martedì 5 agosto 2025

San Luigi Orione (1872-1940), Apostolo della Carità

San Luigi Orione (1872-1940), Apostolo della Carità

Fondatore della Congregazione dei Figli della Divina Provvidenza e dellele Piccole Missionarie della Carità; gli Eremiti della Divina Provvidenza e le Suore Sacramentine
 



Formazione

Luigi Orione nacque a Pontecurone, in diocesi di Tortona, il 23 giugno 1872. Il padre era selciatore di strade; la madre, donna di casa, di profonda fede e di alto senso educativo. Pur avvertendo la vocazione al sacerdozio, per tre anni (1882-1885) aiutò il padre come garzone selciatore.

Il 14 settembre 1885, a 13 anni, venne accolto nel convento francescano di Voghera (Pavia), ma una polmonite ne mise in pericolo la vita e dovette tornare in famiglia nel giugno 1886. Dall'ottobre 1886 all'agosto 1889 fu allievo dell'Oratorio di Valdocco in Torino. San Giovanni Bosco ne notò le qualità e lo annoverò tra i suoi prediletti assicurandolo «noi saremo sempre amici». A Torino conobbe anche le opere di carità di San Giuseppe Benedetto Cottolengo, vicine all'Oratorio salesiano. 

Fondatore chierico

Il 16 ottobre 1889 iniziò il corso di filosofia nel seminario di Tortona. Ancora giovane chierico fu sensibile ai problemi sociali ed ecclesiali che agitavano quell'epoca travagliata. Si dedicò alla solidarietà verso il prossimo con la Società di Mutuo Soccorso San Marziano e la Conferenza di San Vincenzo. A vent'anni, scriveva: «Vi è un supremo bisogno ed un supremo rimedio per rimarginare le piaghe di questa povera patria, così bella e così infelice! Impossessarsi del cuore e dell'affetto del popolo ed illuminare la gioventù: ed effondere in tutti la grande idea della redenzione cattolica col Papa e pel Papa. Anime! Anime!». Mosso da tale visione apostolica, aperse in Tortona, il 3 luglio 1892, il primo Oratorio per curare l'educazione cristiana dei ragazzi. L'anno seguente, il 15 ottobre 1893, Luigi Orione, chierico di 21 anni, aprì un Collegio nel rione San Bernardino, destinato a ragazzi poveri. 

Il 13 aprile 1895, Luigi Orione fu ordinato sacerdote e nella medesima celebrazione il Vescovo impose l'abito clericale a sei allievi del suo collegio. Sviluppò sempre più l'apostolato fra i giovani con l'apertura di nuove case a Mornico Losana (Pavia), a Noto in Sicilia, a San Remo, a Roma.  

La Famiglia religiosa

Attorno al giovane Fondatore crebbero chierici e sacerdoti che formarono il primo nucleo della Piccola Opera della Divina Provvidenza. Nel 1899 iniziò il ramo degli Eremiti della Divina Provvidenza dedicati al benedettino «ora et labora», soprattutto nelle colonie agricole che, in quell'epoca, rispondevano all'esigenza di elevazione sociale e cristiana del mondo rurale. 

Il Vescovo di Tortona, Mons. Igino Bandi, con Decreto del 21 marzo 1903, riconobbe canonicamente la Congregazione religiosa maschile della Piccola Opera della Divina Provvidenza, i Figli della Divina Provvidenza (sacerdoti, fratelli coadiutori ed eremiti), e ne sancì il carisma espresso apostolicamente nel «collaborare per portare i piccoli, i poveri e il popolo alla Chiesa e al Papa, mediante le opere di carità», professato con un IV voto di speciale «fedeltà al Papa». Confortato dal personale consiglio di Leone XIII, Don Orione pose nelle prime Costituzioni del 1904, tra gli scopi della nuova Congregazione, quello di lavorare per «ottenere l'unione delle Chiese separate».

Animato da un grande amore alla Chiesa e ai suoi Pastori e dalla passione per la conquista delle Anime, si interessò attivamente dei problemi emergenti del tempo, quali la libertà e l'unità della Chiesa, la questione romana, il modernismo, il socialismo, la scristianizzazione delle masse operaie. 

 

Sulle macerie dei terremoti

Dopo il terremoto del dicembre 1908, che lasciò tra le rovine 90.000 morti, Don Orione accorse a Reggio Calabria e Messina per prestare soccorso specialmente agli orfani e divenne promotore delle opere di ricostruzione civile e religiosa. Per diretta volontà di Pio X fu nominato Vicario Generale della diocesi di Messina.

Lasciata la Sicilia dopo tre anni, poté nuovamente dedicarsi alla formazione e allo sviluppo della Congregazione. Nel dicembre 1913 inviò la prima spedizione di missionari in Brasile. 

Rinnovò gli eroismi di soccorso ai terremotati dopo il cataclisma del 13 gennaio 1915 che sconvolse la Marsica con quasi 30.000 vittime. Erano gli anni della prima guerra mondiale. Don Orione percorse più volte l'Italia per sostenere le varie attività caritative, per aiutare spiritualmente e materialmente persone d'ogni ceto, per suscitare e coltivare vocazioni sacerdotali e religiose.  

Le Piccole Suore Missionarie della Carità 

A vent'anni dalla fondazione dei Figli della Divina Provvidenza, come in «pianta unica con molti rami», il 29 giugno 1915, diede inizio alla Congregazione delle Piccole Suore Missionarie della Carità, animate dal medesimo carisma e votate a fare sperimentare ai poveri la Provvidenza di Dio e la maternità della Chiesa attraverso la carità verso i poveri e gli infermi, i servizi d'ogni genere negli istituti di educazione, negli asili per l'infanzia e nelle varie opere pastorali. Nel 1927, iniziò anche un ramo contemplativo, le Suore Sacramentine non vedenti adoratrici, cui si aggiungeranno successivamente anche le Contemplative di Gesù Crocifisso. 

Coinvolse pure i laici sui sentieri della carità e dell'impegno civile dando impulso alle associazioni delle «Dame della Divina Provvidenza», degli «Ex Allievi» e degli «Amici». In seguito, compiendo precedenti intuizioni, nella Piccola Opera della Divina Provvidenza sarà costituito anche l'Istituto Secolare Orionino e il Movimento Laicale Orionino



Sviluppi apostolici

Dopo la prima guerra mondiale (1914-1918) si moltiplicarono scuole, collegi, colonie agricole, opere caritative e assistenziali. In particolare, Don Orione fece sorgere alla periferia delle grandi città i Piccoli Cottolengo: fu così a Genova e a Milano; fu così a Buenos Aires, a San Paulo del Brasile, a Santiago del Cile. Tali istituzioni, destinate ad accogliere i fratelli più sofferenti e bisognosi, erano da lui intese come «nuovi pulpiti» da cui parlare di Cristo e della Chiesa, «fari di fede e di civiltà».

Lo zelo missionario di Don Orione, che già si era espresso con l'invio in Brasile nel 1913 dei primi suoi religiosi, si estese poi in Argentina e Uruguay (1921), in Palestina (1921), in Polonia (1923), a Rodi (1925), negli Stati Uniti d'America (1934), in Inghilterra (1935), in Albania (1936). Egli stesso, nel 1921-1922 e nel 1934-1937, compì due viaggi missionari nell'America Latina, in Argentina, Brasile, Uruguay, spingendosi fino al Cile.

Godette della stima personale di Pio X, di Benedetto XV, di Pio XI, Pio XII e delle Autorità della Santa Sede che gli affidarono molti delicati incarichi per risolvere problemi e sanare ferite sia all'interno della Chiesa che nei rapporti con il mondo civile. Si prodigò con prudenza e carità nelle questioni del modernismo, nella promozione della Conciliazione tra Stato e Chiesa in Italia, nell'accoglienza e riabilitazione dei sacerdoti «lapsi».

Fu predicatore, confessore e organizzatore instancabile di pellegrinaggi, missioni, processioni, presepi viventi e altre manifestazioni popolari della fede. Grande devoto della Madonna, ne promosse la devozione con ogni mezzo. Con il lavoro manuale dei suoi chierici innalzò i Santuari della Madonna della Guardia a Tortona (1931) e della Madonna di Caravaggio a Fumo (1938).  


Morte e gloria

Nell'inverno del 1940, già sofferente di angina pectoris e dopo due attacchi di cuore aggravati da crisi respiratorie, Don Orione si lasciò convincere dai confratelli e dai medici a cercare sollievo in una casa della Piccola Opera a Sanremo, anche se, come diceva, «non è tra le palme che voglio vivere e morire, ma tra i poveri che sono Gesù Cristo». Dopo soli tre giorni, circondato dall'affetto e dalle premure dei confratelli, Don Orione morì il 12 marzo 1940, sospirando: «Gesù! Gesù! Vado». 

La sua salma, contesa dalla devozione di tanti devoti, ricevette solenni onoranze a Sanremo, Genova, Milano, terminando l'itinerario a Tortona, ove venne tumulata nella cripta del santuario della Madonna della Guardia. Il suo corpo, trovato intatto alla prima riesumazione del 1965, venne posto in onore nel medesimo santuario dopo che, il 26 ottobre 1980, Papa Giovanni Paolo II iscrisse Don Luigi Orione nell'Albo dei Beati.

E' stato proclamato santo da Giovanni Paolo II il 16 maggio 2004, data di culto in cui lo ricordano ogni anno la sua Congregazione e la diocesi di Milano.


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Fonte: www.vatican.va/news_services/liturgy/saints/ns_lit_doc_20040516_orione_it.html

domenica 3 agosto 2025

Giubileo dei Giovani, Veglia di Preghiera presieduta da Papa Leone XIV: le tre domande


GIUBILEO DEI GIOVANI

VEGLIA DI PREGHIERA PRESIEDUTA DA PAPA LEONE XIV

Tor Vergata, Sabato, 2 agosto 2025

Le tre domande



DOMANDA 1 – Amicizia

Santo Padre, sono Dulce María, ho 23 anni e vengo dal Messico. Mi rivolgo a Lei facendomi portavoce di una realtà che viviamo noi giovani in tante parti del mondo. Siamo figli del nostro tempo. Viviamo una cultura che ci appartiene e senza che ce ne accorgiamo ci plasma; è segnata dalla tecnologia soprattutto nel campo dei social network. Ci illudiamo spesso di avere tanti amici e di creare legami di vicinanza mentre sempre più spesso facciamo esperienza di tante forme di solitudine. Siamo vicini e connessi con tante persone eppure, non sono legami veri e duraturi, ma effimeri e spesso illusori.
Santo Padre, ecco la mia domanda: come possiamo trovare un’amicizia sincera e un amore genuino che aprono alla vera speranza? Come la fede può aiutarci a costruire il nostro futuro?

Risposta di Papa Leone XIV:

Carissimi giovani, le relazioni umane, le nostre relazioni con altre persone sono indispensabili per ciascuno di noi, a cominciare dal fatto che tutti gli uomini e le donne del mondo nascono figli di qualcuno. La nostra vita inizia grazie a un legame ed è attraverso legami che noi cresciamo. In questo processo, la cultura svolge un ruolo fondamentale: è il codice col quale interpretiamo noi stessi e il mondo. Come un vocabolario, ogni cultura contiene sia parole nobili sia parole volgari, sia valori sia errori, che bisogna imparare a riconoscere. Cercando con passione la verità, noi non solo riceviamo una cultura, ma la trasformiamo attraverso scelte di vita. La verità, infatti, è un legame che unisce le parole alle cose, i nomi ai volti. La menzogna, invece, stacca questi aspetti, generando confusione ed equivoco.

Ora, tra le molte connessioni culturali che caratterizzano la nostra vita, internet e i media sono diventati «una straordinaria opportunità di dialogo, incontro e scambio tra le persone, oltre che di accesso all’informazione e alla conoscenza» (Papa Francesco, Christus vivit, 87). Questi strumenti risultano però ambigui quando sono dominati da logiche commerciali e da interessi che spezzano le nostre relazioni in mille intermittenze. A proposito, Papa Francesco ricordava che talvolta i «meccanismi della comunicazione, della pubblicità e delle reti sociali possono essere utilizzati per farci diventare soggetti addormentati, dipendenti dal consumo» (Christus vivit, 105). Allora le nostre relazioni diventano confuse, sospese o instabili. Inoltre, come sapete, oggi ci sono algoritmi che ci dicono quello che dobbiamo vedere, quello che dobbiamo pensare, e quali dovrebbero essere i nostri amici. E allora le nostre relazioni diventano confuse, a volte ansiose. È che quando lo strumento domina sull’uomo, l’uomo diventa uno strumento: sì, strumento di mercato, merce a sua volta. Solo relazioni sincere e legami stabili fanno crescere storie di vita buona.

Carissimi, ogni persona desidera naturalmente questa vita buona, come i polmoni tendono all’aria, ma quanto è difficile trovarla! Quanto è difficile trovare un’amicizia autentica! Secoli fa, Sant’Agostino ha colto il profondo desiderio del nostro cuore – è il desiderio di ogni cuore umano – anche senza conoscere lo sviluppo tecnologico di oggi. Anche lui è passato attraverso una giovinezza burrascosa: non si è però accontentato, non ha messo a tacere il grido del suo cuore. Agostino cercava la verità, la verità che non illude, la bellezza che non passa. E come l’ha trovata? Come ha trovato un’amicizia sincera, un amore capace di dare speranza? Incontrando chi già lo stava cercando, incontrando Gesù Cristo. Come ha costruito il suo futuro? Seguendo Lui, suo amico da sempre. Ecco le sue parole: «Nessuna amicizia è fedele se non in Cristo. È in Lui solo che essa può essere felice ed eterna» (Contro le due lettere dei pelagiani, I, I, 1); e la vera amicizia è sempre in Gesù Cristo con fiducia, amore e rispetto. «Ama veramente il suo amico colui che nel suo amico ama Dio» (Discorso 336), ci dice Sant’Agostino. L’amicizia con Cristo, che sta alla base delle fede, non è solo un aiuto tra tanti altri per costruire il futuro: è la nostra stella polare. Come scriveva il beato Pier Giorgio Frassati, «vivere senza fede, senza un patrimonio da difendere, senza sostenere una lotta per la Verità non è vivere, ma vivacchiare» (Lettere, 27 febbraio 1925). Quando le nostre amicizie riflettono questo intenso legame con Gesù, diventano certamente sincere, generose e vere.

Cari giovani, vogliatevi bene tra di voi! Volersi bene in Cristo. Saper vedere Gesù negli altri. L’amicizia può veramente cambiare il mondo. L’amicizia è una strada verso la pace.


DOMANDA 2 – Coraggio per scegliere

Santo Padre, mi chiamo Gaia, ho 19 anni e sono italiana. Questa sera tutti noi giovani qui presenti vorremmo parlarLe dei nostri sogni, speranze e dubbi. I nostri anni sono segnati dalle decisioni importanti che siamo chiamati a prendere per orientare la nostra vita futura. Tuttavia, per il clima di incertezza che ci circonda siamo tentati di rimandare e la paura per un futuro sconosciuto ci paralizza. Sappiamo che scegliere equivale a rinunciare a qualcosa e questo ci blocca, nonostante tutto percepiamo che la speranza indica obiettivi raggiungibili anche se segnati dalla precarietà del momento presente.
Santo Padre, le chiediamo: dove troviamo il coraggio per scegliere? Come possiamo essere coraggiosi e vivere l’avventura della libertà viva, compiendo scelte radicali e cariche di significato?

Risposta di Papa Leone XIV:

Grazie per questa domanda. La pregunta es ¿cómo encontrar la valentía para escoger? Where can we find the courage to choose and to make wise decisions? La scelta è un atto umano fondamentale. Osservandolo con attenzione, capiamo che non si tratta solo di scegliere qualcosa, ma di scegliere qualcuno. Quando scegliamo, in senso forte, decidiamo chi vogliamo diventare. La scelta per eccellenza, infatti, è la decisione per la nostra vita: quale uomo vuoi essere? Quale donna vuoi essere? Carissimi giovani, a scegliere si impara attraverso le prove della vita, e prima di tutto ricordando che noi siamo stati scelti. Tale memoria va esplorata ed educata. Abbiamo ricevuto la vita gratis, senza sceglierla! All’origine di noi stessi non c’è stata una nostra decisione, ma un amore che ci ha voluti. Nel corso dell’esistenza, si dimostra davvero amico chi ci aiuta a riconoscere e rinnovare questa grazia nelle scelte che siamo chiamati a prendere.

Cari giovani, avete detto bene: “scegliere significa anche rinunciare ad altro, e questo a volte ci blocca”. Per essere liberi, occorre partire dal fondamento stabile, dalla roccia che sostiene i nostri passi. Questa roccia è un amore che ci precede, ci sorprende e ci supera infinitamente: è l’amore di Dio. Perciò davanti a Lui la scelta diventa un giudizio che non toglie alcun bene, ma porta sempre al meglio.

Il coraggio per scegliere viene dall’amore, che Dio ci manifesta in Cristo. È Lui che ci ha amato con tutto sé stesso, salvando il mondo e mostrandoci così che il dono della vita è la via per realizzare la nostra persona. Per questo, l’incontro con Gesù corrisponde alle attese più profonde del nostro cuore, perché Gesù è l’Amore di Dio fatto uomo.

A riguardo, venticinque anni fa, proprio qui dove ci troviamo, San Giovanni Paolo II disse: «è Gesù che cercate quando sognate la felicità; è Lui che vi aspetta quando niente vi soddisfa di quello che trovate; è Lui la bellezza che tanto vi attrae; è Lui che vi provoca con quella sete di radicalità che non vi permette di adattarvi al compromesso; è Lui che vi spinge a deporre le maschere che rendono falsa la vita; è Lui che vi legge nel cuore le decisioni più vere che altri vorrebbero soffocare» (Veglia di preghiera nella XV Giornata mondiale della Gioventù, 19 agosto 2000). La paura lascia allora spazio alla speranza, perché siamo certi che Dio porta a compimento ciò che inizia.

Riconosciamo la sua fedeltà nelle parole di chi ama davvero, perché è stato davvero amato. “Tu sei la mia vita, Signore”: è ciò che un sacerdote e una consacrata pronunciano pieni di gioia e di libertà. “Tu sei la mia vita, Signore”. “Accolgo te come mia sposa e come mio sposo”: è la frase che trasforma l’amore dell’uomo e della donna in segno efficace dell’amore di Dio nel matrimonio. Ecco scelte radicali, scelte piene di significato: il matrimonio, l’ordine sacro, e la consacrazione religiosa esprimono il dono di sé, libero e liberante, che ci rende davvero felici. E lì troviamo la felicità: quando impariamo a donare noi stessi, a donare la vita per gli altri.

Queste scelte danno senso alla nostra vita, trasformandola a immagine dell’Amore perfetto, che l’ha creata e redenta da ogni male, anche dalla morte. Dico questo stasera pensando a due ragazze, María, ventenne, spagnola, e Pascale, diciottenne, egiziana. Entrambe hanno scelto di venire a Roma per il Giubileo dei Giovani, e la morte le ha colte in questi giorni. Preghiamo insieme per loro; preghiamo anche per i loro familiari, i loro amici e le loro comunità. Gesù Risorto le accolga nella pace e nella gioia del suo Regno. E ancora vorrei chiedere le vostre preghiere per un altro amico, un ragazzo spagnolo, Ignacio Gonzalvez, che è stato ricoverato all’ospedale “Bambino Gesù”: preghiamo per lui, per la sua salute.

Trovate il coraggio di fare le scelte difficili e dire a Gesù: Tu sei la mia vita, Signore”. “Lord, You are my life”. Grazie.


DOMANDA 3 – Richiamo del bene e valore del silenzio

Santo Padre, mi chiamo Will. Ho 20 anni e vengo dagli stati Uniti. Vorrei farLe una domanda a nome di tanti giovani intorno a noi che desiderano, nei loro cuori, qualcosa di più profondo. Siamo attratti dalla vita interiore anche se a prima vista veniamo giudicati come una generazione superficiale e spensierata. Sentiamo nel profondo di noi stessi il richiamo al bello e al bene come fonte di verità. Il valore del silenzio come in questa Veglia ci affascina, anche se incute in alcuni momenti paura per il senso di vuoto.
Santo Padre, le chiedo: come possiamo incontrare veramente il Signore Risorto nella nostra vita ed essere sicuri della sua presenza anche in mezzo alle difficoltà e incertezze?

Risposta di Papa Leone XIV:

Proprio all’inizio del Documento con il quale ha indetto il Giubileo, Papa Francesco scrisse che «nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene» (Spes non confundit, 1). Dire “cuore”, nel linguaggio biblico, significa dire “coscienza”: poiché ogni persona desidera il bene nel suo cuore, da tale sorgente scaturisce la speranza di accoglierlo. Ma che cos’è il “bene”? Per rispondere a questa domanda, occorre un testimone: qualcuno che ci faccia del bene. Più ancora, occorre qualcuno che sia il nostro bene, ascoltando con amore il desiderio che freme nella nostra coscienza. Senza questi testimoni non saremmo nati, né saremmo cresciuti nel bene: come veri amici, essi sostengono il comune desiderio di bene, aiutandoci a realizzarlo nelle scelte di ogni giorno.

Carissimi giovani, l’amico che sempre accompagna la nostra coscienza è Gesù. Volete incontrare veramente il Signore Risorto? Ascoltate la sua parola, che è Vangelo di salvezza! Cercate la giustizia, rinnovando il modo di vivere, per costruire un mondo più umano! Servite il povero, testimoniando il bene che vorremmo sempre ricevere dal prossimo! Rimanete uniti con Gesù nell’Eucaristia. Adorate l’Eucarestia, fonte della vita eterna! Studiate, lavorate, amate secondo lo stile di Gesù, il Maestro buono che cammina sempre al nostro fianco.

Ad ogni passo, mentre cerchiamo il bene, chiediamogli: resta con noi, Signore (cfr Lc 24,29)! Resta con noi Signore! Resta con noi, perché senza di Te non possiamo fare quel bene che desideriamo. Tu vuoi il nostro bene; Tu, Signore, sei il nostro bene. Chi ti incontra, desidera che anche altri ii incontrino, perché la tua parola è luce più chiara di ogni stella, che illumina anche la notte più nera. Come amava ripetere Papa Benedetto XVI, chi crede, non è mai solo. Perciò incontriamo veramente Cristo nella Chiesa, cioè nella comunione di coloro che il Signore stesso riunisce attorno a sé per farsi incontro, lungo la storia, ad ogni uomo che sinceramente lo cerca. Quanto ha bisogno il mondo di missionari del Vangelo che siano testimoni di giustizia e di pace! Quanto ha bisogno il futuro di uomini e donne che siano testimoni di speranza! Ecco, carissimi giovani, il compito che il Signore Risorto ci consegna.

Sant’Agostino ha scritto: «L’uomo, una particella del tuo creato, o Dio, vuole lodarti. Sei Tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatti per Te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in Te. Che io ti cerchi, Signore, invocandoti e ti invochi credendoti» (Confessioni, I). Accostando questa invocazione alle vostre domande, vi affido una preghiera: “Grazie, Gesù, per averci raggiunto: il mio desiderio è quello di rimanere tra i Tuoi amici, perché, abbracciando Te, possa diventare compagno di cammino per chiunque mi incontrerà. Fa’, o Signore, che chi mi incontra, possa incontrare Te, pur attraverso i miei limiti, pur attraverso le mie fragilità”. Attraverso queste parole, il nostro dialogo continuerà ogni volta che guarderemo al Crocifisso: in Lui si incontreranno i nostri cuori. Ogni volta che adoriamo Cristo nell’Eucaristia, i nostri cuori si uniscono in Lui. Perseverate dunque nella fede con gioia e coraggio. E così possiamo dire: grazie Gesù per averci amati; grazie Gesù per averci chiamati. Resta con noi, Signore! Resta con noi!






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domenica 27 luglio 2025

Congregazione Mariana delle Case della Carità, Le Tre Mense: Eucaristia, Parola di Dio e Servizio ai fratelli bisognosi


Congregazione Mariana delle Case della Carità

Le Tre Mense: Eucaristia, Parola di Dio e Servizio ai fratelli bisognosi




La Casa della Carità, è nata nel 1941 dall’intuizione di Don Mario Prandi (1910-1986), Parroco di Fontanaluccia (Diocesi di Reggio Emilia), per rispondere ai bisogno di assistenza di alcuni membri della parrocchia; una sorta di piccolo Cottolengo, e non fa altro che riprendere ciò che Gesù ha lasciato come eredità alla sua chiesa e che fin dagli inizi le prime comunità cristiane hanno cercato di mettere in pratica: cercare di vivere ascoltando la Parola di Dio, ritrovandosi insieme per l’eucaristia e curandosi dei propri poveri.
Queste Case, però, non sono opere assistenziali ma vanno intese come il naturale completamento della Parrocchia, pensando la Casa come il tabernacolo dove viene accolto Gesù povero; questo tabernacolo viene a completare e ad essere un tutt’uno con il tabernacolo che esiste nella chiesa della Parrocchia.

La Casa della Carità ha al centro della sua vita Gesù Cristo, lodato, contemplato ed accolto in vari modi e diverse situazioni, ma tutto parte da Lui e a Lui ritorna. Vive una dimensione familiare: famiglia tra le famiglie, famiglia della Comunità parrocchiale, in ogni caso è sempre l’aspetto di famiglia allargata che prevale ed anzi rimane unico punto di riferimento sul modo sia di strutturarsi che di organizzarsi.

L’intuizione di don Mario ci porta a riconoscere la nascita della Casa della Carità dentro l’Eucaristia, quindi legata in modo indissolubile alla struttura ecclesiale (Vescovo – Parroco – Case della Carità). Qui si fonda il legame con la Chiesa che la Congregazione Mariana delle Case della Carità deve vivere, come “custode e garante” di questo carisma nelle parrocchie.

La Casa della Carità nasce dalla Parrocchia come espansione dell’Eucaristia in essa celebrata e la Parrocchia non è vera se l’Eucaristia non continua nella carità, che ovviamente può esprimersi anche in altri modi che non sono la Casa della Carità, come prolungamento della Mensa celebrata.

La Congregazione Mariana della Casa della Carità è il testimone di ciò che ha visto e vissuto, di ciò che don Mario ha intuito del mistero di Cristo. Come S. Mattia non è stato scelto perché “santo” o migliore degli altri, ma perché testimone della Risurrezione così oggi la Congregazione è chiamata a questa testimonianza delle meraviglie che ha visto di Gesù.

In questo legame profondo con la Parrocchia e la Diocesi, la Casa della Carità deve mettersi al servizio della Chiesa locale, ma come diceva don Mario: ” è la comunità parrocchiale che si vale di operatori anche specializzati e preparati altrove, per una proprio inderogabile presenza con i poveri”. Questa preparazione e formazione “altrove” è compito specifico della Congregazione.

Essa offre alle comunità locali gli strumenti per formare il “personale specializzato” indispensabile alla vita della Casa della Carità, perché sia erede di uno spirito che il Signore ha donato a don Mario, perché sia segno visibile del primato di Dio.

Alla Congregazione spetta il compito di formare i Congregati alla spiritualità dei Tre Pani, perché siano fedeli alla sacralità della Casa, alla sua dimensione liturgica-cultuale e diffondano negli ambienti e nello stato di vita in cui si trovano lo spirito delle Case della Carità.

Essere figli della Chiesa locale, educa nella vita della Casa ad accogliere ogni giorno quel dono grande che è l’appartenenza a tutta la famiglia dei figli di Dio.

Così com’è, anche povera e piccola, spiritualmente ed umanamente, la Parrocchia ci porta comunque a riconoscere che Gesù, per primo, viene a noi con la sua Grazia.
Sappiamo di avere un dono grande da portare e riconosciamo di avere molto da ricevere dalle comunità parrocchiali e diocesane.
La vita di Parrocchia, con i suoi momenti formativi – liturgici – di incontro – di festa, ci aiuta a vivere la nostra fede, la nostra formazione cristiana insieme a tutto il Popolo di Dio.
Questi momenti sono preziosi per la vita della Casa perché ci portano a vivere il nostro Battesimo come tutti i cristiani.

"La Casa della Carità è la famiglia dove il parroco ed i parrocchiani accolgono i più poveri perché in essi riconoscono Gesù che si dona a noi, come nell’Eucaristia e nella Parola (Gv 13,1-17).
Coloro che sono abbandonati e più bisognosi sono i tesori della Parrocchia, perché in loro possiamo amare, adorare e avere vicino Gesù. Egli è nato povero (Lc 2,1-20), ha fatto del bene ai poveri (At 10,38) ed è morto sulla croce come un malfattore (Fil 2.6-11)."
Tratto dal n°32 – “Come nasce la Casa” del 25/7/83

Nella famiglia della Casa della Carità ogni cristiano si impegna a vivere il proprio battesimo nutrendosi con l’Eucaristia, con la Parola di Dio, con il servizio ai fratelli.

Questi tre Pani, uniti in un unico cesto, sono la via per vivere il Battesimo e sono il fondamento della Casa della Carità.




Mensa della Eucaristia

Ogni giorno viene celebrata l’Eucaristia che diventa il centro di tutta la giornata e il luogo dove nasce tutta la vita della Casa della Carità.
Quando si celebra l’Eucaristia tutti i lavori si devono fermare e tutti devono partecipare perché è la famiglia che si raccoglie attorno a Gesù, il quale si dona a noi attraverso il suo Corpo e il suo Sangue.
La Casa della Carità partecipa il più possibile alla vita della Parrocchia, soprattutto alle liturgie della domenica e delle feste.
L’Eucaristia è il nutrimento più importante per i fratelli poveri, ma la loro presenza alla Messa diventa aiuto per tutta la parrocchia.
Essi infatti sono i più amati dal Signore e ci insegnano a sentirci umili davanti a Lui; nella Messa tutta la famiglia deve essere riunita, perché il Signore si vuole donare a tutti.


Mensa della Parola

Ogni giorno ci si nutre del Pane della Parola di Dio; in essa incontriamo Dio che ci parla, indicandoci la strada da percorrere per conoscere la sua volontà.
La giornata è scandita dalla preghiera perché non ci si dimentichi di Lui, perché Dio ha qualcosa da dire in ogni momento. Si cerca anche di meditare e di dialogare insieme, sulla Parola di Dio che la Chiesa dona quotidianamente nella Messa per essere uniti a tutta la Chiesa che nel mondo proclama quella Parola.
Per quanto è possibile, i poveri partecipano alla preghiera e, con l’aiuto dei fratelli, si nutrono della Parola.
Il Rosario stesso, arricchito di tanti misteri che presentano la vita di Gesù, è un modo per affidarsi a Maria, perché ci guidi nella Parola e ci mostri la via per crescere nella carità.
Questa è la preghiera preferita dai poveri, perché più semplice, più facile da recitare.


Mensa della Carità (Servizio ai fratelli bisognosi)

A volte si corre il rischio di considerare come cibo solo la Parola di Dio e l’Eucaristia, ma anche i fratelli bisognosi sono un nutrimento per la nostra vita cristiana. E’ Gesù che si dona a noi.
Il servizio della Carità diventa riconoscere e contemplare il volto di Cristo che nei fratelli ci ama e si lascia amare, è riconoscere che abbiamo bisogno di loro per amare il Signore non solo a parole, ma con le azioni di ogni giorno (1Gv3,16-18).
Ogni volta che avete fatto questo ad uno di questi fratelli più piccoli… (Mt 25,31-46): questo Vangelo, ci invita a vivere la Carità del Cristo, ci manda ad esercitare le 14 Opere di Misericordia, e ci dice che su questo saremo giudicati.
Attraverso il servizio ai fratelli bisognosi, siamo chiamati a convertirci, cioè a trasformare la nostra vita in carità.

LE SETTE OPERE DI MISERICORDIA SPIRITUALE
1 - Consigliare i dubbiosi
2 - Insegnare agli ignoranti
3 - Ammonire i peccatori
4 - Consolare gli afflitti
5 - Perdonare le offese
6 - Sopportare pazientemente le persone moleste
7 - Pregare Dio per i vivi e per i morti

LE SETTE OPERE DI MISERICORDIA CORPORALE 
1 - Dar da mangiare agli affamati
2 - Dar da bere agli assetati
3 - Vestire gli ignudi
4 - Alloggiare i pellegrini
5 - Visitare gli infermi
6 - Visitare i carcerati
7 - Seppellire i morti




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CASA DELLA CARITA' "La Visitazione" di Sassuolo (MO) - un esempio



“Ecco: vorrei che accettaste di più il vostro sincero abbandono al buon Dio e che foste più allegre e gioconde in ogni circostanza, con me e con tutti gli altri.
Fate che questa diventi la caratteristica della Casa della Visitazione perché è la casa della gioia, del giubilo, del canto (Benedictus e Magnificat sono nati là), della buona accoglienza (Elisabetta a Maria SS.ma), del servizio generoso di Maria alla cognata, della nascita del grande amico e precursore di Gesù, Giovanni il Battista.
Del resto non badate tanto alle mie impressioni e accogliete invece con amore e con cura questi ultimi suggerimenti, che vi servono a caratterizzare sempre meglio la missione vostra in quella casa…”
(da una lettera di don Mario del 1954 alla Casa della Carità di Sassuolo)

La Casa della Carità è una famiglia, forse un po’ particolare, perché costituita da persone molto diverse fra di loro: una nonna, una bimba mongoloide, un bimbo in carrozzella, le suore che fanno da mamme e il Signore che è il Padrone di Casa. Essi non sono degli estranei fra di loro , ma familiari e condividono tutta la loro vita: mangiano insieme, pregano insieme, si divertono e si ricreano insieme.

Così le suore e gli ausiliari, cioè tutti coloro che in diversi modi aiutano la Casa della Carità, non fanno un’opera di assistenza, ma fanno famiglia con i poveri. E il centro di tutto sono loro: i poveri. E in loro il Signore.

“Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). Così ci dice Gesù e attraverso queste parole ci rivela la sua presenza nei nostri fratelli più piccoli, quelli più dimenticati dal mondo perché spesso sono bruti, deboli, malati, deficienti. Eppure proprio in loro Gesù ha scelto di continuare ad innamorarsi per essere in mezzo a noi così come è vivo attraverso la Parola di Dio che ascoltiamo e preghiamo attraverso Eucaristia. Ecco allora che la nostra Messa domenicale ha valore nella misura in cui noi sappiamo trasportarla e continuarla nella nostra vita di tutti i giorni: non possiamo far finta di niente di fronte a chi ha bisogno e ciascuno di noi conosce delle realtà di povertà, di malattia, di sofferenza.

È qui che il Signore ci chiama per vivere la Carità, cioè il servizio ai più poveri, non come semplice assistenza, ma come atto di amore al Signore presente in loro. Ecco dunque il significato che assume la Casa della Carità nella parrocchia: “Le case della Carità, espressione e strumento della carità del Vescovo, sono nella Parrocchia il “Tabernacolo” di Gesù presente nei poveri e la continuazione della Parola e dell’Eucaristia” (Dalle costituzioni della Congregazione Mariana delle case della Carità, Art 3,1).

La Casa della Carità custodisce i veri tesori, le perle più preziose, così come il tabernacolo custodisce il SS. Sacramento. Per i parrocchiani, gli ospiti della nostra Casa, non possono rimanere degli estranei, devono invece diventare coloro di cui ci si ricorda per primi in ogni occasione, coloro ai quali si riservano i posti d’onore, coloro con i quali si fa famiglia. Essi sono lo strumento che il Signore ci dona per imparare a servirlo nei più poveri.

Per questo la Casa della Carità è una palestra per tutta la parrocchia: qui si viene per allenarsi a vivere la Carità e la fraternità, perché l’Amore di Gesù diventi il nostro stile di vita che ci fa capire che siamo cristiani negli ambienti di lavoro, di scuola, di svago, di incontro.

La famiglia della Casa della Carità può essere un luogo di comunione e di unità dove si superano barriere e divisioni divenendo così testimonianza di fraternità e di pace.

È importante dunque che la comunità parrocchiale si senta più responsabile della Casa della Carità, ne senta come propri i problemi, le gioie, la sua stessa vita. Non è dunque una realtà a sé stante, non una fra le tante attività, ma parte integrante della parrocchia ed espressione privilegiata del suo vivere la Carità.


Un’esperienza nata dall’amore per la Chiesa

«Attraverso la loro obbedienza e docilità al Signore e alla sua Parola, al Vescovo, ai poveri e alla storia è nato quel che è nato». Con queste parole  don Romano Zanni, Fratello della Carità, ha cercato di trasmettere «l’enorme eredità» lasciata da don Mario Prandi, parroco di Fontanaluccia (provincia di Modena – diocesi di Reggio Emilia) fondatore delle Case della Carità e di suor Maria Giubbarelli, la prima Carmelitana minore della Carità.

Le Case della Carità, quindi come frutto d’amore, dono della misericordia del Signore. Un dono che è gioia, fatica, responsabilità di tutti mantenere vivo, perché – come è stato detto a conclusione della serata «oggi è più che mai attuale e profetico lo spirito delle tre mense: la mensa della Parola, dell’Eucaristia, dei poveri».

Don Romano ha considerato la vita e la fede di don Mario Prandi, raccontando che «prima di tutto era un parroco, un pastore». «La prima Casa della Carità a Fontanaluccia è nata dal suo cuore di parroco che ha trovato nella comunità alcune persone gravemente handicappate. Far famiglia con questi sofferenti significava per la parrocchia custodire i suoi poveri come i gioielli più preziosi. In casa c’era bisogno della presenza stabile di persone consacrate che facessero da “madre dei poveri”; le suore disponibili non si erano trovate e allora don Mario si fida della Parola del suo Vescovo che gli dice di cominciare con alcune ragazze della parrocchia». «Eccellenza – rispose don Mario – ne ho sempre fatte di tutti i colori, ma di suore non ne ho fatte mai!». Invece, nell’obbedienza, il 16 luglio 1942 nascono le prime tre Carmelitane Minori – suor Maria, suor Gemma, suor Giuseppina – «consacrate al regale servizio degli infelici e dei sofferenti», la cui regola suprema sarà la parola di Gesù: «Quello che avrete fatto a questi piccoli, lo avrete fatto a me».

«Don Mario poi nutriva un amore immenso per la Santa Chiesa che è madre, e – ha detto don Zanni – un amore immenso per il proprio Vescovo, che è il padre che il Signore ti ha messo accanto». Ecco perché nel testamento scrive: «Come sono contento di avere avuto questa immensa fortuna di essere nato e vissuto nella Chiesa una, santa, cattolica e apostolica e aggiungo, a scanso di equivoci, romana e reggiana. In mezzo a tutte le nostre povere miserie c’è però questa ricchezza e certezza, di essere con Cristo se si è con la Chiesa».

Anche di suor Maria del Carmine don Romano ha considerato alcuni aspetti della vita e della fede. «Non so se suor Maria è stata una donna perfetta, comunque quel che dice il libro dei Proverbi è calzante. È stata una donna forte, con una grande ricchezza di cuore, persona ricercatissima da tanta gente. La sapienza di cui era piena le veniva da un’intimità con Cristo e i poveri». Donna di grande umiltà e nascondimento, nel suo parlare era contenuta. Donna fedele, d’equilibrio, pratica e concreta, attenta a tutta la Casa e a tutta la famiglia delle Case.
 



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venerdì 25 luglio 2025

Don Mario Prandi (1910-1986), fondatore delle Case della Carità

 

Don Mario Prandi (1910-1986)

fondatore delle "Case della Carità"




Parroco

Don Mario Prandi ha percorso la strada potremmo dire “classica” per la quale è passata la maggior parte dei sacerdoti del suo tempo: un seminario dalla rigida disciplina, con insigni maestri di teologia e cultura, dottori dello spirito e scuole di santità.
Subito dopo l’ordinazione inizia la sua attività pastorale come cappellano a fianco di qualche parroco anziano, vera scuola di saggezza e di pratica pastorale.
Infine l’approdo a una piccola parrocchia di montagna ai confini della sua Diocesi di appartenenza, dove spende i restanti 48 anni della sua vita sacerdotale con vigore e forza.
E da parroco muore il 10 ottobre 1986.

Apparentemente una vita semplice e che ruota per lungo tempo attorno alla stessa comunità parrocchiale.
Di fatto un ministero che avrà una portata di carattere mondiale, diffondendo uno stile di vita pastorale, una teologia semplice e profonda ma concentrata attorno ai misteri dell’Incarnazione e della Eucaristia, segnata profondamente e accompagnata continuamente da un forte amore e devozione alla Madre del Carmelo, la Vergine Maria.

Don Mario Prandi, è chiaramente più conosciuto come fondatore delle Case della Carità, anche se lui stesso non userà mai, neanche nel testamento spirituale, questo titolo per parlare di sè riconoscendo probabilmente lo stesso dono della Casa della Carità come qualcosa di soprannaturale, come realtà che supera ogni possibilità di comprensione, e la portata dei cui frutti non è calcolabile, come mistero che si dispiega nel tempo e gradualmente viene riconosciuto, accolto ed “usato” dalla Chiesa locale e dai suoi pastori e dalle comunità parrocchiali e i suoi parroci.

Per una lettura più completa della realtà e della vita di don Mario Prandi, rimandiamo all’opera del prof.Sandro Chesi 1, scomparso nel mese di dicembre 2010.

 

Le origini

Don Mario Prandi nasce a Reggio Emilia città il 6 febbraio 1910, quinto di sette fratelli.
Nasce da famiglia semplice e povera: il papà sarto, socialista prampoliniano, e la mamma casalinga, donna di fede, dedita al lavoro operoso nella famiglia, alla preghiera costante e alla formazione alla fede dei propri figli specialmente attraverso i misteri del rosario.
Battezzato il 17 febbraio dello stesso anno nel Battistero della Cattedrale, cresimato in Cattedrale dal Vescovo Edoardo Brettoni all’età di 7 anni e la Prima Comunione nella sua parrocchia di S.Teresa nel 1920.
Carattere esuberante, talvolta esplosivo, é vero leader in mezzo agli altri ragazzi, vivacissimo e qualche volta artefice di scherzi e monellerie.
Mario si manifesta però anche con la stessa esuberanza e vitalità nella preghiera, nel coinvolgere amici e compagni di gioco nella preghiera del rosario, e nel servizio all’altare e a fianco del suo parroco in parrocchia e altrove, quando lo accompagnava nelle celebrazioni nelle altre chiese della città.
Respira in famiglia un clima di preghiera e di accoglienza grande.
L’ingresso in seminario (da esterno nell’ottobre del 1925 e da convittore nell’inizio dell’anno 1926) non stupisce il parroco e la madre di Mario ma il vicinato è sorpreso da questa scelta.
Mario non sembra così adatto agli occhi di tanti, vista la sua irruenza e passione.
I suoi studi, provvidenzialmente pagati da una famiglia ricca della città, inizieranno nell’Oratorio di S.Rocco in città, dove il seminario è stato per qualche tempo affiancato da luoghi di carità, da ambienti di accoglienza per poveri di ogni specie (ex carcerati e nomadi) e dall’Oratorio cittadino per i giovani.
Il seminario di S.Rocco, oltre che luogo di formazione al sacerdozio, è anche crocevia di esperienza caritativa e pastorale, ambiente accogliente e luogo di animazione vocazionale, fucina di vocazioni.
Qui Mario conosce per la prima volta don Dino Torreggiani, giovane prete, anima dell’Oratorio, che lo aveva visto come ragazzo della città e invitato al seminario. 2
Il seminario sarà il luogo della formazione filosofica e teologica, ambiente in cui crescere nella spiritualità sacerdotale, alla scuola di alcuni modelli di vita sacerdotale e su alcuni filoni di santità come i due francesi Chautard e Chevrier.
Come molti altri sacerdoti del suo tempo riceve forti influssi da questa spiritualità del sacerdote inteso come “uomo spogliato, crocifisso e mangiato”; i pilastri della vita sacerdotale così vengono riconosciuti nell’Incarnazione e nella povertà di Betlemme, nell’Eucaristia e nell’offerta della propria vita in unione al Cristo, nel rendimento di grazie del Cenacolo e alla scuola della Passione e della Croce del Cristo come testimonianza da dare nella sofferenza e nel dolore.
Il Vicario generale della Diocesi, mons. Angelo Spadoni, professore di dogmatica, darà un’impronta particolare ai sacerdoti di quegli anni, con l’apporto della mistica e l’appello a una forte spiritualità interiore.
Quest’ultimo fu asceta rigoroso con se stesso e con gli altri. 3

Negli anni del seminario cresce in don Mario la vita interiore e il desiderio di diventare prete secondo un certo stile.
Così scrive nel 1929 a soli 19 anni:

I poveri e gli infelici sono le immagini più somiglianti di Gesù Cristo stesso. Io non so una cosa: come tanti cristiani, tanti sacerdoti passino davanti a un infelice, un povero e non si fermino. Uno che vedendo un povero o un disgraziato, non lo solleva, perde una grazia: è come chi vedendo passare il SS. Sacramento non si inginocchia in atto di adorazione. Si perdona molto a chi ama molto. Ma la carità non è fatta solo di denaro: bisogna avere il cuore della carità, bisogna avere la comprensione della miseria. Ah! Deve pur rendere conto a Dio quel sacerdote che non ha compreso, che non ha saputo consolare uno di questi piccoli, che lo ha cacciato come un importuno, o se ne è liberato con pochi soldi. Oh! I soldi non sono la carità! Bisogna cercarli i poveri, gli infelici. Non aspettare che vengano a bussare alla porta. Lo so che è ben noioso conversare con ignoranti, con gente lurida, con ammalati poveri: ma forse che si è sacerdoti per vivere bene? Ma perché non avere la comprensione della carità? Quando sarò prete, se (Dio) il Signore vuole, mi dedicherò in gran parte agli umili, ai poveri, ai disgraziati: essi che nulla pretendono meritano molto.” 4

Dopo i vari ministeri minori, si giunge all’ordinazione sacerdotale il 15 luglio 1934 in Cattedrale per le mani dello stesso Vescovo Edoardo Brettoni. 5




Il ministero pastorale

I primi anni Don Mario viene mandato in aiuto a parrocchie in cui il parroco è malato o bisognoso di aiuto: così si succedono in ordine Calerno (qualche mese), Castelnovo ne’ Monti (due anni) e Villa Cadé (un anno).
Il 31 ottobre 1938 fa il suo ingresso da parroco nella parrocchia di Fontanaluccia, al confine estremo della diocesi, sulle montagne dell’Alto Appennino Tosco-Emiliano, in provincia di Modena, ma diocesi di Reggio Emilia, ai confini con la Diocesi di Massa.
Fin da subito inizia il suo ministero incontrando le persone, visitando le famiglie, prendendosi a cuore la realtà, cercando di conoscerla e penetrando a fondo il vissuto e le ansie, le gioie e le speranze della sua gente, condividendole e portando segnali di speranza e vitalità.
Recupera da subito la celebrazione delle SS. Quarant’Ore (marzo 1939) che erano state abbandonate e rinvigorisce la Confraternita del SS. Sacramento e l’amore all’Eucaristia.
Inizia l’Apostolato della Preghiera (1940) in parrocchia, promosso da una zelatrice che era stata in servizio a Genova, diffondendo l’amore alla Chiesa e alle intenzioni del Santo Padre.
Recupera la Banda parrocchiale (1939) per animare le feste e accompagnare le processioni e salutare l’inizio del nuovo anno dalla Torre campanaria.
L’Azione Cattolica viene incentivata e si intensifica la sua attività, partecipando anche agli incontri diocesani, nonostante le difficoltà delle distanze.
La comunità di Fontanaluccia, composta in quegli anni da circa 1000 persone, già fiorente per le cure pastorali dei pastori precedenti, riparte con forza e vigore nel suo cammino.
Sono, però, anni difficili, segnati dal Fascismo e dalle divisioni e fazioni politiche e sociali.
Nel 1940 l’Italia entra in guerra, e inizia un tempo di estrema insicurezza e povertà.
Le borgate di cui è composto il paese, sono abbastanza divise fra loro.
Alcune sono molto lontane dalla chiesa parrocchiale e sono difficili da raggiungere.




La Casa della Carità

Don Mario riconosce la presenza di tanti casi di handicap fisico o psichico nelle famiglie che non sanno come fare per gestirli nelle loro abitazioni.
Mosso a compassione e forte anche del confronto con cristiani laici dello spessore del dottore Pasquale Marconi 6, decide di avviare una sorta di piccolo Cottolengo, tabernacolo della presenza di Gesù nelle membra sofferenti dei piccoli e dei poveri a fianco della chiesa parrocchiale. Siamo all’inizio del 1941.

Organizza con l’Azione Cattolica un pranzo per i più anziani della parrocchia in canonica.
Inizia a parlare con gli organizzatori per fare qualcosa per anziani e minorati.
Don Mario non perde occasione per parlarne con i parrocchiani nelle varie assemblee delle associazioni, con i giovani, con l’Azione Cattolica, con gli adulti.
Tutti iniziano a muoversi e a comprendere che la presenza dei piccoli e dei poveri è presenza del Signore che viene incontro per essere accolto, amato, servito e adorato.

Ne parla a lungo coi preti del vicariato: per tanti è cosa azzardata iniziare un’opera tale in tempo di guerra con niente di sicuro, il parroco di Cervarolo commenta dicendo che con molta fede si potrà fare. Il parroco di Romanoro indica in una ragazza del luogo un possibile aiuto per iniziare l’opera.

Dopo averne parlato anche col Vescovo, in settembre invita Maria Giubbarelli di Romanoro a Fontanaluccia per la fine del mese per l’inaugurazione della casa che la gente già aveva iniziato a restaurare: una vecchia osteria a fianco della chiesa, di proprietà delle famiglie Becchelli e Gigli.

Leonilda Gigli, vedova Becchelli, aveva due figlie sordomute e psicolabili, ed era disposta a cedere il fabbricato se qualcuno l’avesse aiutata a prendersi cura di loro, visto che la famiglia era molto numerosa. Don Mario chiede l’aiuto di tutta la popolazione: la sabbia dal fiume é portata da adulti e bambini con secchi.

Ognuno contribuisce come può alla preparazione della Casa.

E la preghiera costruisce l’attesa. Maria Giubbarelli sale a Fontanaluccia il 26 settembre 1941 e il 28 ci sarà l’inaugurazione della prima Casa della Carità. Altre ragazze del paese si succedono per aiutare e accogliere. Il giorno dell’apertura con la Messa alla mattina nella Chiesa parrocchiale, vengono accompagnate le prime quattro ospiti della Casa le due sorelle Becchelli e due bambine handicappate.
La celebrazione, accompagnata dai canti del popolo cristiano e dalle grida di una delle due sorelle, è segnata dall’omelia di don Mario che parla di Gesù nei poveri e di questo nuovo Tabernacolo della parrocchia.
La chiesa è stracolma, la commozione è generale.

La statua di S. Lucia, viene portata nell’ingresso della Casa, che riceve il nome di “Ospizio di S. Lucia”. Dopo la benedizione dei locali e il canto del Te Deum, il prof. Pasquale Marconi richiama le opere di misericordia spirituale e il vangelo di Mt 25,31-46: “Quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.

Nel frattempo, la ricerca di una congregazione religiosa di suore, che dia continuità stabile all’opera e sia di riferimento per i parrocchiani, non porta a nessun risultato.

Una congregazione in visita alla Casa non riconosce sufficienti le condizioni materiali degli stabili e del vitto. Ma don Mario capisce che può garantire solo la Provvidenza di Dio, perché questa non dipende da lui.
Il Vescovo Edoardo Brettoni lo invita ad andare avanti con le ragazze che stanno facendo il loro servizio volontario nella casa. “Falle tu le suore!” dice il Vescovo. Don Mario si applica subito a formarle a una vita spirituale più intensa e di servizio e adorazione ai piccoli e ai poveri. A custodire il silenzio nel servizio del Signore.

Don Mario diceva: Dimostrate ai poveri l’amore. Fate loro quello che si farebbe all’altare, all’Eucaristia, quello che si farebbe mentre si legge il Vangelo. 7

Come potevamo pensare di affinare la nostra spiritualità, così piene di lavoro giorno e notte? La risposta di don Mario era semplice e perentoria: «Se pregate col vostro lavoro, se lavorate con Cristo, per Cristo, in Cristo non siete sempre in contemplazione? Il vostro non è un lavoro di assistenza ma un atto liturgico perchè nel povero seguite Cristo. Certo, dovrete pregare con la comunità, ospiti, ausiliari, collaboratori».” 8

Il continuo richiamo alla sincerità, a qualunque costo, la lealtà, la schiettezza, la semplicità completano il quadro. In vista della festa della Madonna del Monte Carmelo, patrona della parrocchia il 16 luglio del 1942, don Mario inizia a saggiare la disponibilità delle famiglie a lasciare partire da casa le loro figlie.

Non ci sono problemi per Maria di Romanoro e Carolina, ma sembrano essercene per Almina e Cecilia. Arriva un no deciso per Cecilia e molte resistenze per Almina.

Don Mario, un po’ desolato (per i rifiuti dei genitori) ritornò alla Chiesa e nella tarda serata, mentre metteva al collo e alle mani della statua della B.V. quelle catene e anelli che si usa mettere per la sua festa, gli venne detto pressappoco così: «Signora! C’è una preghiera di San Bernardo: O SS.ma Vergine… non si è mai sentito dire che alcuno sia a voi ricorso e non sia stato esaudito – bene è tanto che vi chiediamo delle suore per i nostri poveri. Ne abbiamo trovate alcune in Parrocchia e … i genitori sono contrari! Se domani non verranno le ragazze per ricevere l’abito benedetto, io sarò costretto a predicare che non è vera la preghiera di S. Bernardo. E poi dovrò pure togliervi tutti questi monili perché…». Ma un confratello prete che aveva sentito quel discorso fatto ad alta voce, pensò bene di troncarlo… come poco riverente.” 9

Il giorno dopo, in chiesa per la vestizione e i primi voti, saranno presenti Sr. Maria della Madonna del Carmine (Maria Giubbarelli di Romanoro), Sr. Gemma di S. Teresa di Gesù (Almina Ghini) e Sr. Giuseppina della Croce (Carolina Fontanini).



E’ l’inizio delle Carmelitane Minori della Carità. Sr. Lucia di S. Teresa del Bambin Gesù (Cecilia Ghini) farà i primi voti l’8 settembre 1942. Fin dall’inizio gli aiuti dei parrocchiani nella vita di casa rimangono fondamentale per prendersi cura degli ospiti, della lavanderia e della cucina.

Così vengono coinvolte le persone della parrocchia. Durante la guerra l’Ospizio diviene luogo di accoglienza e assistenza per i feriti di guerra e per i malati di ogni parte politica o popolo di provenienza.

Tra l’8 settembre 1943 e la fine della guerra il 25 aprile 1945, il territorio diviene campo di battaglia di tante formazioni, da una parte i tedeschi e i corpi d’armata legati al Fascismo e dall’altra i gruppi partigiani. L’ospedale partigiano che aveva visto l’aiuto del dottor Marconi e di altri dottori organizzati al servizio dei feriti si sposta, dalla sede delle scuole elementari di Fontanaluccia, ad una vecchia casa nel bosco, detta “Le Perdelle” e infine, verso il periodo invernale, all’Ospizio. Così la prontezza di don Mario, di Sr. Maria e delle altre tre suore e della sorella di don Mario, Maria, permettono di accogliere tante persone fino a giungere a 70-80 persone, senza contare gli ospiti della Casa della Carità, che nel frattempo si sono spostati nelle case vicine.

Il 22 marzo 1944 don Mario, accompagnato da altre due persone, soccorre la popolazione di Cervarolo, il cui parroco e altri 23 uomini sono stati massacrati su un’aia del paese dai tedeschi.

Gli eventi hanno aperto la Casa facendone un luogo privilegiato di accoglienza e comunione fra persone molto diverse per estrazione, per provenienza e per scelte politiche. Questa rimarrà una delle caratteristiche essenziali della Casa della Carità fin dai suoi inizi: “fermento di ricostruzione comunitaria” all’interno della comunità cristiana ma, anche in senso più lato, raggiungendo anche i lontani e quelli di altre religioni.

Lo stile di famiglia, fra le famiglie, aperta all’ospitalità, fa via via dell’Ospizio un elemento inscindibile dalla comunità parrocchiale e dalle comunità vicine. Don Mario in una lettera scritta al Vescovo Edoardo Brettoni nel luglio 1943 riconosce nella Casa della Carità alcune motivazioni particolari:

1) bisogno di affiancare alla mia povera opera di parroco, un aiuto che riparasse in parte le mie deficienze e ottenesse un po’ di assistenza dal Buon Dio sulla parrocchia.
2) un bisogno intimo e potente di riparare le mie miserie personali con un po’ di carità che lo Spirito Santo suggerisce come mezzo per coprire una moltitudine di peccati.
3) un bisogno reale e, a mio povero giudizio, imprescindibile di sistemare alcuni poveri esseri infelici della mia parrocchia.10

Nel 1952, don Mario userà altre espressioni che diventeranno consuete, per definire le Case della Carità:

Hanno lo scopo di rappresentare per la comunità cristiana, una testimonianza di amore, un servizio di Cristo nei fratelli più bisognosi, una presenza sempre attuale molto alla mano di Cristo in mezzo a noi. E possono divenire, con l’aiuto di Dio, per le parrocchie o associazioni religiose:

1) un parafulmine spirituale delle medesime;
2) un grande lenzuolo per coprire le miserie dei singoli e delle comunità;
3) una dimostrazione palese a chiunque della Divina Provvidenza;.
4) una scuola pratica, una palestra di opere di misericordia e di fraternità cristiana per fedeli, Azione Catt., associazioni religiose, ecc;
5) convergendo su di lei la simpatia, la adesione, l’assistenza di buona parte della Comunità parrocchiale, può essere il fermento di una ricostruzione comunitaria della Carità di Cristo.

Appare subito che l’aspetto assistenziale, come viene abitualmente inteso ha una parte molto secondaria, modesta.(…) La Casa della Carità è un fermento, una cellula iniziale di un ritorno del genere umano alla sua unità nell’Amore, alla Comunità, nel senso più evangelico e positivo di questa parola. 11

Allo stesso tempo don Mario dirà:

Le Case della Carità sono il prolungamento naturale della Messa: liturgia della Parola – liturgia Eucaristica, liturgia della Carità.

A) Le “Parole Sante” sono l’elemento sensibile di cui si serve lo Spirito Santo per farci arrivare la Sua Voce, e che Egli riempie del “suo Carisma”.

B) Il Pane e il Vino sono l’elemento sensibile che Gesù ha scelto e che Egli transustanzia nel Suo Corpo e nel Suo Sangue, dato per noi – (quindi sacrificio – banchetto ecc.).

C) I “Poveri” sono l’elemento che Dio ha indicato e scelto come la “materia” della Carità – il substrato dell’Amore. 12

Le intuizioni della Casa della Carità diventano per don Mario l’idea portante del suo ministero pastorale al servizio della parrocchia: non semplicemente uno strumento di pastorale, ma l’impostazione generale di tutta la sua vita di pastore, un certo modo di intendere e vivere la comunità cristiana nel suo insieme e di avvicinare le singole realtà e persone.

Se l’Imitazione di Cristo parlava delle due mense della Parola di Dio e dell’Eucaristia, don Mario diventerà coraggioso annunciatore delle tre mense.

Nel 1946 morto il Vescovo Edoardo Brettoni, gli succede Mons. Beniamino Socche 13

Il rapporto con il nuovo Vescovo è all’insegna di una grande fiducia e stima verso don Mario. Sono tanti gli incoraggiamenti e i riconoscimenti della sua opera.
Talvolta cerca di calmarne l’entusiasmo e la carica missionaria che lo spingono a muoversi molto e a diffondere ovunque lo spirito del Vangelo con varie predicazioni anche fuori diocesi.

Con la fine della guerra, subito don Mario si fa carico anche delle condizioni del territorio e dei disagi nell’occupazione dei suoi parrocchiani. Così inizia ad animare alcune forme cooperative per garantire un lavoro e un salario a quanti possono e, quando si può, anche a quelli che da soli non riuscirebbero a trovare un impiego. 14

I lavori della cooperativa edile, fin dagli anni ’50, richiederanno spostamenti degli operai lontano da Fontanaluccia (la pianura modenese, la Maremma e la campagna attorno a Roma) e don Mario manda le suore perché accompagnino e sostengano quegli uomini attraverso la mensa e la lavanderia, ma molto più attraverso la preghiera quotidiana del rosario, recitato tutti assieme, e uno stile di vita familiare che cercherà di custodire negli operai una fedeltà alle loro famiglie e ad uno stile di vita cristiano.

Sarà sua preoccupazione accompagnare e sostenere questi servizi e questi cantieri, visitandoli e cercando anche di ottenere per essi aiuti e supporti da uomini politici e persone del luogo.

In ogni tempo cerca di trovare anche un certo spazio per diffondere lo spirito e la realtà della Casa della Carità.

La parrocchia di Fontanaluccia, già a metà degli anni ’40, può contare sulla collaborazione di un cappellano. Ciò permette a don Mario di allargare gli orizzonti del suo sacerdozio e della comunità cristiana a lui affidata.

Per don Mario è chiaro fin dall’inizio che la parrocchia e i suoi pastori devono continuare ad avere uno sguardo ampio: non ci si può chiudere in una sorta di autosufficienza. 15

Don Mario corre in tanti luoghi anche per predicazioni di missioni al popolo, settimane bibliche, predicazioni di esercizi e ritiri, missioni nelle carceri, confessioni e direzione spirituale, aiuti ai confratelli nel ministero.

Nonostante qualche resistenza e titubanza delle suore, cerca di favorire a più non posso la diffusione delle Case della Carità, riconoscendo in questo un chiaro progetto di che vuole allargare ad altre parrocchie quei frutti di grazia che ha operato a Fontanaluccia, con l’apporto e il contributo di altri parroci e altre comunità parrocchiali.

Così nascerà la Casa di S. Giovanni di Querciola (1947), la prima ad essere chiamata Casa della Carità, ad opera del parroco don Giovanni Reverberi, dei Servi della Chiesa. 16

E a seguire arriveranno altre Case. 17

Sempre più si fa chiaro come la Casa della Carità trova la sua sorgente e il suo alveo vitale nella Messa, nell’Eucaristia.

L’orizzonte missionario della Casa della Carità si rivela in maniera più misteriosa.

Un giovane di Fontanaluccia, Dario Asti, era stato studente presso i Gesuiti, e mandato da chierico in Madagascar per completare gli studi nel 1953, viene ordinato nel 1959 in Madagascar.

Le visite dei superiori ai famigliari in quel di Fontanaluccia e in seguito anche del Vescovo di Tananarive, capitale malgascia, portano presto a far conoscere la Casa della Carità anche in Madagascar.

Le varie richieste rivolte al Vescovo Socche, non ebbero però successo, se non per l’invio di un sacerdote diocesano: don Pietro Ganapini.

La Chiesa diocesana si apre così alla dimensione missionaria. 18

Don Mario viene visto come “terremoto apostolico”, senza misure donato alla diffusione del Regno, molto esigente con se stesso e con gli altri, e in particolare con le sue suore. Così nel 1963, dopo alcuni interventi per alleggerire il suo impegno e per aiutare la conduzione delle Case attraverso la nomina di un delegato vescovile, 19 il Vescovo Socche allontana don Mario dalle Case della Carità; il Vescovo stesso se ne assume la Direzione, insieme al Vicario Generale.

Don Mario rimane semplicemente parroco di Fontanaluccia: una situazione che dura due anni. La sofferenza del momento, trova però risposta in una obbedienza e disponibilità piena alle richieste del pastore della Diocesi.

Come dirà più volte don Mario: “Niente senza il Vescovo”, a conferma di una scelta che troverà poi conferme innumerevoli lungo tutta la vita.

Con la morte del Vescovo Socche, e l’ingresso in diocesi del Vescovo Gilberto Baroni, 20 don Mario viene reintegrato nelle sue funzioni, e invitato a riprendere in mano alcune situazioni vacanti: la spedizione in Madagascar, la Casa della Preghiera quale “nave ammiraglia delle Case della Carità”, l’organizzazione degli Esercizi spirituali annuali, del Noviziato e dell’accoglienza delle nuove vocazioni.

Come vedi don Mario, il lavoro c’è ed è grande ed è necessario che tu, dopo un periodo di aspettativa a te concesso dalla Divina Provvidenza, riprenda subito il tuo posto di impiegato-fattorino del Signore, con il lauto stipendio di croci e lacrime in comunione con Cristo per avere parte della sua gloria. 21




La scelta missionaria della Chiesa

Nel 1967, dopo un viaggio di esplorazione del territorio e della Chiesa malgascia fatto insieme al dottore in agraria Francesco Casini, e tenendo dettagliatamente informato il Vescovo Gilberto, riguardo agli incontri e alle attese di quella Chiesa, si decide di iniziare la missione diocesana in Madagascar, non più costituita da singoli Fidei Donum, ma da una rappresentanza della Chiesa reggiana, chiamata a trovare il suo punto convergente e di scambio e di comunione nella Casa della Carità.

Così, il 21 novembre 1967, parte da Reggio Emilia, un’ equipe di undici persone: tre preti diocesani (don Mario e altri due, di cui uno appartenente ai Servi della Chiesa), tre suore Carmelitane Minori della Carità, un membro laico dell’Istituto Servi della Chiesa, due infermieri e una laica, con il dottor Casini col quale d. Mario aveva fatto il viaggio esplorativo.

All’arrivo in Madagascar, all’aeroporto, l’equipe è accolta dall’Arcivescovo, da due Vicari generali, da gesuiti e sacerdoti italiani e malgasci e da alcune suore italiane.

Gli stessi giornali locali diffondono la notizia. Ciò che si sta realizzando in questo momento storico è uno scambio tra Chiese, una presenza di Chiesa come unica famiglia che si muove con unità di intenti, di desideri, di passioni e che collabora e agisce in maniera unitaria, perchè ha posto al centro il Signore nella Casa della Carità, con le tre mense della Parola di Dio, dell’Eucaristia e dei più piccoli e poveri, i tesori più preziosi della sua vita.

In parallelo, crescerà in diocesi l’animazione missionaria, che già era cominciata prima ancora della partenza del primo gruppo.

Si coinvolgeranno gruppi parrocchiali e inter-parrocchiali e persone di ogni genere e tipo, congregazioni religiose e gruppi vari. Il referente primo ed ultimo rimarrà il Vescovo, mentre il responsabile per quella missione diocesana rimarrà a lungo lo stesso don Mario.

Nel 1968, in corrispondenza con gli inizi della prima Casa della Carità in terra malgascia, si assiste anche, al Santuario Mariano di Pietravolta, a pochi chilometri da Fontanaluccia, alla nascita della Casa della Preghiera, “cuore” della Casa della Carità, che pulserà vita e forza per tutte le Case; con l’aiuto dei “polmoni”, ossia le missioni, fanno un lavoro di ossigenazione del corpo della Chiesa di tutti i tempi.

La realizzazione di una Casa della Preghiera dava forma a un desiderio che don Mario aveva a lungo meditato fin dagli inizi, anche per i preti diocesani: un luogo dove ritirarsi, riposarsi nello spirito, rinvigorirsi, ristorarsi e ritornare con una adesione più piena al Signore.

Nel 1972 inizia il ramo maschile dei consacrati al servizio della spiritualità e della vita delle Case della Carità: i Fratelli della Carità.

Promossi e richiesti dal Vescovo e con la sua benedizione, i primi due partono a distanza di un mese dalla prima professione, uno per il Madagascar e l’altro per l’India.

In India, un prete diocesano, don Artemio Zanni, parroco di Felina, aveva intravisto degli spazi di collaborazione e di aiuto a una dottoressa reggiana, Bianca Morelli, là presente dal 1959, prendendosi cura dei lebbrosi.

Don Mario, di nuovo con l’approvazione del Vescovo e l’aiuto di don Artemio, inizierà la collaborazione con le suore del PIME di Milano in un lebbrosario di Bombay, mandando fr. Romano Zanni e poi, dal 1975, due suore. Così parte anche la missione diocesana verso l’Asia, altro scambio e partecipazione alla vita di quella Chiesa locale.

Nel 1980 nasce la prima Casa della Carità in una parrocchia indiana, Versova, diocesi di Bombay.

Nel 1981 Don Mario incontra diverse volte Madre Teresa di Calcutta per valutare anche eventuali collaborazioni.

Nel 1973, insieme ad altre 28 persone, dà vita a Reggio Terzo Mondo (RTM), poi riconosciuto l’anno successivo come ONG da parte del Ministero degli Esteri per l’invio di persone in progetti di cooperazione all’estero.

Nel 1981, si apre alla “Macchiaccia”, una casa della parrocchia di Fontanaluccia, la casa di formazione dei Fratelli della Carità.

Nel 1984 si apre il noviziato delle Carmelitane Minori: dopo gli inizi in una sede provvisoria ci si sposterà poi, nelle prime settimane del 1986, nella parrocchia di S. Teresa di Reggio Emilia, dove don Mario era nato.

I rapporti fra le Chiese locali nella persona dei Vescovi rimane la base necessaria per avviare qualunque nuova apertura di una Casa della Carità. La stessa missionarietà della Chiesa locale ha trovato la sua chiave di volta e la sua più grande provocazione nella persona dei piccoli e dei poveri.

Le collaborazioni e le intese fra il Vescovo Gilberto e don Mario, via via crescono, producendo frutti di collaborazione e di apertura alle altre Chiese e ai problemi del mondo. 22

Indubbiamente molto dello sviluppo delle Case è dovuto anche alla maggiore comprensione da parte delle Chiese locali (nella persona dei Vescovi e dei parroci) del dono stesso della Casa della Carità a fianco dell’opera del pastore per sostenere il suo apostolato e per rendere visibilmente il significato profondo della Celebrazione Eucaristica.

Così soprattutto gli interventi del Cardinal Lercaro a Bologna, oltre alle più ampie riletture della Casa della Carità da parte del Vescovo Baroni a Reggio, hanno arricchito ed evidenziato quei punti che saranno una sorta di teologia eucaristica, semplice, alla portata di tutti, ma profonda e coraggiosa, dove la carità non sarà semplicemente frutto del nutrimento spirituale alla Parola e all’Eucaristia, ma essa stessa alimento, essa stessa mensa, essa stessa nutrimento alla persona del Cristo presente nel povero che ti viene incontro.

Viene offerta una visione teologica della chiesa come comunione di persone edificate in Cristo, a partire dai più piccoli e poveri.

Chiaramente emergono qui tutte le correnti teologiche sulla liturgia e sulla Chiesa dei poveri proposte dallo stesso Cardinale Lercaro nel Concilio e successivamente dai suoi Vescovi ausiliari (Baroni, Bettazzi, Cé…) ma anticipate e profetizzate dallo stesso don Mario e poi realizzate nella Casa della Carità. 23

Congregazione Mariana delle Case della Carità. 24

Cerca di completare gli Statuti delle Carmelitane Minori della Carità e dei Fratelli della Carità; propone il “Manuale” delle Case della Carità, sorta di vocabolario e di spiegazione di quello che vuole essere la Congregazione Mariana delle Case della Carità nella Chiesa.

Cerca di dare più visibilità ai Secolari 25 e alle Famiglie 26 come congregati a pieno diritto di questo stile di animazione della Chiesa alla scuola della Carità partendo dai più piccoli e poveri e nati nelle parrocchie e inseriti profondamente nelle parrocchie come unica appartenenza vera e totale.

E gli ausiliari crescono di numero con un mandato ufficiale da parte del Vescovo nel seminare lo spirito della Casa della Carità.

Tutti chiamati ad essere parrocchiani esemplari, responsabili, partecipi della vita e della missione della Chiesa.

La vecchiaia e alcuni problemi di salute, che via via si aggiungono negli ultimi due anni di vita, minano il corpo di don Mario, ma non riescono a smorzarne lo spirito, l’entusiasmo e l’affetto per la Chiesa e per la carità. A metà agosto del 1986, viene diagnosticato un cancro.

Celebra una messa di ringraziamento al Santuario della Madonna della Ghiara, dove da alcuni anni il Vescovo Gilberto aveva chiesto di celebrare la festa della Congregazione Mariana delle Case della Carità, riconoscendola come celebrazione diocesana.

Giunge la morte il 10 ottobre 1986.



Il seme buttato in diocesi e altrove, ha fatto crescere, alla scuola dell’Eucaristia, cristiani in una disponibilità matura, con un forte senso di appartenenza alle comunità parrocchiali e diocesane, e ha posto i piccoli e i poveri al centro dell’attenzione della Comunità, non solo a Reggio Emilia, ma nelle altre parrocchie sparse per il mondo.

Questo é il continuo della storia della Chiesa che fin dall’antichità aveva riconosciuto questo patrimonio (don Mario amava definire i congregati mariani delle Case della Carità «restauratori»).

Lo stesso seme che anche oggi si sta spargendo nel mondo, grazie al ministero di questo sacerdote, parroco fino alla fine di un piccolo paese di montagna agli estremi confini della sua diocesi.

Tutto fece in quanto parroco e come proiezione del suo ministero di pastore di una comunità parrocchiale.





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