IL ROMANZO CRISTIANO NON E'
UN GENERE. E' UN MODO DI SCRIVERE.
di Elisabetta Modena
Intanto spieghiamo il titolo
della mia rubrica: leggere la nuova narrativa cristiana.
Partiamo dall’aggettivo nuova:
nuova non perché non ci sia mai stata prima d’ora una narrativa cristiana,
quanto semmai perché ci piacerebbe che essa riuscisse ad uscire dall’isolamento
in cui è stata cacciata dal mercato editoriale e tornare così alla ribalta.
Proviamo a pensare, infatti,
perché se entro in una libreria e chiedo “Il quinto evangelio di Mario Pomilio”
o “Il cavallo rosso” di Eugenio Corti, tanto per citare libri definiti
unanimemente dei capolavori, facilmente non ci sono, mentre se chiedo i libri di
Wilbur Smith, di Patricia Cornwell o di Valerio Manfredi (con tutto il rispetto
per loro, tanto che li ho pure letti) questi ci sono?
Allora, un primo problema è la
diffusione.
Diffondere libri che non
ricalcano i soliti cliché (perciò più impegnativi, non sboccati, senza scene di
sesso, non violenti…), e che per questo potrebbero avere un mercato di nicchia,
è uno spreco di denaro. Meglio puntare sui cavalli di razza delle scuderie
editoriali. E badate bene che nemmeno se uno scrive un best-seller, la
diffusione gli è garantita: Marco Buticchi ha dichiarato al quinto convegno
della rivista “Letture” (25 ottobre 2000) che trattava il fenomeno dei
best-seller, che all’inizio i libri se li stampava lui e andava in giro con la
moglie a chiedere ai librai se facevano posto anche ai suoi libri. Il tutto
funzionò bene, tanto che al terzo libro gli arrivò una proposta del grande
editore Mario Spagnol per Longanesi.
Oppure l’editore Mazziarol,
della Santi Quaranta (piccola casa editrice trevigiana) che ha riscoperto il
valore del passamano per edicole; prendo un brano di un articolo che si trova
tra i vari link nel sito della casa editrice:
“L'editore-rappresentante
piazza i suoi libri fra edicole e biblioteche, fra sodali e piccole e grandi
librerie. La sua rete anomala: 800 punti vendita, fittissimi a Nordest, meno al
Nord (Milano, Liguria, Emilia), con propaggini al centro e al Sud. Memore forse
di quando inseguiva le persone, per vendere ("e me ne scappava sempre
qualcuno"), Mazzariol ha conservato l'umiltà per considerare ogni potenziale
cliente una risorsa”.
Credo che sia un esempio da
non sottovalutare.
Il fatto che il mercato
letterario cattolico non decolli è una spada di Damocle che incombe sia sulle
teste di chi scrive, sia su quelle dei volonterosi editori che pur vorrebbero
inserirsi nell’agone delle vendite ma non ci riescono. Sembra che il lettore
medio si tenga ben lontano dal visitare queste terre letterarie che così
rimangono pressoché vergini, come se da certa parte del mondo editoriale non
venisse nulla di buono, all’altezza dei tempi odierni.
C’è anche da dire che le
piccole case editrici non sono minimamente tutelate, a tutto vantaggio dei
colossi dell’editoria che possono permettersi il lusso del lancio pubblicitario,
la distribuzione nei mega-store e nelle edicole, la presenza nelle Fiere del
Libro, la vendita con sconti sul prezzo di copertina e così via. Col risultato
che la gente va a comprare i libri all’ipermercato dove li trova con l’offerta,
e le librerie indipendenti fanno sempre più fatica a stare a galla.
Un altro serio problema è la
lettura. In Italia siamo pochi a leggere.
Ad esempio fa onore una
proposta di legge per inserire l’assegno di lettura nelle scuole, agli studenti
meritevoli.
Gli stessi fenomeni editoriali
sono appunto “fenomeni”, nel senso Kantiano del termine: apparentemente uno
vende due milioni di copie (Susanna Tamaro nel 2004 con Va dove ti porta il
cuore e probabilmente molte di queste copie sono anche state lette), però in
tanti casi il libro si compra perché è uno status-symbol, salvo poi rimandare la
lettura alle calende greche. Così, però, non si crea quel magico contatto tra
autore e lettore che dovrebbe fare la fortuna dell’autore, quella sorta di
magica alchimia, di cordone ombelicale per cui quando l’autore del cuore
pubblica un libro, subito il lettore affezionato si precipita a comprarlo.
Se questo non si crea,
appunto, alla successiva uscita di altri libri è possibile che l’autore incassi
dei flop clamorosi.
E’ vero che lo stile di vita
odierno non contribuisce certo alla lettura: tra orari impazziti di lavoro,
incombenze, casa, famiglia, problemi vari, uno quand’è che dovrebbe leggere un
libro? Di sera prima di addormentarsi? Eh no, quel momento è sacro, è monopolio
della tv (digitale terrestre, tv normale, satellite…).
In pausa sul lavoro? Ma quando
mai?!
Nei momenti liberi? Quali?!
Insomma, anche leggere è
diventata un’impresa eroica.
Ecco un’interessante analisi
di Ferruccio Parrazzoli dal Convegno di Letture “Per la narrativa tra Novecento
e nuovo Millennio”, Roma – Milano 29 Ottobre 1997:
«I libri che non hanno
memoria sono libri che hanno solo una superficie», avverte Francesca Sanvitale.
Secondo La Capria la causa del filo spezzato fra autore e pubblico sarebbe
piuttosto da ricercare in un eccesso di produzione che avrebbe impoverito
l’immaginazione. Un eccesso di sapere produce il non sapere, inflazione e
svalutazione proprio di quella parola che Pontiggia indicava come pietra
angolare di ogni narrazione… scrive Giulio Mozzi, «leviamoci dalla testa che
lo scrivere sia una funzione... leviamoci dalla testa che lo scrivere sia una
missione, leviamoci dalla testa che si possa parlare di qualcosa di diverso
dalla verità...». Mi pare che Mozzi abbia enunciato qualcosa di incredibilmente
antico e di essenziale: che la verità non può essere dimostrata ma soltanto
raccontata. Vedi i Vangeli, aggiungo io.” (n.d.r. Ferruccio Parrazzoli)
Una terza considerazione che
ho fatto alla ricerca di possibili testi per una nuova stagione della narrativa
cristiana è stata la seguente: ma quali sono gli autori cristiani di oggi?
Provate a pensare a chi vi
viene in mente.
Quando ho aperto il mio blog
cominciando l’avventura su internet, ho passato alcuni mesi a scorrere i vari
blog e siti registrati nei portali cattolici per trovare potenziali autori da
leggere. Ebbene, sapete quanti ne ho scovati? Pochissimi.
Rino Cammilleri, Vittorio
Messori, Eugenio Corti, Maria Di Lorenzo, Guido Pagliarino, Paolo Gulisano,
Mario Pomilio, Luca Doninelli, Luciano Marigo… per citare nomi noti.
Ma c’è un sottobosco di autori
cristiani, specialmente italiani, che stenta ad emergere, vuoi perché gli
editori faticano a piazzare sul mercato le loro opere, vuoi perché per gli
autori è difficile contattare gli editori e creare un rapporto basato sulla
fiducia reciproca (e non sul marketing). Spedisci il manoscritto (siccome te lo
devi stampare e rilegare da te, puoi farne un numero esiguo di copie) e stai ad
aspettare per mesi l’eventuale, sospirata accettazione o il più probabile
rifiuto.
In tal senso, però, dovrebbero
essere di stimolo esempi come Mary Flannery O’Connor o Michael D. O’Brien che,
tradotti, vendono tantissime copie con la loro narrativa a sfondo cristiano.
Allora, nel mio piccolo vorrei
fornire alcune considerazioni per approcciare nuovamente il lettore al romanzo
d’autore, per farci venire di nuovo voglia di leggere. E magari, di leggere
romanzi d’ispirazione cristiana.
E’ incredibile come qui in
Italia gli scrittori cattolici siano ghettizzati: Giuseppe Pontiggia con il
toccante Nati due volte, Riccardo Bacchelli con Il Mulino del Po’, e tanti altri
ancora ignorati, mentre in Francia si sta riscoprendo la narrativa cristiana
dopo la scuola dei Bernanos, dei Peguy ed in Gran Bretagna hanno avuto Tolkien,
Lewis, Chesterton e Graham Green.
Tutti sono nomi blasonati, che
hanno raccolto premi e consensi, che vengono citati – qui da noi – con timore e
venerazione. Perché i nostri scrittori non contano?
Perché, soprattutto, noi
non li facciamo contare?
La risposta che mi sono
data, considerando con senso critico l’attuale panorama letterario, è che noi
cattolici subiamo ancora gli strascichi del complesso d’inferiorità in cui ci
siamo cacciati confrontandoci con la cultura relativista, nichilista, marxista
che ha dominato il secolo Ventesimo.
Specialmente dal secondo
dopoguerra in avanti, e poi con la crisi del 1968, la Chiesa (in quanto comunità
di cristiani) non ha potuto esimersi dal confrontarsi con la forza pregnante
delle ideologie. E per dialogare con gli “avversari” ha usato la loro stessa
arma, se così si può dire: la ragione. Non che questo non vada bene, la ragione
è lo strumento principe per dialogare con tutti, nel rispetto reciproco. Ce l’ha
ricordato anche Papa Benedetto XVI con il noto discorso di Ratisbona. Però, a
mio avviso, si è privilegiato di più l’esercizio della ragione a discapito
dell’uso della fantasia creativa, che è poi l’anima del capolavoro letterario.
Per spiegare la nostra fede
abbiamo prodotto una mole smisurata di saggi, come a dover giustificare con un
ragionamento convincente il fatto di credere; mentre i romanzi, che avrebbero
veramente potuto aiutare i non credenti (una narrazione avvincente e profonda
può essere in grado di “scardinare” l’anima dubbiosa anche più della ragione),
li abbiamo letteralmente lasciati nel cassetto di tanti autori validi.
A tutt’oggi anche scrittori
che magari hanno già pubblicato qualche volta, faticano a rimanere nel circuito
editoriale. E per i neofiti c’è ancora meno spazio, fagocitati tra le agenzie
letterarie, per la maggior parte a pagamento, e le case editrici che spesso
cestinano i romanzi d’esordio che arrivano loro.
Anche San Paolo ha detto di
dare ragione della speranza che è in noi, ma l’arte, la vera arte,
stupisce di più con la bellezza che col convincimento.
Ecco, a proposito, una
bellissima citazione di Corti:
“A volte mi succede di
paragonare i miei scritti agli archi romani, opere tutto considerato
particolari, consistenti in due sole colonne che in alto si fondono tra loro: le
mie due colonne sono – o almeno io cerco che siano – la verità e la bellezza.
Una delle soddisfazioni maggiori, nello scrivere, la provo quando riesco ad
afferrare la verità e a renderla compiutamente, con forza. Per presentarla agli
altri, però, è indispensabile anche la bellezza: ogni pagina deve incantare,
affascinare”.
(Eugenio Corti, in Paola
Scaglione, Parole Scolpite. I giorni e l’opera di Eugenio Corti, Ares, Milano,
2002, pag.52).
Se io ripenso alla mia
educazione cattolica, cosa ricordo? I genitori, la parrocchia, gli educatori,
gli insegnanti, le figure di riferimento… e i libri. La narrativa, come Le
confessioni di Sant’Agostino, i romanzi dei grandi scrittori dell’Ottocento, il
nostro Manzoni, Dante. I classici, insomma, che offrono la loro risposta alle
grandi domande sul significato della vita e dei problemi dell’umanità.
Ma nessun saggio.
Cosa leggeva Santa Teresa
Benedetta della Croce (Edith Stein) prima di convertirsi? L’autobiografia di
santa Teresa D’Avila! E Sant’Ignazio di Loyola quando, malato, cominciava a
mettere in dubbio il suo desiderio di compiere eroiche imprese militari? Le vite
dei santi, specialmente La vita di San Francesco d’Assisi.
E così via.
Allora, per tirare le fila di
questo mio primo lungo articolo, suggerirei al lettore al quale stiano a cuore
questi discorsi di fare una seria, attenta riflessione sulla qualità di quanto
ha letto finora, magari facendo a volte anche autocritica. Perché leggere un
tascabile leggero, d’evasione, quando potrei benissimo rilassarmi con un romanzo
a sfondo apologetico o religioso? Ad esempio con “Il padrone del mondo” di
Robert Benson, o così via? Sì, devo solo fare la fatica di cercarlo. Ma si
trova, con pazienza, si trova!
E dovremmo provare a guardare
alla pagina scritta attraverso il filtro di due categorie, chiamiamole
così, senza avere la pretesa di fare critica letteraria: Realismo ed
Autenticità.
Per realismo intendo la
capacità di descrivere tout court, di descrivere anche con
minuziosa esattezza una storia: particolari, concretezza, oggettività, ecc.
Per autenticità intendo
la capacità di infondere vita ai personaggi e alle ambientazioni. E’
questa la caratteristica del capolavoro letterario.
Non è detto che un romanzo
realistico (tipo tutti i best-seller famosi delle varie case editrici) siano
autentici, cioè veri (di fatti anche il lettore più smaliziato sa che,
pure se le scene sono descritte con minuziosa verità, in realtà sempre di
letteratura d’evasione si tratta), mentre alcuni romanzi autentici da cui
il lettore assorbe “materia viva”, non è detto che siano per forza rispondenti
ai canoni del realismo. Possono anche essere di fantascienza, fantasy (Tolkien),
e così via.
Paradossalmente ci piacciono i
romanzi contemporanei, quelli che vanno in voga, e ci immergiamo con avidità
nella lettura perché ci sembrano “veri” rispetto alle descrizioni noiose dei
romanzi del passato, senza accorgerci purtroppo che questi best-seller sono veri
quanto una pizza surgelata. Scusate il paragone.
Riprendo le parole di un altro
scrittore al Convegno di Letture, prima citato, sulla narrativa: il messicano
Paco Ignacio Taibo II:
“Credo senz’altro che il
romanzo non sia un ritratto realista e che ogni città che viene descritta
sia inventata, ricostruita. Credo che la finzione riordini la realtà
inventandola. Credo che la letteratura sia artificio, simulazione della
realtà, invenzione dopotutto. Credo che un buon romanzo parta da un patto
diabolico col lettore, dalla convenzione: "Mi crederai finché mi starai
leggendo". Credo che la chiave sia la credibilità e non la realtà.
Che non si lavori con le fotocopie, ma con l’essenza delle cose .… Credo che il
romanzo sia la vita e che la vita sia la letteratura e che tutte e due si
muovano in spazi condivisibili e intercambiabili”.
Qui si apre il dibattito tra
fantasia e realtà.
Finchè la letteratura ha
conservato un legame tra realtà e fantasia, essa ha prodotto opere pregevoli.
Purtroppo una cesura non
trascurabile è avvenuta intorno agli anni Ottanta: scrittori come Eco e Calvino,
spinti dalle loro convinzioni letterarie, hanno separato la realtà dalla verità
(un processo questo, in realtà, già iniziato da tempo e la cui origine non è da
ricercarsi certo in Italia) ed hanno usato la fantasia come risorsa per
sperimentare, per giocare con la realtà e con i suoi significati. Ma così
facendo, hanno decretato la morte del romanzo come fino ad allora lo si era
conosciuto.
Non è un caso che tutti i
critici siano d’accordo nel dire che dopo il 1980 (anno di pubblicazione per
Umberto Eco de “Il nome della rosa”, e l’anno prima per Calvino di “Se una notte
d’inverno un viaggiatore”) la letteratura stia languendo, passando per vie
piatte, sperimentali, intellettuali, intimistiche.
Cito dal sito di Antonio
Spadaro:
“Eco e Calvino,
pur diversi, sono uniti da una sorta di illuminismo scettico e da un'idea di
letteratura combinatoria, citazionista, labirintica tra enciclopedia e
cruciverba (Ée dunque da una sfiducia radicale per la narrazione!). Si può forse
affermare che la "vendetta" del mercato su Eco è avvenuta nel 1994 con il
successo della Tamaro (2 milioni di copie vendute) che, pur con toni da saggezza
prêt à porter, ha il coraggio di mettere in scena sentimenti elementari, comuni.
Con Eco comincia la marcia trionfale della scrittura euforica che accantona le
problematiche profonde della letteratura, compresa quella della tensione
linguistica, in favore di un'esibizione spavalda e geniale del lato comunicativo
della parola applicato ad un congegno di fascinazione fabulatoria accattivante.
L'aspetto positivo è il rinato gusto per il racconto. Si apre la stagione del
romanzo di successo (e, a volte, anche di consumo).”
La frattura tra fantasia,
usata solo come artificio, come gioco fra i significanti, e tra realtà ha
portato al moltiplicarsi dei romanzi d’evasione.
I libri sono diventati preda
delle case editrici e degli editors. Si scrivono a tavolino. Si pianificano le
trame.
L’ispirazione, che dovrebbe
avere a che fare con la vita vera, viene invece messa da parte perché il più
delle volte è la vita vera stessa ad essere “automatizzata”, dentro una società
che vuole omologare tutto e tutti tramite il demone della globalizzazione.
Mary Flannery O’Connor diceva
che la scrittura potente, quella vera destinata ad essere intramontabile e a
valicare persino i confini delle nazioni, è un corpo a corpo con l’ispirazione:
“lo scrittore deve lottare «come Giacobbe con l’angelo […]. La
stesura di un romanzo degno di questo nome è una sorta di duello personale».
«La narrativa riguarda
tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate d’impolverarvi,
non dovreste tentar di scrivere narrativa».
A queste cose «bisogna dar
corpo, creare un mondo dotato di peso e di spessore»: scrivere narrativa non
è questione di “dire cose”, ma di “farle vedere” al lettore.
Prendo dall’articolo di
Spadaro: “Il volto violento della grazia”:
«Il mondo dello scrittore
di narrativa è colmo di materia», mentre spesso si crede che siano le emozioni
tumultuose o le idee grandiose a fare un racconto. Nient’affatto: con i
concetti astratti e i presupposti teorici non si fanno storie; le cose che
vediamo, ascoltiamo, annusiamo e tocchiamo ci condizionano molto prima che
iniziamo a credere in qualcosa che sia astratto e dunque la caratteristica
principale, e più evidente, della narrativa «è quella d’affrontare la realtà
tramite ciò che si può vedere, sentire, odorare, gustare, toccare. È questa una
cosa che non si può imparare solo con la testa; va appresa come un’abitudine,
come un modo abituale di guardare le cose». E quest’abitudine deve mettere
radici profonde in tutta la personalità dell’artista. È la materia e la
concretezza della vita che danno realtà al mistero del nostro essere nel mondo”.
Si viene così a delineare il
senso cristiano dello scrivere narrativa o, come recita il titolo di
quest’articolo, il fatto che il romanzo cristiano non sia un genere letterario (giacchè
può appartenere alla categoria del thriller, della fantascienza, del romanzo
storico…) ma un modo di scrivere:
«Il fondamento morale della
Poesia [n.d.r.: e per esteso anche della narrativa ] è il nominare in maniera
accurata le cose di Dio …rendere quanta più giustizia possibile all’universo
visibile» perché esso «è un riflesso di quello invisibile».
Sulla rivista apologetica “Il
timone” ho trovato un interessante articolo di Roberto Beretta che riporta
un’intervista a Luca Doninelli, critico letterario e scrittore cristiano.
“Il buon cristiano si vede
dal romanzo? Anche. E dice Doninelli: Lo scaffale della letteratura è
fondamentale per un cattolico, perché il cristianesimo è un racconto. Anzi,
secondo me uno dei sintomi della crisi della fede in Italia è il fatto che non
produce più narrativa. Molta saggistica sì, teologia, sociologia. Ma il
cristianesimo non può essere solo un dato intellettuale”.
E Doninelli cita i 10 libri
che dovrebbe contenere lo scaffale cristiano di narrativa:
Le Confessioni di Sant’Agostino,
La Divina Commedia di Dante, La Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, tutta la
drammaturgia di William Shakespeare, gli Inni alla notte di Novalis e La
cristianità ovvero l’Europa dello stesso poeta tedesco, il francese Charles
Peguy, l’inglese Thomas S. Eliot, i russi, uno su tutti Dostoevskij, Hemingway
(così leggendolo si capisce fino a dove conduce il non accettare la proposta di
fede cristiana), l’americana cattolica Mary Flannery O’Connor, i nostri
Alessandro Manzoni, Clemente Rebora e Giuseppe Ungaretti.
Questa è la lista compilata da
Doninelli. Io aggiungerei Tolkien e Lewis, e tutti i grandi romanzieri europei
dell’Ottocento.
Concludo col decalogo di
Pontiggia, che fa molto riflettere: le dieci regole per scrivere; le prendo dal
sito di Letture:
1)
Ricòrdati che la parola è il mezzo di comunicazione più antico, il primo dopo il
gesto, e comprensibilmente il più logoro. Defraudata, degradata, decrepita,
defunta, la parola può però rinascere. Scrivere è trovare il punto di
intersezione tra la paura di ripetere e l’avventura di scoprire.
2)
Alle soglie del terzo Millennio le tradizioni si moltiplicano, si attraversano,
si dissolvono. L’Europa è diventata Africa, Asia, America, Australia. Non ancora
Antartide, ma perché è disabitata. Una volta la tradizione classica dominava
l’Occidente, oggi convive con le altre. Non propone più modelli, ma esempi. È
finita l’idea di tradizione cara a Hegel e a Sainte-Beuve, a Croce e a Eliot e a
Curtius e ai molteplici canoni, dal Medioevo a Steiner e a Bloom. È scomparso un
miraggio. Sono rimasti i classici. Il problema non è se siano attuali, loro lo
sono a priori (basta, a posteriori, leggerli), il problema è se siamo attuali
noi. Leggi Apuleio e il Satyricon. Vedrai che non siamo noi a visitarli,
ma loro a visitare noi.
3)
Evadere dalla gabbia dei generi letterari. Non alla maniera di Croce, che ne
aveva creati altri due, la poesia e la non poesia, né alla maniera della
contaminatio latina e del bricolage contemporaneo, che li conservano
mescolandoli. Semmai una prosa come intersezione di piani che hanno dimenticato
di appartenere a un genere.
4)
Non si è mai aspirato tanto al romanzo come nell’epoca in cui si è tanto parlato
del suo declino o del suo decesso. Lascialo a chi abbia un progetto che diventi
struttura e linguaggio. Lìberati dall’ossessione stupida sia di farlo sia di
distruggerlo, non meno rovinosa della prima.
5)
La narrativa rischia di essere soffocata dall’ipertrofia della critica, che
occupa – come una piovra mostruosa e inevitabile, temibile e utile – qualsiasi
spazio. La colpa è della narrativa, che la osserva ipnotizzata e nei casi
peggiori, i più frequenti, la segue anziché precederla. Spesso lo fa anche
l’avanguardia, il reparto che dovrebbe precedere le truppe.
6)
Ricòrdati che quando scrivi non stai risolvendo i mali del mondo e neanche
quelli del tuo Paese. Chi vuol essere ricordato per le buone intenzioni sarà,
nei casi migliori, ricordato per queste. Goffredo Mameli c’è riuscito. I
narratori di solito hanno ambizioni meno altruistiche e i posteri, come diceva
Jules Renard, hanno un debole per lo stile.
7)
La critica di solito rimprovera a un artista di non essere un altro. Così molti
rimproverano alla narrativa di non essere giornalismo o sociologia o politica o
esotismo o consolazione o Storia. Il romanzo nell’Ottocento ha creduto in questi
equivoci e sappiamo quanto l’equivoco possa essere fecondo, se pensiamo ai
matrimoni riusciti. Oggi il romanzo deve scoprire ogni volta la propria
identità. Lo si scrive anche per questo.
8)
Non dimenticare il lettore. Non il lettore massa da accudire nel suo legittimo
bisogno di qualche ora di distrazione, né il lettore snob da accontentare nelle
sue piccole voglie da gravidanza isterica. Non si scrive per sé, come ti dice
l’esordiente quando ti porge il manoscritto, né si scrive per gli altri, come
dicono gli apologeti della letteratura commerciale o i missionari della
letteratura sociale. Si scrive per quel sé che coincide idealmente con gli
altri.
9)
Eversione linguistica e innovazione dissimulata non sono tanto distanti come si
suppone. Sembrano opposti ma, visti più da vicino, vogliono la stessa cosa,
l’una fingendo di distruggere, l’altra di conservare.
10)
Il Novecento ha visto il trionfo e insieme il naufragio della Storia. Tutto
diventa Storia, ma questo riguarda il passato. Il narratore non racconta la
Storia, il narratore la fa.
Elisabetta Modena
Fonte :
Note biografiche sull'Autrice Elisabetta Modena :
www.artcurel.it/ARTCUREL/ARTE/LETTERATURA/ElisabettaModenaBio.htm .
Per leggere alcuni scritti di Elisabetta Modena si
può consultare la sua Rubrica su ARTCUREL :
"Leggere la Nuova Narrativa Cristiana",
oppure i Blog :
www.elisabettam.splinder.com ; http://biblogit.splinder.com
. E-mail:
francescotex@interfree.it .
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