston, appena più a sud: proviene
dunque dalla Nuova Inghilterra, la porzione più antica del Paese, custode delle
sue più nobili tradizioni. Anche tra i suoi antenati - almeno da parte materna -
ritroviamo uno dei Padri Pellegrini, venuti per fondare nel Nuovo Mondo la Nuova
Gerusalemme, dato che alle origini della società americana sta una vera e
propria teocrazia.
Vorrei insistere ancora su questo aspetto:
Congdon corrisponde alla tipologia dell’americano colto - con una grande
tradizione, anche aristocratica, alle spalle -, comunque dominato dal bisogno di
partire per cercare le proprie radici; lo caratterizza una sorta di “fame di
radici”, che lo costringe ad un viaggio perpetuo, permanente. Tutta la sua
storia, almeno fino a tutti gli anni ‘50, è nella cifra del viaggio, e questo
diviene componente essenziale della sua creazione artistica: pittura e viaggio,
pittura ed esodo sono per lui la stessa cosa.
Un occhio forestiero
Proprio per queste ragioni nei quadri di Congdon
non vediamo - se non proprio agli esordi della sua attività - l’America, quanto
piuttosto l’Europa, ed un’Europa assai ben identificata. Il mondo mediterraneo:
l’Italia anzitutto, ma anche la Grecia, il Vicino Oriente, l’Egitto. Oppure
l’America Latina, comunque filtrata da questa lente mediterranea. Vediamo
immagini che risultano lontane da ciò che siamo soliti pensare come “America”,
dallAmerican way of life. Cionondimeno, anche questo è un lato di
America. Congdon guarda i luoghi della nostra storia con l’occhio di uno
straniero, talmente lucido da consentire a noi stessi di scoprire ciò che da
sempre ci accompagna. E un elemento di sorprendente interesse: un occhio
straniero, bisognoso, addirittura mendicante di una patria, diviene più capace
del nostro di penetrare l’identità di uno spazio che noi non sappiamo strappare
alla nostra familiarità.
C’è una frase, in una lettera che Congdon scrive
nel 1955 a un critico statunitense, che rappresenta una sorta di chiave di
comprensione di questo fenomeno. Congdon avvertiva il bisogno di giustificarsi
per il suo vivere per lo più all’estero; sperimentava questa sua situazione come
una colpa, nei confronti di un Paese al quale si sentiva profondamente legato
proprio nel momento in cui si riconosceva incapace di accettarlo come patria
esclusiva; d’altra parte, niente lo terrorizzava di più dell’idea di fare del
turismo: il viaggiare, così intimamente legato al dipingere, era un compito, non
un’evasione, un destino cui piegarsi. Così scrive:
«Mancando di terreno in patria, vado a mettere
le radici all’estero e qualche pianta cresce, in italia, in Grecia, in India,
dove che sia. L’America è tutti questi paesi e lo sono anch’io. in Europa io
sono costantemente messo a confronto con me stesso non come un lusso da
psichiatri, ma come una realtà di vita e di morte».
Gli esordi nella grande metropoli New York
Il viaggio di Congdon inizia da New York. Per
noi la città rappresenta la quintessenza dell’America; per chi invece, come lui.
viene da Providence, New York è già un passo in direzione dell’Europa, una
specie di porta affacciata su un altro mondo. Naturalmente dovremmo cercare di
restituire la città veduta da Congdon; alcune immagini fotografiche degli anni
‘40, opera di un grande fotografo come Feininger, possono aiutarci a intendere
il complesso rapporto che si stabilisce tra soggetto, dato reale e traduzione
pittorica, malgrado il loro essere in bianco e nero, senza che possano dunque
rivelarci la straordinaria capacità congdoniana di afferrare e ricreare il
peculiare tono cromatico di un luogo. E tuttavia è interessante osservare come
in View of New York City del 1948 egli abbia colto questa sorta di
regolare labirinto di grattacieli e di case, in cui le strade spalancano
voragini, affossamenti, addensamenti d’ombra tra le masse degli edifici, quasi a
definire, in una griglia di macchie chiare e scure, la superficie di una
scacchiera. La città ci appare come un tessuto che si dilata a perdita d’occhio,
senza che possiamo scorgere un qualsiasi punto di riferimento: una sensazione di
vertigine.
New York City (Explosion)
è un dipinto coevo a questa View
(veduta). Innegabilmente, esiste una sostanziale affinità di impianto tra le due
opere. Ma sin dal titolo, che insiste su una qualche “esplosione”, la nostra
attenzione è richiamata alla grande macchia nera d’inchiostro, quasi al centro
del quadro. Chiaramente, l’inchiostro è stato buttato alla fine dell’esecuzione,
in un gesto che sembrerebbe indicare la volontà di cancellare l’opera appena
finita, lo sconfinato tessuto simile alla precedente View. Senonché il
gesto casuale, non premeditato, viene accolto, “tollerato”, fino a diventare il
nucleo centrale del dipinto. Si tratta di un segno che è, al contempo, fuori e
dentro l’opera. Se osserviamo bene quest’ultima, nel suo insieme, constatiamo
che la macchia forma una specie di grande disco centrale dal quale si dipartono
filamenti neri che in qualche modo strutturano il reticolo di linee dei
grattacieli e degli altri edifici. Potremmo addirittura sostenere che è la
macchia, il buco nero, a generare la città; oppure, e senza minori argomenti,
pensare ad un improvviso vuoto che sta per risucchiarla.
Al di là di questo, vorrei sottolineare la
presenza, sin da questa prime opere, del nero, un nero che sembra voler
inghiottire il resto della composizione. Il nero traduce una presenza
enigmatica, non riferita ad alcun aspetto riconoscibile e nominabile della
realtà: una sorta di ombra che sembra perseguitare l’artista, come una
ossessione.
Nelle panoramiche di Feininger è inevitabile
scorgere la tensione prometeica della massa urbana newyorkese che, con i suoi
grattacieli, pare sfidare il cielo che la sovrasta. A immagini come questa
possiamo accostare le opere dipinte da Congdon nel 1949: in Black City la
città si addensa in un’unica massa, contrap posta ad una stretta banda di cielo,
in alto, di un colore piuttosto plumbeo, privo di luce. Questa sembra piuttosto
sprigionarsi dal corpo stesso della città, dallo scintillìo delle sue strade,
dal cangiante reticolo prodotto dall’incisione del colore mediante un
punteruolo. Le linee che si dispongono a raggiera indicano le prospettive
convergenti e divergenti delle strade, l’intima mappa viaria di New York.
Lo schema sarà replicato in altre opere di
questo stesso anno, ma con sostanziali vanazioni di tono cromatico: in Black
City era cupo, quasi notturno; in Red City è invece più caldo,
luminoso; in un’ulteriore versione, Destroyed City, l’elemento dominante
è un fondo bianco rosato e la macchia nera diviene una specie di disco, forse
quello solare, proprio sull’orizzonte, che sgocciola dentro la massa urbana
determinando come un sistema di vasi sanguigni analogo alle precedenti mappe
viarie, quasi che vita individuale e comunicazione collettiva simbolicamente si
sormontassero.
La “esplosione” della città
Come ho detto, siamo nel 1949. Nello stesso anno
Congdon torna in Europa. Pochi mesi dopo aver dipinto le vedute di New York,
eccolo misurarsi con il paesaggio urbano di Napoli Naples Afternoon. Vi è
raffigurata una grande strada - in una città che sta appena risorgendo dalla
guerra - ed è interessante notare un mutamento di impianto nel dipinto, un
assetto più tradizionale, ottocentesco, sottolineato dai colori prescelti e dal
rispetto del canone prospettico con cui è rappresentata la via tra due ali di
palazzi; in fondo si intravede una striscia di azzurro intenso, forse il mare.
Apparentemente, si tratta di un’opera gioiosa,
festosa: i colori - il giallo, il bianco, l’azzurro - gridano. Ma avvertiamo
anche un angoscioso senso di vertigine, osservando questo stretto e quasi
sconfinato canyon urbano. Ma il dato più rilevante è un altro: l’immagine
è letteralmente spaccata in due dal forte contrasto tra luce e ombra, e dalla
zona di densa ombra in primo piano si passa alla luce abbacinante di quella
chiara. Così, la fuga prospettica, che salda il primo piano a quello di fondo, è
interrotta e contraddetta da questa spaccatura che taglia, obliquamente, il
dipinto. Avvertiamo un passaggio tra due spazi, tra due realtà diverse e
opposte, perché luce e ombra sono qui entità concrete e corpose, assai più del
tenue contorno degli oggetti che sembrano annegare in queste masse: un avviso di
dramma, un conflitto, la percezione di una realtà spaccata. Così ha commentato
l’opera Fred Licht, uno dei maggiori studiosi della pittura di Congdon:
«La luce intensa del mezzogiorno nasconde
dietro la sua ossessionante allegria un senso di vuoto, di abbandono, che incute
disagio e angoscia. L’ombra, a sua volta, inverte questa relazione fra
esuberanza e sgomento: l’oscurità, a prima vista minacciosa, sprigiona qualcosa
di lussureggiante, rassicurante».
Vale a dire che sarebbe superficiale stabilire
l’equazione nero = male e luce = bene. Tutto è più complesso. Piuttosto,
assistiamo a una continua ambivalenza: la luce che, inizialmente, sembra
catturarci, affascinarci, a un certo punto rivela una inaudita violenza, cade
dall’alto come una mannaia, calcinante e insopportabile; e l’ombra, a sua volta,
diviene un riparo, aogliente, rassicurante. Mi pare un dato di rilievo, perché
in Congdon il sentimento del dramma, del conflitto insito al reale, si
accompagna alla coscienza di come non sia possibile sbarazzarsene ponendo tutto
il bene da una parte e tutto il male dall’altra.
Così in altre immagini italiane degli anni ‘50.
In Piazza Venice n° 5 del 1951, apparentemente una veduta tradizionale,
da cartolina, tutto pare mettersi in movimento e assumere un aspetto stravolto e
drammatico: si noti la diversità delle due ali delle Procuratie, che sembrano
appartenere a spazi differenti, in quanto quella di sinistra punta direttamente
verso il fondo, sollevando in alto il pavimento della piazza, mentre l’altra
cade a picco e sembra tirarlo verso il basso. Inoltre la strana forma del
campanile, che pare quella di uno sbilenco obelisco, risulta sproporzionatamente
bassa rispetto alla mole della Basilica, sebbene ci appaia invece altissima, in
forza di un innaturale assottigliamento. Anche qui la luminosità delle due ali
ha un che di metallico e crudele, e la relativa oscurità del pavimento e della
facciata della chiesa risulta, viceversa, rassicurante. Ma osserviamo anche le
ombre che si spalancano ai lati della Basilica: buchi neri da cui la realtà, e
cioè, qui, la piazza, pare sul punto di finire risucchiata. Tutto è precario,
come sull’orlo di una sparizione improvvisa.
E’ quanto vediamo in un’altra immagine potente,
ancora del ‘51, Rome-Colosseum n° 2. Anche stavolta un monumento tra i
più noti, rappresentato per secoli da generazioni di vedutisti: Congdon lo
affronta con grande libertà, con ingenuità impressionante. Come in precedenza,
una spaccatura in due zone: quella superiore si dilata orizzontalmente,
aprendosi come un ampio paesaggio nella luce e nei colori di Roma, i gialli e i
rossi delle case. Ma ci basta superare, scendendo, la soglia del bordo superiore
del Colosseo, ed ecco che il nostro occhio sprofonda, attratto verticalmente
verso il fondo dell’anfiteatro; in parallelo lo spazio si contrae ad imbuto,
sino a scomparire, anche qui in un buco nero. Nuovamente una macchia nera e il
contrasto tra la bellezza e la tenerezza della città e la voragine che le si
apre di sotto. Una Roma sospesa su una sorta di inferno dantesco, concluso da un
occhio mostruoso: e l’artista permanentemente in bilico tra due realtà
confliggenti, l’una seducente, l’altra terrificante. Quale scegliere? Congdon
non sceglie: sa che ciò che lo affascina reca, almeno in parte, un volto
terribile.
Le Cicladi nella sua pittura
Affrontiamo una tappa successiva nel viaggio
senza soste di Congdon, l’isola di Santorini, nelle Cicladi, oggi rinomata meta
turistica, Quando egli vi andò a soggiornare, nel 1955, era pressoché
sconosciuta. Già da due anni aveva scoperto la Grecia, Atene, le meraviglie di
una civiltà che aveva lasciato un’impronta incancellabile per l’intera area del
Mediterraneo. Di seguito era venuto a sapere che esisteva una Grecia più
segreta: Santorini, che, proprio all’alba della civiltà ellenica, era stata il
teatro di una catastrofe immane.
L’isola si chiamava all’inizio Strongyle, “la
rotonda”, perché, essendo di origine vulcanica, aveva una forma perfettamente
circolare. Per lo stesso motivo era chiamata anche Kalliste, “la bellissima”.
Nel 1550 a.C. fu devastata da una delle eruzioni più terribili e spettacolari
della storia, che alcuni studiosi ritengono all’origine del declino della
potenza cretese-minoica: allora due terzi dell’isola sprofondarono nel mare,
lasciando in superficie una cresta frammentata, a mo’ di emiciclo, invasa dal
mare. Al centro del bacino, dopo qualche tempo, riemerse il cono vulcanico, che
ancora oggi forma un isolotto nero e fumante, dall’aspetto minaccioso. Nella
parte rivolta verso l’interno del vasto bacino, l’isola porta ancora i segni, la
cicatrice della catastrofe: una muraglia di scogliere, di color rosso scuro, che
precipita a picco sul mare, per duecento metri. Nel versante esterno, al
contrario, essa risulta intatta: scende al mare con un dolce pendio, coperto di
campi. Sulla cresta, sparsi un po’ ovunque, simili a macchie di neve, si
scorgono i bianchi villaggi in cui vive la popolazione. L’ultima moderna
eruzione del vulcano avvenne nel ‘56, l’anno successivo al soggiorno di Congdon
sull’isola: quasi una tardiva vendetta del mostro sottomarino nei confronti
dello straniero che era venuto a violarne il segreto...
Congdon si fermò a Santorini per ben cinque
mesi, studiandone attentamente la topografia, in una intima identificazione con
il dramma remoto eppure sempre incombente del luogo. In Santorini n° 1O
ci ha voluto offrire uno spaccato dell’isola, attraverso un processo di ben
regolata deformazione: essa appare molto più alta che larga, per poterne
accentuare così il tratto fondamentale, la spaccatura, la divisione in due parti
che sembra coinvolgere tutto lo spazio circostante, l’intero mondo. L’isola
diviene un cosmo spaccato e contrapposto, per metà chiaro e luminoso,
elegantemente digradante verso il mare, spruzzato di tinte dorate, delle bianche
macchie dei villaggi; per l’altra metà cupo, dirupato, davvero simile ad una
immensa cicatrice.
In Santorini n° 9 vediamo invece una
differente versione, ben più agghiacciante. Stavolta il punto di osservazione è
proprio nella parte mediana dell’emiciclo risultato dal cataclisma, dirimpetto
al quale sta, come ricordavo, il cono nero del vulcano. Siamo sul bordo del
dirupo, segnato, in primo piano, dalla massa bianca di un villaggio:
riconosciamo facilmente, a sinistra, la cupola candida di una chiesa ortodossa.
Lo sguardo corre verso il grande bacino interno, chiuso, in secondo piano, da
alte scogliere rossastre. Ma all’interno il mare è sparito; al suo posto, dove
dovrebbe essere il cono vulcanico, vediamo invece emergere una sorta di nero
mostro, allungato, sulla cui sommità, simile alla corolla di un fiore, ecco
l’isolotto fumante. In questa circostanza Congdon scrisse sul suo taccuino:
«Il dramma di Santorini, di questo cratere
marino senza fondo e con nel mezzo un’ala di ferro e di morte, là dove un tempo
c’era un’isola meravigliosa, bella almeno o lo è tuttora l’altra metà,
quella non esplosa. Dato che il mare nel cratere è usivo, l’ho tirato
fuori e ho fatto arrivare fino in fondo il cono nero lasciando in ma il vero
mare che sta all’esterno. Quando sono giù nell’acqua, la riconosco come acqua
sotterranea e avverto la terra di un tempo e la vita di quella scorrere so- di
me a ricomporre quelli che ora non sono altro che pezzi staccati del bordo».
un certo senso è come se l’artista, giunto
nell’isola, fosse diventato una sorta di sismografo, di sensibilissimo
scandaglio, in grado di avvertire ciò che non era più, di l’arto mancante,
quello che i medici chiamano “l’arto fantasma”, la parte sprofondata dell’isola
che, come un mostro, torna alla superficie. Ciò che osserviamo sembra la
letterale traduzione di una classica metafora psicanalitica, il ritorno del
rimosso. Dobbiamo chiederci: che cos’è il mostro? Quello che vediamo è qualcosa
che inquieta e spaventa, forse un’immagine metafisica del male, forse una
manifestazione demoniaca, tanto più terribile in quanto ad esso si contrappone,
sullo sfondo, l’azzurro intenso del mare e la luce abbacinante del cielo di
Grecia. Eppure, ancora una volta, dobbiamo riconoscere un’ambivalenza: quell’azzurro
e quella luce affascinano ma, per Congdon, la seduzione nasconde sempre un
pericolo, il rischio di un inganno. La lontana congiunzione di cielo e di mare,
inafferrabile, attrae ma, nello stesso tempo, ci sfugge, non diversamente da un
miraggio. D’altro canto, la massa nera del “mostro” è come carne malata e
sofferente, nel cui tessuto necrotico intravediamo bagliori di luce dorata. Non
è infrequente - come constateremo esaminando opere successive - rintracciare in
Congdon una luce non contrapposta ma mescolata alla tenebra. In ogni caso è come
se la macchia nera, apparsa sopra la città di New York nel 1948, accompagnasse
il pittore nel suo cammino, assumendo via via una forma più precisa.
E dopo la Guerra, un paradosso: la vita nella
morte
Nel 1957, due anni dopo Santorini, Congdon
soggiorna per circa un mese in Centro America, ad Antigua, nel Guatemala. Questa
volta non è il paesaggio ad attirare la sua attenzione: non i numerosi vulcani e
neppure la foresta tropicale. E! invece letteralmente catturato dalla presenza
degli avvoltoi. L’avvoltoio è un animale che assume un particolare significato
nella cultura della regione: pur essendo una creatura dell’aria vanta tuttavia
un nesso inscindibile con la morte e la sepoltura. Esso è, in senso etimologico,
un “sarcofago”, un mangiatore di carne morta; si nutre della morte, “vive” della
morte.
Da questa assimilata percezione origina un
quadro come Guatemala n° 6 (Flying Vulture), lavvoltoio che vola, un
capolavoro della pittura congdoniana; l’animale diventa “cosmico”, le sue ali
aperte abbracciano tutto lo spazio del dipinto, mentre la massa del corpo è solo
un’ombra scura in cui brilla, minaccioso, il becco argenteo che ci fissa come un
occhio di ghiaccio. Congdon scrisse ad Antigua alcune righe di grande spessore:
«La morte viaggia veloce sulla mia città sulle
ali degli avvoltoi, le penne pronte a dar battaglia, i neri occhi d’agata, le
punte perlacee dei becchi sulle ossa.
Zopilotes [è il nome locale dei volatilil
sono gli occhi della morte che si misura in turbini di spirali alate, meridiane
di morte che appaiono nel cielo curvo per indicarci con esattezza dove e come la
morte colpisce in ogni istante».
La meridiana misura, circolarmente, il tempo che
scorre; nella pagina di Congdon essa diviene metafora del volo circolare
dell’avvoltoio, insieme ad esso avviso dell’approssimarsi della morte, del
compimento del destino. Guardando in cielo, il numero degli avvoltoi ci avverte
di dove abbia colpito la morte, di quanto forte sia stato il suo colpire.
L’animale è dunque messaggero, angelo della morte. Ma successivamente il pittore
ha una sorta di rivelazione, assistendo alla morte di un avvoltoio, investito da
un’auto mentre era occupato nel suo macabro pasto. Da qui deriva Guatemala n°
7 (Dying Vulture), l’avvoltoio morente, radicalmente diverso dal precedente:
in questa immagine l’animale è tutto raccolto in una grande massa scura, simile
a un cespuglio, non più sospeso nell’aria ma calato dentro la terra; solo la
testa luminosa si erge in un guizzo finale verso il cielo, quasi fosse sul punto
di staccarsi dal corpo.
I due dipinti sintetizzano l’esperienza di
Congdon in Guatemala. L’avvoltoio che vola e quello che muore costituiscono
quasi un dittico, i due atti di un unico dramma: dapprima, la visione del
messaggero del destino; di seguito il suo stesso sottoporsi all’identico fato.
In buona misura, si tratta dello stesso enigmatico dramma del pittore. Per la
verità, l’enigma è, in un certo senso, già svelato, ma egli non sembra ancora
pronto ad affrontarlo, ad incontrarlo: ciò che da anni egli fugge, ciò che lo
terrorizza e nello stesso tempo lo affascina ha a che fare con il Destino, con
il suo Destino. L’avvoltoio che, anziché annunciare o distribuire la morte, la
subisce, lo sconvolge. Perché?
Nel 1959, ad Assisi, Congdon si converte
alla chiesa cattolica. L’anno dopo esegue uno dei suoi primi Crocefissi,
il Crocefisso n° 2. Esiste una segreta parentela tra questa immagine e
quelle degli avvoltoi guatemaltechi: il Cristo sembra sospeso nel vuoto - la
croce non si vede -, leggero come un uccello, con il corpo sfrangiato che è
simile ad una piuma bianca, quasi sul punto di spezzarsi, per lo sforzo,
all’altezza della vita. Ma guardiamo anche la testa rovesciata in avanti, con i
capelli che nascondono il volto: Congdon, fedele al testo evangelico - «et
inclinato capite tradidit spiritus» - ha voluto fermarvi l’attimo della
“consegna dello Spirito”, da parte del Cristo morente. La morte è indicata dalla
sfigurazione del corpo, per cui la testa cade verso il basso, rientra nel corpo
e vi si incista, quasi all’altezza del cuore, come una grande cicatrice. Si noti
che questa è la prima volta che la figura umana compare nell’opera di Congdon;
ma essa vi appare solo per subire, immediatamente, un processo di deformazione,
significativamente sancito dall’acefalia. Per due decenni, fino al 1980, il
pittore si accanirà - è il caso di dire - sul tema del Crocefisso, dipingendone
circa 180 versioni, come se in questa immagine egli avesse finalmente trovato la
«pietra d’inciampo» che da anni l’aveva tormentato.
Negli anni ‘70 Congdon riprende a viaggiare per
dipingere, anche se ormai, dopo la conversione, il viaggio ha assunto un valore
profondamente diverso rispetto a quello del passato. Quando, nel ‘73, torna in
India, dove era già stato nel 1954, l’immagine del paese che ricava non ha quasi
contatti con quella precedente. Lo cogliamo ad esempio in Bombay n° 20,
che non ha più nulla di esotico: il quadro rappresenta una strada urbana, che
corre in primo piano assieme al contiguo marciapiede, dominata dalla mole di un
grande palazzo e da un cielo perfettamente nero. Sul marciapiede sono adagiate -
ma sembrano piuttosto galleggiare, trascinate dentro la corrente - delle larve
color cenere, gruppi di figure umane avvolte nei loro drappi, mentre sulla
strada ondeggiano degli autoveicoli, simili a minacciosi insetti neri. E’
un’immagine inquietante, quasi onirica ma, nello stesso tempo, carica di un
drammatico realismo. E’ lo stesso pittore ad annotarlo:
«Le folle sempre a terra perché non hanno un
viaggio da fare se non quello dell’esistenza stessa, E io penso che la gente a
terra è setacciata, come purificata dalla vita, dalla pretesa dell’uomo in
piedi, sono gli eletti e a terra rimangono per sempre nella pace».
Questo stesso tema dei sofferenti lo ritroviamo
in un’opera dell’anno successivo, il Crocefisso n° 90 del ‘74. Sono
passati ben 14 anni dal primo. Anche in questo caso lasciamo la parola
all’autore:
«E’ tutto una piatta, schiacciata colata di
lava, ma calpestata come se il traffico del peccato
[quello rappresentato dalla strada urbana] ci
fosse per o dall’eternità passato sopra, finché il corpo, ciò che era corpo, è
diventato macchia. E la strada di Bombay è il mondo che continuamente schiaccia
il Cristo. Il bitume della strada è diventato Cristo, che è diventato bitume per
lasciarsi schiacciare fino a colare nel fuoco d’amore oltre a qualsiasi confine.
Cola ovunque e poi oltre ancora nelle schegge delle ceneri come un bombardamento
di odio. E’ tutto un senza confine di peccato eppure, sotto e attraverso la
colata, regge la forma, cioè l’immagine che redime».
L’affermazione «regge la forma» non è
arbitraria: il corpo di Cristo sembrerebbe effettivamente una massa
informe, una specie di colata di materia, fatta scorrere casualmente sul
pannello. Ma se osserviamo bene, la massa si marca, in alto, quasi alludendo
alla curva delle spalle, e si avverte l’energia della figura che emerge e si
protende, mentre la testa, all’opposto, segna, con la massa dei capelli, una
direzione discendente. La massa informe è insomma solcata da tensioni
drammatiche, in cui percepiamo la presenza della figura, del corpo di Cristo,
sia pure ormai prossimo a perdere ogni sembianza umana. Il sacrificio del Cristo
si traduce, dunque, in quello della “bella sembianza” della figura umana.
Proviamo ora a osservare due immagini che, solo
in apparenza, non hanno nulla a che vedere con la pittura di Congdon. La prima
riproduce la pagina di un manoscritto tedesco dell’inizio del XIV secolo e
rappresenta un Cristo crocefisso adorato da San Bernardo e da una monaca
inginocchiati ai piedi della croce. In effetti esiste una impressionante
somiglianza tra questo Crocefisso e certi Crocefissi di Congdon. L’ignoto
miniaturista ha fatto sgocciolare l’inchiostro rosso sulla figura del Cristo,
quasi cancellandola; ha fatto sì che tutto il corpo di Gesù si identificasse con
la ferita, con le piaghe aperte nel suo costato, nelle mani e nei piedi. Per
questo
la macchia d’inchiostro non imita nel
senso di rendere l’apparenza di una scena o di una figura, ma piuttosto perché
ripete l’evento del sacrificio di Cristo. Infatti esso non è che il punto
culminante dell’incarnazione: e l’impiego, in questa immagine, di una materia
allo stato puro rinvia pertanto alla carnalità del Cristo. E occorre indica- re
un ulteriore elemento nella miniatura: la particolare inclinazione della testa,
al punto chessa sembra sparire all’interno del busto, riducendo la figura del
Cristo a un corpo acefalo.
La seconda immagine che convochiamo è il
Cristo del dolore di Albrecht Dürer, il maggior artista tedesco di epoca
rinascimentale. Essa fa da frontespizio ad una serie di incisioni, la cosiddetta
Piccola Passione, eseguita attorno al 1509- 1510. Uno studioso francese, Georges
Didi-Huberman, nel commentarla, parla di “presentazione del ripiegamento”, in
quanto ciò che dovrebbe guardarci in faccia (lafacies Christi, il volto
di Cristo) rimane nascosto e il capo di Cristo si ripiega di fronte a noi in una
sorta di rifiuto a restare visibile. E lo sguardo di Dio - nel momento in cui
pare distogliersi dagli uomini - si sprofonda nella infinita contemplazione del
proprio segreto: non in un’idea, ma nel cavo del proprio palmo, nell’apertura
della sua propria carne, nelle sue stimmate.
L’immagine di
Dürer
risulta dunque aspirata al suo centro, nell’apertura dentro di sè, nella piaga.
Quel corpo si presenta a noi per indicare in se stesso una carne, anche
se ciò comporta una consistente modificazione del suo aspetto, dato che ci
appare tutto ripiegato e ridotto: tra l’altro, l’unico sguardo che ci
fissa è quello dei due fori nei piedi. Nella prospettiva dell’immagine
cristiana, conclude sempre Huberman, il corpo, prima che bella forma da imitare,
è una carne segnata,
“la sede di un evento che la apre”.
L’incisione di Dürer ci serve ad introdurre uno
degli ultimi Crocefissi di Congdon, il n° III del 1974. Anche qui
riscontriamo quello stesso fenomeno del ripiegamento che ho in precedenza
descritto: è indicato dalla testa, cioè da quella forma, simile a una pera, che
addirittura scende fino al livello del ventre. C’è poi una accentuata fisicità,
determinata dalla densità e dal rilievo del pigmento, sul quale sono ben
visibili le tracce della spatola: la figura, anzi, diventa sottile quasi come la
lama della spatola stessa, quella specie di lungo coltello che Congdon usa per
dipingere. Il corpo sembra una lunga ferita, una ferita luminosa che si apre nel
fondo scurissimo del pannello: nella carne nera e morta del mondo, Cristo è una
ferita di luce, la cui presenza tende ad invadere tutto lo spazio che pare, a
poco a poco, sfogliarsi nell’apertura centrale. In questo dipinto l’artista ha
voluto certamente condensare il significato ultimo del mistero
dell’Incarnazione, il mistero della morte e della risurrezione.
Notiamo infatti la posizione del capo: sceso
ormai fino all’altezza delle viscere, esso porta a compimento quel processo di
deformazione iniziato nei Crocefissi precedenti, poiché è proprio come se il
corpo si ripiegasse su se stesso. Eppure, collocato in una simile posizione, il
capo assume, a sua volta, un nuovo aspetto: sembra sul punto di emanciparsi dal
resto del corpo, quasi ne costituisse uno sdoppiamento o. meglio, come se fosse
un secondo corpo. partorito dal primo. Il capo del Cristo, sacrificato e
umiliato per la perdita della sua posizione eretta, diviene la primizia del
corpo risorto.
La conversione e la “Madonnezza” nella sua
terra
Siamo alla fine dell’itinerario che ha preso
avvio da New York. Le opere dell’ultimo periodo della pittura di Congdon, quello
degli anni ‘80, sono tutte legate al tema della terra. Osservando Campo Orzo
del 1982 e, più ancora, Virgo Potens, del 1985 notiamo come
sia mutata la tavolozza del pittore: ci sono dei colori chiari, dei verdi e dei
gialli luminosissimi; il lavoro della spatola sul pigmento non è più violento e
convulso come un tempo. Inoltre, le forme si dispongono in uno schema quasi
geometrico, come se l’artista si sia ormai sottomesso a una sorta di regola, di
limite oggettivo: dominano le linee ortogonali delle campiture cromatiche, lo
schema più prevedibile.
Confrontiamole, tuttavia, con il Mais i
del 1989. Il covone, perduto in mezzo al campo, sembra quasi una fiamma che
brucia, tale è la luminosità che ne promana. Eppure, se lo guardiamo da vicino,
notiamo come questa luce non sia immateriale, come non si perda mai il senso
della fisicità del colore: anche questa è una luce solida. Lo si percepisce con
esattezza se si mette a fuoco la forma centrale, dove risulta evidente che la
spatola ha modellato il colore nei modi di un basso- rilievo.
L’ultima immagine che commentiamo è una strana,
enigmatica veduta. Al centro campeggia un’insolita forma, bruno-rossastra, che
sembra una piramide molto schiacciata, con la base che fuoriesce dal quadro, e
che ci suggerisce un dilatato paesaggio concluso da una solenne altura; tanto
più che, sotto di essa, scorgiamo delle bande marroni, di diversa tonalità, che
sembrano riflessi nell’acqua. Ci comunica, ad ogni modo, un’impressione di
vastità, come se il nostro sguardo corresse lontano, fino al rialzo a forma di
timpano che si marca verso la zona superiore, ove splende la luce tenue ma
purissima di un’alba. Invece, ciò che garantisce questa impressione di spazio
sconfinato è in effetti il contrario: quel che ci sta di fronte è la parte
terminale di un edificio, e dunque un ostacolo, un limite della e alla visione.
E’ una parete, un muro sormontato da un tetto, la porzione superiore del
monastero che si trova dirimpetto l’abitazione del pittore. Monastero, i
del 1990 è infatti il titolo del dipinto, a proposito del quale Congdon ha
scritto:
«Nel
Monastero, i il segreto è che il
monastero-silenzio non termina, non è condizionato da una struttura mondana o
architetturale, non è definito da naturali limiti, è infinito come il silenzio
della preghiera dei monaci. La massa (dell’edificio) passa oltre i confini del
pannello e il tetto non appartiene a nessuna sottostruttura, è semplicemente
posato sopra come un giocattolo ma appartiene al cielo e al monastero come
membro nell’immagine».
E ancora:
«È certo tracciabile in
Monastero, i - non direttamente e perciò
superficialmente, come se dipendesse da un mio voluto intervento, ma
indirettamente sussurrato dal profondo e misterioso nascere dell’immagine -
è certo tracciabile, dicevo, in Monastero, I tutta la mia vita: di
terre, di mari, di viaggi, di conico tempio messicano, della rossa attesa del TU
della Chiesa la quale è il corpo dell’immagine non raffigurata ma come
silenziosa massa di un nulla che è il tutto, il culmine del mondo».
Ho voluto trascrivere questa testimonianza,
soprattutto, per sottolineare l’espressione «culmine del mondo»: questo tetto,
che forma una sorta di piramide incurvata, è il «culmine del mondo»; ed è
semplicemente il tetto della casa che sta davanti alla sua, che nasconde
all’artista la visuale. Un ingombro, un limite. Non possiamo intendere la
pittura di Congdon se non a partire da questo suo misurarsi coi limiti. I viaggi
degli anni ‘50 erano nello stesso tempo una fuga e una ricerca, l’andare in-
contro a qualcosa. Curiosamente, ma anzi, com’è più probabile, misteriosamente,
quella fuga era invece una corsa in bocca al “mostro”, quello che poi gli si
rivelerà nel tema del Crocefisso, che occupa tutti gli anni ‘70. Da quando è
giunto in questa terra della Bassa Milanese Congdon non ha più dipinto
Crocefissi: li ha sostituiti con i campi. Ha mutato la sua tavolozza, con verdi
e gialli mai usati prima. Il verde, soprattutto, era rarissimo nelle opere
precedenti, ed è comunque emerso, per quanto si tratti di un colore estremamente
difficile, tanto più per un pittore contemporaneo: esiste un grande rischio di
banalità, specie dopo tutta la tradizione ottocentesca, nell’abbandonarsi ad una
pittura campestre. Ma è risultata più forte, in lui, l’esigenza di una
rappresentazione necessariamente fisica. Anche quando la luce sembra
prendere il sopravvento, le sue terre sono sempre raffigurate in termini molto
fisici: la sua sensibilità di scultore non gli consente di smarrire il senso
dello spessore e della densità del colore. Per quanto luminoso, esso non perde
la propria corporeità. Ma se il colore è sempre corporeo, non per questo esso è
meno radiazione di luce: è una luce corporea. Anche qui, in sostanza, due
opposti, come le città spaccate o le antinomie confluenti negli avvoltoi di
Antigua, e tuttavia, stavolta, riconciliati. Qui possiamo cogliere il valore
simbolico delle “terre congdoniane”. Quando parla della terra, Congdon si
riferisce spesso alla Madonna. Ripete sempre, ad esempio, che quando Cézanne
dipingeva le sue mele non rappresentava delle mele: quelle erano le Madonne di
Cézanne. Al contrario, quando Raffaello dipingeva delle Madonne rappresentava
spesso delle mele. L’interpretazione non è poi troppo personale e soggettiva:
più di qualche critico ha sottolineato, nelle mele di Cézanne, un riferimento
alla donna, alla femminilità. Quando parla delle sue terre, Congdon dice
ch’esse sono metafore della Madonna, anzi, per usare le sue stesse parole, della
«Madonnezza». Proprio per questo è stato possibile aggiungere ai titoli
realistici che il pittore ha di volta in volta assegnato alle proprie opere
anche un titolo - che spetta a Paolo Mangini - ispirato alla liturgia mariana:
Virgo Potens, lanua Coeli, Stella Mattutina.
Ma possiamo ulteriormente precisare il discorso.
Dobbiamo anzitutto percepire il rapporto che l’artista ha stabilito con la
terra. Nei quadri degli ultimi dieci anni, Congdon lavora quasi come un
contadino: i suoi dipinti sono semplici campiture cromatiche, è come se egli
lavorasse la terra nei suoi stessi colori, limitandosi a separare i diversi toni
così come il contadino separa le differenti colture (Terra Arida n° 2,
1981). Inoltre riscontriamo un uso della materia pastosa, corposa: anche quando
- come dicevo - i colori si fanno molto luminosi, la luce non si smaterializza,
mantiene una sua solidità. In altre occasioni ho cercato di evidenziare che si
può parlare di “arte cristiana” o, meglio, di un regime tipicamente
cristiano delle immagini, di un’economia dell’immagine determinata dal mistero
dell’Incarnazione. Ritengo che, per vie assai complesse e, insieme, avventurose,
Congdon abbia ritrovato questa economia, questo regime.
Massimo Cacciari ha giustamente sottolineato
l’importanza, o addirittura la necessità, per Congdon, di utilizzare, per
dipingere, una superficie dura, resistente. Si tratta della stessa necessità che
provavano i pittori di icone, come ha osservato il padre Florenskij. Congdon
rifiuta la tela, il supporto tipico dell’arte moderna, perché rifiuta di pensare
all’immagine come ad un’illusione, ovvero ad una proiezione del proprio io:
l’immagine deve essere invece una realtà dura, contro la quale il suo io si deve
scontrare. Egli ha bisogno di misurarsi con questo limite, con questo ostacolo,
con questo fondo-fondamento che, per lui, a differenza che per i pittori
di icone, è nero. In questo egli è moderno, ma essere moderno non significa, di
necessità, non essere cristiano. E le immagini cristiane originarie sono appunto
tracce lasciate da un corpo: la Sindone, il Velo della Veronica...
Tutto ciò e ben altro Congdon ha ricavato dalla
sua scoperta dell’Europa. Senza tuttavia mai dimenticare, in questo, le
proprie radici. L’America è in tutto quello che ha fatto, in tutto quello che
sta facendo. Per esempio, nel suo modo di stare nella Bassa Milanese, nel suo
modo di vederla. Lo ha scritto lui stesso: «L’America è tutti questi luoghi e lo
sono anch’io».
Il «nonno» dei colori: il nero, limite e somma
di tutti gli altri
«Mi è stato chiesto che senso ha oggi per me la
parola “limite”. Il fatto del limite è diventato, almeno nella mia situazione,
certamente molto drammatico e tematico. Per questo sono divenute
estremamente importanti tutte le parole che lo riguardano, come quando mi è
stato detto: è come se tu dovessi reimparare a dipingere, ma con un corpo che
non è il corpo di ieri, un corpo nei termini di adesso. Come ho detto un’altra
volta, adesso sono costretto a dipingere con un corpo “rotto”, cioè i gesti...
tutto è cambiato: è veramente un cominciare da capo».
Desidero leggere una paginetta che mi è stata
detta a proposito di questa situazione:
«L’età e i limiti diventano inevitabili, quindi
diventano divini, perché non c’è niente di più divino che l’inevitabile.
1/limite è il segno fisico dell’Altro che ti sta abbracciando. Quando è il
mistero che ci lega, facciamo una nuova esperienza, in cui la materia diventa
strumento di espressività, compresa la materia del nostro corpo e delle nostre
mani che tremano: vuoi dire semplicemente che urge una nuova forma del tuo dono,
in cui puoi utilizzare tutti i tuoi limiti. Questo è il mistero che ti lega. Se
accettiamo di legarci affettuosamente al Mistero, allora è la resurrezione, e
tutto diventa dedizione all’opera di un Altro, al dono come opera di un Altro.
Dobbiamo accettare che la nuova espressività passi per i nostri limiti».
Certamente è un rovescio totale del modo
naturalistico di vedere la vita, e deve essere uno shock forte pensare
che più i limiti stringono la morsa più siamo chiamati a vedere in questo
abbraccio l’affettuosità, l’affettuosità del mistero che ci lega.
Il quadro: l’epilogo della nascita e della morte
Il mio rapporto con il quadro, nel momento in
cui lo sto facendo nascere, è enormemente semplice: dipende dalla circostanza
che stai cercando di esprimere e di dire... Non ho mai parlato di ciò con altri,
e subito devo dire che voi non siete altri, ma un prolungamento di me stesso, e
questo mi permette di essere franco.
I quadri sono i figli dell’artista, sono
veramente i figli. Il quadro non è fatto, è nato, nasce, accade; non è fatto.
Accade, frutto di una obbedienza totale all’Altro: l’Altro è il Dono, Cristo. Ci
sono delle fasi del quadro: il quadro che non è nato ancora... è questa che
chiamiamo la “circostanza”. Io sono stato educato a voler mendicare la
circostanza e quando essa accade tu riconosci che sei stato ferito, che sei
stato “visitato” e, da quel momento, tu non sei più come prima: sei “gravido”,
perché nella circostanza che ti ha afferrato e che ha fatto scattare l’immagine
io riconosco che sono stato ferito, visitato e che adesso è stato messo dentro
di me, dal Dono, un germe, un seme: è l’immagine. Da questo momento in poi,
finché il quadro non nasce, non sono libero, sono investito, sono popolato,
contengo in me l’immagine scattata dalla circostanza.
Il tempo della gravidanza - potreste chiedermi -
quanto deve durare? Può durare anche solo finché io arrivo a casa dalla
passeggiata in cui è accaduta la circostanza. La circostanza è molto simile alla
conversione di san Paolo: egli è stato rovesciato dal cavallo, io sono stato
rovesciato in un altro modo, ma non meno. La gravidanza può durare un anno come
un’ora, però tu devi vivere... Guai se ti dimentichi, guai se non vivi
un’attenzione al suo tempo e al suo chiamarti, al suo essere pronto, perché
quello è il momento che tu devi saltare in sella e galoppare
a casa per fare il quadro, perché le doglie sono
pronte - le doglie del parto -. Quando tu hai questa certezza addosso non puoi
sapere com’è l’immagine, ma ricordi quando è scattata, e questo ci porta
all’immagine della memoria: è la memoria che fa il quadro, è stato affidato alla
memoria questo foetus che ho dentro di me. Adesso la memoria sta cedendo ed io,
con addosso una certezza e una chiarezza assolute, prendo la spatola e mi tuffo
dentro il pannello. Una struttura è già presente in me. E il quadro fa da sé, io
non lo faccio: nel momento che una mia pretesa entra nella operatio, essa
risulta fatale per quel che vuoi nascere.
Il quadro vuole nascere, e inizia con il primo
tocco di spatola sul pannello. Se tu vivi questa operatio così come devi
viverla, cioè con una totale umiltà e povertà, il quadro nasce al primo tocco di
spatola: al primissimo tocco della spatola sul pannello, il quadro è terminato.
Ma non esiste un termine, nel senso che tu possa definire un limite: perché è un
altro mistero quando il quadro è terminato, quando ti informa, ti
comunica che tu non devi toccarlo più. Questo rapporto col quadro in nascita è
affascinante. Io lavoro con molta... non fretta - perché la fretta denota una
mia impazienza e quella sarebbe fatale - ma speditamente, senza esitazione;
tutto viene seguendo la struttura.
A un certo punto, quando sto dipingendo,
all’inizio del quadro - possono essere passati venti minuti, un’ora: adesso, con
i miei cari, amatissimi limiti, ci vuole più tempo: non ho la possibilità di
muovermi, e questo fa parte del dramma che vivo; che vivo, devo dirlo, come una
grande grazia, mai con lamento! -, quando hai coperto il pannello e la struttura
e tutti gli elementi sono suggeriti, oppure sono già evidenti, allora io
riconosco il quadro. Esso mi comunica - io non decido niente - che devo smettere
e non guardarlo. Perché guardare e vedere cosa sta venendo con l’ambizione di
riuscire è un prurito, una tentazione: tutto ciò è fatale. Quando metto giù la
spatola, esco dallo studio e non guardo mai, neanche con la coda dell’occhio.
Non voglio cogliere nemmeno una vibrazione del mio quadro. Faccio così per non
essere tentato, perché certamente è una forte tentazione quella di vedere cosa
sta venendo. Allora riposo mezz’ora: non dipende da me, dipende dal quadro che
ti comunica quando devi tornare, ti chiama. Molte volte, quando rientro nello
studio e mi metto davanti al quadro e vedo quello che c’è oggettivamente -
perché quella pausa mi è stata utile per oggettivare l’occhio: l’occhio
soggettivo fa il quadro, però il giudizio viene
dall’oggettività e quella pausa serve per oggettivare l’occhio, in modo che io
possa vedere oggettivamente quello che sta venendo - certe volte, naturalmente,
si prende la spatola, ti rituffi dentro, ma tutto ciò che devi fare è già
evidente. Però, allo stesso tempo, può accadere il miracolo che tu, quando
torni, lo trovi già fatto e non devi toccano mai più. Queste sono tra le più
grandi estasi che l’artista può avere: quando, pronto per continuare il
sacrificio - perché vi assicuro che fare il quadro è una morte -, ecco, avevo
lasciato il quadro lì, e ho visto che non devo toccarlo. Possiamo toccare il
fatto della morte?
Fare il quadro è una morte. Non saprei
spiegarlo, ma so che chiunque di noi riconosce una morte: non è difficile
riconoscere una morte quando ti è addosso. Un giorno, mentre stavo iniziando un
quadro, ho avuto una bella immagine: lo stato dell’artista nel dipingere è
esattamente quello di ritrovarsi nel liquido amniotico di sua madre prima di
nascere; egli galleggia in questo fluido, e questo vi dà l’idea di come non è
decisione tua quella di dipingere: sei nelle mani dell’Altro, nell’abbandono
dell’obbedienza. A te resta di dire il “SI” della Madonna, perché altre parole
non puoi dire: l’Angelo l’ha già detto.
Il perdono
Un giorno, un amico cui sono molto legato doveva
venire a trovarmi. All’ultimo momento non gli è stato possibile. Questo ha
suscitato in me una tale crisi, di rabbia e di dolore, che non sono riuscito a
estirparmi da questa tensione che avevo addosso. Eppure, allora cosa Dio mi ha
fatto fare? Mi ha mandato nello studio, mi ha messo la spatola in mano, ha messo
il pannello piuttosto grande e io ho cominciato a mischiare i colori - i colori,
in fondo, sono sangue: sono il sangue del quadro, dell’essere che vedo nascere -
e nel momento che toccavo il sangue, il colore, mi sono trovato a camminare,
cioè: il quadro è andato avanti. Non so per quanto tempo. Si chiama Il bosco
perdonato e si trova nella casa dei Memores Domini di Piacenza. Quel quadro,
certamente, è stato una verità resurrezionale: da una morte in me; veramente, è
scaturito questo segno resurrezionale dell’immagine compiuta. E quell’amico mi
ha spesso ripetuto:
«Io vedo adesso che tutti i tuoi quadri nascono
da una crocifissione».
Molte volte, quando sono dentro il quadro, è
molto difficile non essere cosciente, ma devi cercare di essere incosciente, di
non sapere quello che sta accadendo. Tu hai una disciplina addosso, ma è la
disciplina di un Altro, che l’Altro mette dentro dite: è una tua crocifissione
resurrezionale. C’è un altro punto che vorrei toccare, che è estremamente
importante e delicato: un giorno ho scoperto che all’artista è dato uno
strumento di auto-perdono. Questo non accade in teoria: è accaduto a me. Ero a
Subiaco, solo, e non so, non ricordo esattamente cosa avevo fatto, però mi sono
riconosciuto in peccato e non ho potuto andare a confessarmi. Non quel giorno,
almeno. Sono andato allora nel mio secondo confessionale, che è la pittura, e
Dio mi ha dato un quadro ottimo, forte; una volta completatolo, mi sono
meravigliato, dicendomi che, in stato di peccato, mi era stato concesso di
partorire Vita. Così ho telefonato a un amico in Svizzera e gli ho detto: «Sai
cos’ho scoperto? Che noi artisti abbiamo la possibilità di auto-perdonarci».
Questo certamente non è il sostituto del sacramento, però è un segno della
misericordia, del fatto che Dio è garanzia del perdono che Lui vuole darti se
non puoi aspettarLo; e così mi ha dato questa scappatoia. Fu una grande
scoperta, non ne ho mai parlato con nessuno. Il segno resurrezionale era già...
il quadro nato a Subiaco era certamente un segno resurrezionale.
I luoghi della pittura
Che cosa mi ha fatto scegliere certi luoghi?
Perché proprio quei luoghi? Quei luoghi così diversi da quello dove ora
vivo... Non ho mai dipinto un luogo perché è bello, ma perché e solo quando ero
io. E questo si collega a ciò che ho detto finora: a quell’unico momento,
nella sua e nella mia storia, che ci siamo coincisi in quel quadro. Non potrei
mai tornare a Santorini o in India, perché essi non sono più io. E io non
ho scelto dove andare: ho seguito un fiuto, come un cane da caccia, il fiuto di
Dio, e non ho mai sbagliato perché - era meraviglioso! – ovunque
andassi era sempre grande e gioioso, stupendo.
Non potrei mai aver vissuto in quei luoghi: era solo per la pittura che Dio me
li ha dati, per il tempo necessario per dipingere.
Per abitare, invece, ci vuole un luogo tutto
neutro, che non è nulla in sé, né di bellezza, né di storia. Ecco, questo luogo
e non-luogo è Gudo Gambaredo, in Lombardia: neanche un nome, eppure mi ha reso
pittura. Non pittura di luogo, ma pittura pura, senza accidenti esterni, tutta
interna. Per questo, quando sono arrivato nel 68, ho chiamato Gudo «il cesso
del mondo». E tutti si ricordano di questa espressione. Lo è ancora: ma era
anche la più grande grazia che Dio mi ha dato... attraverso il cesso!
Gli altri luoghi mi venivano dati, e poi tolti.
Così fu anche in Guatemala. In Guatemala, l’unica cosa che dipingevo erano gli
avvoltoi: mi affascinavano, ma ciò che mi affascinava veramente non erano gli
avvoltoi, era la morte. E quando uscivo ogni mattina dal mio studio, dentro un
antico convento distrutto, guardavo sul tetto. Lì c’erano due avvoltoi ad
aspettarmi. Ma non aspettavano me, così com’ero: aspettavano la mia morte. E io,
ogni mattina, li salutavo dicendo: «non ancora, andate altrove». La mattina dopo
erano di nuovo lì. Il mio rapporto con gli avvoltoi ha avuto il suo culmine
quando ero tutto un riconoscermi cacciato dalla morte, cacciato dagli avvoltoi.
Da qui la potenza dei quadri che ho fatto. Chi ha visto la mostra di Palazzo
Reale... C’erano due avvoltoi: quello morto era un dramma talmente viscerale e
totale per me da vedere che l’ho dipinto immediatamente dopo. Appena l’ebbi
fatto si era compiuta la mia missione con la morte in Guatemala: avevo liberato,
si può dire, il Guatemala dalla morte. La morte non esisteva più quando ho
dipinto l’avvoltoio morente: quel quadro mi ha tolto il motivo di stare lì; ho
fatto lietamente le valigie e sono andato via. I quadri mi seguirono a New York.
Di quello con l’avvoltoio morente, uno dei grandi pittori della galleria di
Betty Parsons disse: «Bill, tu non lo sai, ma quello lì è il più grande quadro
che hai fatto». Con la gloria del quadro avevo cancellato la morte.
Forse è per questo che in molti miei quadri vedo
le cose dall’alto. Ciò che dobbiamo combattere sono i particolari. Don
Giussani dice: «Il particolare è esaltato dall’assieme». Però la sua esaltazione
sta nel cancellarlo. Se io vivo e guardo le cose al livello della terra, dove
siamo tutti noi. sono bloccato da una infinità di particolari: è più difficile
vedere l’assieme, quel che io chiamo l’Uno. Così, a New York, andavo a vivere al
trentesimo piano e, pur vedendo i particolari, ho visto Uno. Il distacco è
necessario per arrivare a Uno, e allora mi sono sistemato per favorire questa
dimensione. Quando esponevo, sempre a New York, anni fa, tutti si sono accorti
che era come in aeroplano...
Vorrei concludere con uno spunto che mi è venuto
ieri nel letto: riguarda l’identità fra l’Angelus e il quadro. Posso
dirlo così, recitando la frase della liturgia e poi proseguendo, in
corrispondenza, con quello che accade nel quadro:
L’Angelo del Signore portò l’annuncio a Maria
Qualche cosa
sotto l’apparenza del paesaggio che mi sta davanti
mi afferra, trasfigura il mio occhio
perché io intraveda l’immagine e la trasformi in quadro
E la Vergine concepì per opera dello Spirito Santo
Io sono gravido
e porto nella mia memoria l’immagine rivelatami
fino a poter dipingere
Ecco la serva del Signore, fa di me secondo la tua parola
Io sono disponibile
a che il dono si serva di me per dipingere il quadro
E il Verbo si è fatto carne ed abita in mezzo a noi
L’immagine si è fatta quadro
per manifestarsi al mondo, all’Epifania.
Qualche cosa
sotto l’apparenza del paesaggio che mi sta davanti
mi afferra, trasfigura il mio occhio
perché io intraveda l’immagine e la trasformi in quadro
E la Vergine concepì per opera dello Spirito Santo
Io sono gravido
e porto nella mia memoria l’immagine rivelatami
fino a poter dipingere
Ecco la serva del Signore, fa di me secondo la tua parola
Io sono disponibile
a che il dono si serva di me per dipingere il quadro
E il Verbo si è fatto carne ed abita in mezzo a noi
L’immagine si è fatta quadro
per manifestarsi al mondo, all’Epifania.
[1]
Nell’anno 1942, che segna l‘entrata degli U.S.A. nel secondo conflitto
mondiale, sente il bisogno di aiutare il Vecchio Continente e decide di
arruolarsi come autista di ambulanze nell’American Field Service.
[2]
Dal 1960 al 1979 l’artista americano vivrà e
lavorerà ad Assisi; notiamo un’evoluzione spirituale ed artistico.
Caratteristico di questo periodo assisano il saldo inserimento ad un
contesto comunitario ed una rigorosa direzione spirituale.
[3]
Con il passare degli anni egli recupera la sua vena creativa più autentica,
la pittura di vedute e paesaggi, ma non rinuncia al tema religioso che però
ormai per lui si identifica con il soggetto del Cristo crocefisso, dipinto
in numerosissime versioni – talune delle quali di strepitosa novità – tra il
1960 e il 1980.
Fonte : scritti del prof. Alessio Varisco , Técne Art Studio , sito web www.alessiovarisco.it .
Per approfondimenti il sito della Fondazione William Congdon : www.congdon.it
Fonte foto: www.ilduomoassisi.it/popup_news.php?idNews=29&lng=1
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