lunedì 15 luglio 2019

WILLIAM CONGDON , pittore (1912-1998), nota biografica di Alessio Varisco



WILLIAM CONGDON , pittore (1912-1998),
  nota biografica di Alessio Varisco










William Grosvenor Congdon nasce a Providence il 15 aprile 1912 nel Rhode island, da una ricca a prestigiosa famiglia che fa parte dell’aristocrazia economica e sociale del New England. Il padre è un industriale dell’acciaio, Gilbert, mentre, la madre, Caroline Grosvenor, nasce in una delle famiglie più rinomate per la produzione industriale del cotone. Riceve il battesimo nella Chiesa Episcopale.
William si laurea in letteratura inglese e spagnola a Yale nel 1934.
Nonostante il dottorato in lettere -e l’interesse per le arti letterarie americane e spagnole- si dedica con interesse alle arti figurative. Nel 1934 inizia un apprendistato in pittura e poi scultura presso insegnanti privati: frequenta a Provincetown, sino al 1936, corsi di pittura tenuti dall’artista Henry Hensche. Tra gli anni ‘36 e ‘38 si dà allo studio della scultura, sotto la guida di George Demetrios.
Nel 1938 congiuntamente all’amico pittore Thomas Blagden, apre uno studio di scultura a Lakeville nel Connecticut. In questi anni la sua produzione è dedita soprattutto ad una produzione ritrattistica. Partecipa ad alcune collettive ed alla Philadelphia Academy of the Fine Arts e al Whitney.
L’esperienza decisiva per la sua crescita umana e artistica sarà l’adesione, come autista volontario di ambulanze alla seconda guerra mondiale[1]. Dapprima partecipa alle campagne del Nord Africa (EI Alamein), mentre trasferito in Europa prende parte alla missione in italia e, nel ‘45, presta opera di soccorso nel lager di Bergen Belsen. Questa, maggiormente ad altre esperienze di fronte, si traduce in molte delle sue pagine di testimonianza e in molteplici disegni.
Impegnato su vari fronti nel Conflitto mondiale ha modo di partecipare alla catastrofe di tante popolazioni civili. In lui si aprono molteplici domande inquietanti sul senso della storia, sull’esistenza e sul dolore... Interrogazioni, quesiti che si pone di continuo e che si faranno ancora più urgenti e stridenti quando in Germania sarà tra i primi testimoni diretti dell’olocausto in uno dei lager del Terzo Reich.
L’Europa lo segna profondamente. Possiamo dire che indelebilmente entra con i suoi drammi nella sua quotidianità, la sua una vita che avrebbe potuto essere semplice, agiata, sempre in vetta alle classifiche di vendita, successo, critica e pubblico. Ma una sorta di misterioso legame lo richiama in Italia. Nel nostro Paese ritorna nell’anno 1946, occupandosi –sempre come volontario- della ricostruzione del Molise. Nel 1947 ha modo di soggiornare a Capri. È qui che riprende la prima vocazione pittorica. Dinanzi la bellezza dei paesaggi campani riesce a trovare la forza di ritornare a creare, a colorare, a “fare a arte”.
Dall’Italia, da quest’anno in poi, senza interruzioni trasmetterà le sue emozioni mediante il supporto bidimensionale. Gli esordi –possiamo chiamarli così dopo tanti anni di campagne in fronti di guerra e la sua scelta verso la ritrattistica- sono costituiti da piccole tecniche miste su carta, ribadite anche al ritorno, dopo qualche mese, a Providence.
La sua carriera di pittore, tuttavia, prende l’avvio a New York tra il 1948 e il 1950, con l’ingresso nella prestigiosa Betty Parsons Gallery. Qui egli ha modo di conoscere e di condividere idee ed esperienze con gli artisti della nascente Scuola di New York, Pollock, Barnett Newman, Rothko, Pousette-Dart e altri. Sono gli anni in cui matura il suo linguaggio pittorico che, nonostante i più arditi sperimentalismi, non abbandona mai la figurazione orientandosi verso vedute, fortemente drammatiche ed espressionistiche, di città e monumenti, soprattutto dell’Europa e dell’Italia dove egli periodicamente soggiorna.
Nell’anno 1948 –durante la primavera- si colloca a New York. Nella città, in crescente espansione, avvia la stagione delle raffigurazioni di città, a partire dagli slums della Bowery.
L’anno 1949 segna l’inizio di un’attività fervente e della prestigiosa collaborazione con la “Betty Parsons Gallery”. Grazie all’ambiente creativo ed alle frequentazioni presso quest’ultima galleria viene a contatto con i protagonisti dell’Espressionismo Astratto americano. Rapporti questi intensi, seppure sporadici, anche a causa dei numerosi viaggi che lo distanziano dalla metropoli riconducendolo in Italia -a Roma, Venezia e Napoli-, ma anche in Messico e in Egitto.
Elegge a propria dimora abituale e principale fonte di ispirazione la bella e molle città di Venezia. Correva l’anno 1950. Nel frattempo le sue opere si procurano allettanti successi di critica ed anche di pubblico.
Gli anni successivi sono determinati ad una sempre maggiore partecipazione di Congdon alle più importanti rassegne d’arte americana. I suoi quadri vengono acquistati dai più apprezzabili musei nel mondo ed continua la sua attività espositiva, che si fa regolare, presso la Betty Parsons Gallery.
Come detto dal 1950 aveva eletto a sua nuova domicilio la città veneta di Venezia, ove principalmente risiede. La città lagunare viene da lui rappresentata con una forza visionaria inedita. È questo il periodo dell’esodo di Congdon per diverse città monumentali dell’Italia e del mondo fra le quali Atene, Parigi, Istanbul, Roma, Assisi. Le sue opere gli procurano un notevole successo in patria e vengono anche acquistate dai musei più importanti.
Al fianco di un periodo così fervente di vendite, viaggi e successi approfondisce letture e meditazioni religiose. La metà degli anni Cinquanta segnano la svolta spirituale dell’Artista, segnata da una diuturna.
Di particolare importanza l’incontro con sant’Agostino e le sue Confessioni che divengono il suo livre de chevet di quel periodo.
Questa ricerca, quest’inquietudine di agostiniana memoria segna indelebilmente anche la sua arte. È così  che anche la pittura vaga, come l’Artista, alla ricerca sempre più di segni di una possibile “redenzione” da una condizione di vita avvertita come disancorata ed errabonda.
Dalla metà degli anni ‘50 si intensificano con maggior frequenza i viaggi, che lo portano prima in Nord Africa, poi a Parigi, in Grecia, nel Vicino Oriente e in America Latina.
Nell’agosto del 1959 si converte a alla Chiesa cattolica. Per l’Artista inizia presso la comunità della Cittadella di Assisi un nuovo e proficuo periodo: quasi cinquantenne incomincia una nuova fase della sua vita e della sua attività artistica.
Nella città umbra vive presso una torre sopra San Damiano, poco fuori le mura, proprio sotto il complesso della Basilica di Santa Chiara che custodisce il Crocifisso che parlò a San Francesco, si dedica - per un po’ di tempo e con un’enorme passione enfatizzata dalla recente conversione- ad una pittura di tipo religioso[2].
In questo periodo -di ritiro quasi monacale nella cittadina umbra- si affievoliscono per poi esaurirsi quasi del tutto verso la fine degli anni ’60 i suoi rapporti con il mondo dell’arte. Nonostante questo la sua pittura, fatta di gesti emozionali, colori grumosi e da una produzione figurativa comunque ricca, continua negli studi di Assisi e Subiaco.
Negli anni ‘70 ritrova soprattutto le ispirazioni, con una nuova serie di viaggi che lo conducono, in particolare, in Africa e in india. È questo il periodo del suo ritorno alla pittura di paesaggio.
Singolare la produzione, al fianco di questa più “naturalistica” legata al paesaggio, di una sua “personale ed intensissima produzione” di opere sacre dedicate al tema del Cristo crocefisso, vero leit-motiv[3].
Dal 1979 si sposta presso un monastero benedettino, a Gudo Gambaredo, in una cascina della Bassa milanese. Quivi dimora stabilmente, occupato con passione in una nuova stagione di pittura ispirata alla terra e ai campi che lo circondano.
Nel contempo l’attività espositiva lo impegna prima a Rimini nel 1980 e nel 1984, poi a Ferrara nel 1981 e 1986, poi a Como nel 1983 ed infine a Milano nel 1992. L’ultima fase della sua vita coincide con il suo soggiorno nella campagna milanese, dal 1979 al 15 aprile del 1998 proprio il giorno dell’anniversario della sua nascita.

 
L’Europa scoperta nella pittura di Congdon
In quest’ultimo dopoguerra l’Italia e l’Europa hanno scoperto l’America, in quanto la sua cultura e, più ancora, il suo stile di vita sono divenuti un modello per buona parte del mondo. Qualcosa è avvenuto anche in senso inverso. Pochi ricordano che il grande poeta Thomas Stearns Eliot, una delle maggiori figure della letteratura anglosassone di questo secolo, è americano per nascita, ma che è riuscito a farlo dimenticare - come del resto il suo amico e collega Ezra Pound -, integrandosi totalmente nella cultura europea, ed anzi penetrandola con una profondità di cui ben pochi europei sarebbero stati capaci. Eliot ha saputo risalire la corrente della tradizione dell’Occidente, di fronte alla quale gli europei risultano sovente distratti o immemori: e credo che in questo risalire abbia pesato la sua conversione, il suo riscoprire la Chiesa, a partire da quei Padri Pellegrini, ch’erano sbarcati agli inizi del XVII secolo sulle coste del Massachusetts, da cui la sua famiglia discendeva.
Non diversamente accade per William Congdon, un altro artista americano che ha scoperto l’Europa. Come Eliot, anche Congdon appartiene ad un ceppo particolare della nazione americana. E’ nato a Providence, nel Rhode Island, una città poco lontana da Boston, appena più a sud: proviene dunque dalla Nuova Inghilterra, la porzione più antica del Paese, custode delle sue più nobili tradizioni. Anche tra i suoi antenati - almeno da parte materna - ritroviamo uno dei Padri Pellegrini, venuti per fondare nel Nuovo Mondo la Nuova Gerusalemme, dato che alle origini della società americana sta una vera e propria teocrazia.
Vorrei insistere ancora su questo aspetto: Congdon corrisponde alla tipologia dell’americano colto - con una grande tradizione, anche aristocratica, alle spalle -, comunque dominato dal bisogno di partire per cercare le proprie radici; lo caratterizza una sorta di “fame di radici”, che lo costringe ad un viaggio perpetuo, permanente. Tutta la sua storia, almeno fino a tutti gli anni ‘50, è nella cifra del viaggio, e questo diviene componente essenziale della sua creazione artistica: pittura e viaggio, pittura ed esodo sono per lui la stessa cosa.
 
Un occhio forestiero
Proprio per queste ragioni nei quadri di Congdon non vediamo - se non proprio agli esordi della sua attività - l’America, quanto piuttosto l’Europa, ed un’Europa assai ben identificata. Il mondo mediterraneo: l’Italia anzitutto, ma anche la Grecia, il Vicino Oriente, l’Egitto. Oppure l’America Latina, comunque filtrata da questa lente mediterranea. Vediamo immagini che risultano lontane da ciò che siamo soliti pensare come “America”, dallAmerican way of life. Cionondimeno, anche questo è un lato di America. Congdon guarda i luoghi della nostra storia con l’occhio di uno straniero, talmente lucido da consentire a noi stessi di scoprire ciò che da sempre ci accompagna. E un elemento di sorprendente interesse: un occhio straniero, bisognoso, addirittura mendicante di una patria, diviene più capace del nostro di penetrare l’identità di uno spazio che noi non sappiamo strappare alla nostra familiarità.
C’è una frase, in una lettera che Congdon scrive nel 1955 a un critico statunitense, che rappresenta una sorta di chiave di comprensione di questo fenomeno. Congdon avvertiva il bisogno di giustificarsi per il suo vivere per lo più all’estero; sperimentava questa sua situazione come una colpa, nei confronti di un Paese al quale si sentiva profondamente legato proprio nel momento in cui si riconosceva incapace di accettarlo come patria esclusiva; d’altra parte, niente lo terrorizzava di più dell’idea di fare del turismo: il viaggiare, così intimamente legato al dipingere, era un compito, non un’evasione, un destino cui piegarsi. Così scrive:
«Mancando di terreno in patria, vado a mettere le radici all’estero e qualche pianta cresce, in italia, in Grecia, in India, dove che sia. L’America è tutti questi paesi e lo sono anch’io. in Europa io sono costantemente messo a confronto con me stesso non come un lusso da psichiatri, ma come una realtà di vita e di morte».
 
Gli esordi nella grande metropoli New York
Il viaggio di Congdon inizia da New York. Per noi la città rappresenta la quintessenza dell’America; per chi invece, come lui. viene da Providence, New York è già un passo in direzione dell’Europa, una specie di porta affacciata su un altro mondo. Naturalmente dovremmo cercare di restituire la città veduta da Congdon; alcune immagini fotografiche degli anni ‘40, opera di un grande fotografo come Feininger, possono aiutarci a intendere il complesso rapporto che si stabilisce tra soggetto, dato reale e traduzione pittorica, malgrado il loro essere in bianco e nero, senza che possano dunque rivelarci la straordinaria capacità congdoniana di afferrare e ricreare il peculiare tono cromatico di un luogo. E tuttavia è interessante osservare come in View of New York City del 1948 egli abbia colto questa sorta di regolare labirinto di grattacieli e di case, in cui le strade spalancano voragini, affossamenti, addensamenti d’ombra tra le masse degli edifici, quasi a definire, in una griglia di macchie chiare e scure, la superficie di una scacchiera. La città ci appare come un tessuto che si dilata a perdita d’occhio, senza che possiamo scorgere un qualsiasi punto di riferimento: una sensazione di vertigine.
New York City (Explosion) è un dipinto coevo a questa View (veduta). Innegabilmente, esiste una sostanziale affinità di impianto tra le due opere. Ma sin dal titolo, che insiste su una qualche “esplosione”, la nostra attenzione è richiamata alla grande macchia nera d’inchiostro, quasi al centro del quadro. Chiaramente, l’inchiostro è stato buttato alla fine dell’esecuzione, in un gesto che sembrerebbe indicare la volontà di cancellare l’opera appena finita, lo sconfinato tessuto simile alla precedente View. Senonché il gesto casuale, non premeditato, viene accolto, “tollerato”, fino a diventare il nucleo centrale del dipinto. Si tratta di un segno che è, al contempo, fuori e dentro l’opera. Se osserviamo bene quest’ultima, nel suo insieme, constatiamo che la macchia forma una specie di grande disco centrale dal quale si dipartono filamenti neri che in qualche modo strutturano il reticolo di linee dei grattacieli e degli altri edifici. Potremmo addirittura sostenere che è la macchia, il buco nero, a generare la città; oppure, e senza minori argomenti, pensare ad un improvviso vuoto che sta per risucchiarla.
Al di là di questo, vorrei sottolineare la presenza, sin da questa prime opere, del nero, un nero che sembra voler inghiottire il resto della composizione. Il nero traduce una presenza enigmatica, non riferita ad alcun aspetto riconoscibile e nominabile della realtà: una sorta di ombra che sembra perseguitare l’artista, come una ossessione.
Nelle panoramiche di Feininger è inevitabile scorgere la tensione prometeica della massa urbana newyorkese che, con i suoi grattacieli, pare sfidare il cielo che la sovrasta. A immagini come questa possiamo accostare le opere dipinte da Congdon nel 1949: in Black City la città si addensa in un’unica massa, contrap posta ad una stretta banda di cielo, in alto, di un colore piuttosto plumbeo, privo di luce. Questa sembra piuttosto sprigionarsi dal corpo stesso della città, dallo scintillìo delle sue strade, dal cangiante reticolo prodotto dall’incisione del colore mediante un punteruolo. Le linee che si dispongono a raggiera indicano le prospettive convergenti e divergenti delle strade, l’intima mappa viaria di New York.
Lo schema sarà replicato in altre opere di questo stesso anno, ma con sostanziali vanazioni di tono cromatico: in Black City era cupo, quasi notturno; in Red City è invece più caldo, luminoso; in un’ulteriore versione, Destroyed City, l’elemento dominante è un fondo bianco rosato e la macchia nera diviene una specie di disco, forse quello solare, proprio sull’orizzonte, che sgocciola dentro la massa urbana determinando come un sistema di vasi sanguigni analogo alle precedenti mappe viarie, quasi che vita individuale e comunicazione collettiva simbolicamente si sormontassero.

La “esplosione” della città
Come ho detto, siamo nel 1949. Nello stesso anno Congdon torna in Europa. Pochi mesi dopo aver dipinto le vedute di New York, eccolo misurarsi con il paesaggio urbano di Napoli Naples Afternoon. Vi è raffigurata una grande strada - in una città che sta appena risorgendo dalla guerra - ed è interessante notare un mutamento di impianto nel dipinto, un assetto più tradizionale, ottocentesco, sottolineato dai colori prescelti e dal rispetto del canone prospettico con cui è rappresentata la via tra due ali di palazzi; in fondo si intravede una striscia di azzurro intenso, forse il mare.
Apparentemente, si tratta di un’opera gioiosa, festosa: i colori - il giallo, il bianco, l’azzurro - gridano. Ma avvertiamo anche un angoscioso senso di vertigine, osservando questo stretto e quasi sconfinato canyon urbano. Ma il dato più rilevante è un altro: l’immagine è letteralmente spaccata in due dal forte contrasto tra luce e ombra, e dalla zona di densa ombra in primo piano si passa alla luce abbacinante di quella chiara. Così, la fuga prospettica, che salda il primo piano a quello di fondo, è interrotta e contraddetta da questa spaccatura che taglia, obliquamente, il dipinto. Avvertiamo un passaggio tra due spazi, tra due realtà diverse e opposte, perché luce e ombra sono qui entità concrete e corpose, assai più del tenue contorno degli oggetti che sembrano annegare in queste masse: un avviso di dramma, un conflitto, la percezione di una realtà spaccata. Così ha commentato l’opera Fred Licht, uno dei maggiori studiosi della pittura di Congdon:
«La luce intensa del mezzogiorno nasconde dietro la sua ossessionante allegria un senso di vuoto, di abbandono, che incute disagio e angoscia. L’ombra, a sua volta, inverte questa relazione fra esuberanza e sgomento: l’oscurità, a prima vista minacciosa, sprigiona qualcosa di lussureggiante, rassicurante».
Vale a dire che sarebbe superficiale stabilire l’equazione nero = male e luce = bene. Tutto è più complesso. Piuttosto, assistiamo a una continua ambivalenza: la luce che, inizialmente, sembra catturarci, affascinarci, a un certo punto rivela una inaudita violenza, cade dall’alto come una mannaia, calcinante e insopportabile; e l’ombra, a sua volta, diviene un riparo, aogliente, rassicurante. Mi pare un dato di rilievo, perché in Congdon il sentimento del dramma, del conflitto insito al reale, si accompagna alla coscienza di come non sia possibile sbarazzarsene ponendo tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra.
Così in altre immagini italiane degli anni ‘50. In Piazza Venice n° 5 del 1951, apparentemente una veduta tradizionale, da cartolina, tutto pare mettersi in movimento e assumere un aspetto stravolto e drammatico: si noti la diversità delle due ali delle Procuratie, che sembrano appartenere a spazi differenti, in quanto quella di sinistra punta direttamente verso il fondo, sollevando in alto il pavimento della piazza, mentre l’altra cade a picco e sembra tirarlo verso il basso. Inoltre la strana forma del campanile, che pare quella di uno sbilenco obelisco, risulta sproporzionatamente bassa rispetto alla mole della Basilica, sebbene ci appaia invece altissima, in forza di un innaturale assottigliamento. Anche qui la luminosità delle due ali ha un che di metallico e crudele, e la relativa oscurità del pavimento e della facciata della chiesa risulta, viceversa, rassicurante. Ma osserviamo anche le ombre che si spalancano ai lati della Basilica: buchi neri da cui la realtà, e cioè, qui, la piazza, pare sul punto di finire risucchiata. Tutto è precario, come sull’orlo di una sparizione improvvisa.
E’ quanto vediamo in un’altra immagine potente, ancora del ‘51, Rome-Colosseum n° 2. Anche stavolta un monumento tra i più noti, rappresentato per secoli da generazioni di vedutisti: Congdon lo affronta con grande libertà, con ingenuità impressionante. Come in precedenza, una spaccatura in due zone: quella superiore si dilata orizzontalmente, aprendosi come un ampio paesaggio nella luce e nei colori di Roma, i gialli e i rossi delle case. Ma ci basta superare, scendendo, la soglia del bordo superiore del Colosseo, ed ecco che il nostro occhio sprofonda, attratto verticalmente verso il fondo dell’anfiteatro; in parallelo lo spazio si contrae ad imbuto, sino a scomparire, anche qui in un buco nero. Nuovamente una macchia nera e il contrasto tra la bellezza e la tenerezza della città e la voragine che le si apre di sotto. Una Roma sospesa su una sorta di inferno dantesco, concluso da un occhio mostruoso: e l’artista permanentemente in bilico tra due realtà confliggenti, l’una seducente, l’altra terrificante. Quale scegliere? Congdon non sceglie: sa che ciò che lo affascina reca, almeno in parte, un volto terribile.
 
Le Cicladi nella sua pittura
Affrontiamo una tappa successiva nel viaggio senza soste di Congdon, l’isola di Santorini, nelle Cicladi, oggi rinomata meta turistica, Quando egli vi andò a soggiornare, nel 1955, era pressoché sconosciuta. Già da due anni aveva scoperto la Grecia, Atene, le meraviglie di una civiltà che aveva lasciato un’impronta incancellabile per l’intera area del Mediterraneo. Di seguito era venuto a sapere che esisteva una Grecia più segreta: Santorini, che, proprio all’alba della civiltà ellenica, era stata il teatro di una catastrofe immane.
L’isola si chiamava all’inizio Strongyle, “la rotonda”, perché, essendo di origine vulcanica, aveva una forma perfettamente circolare. Per lo stesso motivo era chiamata anche Kalliste, “la bellissima”. Nel 1550 a.C. fu devastata da una delle eruzioni più terribili e spettacolari della storia, che alcuni studiosi ritengono all’origine del declino della potenza cretese-minoica: allora due terzi dell’isola sprofondarono nel mare, lasciando in superficie una cresta frammentata, a mo’ di emiciclo, invasa dal mare. Al centro del bacino, dopo qualche tempo, riemerse il cono vulcanico, che ancora oggi forma un isolotto nero e fumante, dall’aspetto minaccioso. Nella parte rivolta verso l’interno del vasto bacino, l’isola porta ancora i segni, la cicatrice della catastrofe: una muraglia di scogliere, di color rosso scuro, che precipita a picco sul mare, per duecento metri. Nel versante esterno, al contrario, essa risulta intatta: scende al mare con un dolce pendio, coperto di campi. Sulla cresta, sparsi un po’ ovunque, simili a macchie di neve, si scorgono i bianchi villaggi in cui vive la popolazione. L’ultima moderna eruzione del vulcano avvenne nel ‘56, l’anno successivo al soggiorno di Congdon sull’isola: quasi una tardiva vendetta del mostro sottomarino nei confronti dello straniero che era venuto a violarne il segreto...
Congdon si fermò a Santorini per ben cinque mesi, studiandone attentamente la topografia, in una intima identificazione con il dramma remoto eppure sempre incombente del luogo. In Santorini n° 1O ci ha voluto offrire uno spaccato dell’isola, attraverso un processo di ben regolata deformazione: essa appare molto più alta che larga, per poterne accentuare così il tratto fondamentale, la spaccatura, la divisione in due parti che sembra coinvolgere tutto lo spazio circostante, l’intero mondo. L’isola diviene un cosmo spaccato e contrapposto, per metà chiaro e luminoso, elegantemente digradante verso il mare, spruzzato di tinte dorate, delle bianche macchie dei villaggi; per l’altra metà cupo, dirupato, davvero simile ad una immensa cicatrice.
In Santorini n° 9 vediamo invece una differente versione, ben più agghiacciante. Stavolta il punto di osservazione è proprio nella parte mediana dell’emiciclo risultato dal cataclisma, dirimpetto al quale sta, come ricordavo, il cono nero del vulcano. Siamo sul bordo del dirupo, segnato, in primo piano, dalla massa bianca di un villaggio: riconosciamo facilmente, a sinistra, la cupola candida di una chiesa ortodossa. Lo sguardo corre verso il grande bacino interno, chiuso, in secondo piano, da alte scogliere rossastre. Ma all’interno il mare è sparito; al suo posto, dove dovrebbe essere il cono vulcanico, vediamo invece emergere una sorta di nero mostro, allungato, sulla cui sommità, simile alla corolla di un fiore, ecco l’isolotto fumante. In questa circostanza Congdon scrisse sul suo taccuino:
«Il dramma di Santorini, di questo cratere marino senza fondo e con nel mezzo un’ala di ferro e di morte, là dove un tempo c’era un’isola meravigliosa, bella almeno o lo è tuttora l’altra metà, quella non esplosa. Dato che il mare nel cratere è usivo, l’ho tirato fuori e ho fatto arrivare fino in fondo il cono nero lasciando in ma il vero mare che sta all’esterno. Quando sono giù nell’acqua, la riconosco come acqua sotterranea e avverto la terra di un tempo e la vita di quella scorrere so- di me a ricomporre quelli che ora non sono altro che pezzi staccati del bordo».
un certo senso è come se l’artista, giunto nell’isola, fosse diventato una sorta di sismografo, di sensibilissimo scandaglio, in grado di avvertire ciò che non era più, di l’arto mancante, quello che i medici chiamano “l’arto fantasma”, la parte sprofondata dell’isola che, come un mostro, torna alla superficie. Ciò che osserviamo sembra la letterale traduzione di una classica metafora psicanalitica, il ritorno del rimosso. Dobbiamo chiederci: che cos’è il mostro? Quello che vediamo è qualcosa che inquieta e spaventa, forse un’immagine metafisica del male, forse una manifestazione demoniaca, tanto più terribile in quanto ad esso si contrappone, sullo sfondo, l’azzurro intenso del mare e la luce abbacinante del cielo di Grecia. Eppure, ancora una volta, dobbiamo riconoscere un’ambivalenza: quell’azzurro e quella luce affascinano ma, per Congdon, la seduzione nasconde sempre un pericolo, il rischio di un inganno. La lontana congiunzione di cielo e di mare, inafferrabile, attrae ma, nello stesso tempo, ci sfugge, non diversamente da un miraggio. D’altro canto, la massa nera del “mostro” è come carne malata e sofferente, nel cui tessuto necrotico intravediamo bagliori di luce dorata. Non è infrequente - come constateremo esaminando opere successive - rintracciare in Congdon una luce non contrapposta ma mescolata alla tenebra. In ogni caso è come se la macchia nera, apparsa sopra la città di New York nel 1948, accompagnasse il pittore nel suo cammino, assumendo via via una forma più precisa.


E dopo la Guerra, un paradosso: la vita nella morte
Nel 1957, due anni dopo Santorini, Congdon soggiorna per circa un mese in Centro America, ad Antigua, nel Guatemala. Questa volta non è il paesaggio ad attirare la sua attenzione: non i numerosi vulcani e neppure la foresta tropicale. E! invece letteralmente catturato dalla presenza degli avvoltoi. L’avvoltoio è un animale che assume un particolare significato nella cultura della regione: pur essendo una creatura dell’aria vanta tuttavia un nesso inscindibile con la morte e la sepoltura. Esso è, in senso etimologico, un “sarcofago”, un mangiatore di carne morta; si nutre della morte, “vive” della morte.
Da questa assimilata percezione origina un quadro come Guatemala n° 6 (Flying Vulture), lavvoltoio che vola, un capolavoro della pittura congdoniana; l’animale diventa “cosmico”, le sue ali aperte abbracciano tutto lo spazio del dipinto, mentre la massa del corpo è solo un’ombra scura in cui brilla, minaccioso, il becco argenteo che ci fissa come un occhio di ghiaccio. Congdon scrisse ad Antigua alcune righe di grande spessore:
«La morte viaggia veloce sulla mia città sulle ali degli avvoltoi, le penne pronte a dar battaglia, i neri occhi d’agata, le punte perlacee dei becchi sulle ossa. Zopilotes [è il nome locale dei volatilil sono gli occhi della morte che si misura in turbini di spirali alate, meridiane di morte che appaiono nel cielo curvo per indicarci con esattezza dove e come la morte colpisce in ogni istante».
La meridiana misura, circolarmente, il tempo che scorre; nella pagina di Congdon essa diviene metafora del volo circolare dell’avvoltoio, insieme ad esso avviso dell’approssimarsi della morte, del compimento del destino. Guardando in cielo, il numero degli avvoltoi ci avverte di dove abbia colpito la morte, di quanto forte sia stato il suo colpire. L’animale è dunque messaggero, angelo della morte. Ma successivamente il pittore ha una sorta di rivelazione, assistendo alla morte di un avvoltoio, investito da un’auto mentre era occupato nel suo macabro pasto. Da qui deriva Guatemala n° 7 (Dying Vulture), l’avvoltoio morente, radicalmente diverso dal precedente: in questa immagine l’animale è tutto raccolto in una grande massa scura, simile a un cespuglio, non più sospeso nell’aria ma calato dentro la terra; solo la testa luminosa si erge in un guizzo finale verso il cielo, quasi fosse sul punto di staccarsi dal corpo.
I due dipinti sintetizzano l’esperienza di Congdon in Guatemala. L’avvoltoio che vola e quello che muore costituiscono quasi un dittico, i due atti di un unico dramma: dapprima, la visione del messaggero del destino; di seguito il suo stesso sottoporsi all’identico fato. In buona misura, si tratta dello stesso enigmatico dramma del pittore. Per la verità, l’enigma è, in un certo senso, già svelato, ma egli non sembra ancora pronto ad affrontarlo, ad incontrarlo: ciò che da anni egli fugge, ciò che lo terrorizza e nello stesso tempo lo affascina ha a che fare con il Destino, con il suo Destino. L’avvoltoio che, anziché annunciare o distribuire la morte, la subisce, lo sconvolge. Perché?
Nel 1959, ad Assisi, Congdon si converte alla chiesa cattolica. L’anno dopo esegue uno dei suoi primi Crocefissi, il Crocefisso n° 2. Esiste una segreta parentela tra questa immagine e quelle degli avvoltoi guatemaltechi: il Cristo sembra sospeso nel vuoto - la croce non si vede -, leggero come un uccello, con il corpo sfrangiato che è simile ad una piuma bianca, quasi sul punto di spezzarsi, per lo sforzo, all’altezza della vita. Ma guardiamo anche la testa rovesciata in avanti, con i capelli che nascondono il volto: Congdon, fedele al testo evangelico - «et inclinato capite tradidit spiritus» - ha voluto fermarvi l’attimo della “consegna dello Spirito”, da parte del Cristo morente. La morte è indicata dalla sfigurazione del corpo, per cui la testa cade verso il basso, rientra nel corpo e vi si incista, quasi all’altezza del cuore, come una grande cicatrice. Si noti che questa è la prima volta che la figura umana compare nell’opera di Congdon; ma essa vi appare solo per subire, immediatamente, un processo di deformazione, significativamente sancito dall’acefalia. Per due decenni, fino al 1980, il pittore si accanirà - è il caso di dire - sul tema del Crocefisso, dipingendone circa 180 versioni, come se in questa immagine egli avesse finalmente trovato la «pietra d’inciampo» che da anni l’aveva tormentato.
Negli anni ‘70 Congdon riprende a viaggiare per dipingere, anche se ormai, dopo la conversione, il viaggio ha assunto un valore profondamente diverso rispetto a quello del passato. Quando, nel ‘73, torna in India, dove era già stato nel 1954, l’immagine del paese che ricava non ha quasi contatti con quella precedente. Lo cogliamo ad esempio in Bombay n° 20, che non ha più nulla di esotico: il quadro rappresenta una strada urbana, che corre in primo piano assieme al contiguo marciapiede, dominata dalla mole di un grande palazzo e da un cielo perfettamente nero. Sul marciapiede sono adagiate - ma sembrano piuttosto galleggiare, trascinate dentro la corrente - delle larve color cenere, gruppi di figure umane avvolte nei loro drappi, mentre sulla strada ondeggiano degli autoveicoli, simili a minacciosi insetti neri. E’ un’immagine inquietante, quasi onirica ma, nello stesso tempo, carica di un drammatico realismo. E’ lo stesso pittore ad annotarlo:
«Le folle sempre a terra perché non hanno un viaggio da fare se non quello dell’esistenza stessa, E io penso che la gente a terra è setacciata, come purificata dalla vita, dalla pretesa dell’uomo in piedi, sono gli eletti e a terra rimangono per sempre nella pace».
 
Questo stesso tema dei sofferenti lo ritroviamo in un’opera dell’anno successivo, il Crocefisso n° 90 del ‘74. Sono passati ben 14 anni dal primo. Anche in questo caso lasciamo la parola all’autore:
«E’ tutto una piatta, schiacciata colata di lava, ma calpestata come se il traffico del peccato [quello rappresentato dalla strada urbana] ci fosse per o dall’eternità passato sopra, finché il corpo, ciò che era corpo, è diventato macchia. E la strada di Bombay è il mondo che continuamente schiaccia il Cristo. Il bitume della strada è diventato Cristo, che è diventato bitume per lasciarsi schiacciare fino a colare nel fuoco d’amore oltre a qualsiasi confine. Cola ovunque e poi oltre ancora nelle schegge delle ceneri come un bombardamento di odio. E’ tutto un senza confine di peccato eppure, sotto e attraverso la colata, regge la forma, cioè l’immagine che redime».
L’affermazione «regge la forma» non è arbitraria: il corpo di Cristo sembrerebbe effettivamente una massa informe, una specie di colata di materia, fatta scorrere casualmente sul pannello. Ma se osserviamo bene, la massa si marca, in alto, quasi alludendo alla curva delle spalle, e si avverte l’energia della figura che emerge e si protende, mentre la testa, all’opposto, segna, con la massa dei capelli, una direzione discendente. La massa informe è insomma solcata da tensioni drammatiche, in cui percepiamo la presenza della figura, del corpo di Cristo, sia pure ormai prossimo a perdere ogni sembianza umana. Il sacrificio del Cristo si traduce, dunque, in quello della “bella sembianza” della figura umana.
Proviamo ora a osservare due immagini che, solo in apparenza, non hanno nulla a che vedere con la pittura di Congdon. La prima riproduce la pagina di un manoscritto tedesco dell’inizio del XIV secolo e rappresenta un Cristo crocefisso adorato da San Bernardo e da una monaca inginocchiati ai piedi della croce. In effetti esiste una impressionante somiglianza tra questo Crocefisso e certi Crocefissi di Congdon. L’ignoto miniaturista ha fatto sgocciolare l’inchiostro rosso sulla figura del Cristo, quasi cancellandola; ha fatto sì che tutto il corpo di Gesù si identificasse con la ferita, con le piaghe aperte nel suo costato, nelle mani e nei piedi. Per questo
la macchia d’inchiostro non imita nel senso di rendere l’apparenza di una scena o di una figura, ma piuttosto perché ripete l’evento del sacrificio di Cristo. Infatti esso non è che il punto culminante dell’incarnazione: e l’impiego, in questa immagine, di una materia allo stato puro rinvia pertanto alla carnalità del Cristo. E occorre indica- re un ulteriore elemento nella miniatura: la particolare inclinazione della testa, al punto chessa sembra sparire all’interno del busto, riducendo la figura del Cristo a un corpo acefalo.
La seconda immagine che convochiamo è il Cristo del dolore di Albrecht Dürer, il maggior artista tedesco di epoca rinascimentale. Essa fa da frontespizio ad una serie di incisioni, la cosiddetta Piccola Passione, eseguita attorno al 1509- 1510. Uno studioso francese, Georges Didi-Huberman, nel commentarla, parla di “presentazione del ripiegamento”, in quanto ciò che dovrebbe guardarci in faccia (lafacies Christi, il volto di Cristo) rimane nascosto e il capo di Cristo si ripiega di fronte a noi in una sorta di rifiuto a restare visibile. E lo sguardo di Dio - nel momento in cui pare distogliersi dagli uomini - si sprofonda nella infinita contemplazione del proprio segreto: non in un’idea, ma nel cavo del proprio palmo, nell’apertura della sua propria carne, nelle sue stimmate.
L’immagine di Dürer risulta dunque aspirata al suo centro, nell’apertura dentro di sè, nella piaga. Quel corpo si presenta a noi per indicare in se stesso una carne, anche se ciò comporta una consistente modificazione del suo aspetto, dato che ci appare tutto ripiegato e ridotto: tra l’altro, l’unico sguardo che ci fissa è quello dei due fori nei piedi. Nella prospettiva dell’immagine cristiana, conclude sempre Huberman, il corpo, prima che bella forma da imitare, è una carne segnata,
“la sede di un evento che la apre”.
L’incisione di Dürer ci serve ad introdurre uno degli ultimi Crocefissi di Congdon, il n° III del 1974. Anche qui riscontriamo quello stesso fenomeno del ripiegamento che ho in precedenza descritto: è indicato dalla testa, cioè da quella forma, simile a una pera, che addirittura scende fino al livello del ventre. C’è poi una accentuata fisicità, determinata dalla densità e dal rilievo del pigmento, sul quale sono ben visibili le tracce della spatola: la figura, anzi, diventa sottile quasi come la lama della spatola stessa, quella specie di lungo coltello che Congdon usa per dipingere. Il corpo sembra una lunga ferita, una ferita luminosa che si apre nel fondo scurissimo del pannello: nella carne nera e morta del mondo, Cristo è una ferita di luce, la cui presenza tende ad invadere tutto lo spazio che pare, a poco a poco, sfogliarsi nell’apertura centrale. In questo dipinto l’artista ha voluto certamente condensare il significato ultimo del mistero dell’Incarnazione, il mistero della morte e della risurrezione.
Notiamo infatti la posizione del capo: sceso ormai fino all’altezza delle viscere, esso porta a compimento quel processo di deformazione iniziato nei Crocefissi precedenti, poiché è proprio come se il corpo si ripiegasse su se stesso. Eppure, collocato in una simile posizione, il capo assume, a sua volta, un nuovo aspetto: sembra sul punto di emanciparsi dal resto del corpo, quasi ne costituisse uno sdoppiamento o. meglio, come se fosse un secondo corpo. partorito dal primo. Il capo del Cristo, sacrificato e umiliato per la perdita della sua posizione eretta, diviene la primizia del corpo risorto.
 
La conversione e la “Madonnezza” nella sua terra
Siamo alla fine dell’itinerario che ha preso avvio da New York. Le opere dell’ultimo periodo della pittura di Congdon, quello degli anni ‘80, sono tutte legate al tema della terra. Osservando Campo Orzo del 1982 e, più ancora, Virgo Potens, del 1985 notiamo come sia mutata la tavolozza del pittore: ci sono dei colori chiari, dei verdi e dei gialli luminosissimi; il lavoro della spatola sul pigmento non è più violento e convulso come un tempo. Inoltre, le forme si dispongono in uno schema quasi geometrico, come se l’artista si sia ormai sottomesso a una sorta di regola, di limite oggettivo: dominano le linee ortogonali delle campiture cromatiche, lo schema più prevedibile.
Confrontiamole, tuttavia, con il Mais i del 1989. Il covone, perduto in mezzo al campo, sembra quasi una fiamma che brucia, tale è la luminosità che ne promana. Eppure, se lo guardiamo da vicino, notiamo come questa luce non sia immateriale, come non si perda mai il senso della fisicità del colore: anche questa è una luce solida. Lo si percepisce con esattezza se si mette a fuoco la forma centrale, dove risulta evidente che la spatola ha modellato il colore nei modi di un basso- rilievo.
L’ultima immagine che commentiamo è una strana, enigmatica veduta. Al centro campeggia un’insolita forma, bruno-rossastra, che sembra una piramide molto schiacciata, con la base che fuoriesce dal quadro, e che ci suggerisce un dilatato paesaggio concluso da una solenne altura; tanto più che, sotto di essa, scorgiamo delle bande marroni, di diversa tonalità, che sembrano riflessi nell’acqua. Ci comunica, ad ogni modo, un’impressione di vastità, come se il nostro sguardo corresse lontano, fino al rialzo a forma di timpano che si marca verso la zona superiore, ove splende la luce tenue ma purissima di un’alba. Invece, ciò che garantisce questa impressione di spazio sconfinato è in effetti il contrario: quel che ci sta di fronte è la parte terminale di un edificio, e dunque un ostacolo, un limite della e alla visione. E’ una parete, un muro sormontato da un tetto, la porzione superiore del monastero che si trova dirimpetto l’abitazione del pittore. Monastero, i del 1990 è infatti il titolo del dipinto, a proposito del quale Congdon ha scritto:
«Nel Monastero, i il segreto è che il monastero-silenzio non termina, non è condizionato da una struttura mondana o architetturale, non è definito da naturali limiti, è infinito come il silenzio della preghiera dei monaci. La massa (dell’edificio) passa oltre i confini del pannello e il tetto non appartiene a nessuna sottostruttura, è semplicemente posato sopra come un giocattolo ma appartiene al cielo e al monastero come membro nell’immagine».
E ancora:
«È certo tracciabile in Monastero, i - non direttamente e perciò superficialmente, come se dipendesse da un mio voluto intervento, ma indirettamente sussurrato dal profondo e misterioso nascere dell’immagine - è certo tracciabile, dicevo, in Monastero, I tutta la mia vita: di terre, di mari, di viaggi, di conico tempio messicano, della rossa attesa del TU della Chiesa la quale è il corpo dell’immagine non raffigurata ma come silenziosa massa di un nulla che è il tutto, il culmine del mondo».
 
Ho voluto trascrivere questa testimonianza, soprattutto, per sottolineare l’espressione «culmine del mondo»: questo tetto, che forma una sorta di piramide incurvata, è il «culmine del mondo»; ed è semplicemente il tetto della casa che sta davanti alla sua, che nasconde all’artista la visuale. Un ingombro, un limite. Non possiamo intendere la pittura di Congdon se non a partire da questo suo misurarsi coi limiti. I viaggi degli anni ‘50 erano nello stesso tempo una fuga e una ricerca, l’andare in- contro a qualcosa. Curiosamente, ma anzi, com’è più probabile, misteriosamente, quella fuga era invece una corsa in bocca al “mostro”, quello che poi gli si rivelerà nel tema del Crocefisso, che occupa tutti gli anni ‘70. Da quando è giunto in questa terra della Bassa Milanese Congdon non ha più dipinto Crocefissi: li ha sostituiti con i campi. Ha mutato la sua tavolozza, con verdi e gialli mai usati prima. Il verde, soprattutto, era rarissimo nelle opere precedenti, ed è comunque emerso, per quanto si tratti di un colore estremamente difficile, tanto più per un pittore contemporaneo: esiste un grande rischio di banalità, specie dopo tutta la tradizione ottocentesca, nell’abbandonarsi ad una pittura campestre. Ma è risultata più forte, in lui, l’esigenza di una rappresentazione necessariamente fisica. Anche quando la luce sembra prendere il sopravvento, le sue terre sono sempre raffigurate in termini molto fisici: la sua sensibilità di scultore non gli consente di smarrire il senso dello spessore e della densità del colore. Per quanto luminoso, esso non perde la propria corporeità. Ma se il colore è sempre corporeo, non per questo esso è meno radiazione di luce: è una luce corporea. Anche qui, in sostanza, due opposti, come le città spaccate o le antinomie confluenti negli avvoltoi di Antigua, e tuttavia, stavolta, riconciliati. Qui possiamo cogliere il valore simbolico delle “terre congdoniane”. Quando parla della terra, Congdon si riferisce spesso alla Madonna. Ripete sempre, ad esempio, che quando Cézanne dipingeva le sue mele non rappresentava delle mele: quelle erano le Madonne di Cézanne. Al contrario, quando Raffaello dipingeva delle Madonne rappresentava spesso delle mele. L’interpretazione non è poi troppo personale e soggettiva: più di qualche critico ha sottolineato, nelle mele di Cézanne, un riferimento alla donna, alla femminilità. Quando parla delle sue terre, Congdon dice ch’esse sono metafore della Madonna, anzi, per usare le sue stesse parole, della «Madonnezza». Proprio per questo è stato possibile aggiungere ai titoli realistici che il pittore ha di volta in volta assegnato alle proprie opere anche un titolo - che spetta a Paolo Mangini - ispirato alla liturgia mariana: Virgo Potens, lanua Coeli, Stella Mattutina.
Ma possiamo ulteriormente precisare il discorso. Dobbiamo anzitutto percepire il rapporto che l’artista ha stabilito con la terra. Nei quadri degli ultimi dieci anni, Congdon lavora quasi come un contadino: i suoi dipinti sono semplici campiture cromatiche, è come se egli lavorasse la terra nei suoi stessi colori, limitandosi a separare i diversi toni così come il contadino separa le differenti colture (Terra Arida n° 2, 1981). Inoltre riscontriamo un uso della materia pastosa, corposa: anche quando - come dicevo - i colori si fanno molto luminosi, la luce non si smaterializza, mantiene una sua solidità. In altre occasioni ho cercato di evidenziare che si può parlare di “arte cristiana” o, meglio, di un regime tipicamente cristiano delle immagini, di un’economia dell’immagine determinata dal mistero dell’Incarnazione. Ritengo che, per vie assai complesse e, insieme, avventurose, Congdon abbia ritrovato questa economia, questo regime.
Massimo Cacciari ha giustamente sottolineato l’importanza, o addirittura la necessità, per Congdon, di utilizzare, per dipingere, una superficie dura, resistente. Si tratta della stessa necessità che provavano i pittori di icone, come ha osservato il padre Florenskij. Congdon rifiuta la tela, il supporto tipico dell’arte moderna, perché rifiuta di pensare all’immagine come ad un’illusione, ovvero ad una proiezione del proprio io: l’immagine deve essere invece una realtà dura, contro la quale il suo io si deve scontrare. Egli ha bisogno di misurarsi con questo limite, con questo ostacolo, con questo fondo-fondamento che, per lui, a differenza che per i pittori di icone, è nero. In questo egli è moderno, ma essere moderno non significa, di necessità, non essere cristiano. E le immagini cristiane originarie sono appunto tracce lasciate da un corpo: la Sindone, il Velo della Veronica...
Tutto ciò e ben altro Congdon ha ricavato dalla sua scoperta dell’Europa. Senza tuttavia mai dimenticare, in questo, le proprie radici. L’America è in tutto quello che ha fatto, in tutto quello che sta facendo. Per esempio, nel suo modo di stare nella Bassa Milanese, nel suo modo di vederla. Lo ha scritto lui stesso: «L’America è tutti questi luoghi e lo sono anch’io».

 
Il «nonno» dei colori: il nero, limite e somma di tutti gli altri
«Mi è stato chiesto che senso ha oggi per me la parola “limite”. Il fatto del limite è diventato, almeno nella mia situazione, certamente molto drammatico e tematico. Per questo sono divenute estremamente importanti tutte le parole che lo riguardano, come quando mi è stato detto: è come se tu dovessi reimparare a dipingere, ma con un corpo che non è il corpo di ieri, un corpo nei termini di adesso. Come ho detto un’altra volta, adesso sono costretto a dipingere con un corpo “rotto”, cioè i gesti... tutto è cambiato: è veramente un cominciare da capo».
Desidero leggere una paginetta che mi è stata detta a proposito di questa situazione:
«L’età e i limiti diventano inevitabili, quindi diventano divini, perché non c’è niente di più divino che l’inevitabile. 1/limite è il segno fisico dell’Altro che ti sta abbracciando. Quando è il mistero che ci lega, facciamo una nuova esperienza, in cui la materia diventa strumento di espressività, compresa la materia del nostro corpo e delle nostre mani che tremano: vuoi dire semplicemente che urge una nuova forma del tuo dono, in cui puoi utilizzare tutti i tuoi limiti. Questo è il mistero che ti lega. Se accettiamo di legarci affettuosamente al Mistero, allora è la resurrezione, e tutto diventa dedizione all’opera di un Altro, al dono come opera di un Altro. Dobbiamo accettare che la nuova espressività passi per i nostri limiti».
Certamente è un rovescio totale del modo naturalistico di vedere la vita, e deve essere uno shock forte pensare che più i limiti stringono la morsa più siamo chiamati a vedere in questo abbraccio l’affettuosità, l’affettuosità del mistero che ci lega.
 
Il quadro: l’epilogo della nascita e della morte
Il mio rapporto con il quadro, nel momento in cui lo sto facendo nascere, è enormemente semplice: dipende dalla circostanza che stai cercando di esprimere e di dire... Non ho mai parlato di ciò con altri, e subito devo dire che voi non siete altri, ma un prolungamento di me stesso, e questo mi permette di essere franco.
I quadri sono i figli dell’artista, sono veramente i figli. Il quadro non è fatto, è nato, nasce, accade; non è fatto. Accade, frutto di una obbedienza totale all’Altro: l’Altro è il Dono, Cristo. Ci sono delle fasi del quadro: il quadro che non è nato ancora... è questa che chiamiamo la “circostanza”. Io sono stato educato a voler mendicare la circostanza e quando essa accade tu riconosci che sei stato ferito, che sei stato “visitato” e, da quel momento, tu non sei più come prima: sei “gravido”, perché nella circostanza che ti ha afferrato e che ha fatto scattare l’immagine io riconosco che sono stato ferito, visitato e che adesso è stato messo dentro di me, dal Dono, un germe, un seme: è l’immagine. Da questo momento in poi, finché il quadro non nasce, non sono libero, sono investito, sono popolato, contengo in me l’immagine scattata dalla circostanza.
Il tempo della gravidanza - potreste chiedermi - quanto deve durare? Può durare anche solo finché io arrivo a casa dalla passeggiata in cui è accaduta la circostanza. La circostanza è molto simile alla conversione di san Paolo: egli è stato rovesciato dal cavallo, io sono stato rovesciato in un altro modo, ma non meno. La gravidanza può durare un anno come un’ora, però tu devi vivere... Guai se ti dimentichi, guai se non vivi un’attenzione al suo tempo e al suo chiamarti, al suo essere pronto, perché quello è il momento che tu devi saltare in sella e galoppare
a casa per fare il quadro, perché le doglie sono pronte - le doglie del parto -. Quando tu hai questa certezza addosso non puoi sapere com’è l’immagine, ma ricordi quando è scattata, e questo ci porta all’immagine della memoria: è la memoria che fa il quadro, è stato affidato alla memoria questo foetus che ho dentro di me. Adesso la memoria sta cedendo ed io, con addosso una certezza e una chiarezza assolute, prendo la spatola e mi tuffo dentro il pannello. Una struttura è già presente in me. E il quadro fa da sé, io non lo faccio: nel momento che una mia pretesa entra nella operatio, essa risulta fatale per quel che vuoi nascere.
Il quadro vuole nascere, e inizia con il primo tocco di spatola sul pannello. Se tu vivi questa operatio così come devi viverla, cioè con una totale umiltà e povertà, il quadro nasce al primo tocco di spatola: al primissimo tocco della spatola sul pannello, il quadro è terminato. Ma non esiste un termine, nel senso che tu possa definire un limite: perché è un altro mistero quando il quadro è terminato, quando ti informa, ti comunica che tu non devi toccarlo più. Questo rapporto col quadro in nascita è affascinante. Io lavoro con molta... non fretta - perché la fretta denota una mia impazienza e quella sarebbe fatale - ma speditamente, senza esitazione; tutto viene seguendo la struttura.
A un certo punto, quando sto dipingendo, all’inizio del quadro - possono essere passati venti minuti, un’ora: adesso, con i miei cari, amatissimi limiti, ci vuole più tempo: non ho la possibilità di muovermi, e questo fa parte del dramma che vivo; che vivo, devo dirlo, come una grande grazia, mai con lamento! -, quando hai coperto il pannello e la struttura e tutti gli elementi sono suggeriti, oppure sono già evidenti, allora io riconosco il quadro. Esso mi comunica - io non decido niente - che devo smettere e non guardarlo. Perché guardare e vedere cosa sta venendo con l’ambizione di riuscire è un prurito, una tentazione: tutto ciò è fatale. Quando metto giù la spatola, esco dallo studio e non guardo mai, neanche con la coda dell’occhio. Non voglio cogliere nemmeno una vibrazione del mio quadro. Faccio così per non essere tentato, perché certamente è una forte tentazione quella di vedere cosa sta venendo. Allora riposo mezz’ora: non dipende da me, dipende dal quadro che ti comunica quando devi tornare, ti chiama. Molte volte, quando rientro nello studio e mi metto davanti al quadro e vedo quello che c’è oggettivamente - perché quella pausa mi è stata utile per oggettivare l’occhio: l’occhio
soggettivo fa il quadro, però il giudizio viene dall’oggettività e quella pausa serve per oggettivare l’occhio, in modo che io possa vedere oggettivamente quello che sta venendo - certe volte, naturalmente, si prende la spatola, ti rituffi dentro, ma tutto ciò che devi fare è già evidente. Però, allo stesso tempo, può accadere il miracolo che tu, quando torni, lo trovi già fatto e non devi toccano mai più. Queste sono tra le più grandi estasi che l’artista può avere: quando, pronto per continuare il sacrificio - perché vi assicuro che fare il quadro è una morte -, ecco, avevo lasciato il quadro lì, e ho visto che non devo toccarlo. Possiamo toccare il fatto della morte?
Fare il quadro è una morte. Non saprei spiegarlo, ma so che chiunque di noi riconosce una morte: non è difficile riconoscere una morte quando ti è addosso. Un giorno, mentre stavo iniziando un quadro, ho avuto una bella immagine: lo stato dell’artista nel dipingere è esattamente quello di ritrovarsi nel liquido amniotico di sua madre prima di nascere; egli galleggia in questo fluido, e questo vi dà l’idea di come non è decisione tua quella di dipingere: sei nelle mani dell’Altro, nell’abbandono dell’obbedienza. A te resta di dire il “SI” della Madonna, perché altre parole non puoi dire: l’Angelo l’ha già detto.
 
Il perdono
Un giorno, un amico cui sono molto legato doveva venire a trovarmi. All’ultimo momento non gli è stato possibile. Questo ha suscitato in me una tale crisi, di rabbia e di dolore, che non sono riuscito a estirparmi da questa tensione che avevo addosso. Eppure, allora cosa Dio mi ha fatto fare? Mi ha mandato nello studio, mi ha messo la spatola in mano, ha messo il pannello piuttosto grande e io ho cominciato a mischiare i colori - i colori, in fondo, sono sangue: sono il sangue del quadro, dell’essere che vedo nascere - e nel momento che toccavo il sangue, il colore, mi sono trovato a camminare, cioè: il quadro è andato avanti. Non so per quanto tempo. Si chiama Il bosco perdonato e si trova nella casa dei Memores Domini di Piacenza. Quel quadro, certamente, è stato una verità resurrezionale: da una morte in me; veramente, è scaturito questo segno resurrezionale dell’immagine compiuta. E quell’amico mi ha spesso ripetuto:
«Io vedo adesso che tutti i tuoi quadri nascono da una crocifissione».
Molte volte, quando sono dentro il quadro, è molto difficile non essere cosciente, ma devi cercare di essere incosciente, di non sapere quello che sta accadendo. Tu hai una disciplina addosso, ma è la disciplina di un Altro, che l’Altro mette dentro dite: è una tua crocifissione resurrezionale. C’è un altro punto che vorrei toccare, che è estremamente importante e delicato: un giorno ho scoperto che all’artista è dato uno strumento di auto-perdono. Questo non accade in teoria: è accaduto a me. Ero a Subiaco, solo, e non so, non ricordo esattamente cosa avevo fatto, però mi sono riconosciuto in peccato e non ho potuto andare a confessarmi. Non quel giorno, almeno. Sono andato allora nel mio secondo confessionale, che è la pittura, e Dio mi ha dato un quadro ottimo, forte; una volta completatolo, mi sono meravigliato, dicendomi che, in stato di peccato, mi era stato concesso di partorire Vita. Così ho telefonato a un amico in Svizzera e gli ho detto: «Sai cos’ho scoperto? Che noi artisti abbiamo la possibilità di auto-perdonarci». Questo certamente non è il sostituto del sacramento, però è un segno della misericordia, del fatto che Dio è garanzia del perdono che Lui vuole darti se non puoi aspettarLo; e così mi ha dato questa scappatoia. Fu una grande scoperta, non ne ho mai parlato con nessuno. Il segno resurrezionale era già... il quadro nato a Subiaco era certamente un segno resurrezionale.
 
I luoghi della pittura
Che cosa mi ha fatto scegliere certi luoghi? Perché proprio quei luoghi? Quei luoghi così diversi da quello dove ora vivo... Non ho mai dipinto un luogo perché è bello, ma perché e solo quando ero io. E questo si collega a ciò che ho detto finora: a quell’unico momento, nella sua e nella mia storia, che ci siamo coincisi in quel quadro. Non potrei mai tornare a Santorini o in India, perché essi non sono più io. E io non ho scelto dove andare: ho seguito un fiuto, come un cane da caccia, il fiuto di Dio, e non ho mai sbagliato perché - era meraviglioso! – ovunque
andassi era sempre grande e gioioso, stupendo. Non potrei mai aver vissuto in quei luoghi: era solo per la pittura che Dio me li ha dati, per il tempo necessario per dipingere.
Per abitare, invece, ci vuole un luogo tutto neutro, che non è nulla in sé, né di bellezza, né di storia. Ecco, questo luogo e non-luogo è Gudo Gambaredo, in Lombardia: neanche un nome, eppure mi ha reso pittura. Non pittura di luogo, ma pittura pura, senza accidenti esterni, tutta interna. Per questo, quando sono arrivato nel 68, ho chiamato Gudo «il cesso del mondo». E tutti si ricordano di questa espressione. Lo è ancora: ma era anche la più grande grazia che Dio mi ha dato... attraverso il cesso!
Gli altri luoghi mi venivano dati, e poi tolti. Così fu anche in Guatemala. In Guatemala, l’unica cosa che dipingevo erano gli avvoltoi: mi affascinavano, ma ciò che mi affascinava veramente non erano gli avvoltoi, era la morte. E quando uscivo ogni mattina dal mio studio, dentro un antico convento distrutto, guardavo sul tetto. Lì c’erano due avvoltoi ad aspettarmi. Ma non aspettavano me, così com’ero: aspettavano la mia morte. E io, ogni mattina, li salutavo dicendo: «non ancora, andate altrove». La mattina dopo erano di nuovo lì. Il mio rapporto con gli avvoltoi ha avuto il suo culmine quando ero tutto un riconoscermi cacciato dalla morte, cacciato dagli avvoltoi. Da qui la potenza dei quadri che ho fatto. Chi ha visto la mostra di Palazzo Reale... C’erano due avvoltoi: quello morto era un dramma talmente viscerale e totale per me da vedere che l’ho dipinto immediatamente dopo. Appena l’ebbi fatto si era compiuta la mia missione con la morte in Guatemala: avevo liberato, si può dire, il Guatemala dalla morte. La morte non esisteva più quando ho dipinto l’avvoltoio morente: quel quadro mi ha tolto il motivo di stare lì; ho fatto lietamente le valigie e sono andato via. I quadri mi seguirono a New York. Di quello con l’avvoltoio morente, uno dei grandi pittori della galleria di Betty Parsons disse: «Bill, tu non lo sai, ma quello lì è il più grande quadro che hai fatto». Con la gloria del quadro avevo cancellato la morte.
Forse è per questo che in molti miei quadri vedo le cose dall’alto. Ciò che dobbiamo combattere sono i particolari. Don Giussani dice: «Il particolare è esaltato dall’assieme». Però la sua esaltazione sta nel cancellarlo. Se io vivo e guardo le cose al livello della terra, dove siamo tutti noi. sono bloccato da una infinità di particolari: è più difficile vedere l’assieme, quel che io chiamo l’Uno. Così, a New York, andavo a vivere al trentesimo piano e, pur vedendo i particolari, ho visto Uno. Il distacco è necessario per arrivare a Uno, e allora mi sono sistemato per favorire questa dimensione. Quando esponevo, sempre a New York, anni fa, tutti si sono accorti che era come in aeroplano...
Vorrei concludere con uno spunto che mi è venuto ieri nel letto: riguarda l’identità fra l’Angelus e il quadro. Posso dirlo così, recitando la frase della liturgia e poi proseguendo, in corrispondenza, con quello che accade nel quadro:
L’Angelo del Signore portò l’annuncio a Maria
Qualche cosa
sotto l’apparenza del paesaggio che mi sta davanti
mi afferra, trasfigura il mio occhio
perché io intraveda l’immagine e la trasformi in quadro
E la Vergine concepì per opera dello Spirito Santo
Io sono gravido
e porto nella mia memoria l’immagine rivelatami
fino a poter dipingere
Ecco la serva del Signore, fa di me secondo la tua parola
Io sono disponibile
a che il dono si serva di me per dipingere il quadro
E il Verbo si è fatto carne ed abita in mezzo a noi
L’immagine si è fatta quadro
per manifestarsi al mondo, all’Epifania.

 

[1] Nell’anno 1942, che segna l‘entrata degli U.S.A. nel secondo conflitto mondiale, sente il bisogno di aiutare il Vecchio Continente e decide di arruolarsi come autista di ambulanze nell’American Field Service.
[2] Dal 1960 al 1979 l’artista americano vivrà e lavorerà ad Assisi; notiamo un’evoluzione spirituale ed artistico. Caratteristico di questo periodo assisano il saldo inserimento ad un contesto comunitario ed una rigorosa direzione spirituale.
[3] Con il passare degli anni egli recupera la sua vena creativa più autentica, la pittura di vedute e paesaggi, ma non rinuncia al tema religioso che però ormai per lui si identifica con il soggetto del Cristo crocefisso, dipinto in numerosissime versioni – talune delle quali di strepitosa novità – tra il 1960 e il 1980.





Fonte  : scritti del prof. Alessio Varisco , Técne Art Studio , sito web www.alessiovarisco.it .
Per approfondimenti il sito della Fondazione William Congdon : www.congdon.it   
Fonte foto: www.ilduomoassisi.it/popup_news.php?idNews=29&lng=1  







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