giovedì 3 luglio 2025

La Spiritualità del Sangue di Cristo nella costituzione della Congregazione Missionari del Preziosissimo Sangue


La Spiritualità del Sangue di Cristo 
nella costituzione della Congregazione Missionari del Preziosissimo Sangue - CPPS



Madonna del Preziosissimo Sangue di Gesù



1 - “Il Sangue di Cristo è la sorgente del Suo amore”

Come abbiamo già detto nella Introduzione a questo Sussidio nella Costituzione della Congregazione dei Missionari del Preziosissimo Sangue troviamo nove citazioni del Sangue di Cristo, riducibili a sette, che in modo molto appropriato delineano sia la spiritualità del Sangue di Cristo come anche il carisma missionario. 
Detto altrimenti, da questi testi possiamo capire meglio cosa significa la spiritualità del Sangue di Cristo per i Missionari del Preziosissimo Sangue. Già questo non è poco! Ma oltretutto possiamo vedere come veramente la frase di san Gaspare «Felice e grande quando ti unisci a Dio» trova nella spiritualità eucaristica e, specialmente nel Sangue di Cristo, la sua più efficace comprensione.
È infatti nell’Eucaristia che – scrive san Gaspare – Dio si unisce a noi ed è lì che sperimentiamo la nostra felicità e la nostra grandezza. Allora, possiamo cominciare a vedere subito la veridicità di questo a partire dalla felicità. Cosa si intende veramente per felicità?
Le prime due citazioni del Sangue di Cristo nella Costituzione dei Missionari del Preziosissimo Sangue sono queste:

PROEMIO

C1. Spinto dall’amore di Cristo, manifestato specialmente nell’effusione del suo sangue, e sensibile alla missione e alle necessità della Chiesa, san Gaspare del Bufalo fondò un istituto sacerdotale. Egli si associò un gruppo di sacerdoti del clero diocesano, animati dallo stesso ideale, unendoli col solo vincolo di carità, invece che con i voti. Vivendo insieme nelle case di missione, essi erano una sorgente di rinnovamento continuo per i sacerdoti e per il popolo, soprattutto con la predicazione delle missioni e degli esercizi spirituali.
Da questo nucleo la Congregazione dei Missionari del Preziosissimo Sangue ha la sua origine, da questo deriva il suo spirito.

C4. La vita spirituale, comunitaria e apostolica dei sodali trova la sua sorgente nel Sangue Prezioso, mistero di Cristo che dona il suo sangue per la salvezza di tutti.
«In questa devozione – dice il nostro Fondatore san Gaspare – noi andiamo al cuore della nostra fede».
La spiritualità del Prezioso Sangue si manifesta in varie maniere. Il Sangue di Cristo è il segno più alto del mistero Pasquale che si rinnova sacramentalmente nell’Eucaristia ed in modo particolare viene onorato con la partecipazione piena al sacrificio della Messa.

Nella prima citazione è subito evidente che l’effusione del Sangue di Cristo è – secondo le Costituzioni – la “manifestazione speciale” dell’amore di Cristo. Questo è stato uno dei temi più a cari a san Gaspare del Bufalo, che lo ha ripreso da tutta la teologia e la mistica del Sangue di Cristo nella storia della Chiesa. San Gaspare soleva dire che il Sangue di Cristo è «l’attestato più tenero dell’amore di Dio». Nella seconda citazione (C4) vediamo che il Sangue di Cristo è indicato come «il segno più alto del mistero Pasquale».

Papa Francesco nel suo Discorso alla Famiglia del Preziosissimo Sangue lo ha ribadito con queste parole: «Dio ha scelto il segno del sangue, perché nessun altro segno è così eloquente per esprimere l’amore supremo della vita donata agli altri». Se ci pensiamo bene questa frase è veramente forte, efficace, chiara e definitiva. Seguendo le parole del Papa, possiamo confermare quanto diceva san Gaspare, cioè che nella nostra fede cristiana non c’è un “segno” più eloquente per poter parlare dell’amore supremo di Dio. Per questo si tratta di una manifestazione speciale di questo amore. Infatti, l’amore supremo è quello del dono della vita ed è ciò che annunciano in modo particolare i Missionari del Preziosissimo Sangue In queste due citazioni sorprende la ripetizione della parola “sorgente”, collegata al Sangue di Cristo. La vita dei missionari, sia spirituale che comunitaria e apostolica, e anche il rinnovamento continuo tanto dei sacerdoti quanto di tutto il popolo, trovano la loro sorgente nel Sangue Prezioso, perché è questo il dono più grande della fede, il “cuore” della fede stessa. Tante volte siamo abituati a pensare che la spiritualità e la devozione del Sangue di Cristo sono un richiamo al suo sacrificio, oppure al fatto che la nostra salvezza è costata un così grande “prezzo” al nostro Signore.

Ma questi aspetti, che pure sono importanti e lo vedremo, non sono la prima e fondamentale indicazione che ci viene da questo mistero.

Infatti, la prima considerazione da fare sul dono che Gesù fa del suo sangue è che questo è il dono della vita, della vita divina, che consiste in un amore immenso ed infinito. Da sempre nella Scrittura il sangue è accostato alla vita (nefesh) e così anche Gesù nel Vangelo di Giovanni preannuncerà questo mistero con una delle frasi centrali per poter leggere tutta la storia della salvezza. Un giorno si alzò e si mise letteralmente a gridare questa verità: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva» (Gv 7,37-38). Sappiamo benissimo come sulla croce proprio dalla ferita al petto uscirà il sangue distinto tra la parte densa e il siero, appunto “sangue ed acqua”. La prima definizione del Sangue di Cristo che ci interessa sottolineare è che è la fonte della vita. Si tratta insomma di un dono, il dono per eccellenza, cioè la sua vita che consiste nel suo amore senza misura:

essere amati totalmente, in modo così grande che non è più possibile sentire alcuna solitudine o vuoto o tristezza di sorta. In questo senso il Sangue di Cristo è la fonte della gioia più grande: quella di sapersi amati da Dio.

Nell’incontro con la donna samaritana avviene proprio questo. Gesù incontra una donna piena di ferite affettive, di contraddizioni, di problemi irrisolti e piano piano le annuncia che Lui è la sorgente di una vita nuova, che è vita eterna e aggiunge: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva» (Gv 4,10). Alla fine di questo percorso in cui ci stiamo chiedendo come ci si inganna facilmente sulla felicità andandola a scambiare per ciò che essa proprio non è, ecco che il Sangue di Cristo ci viene in aiuto. Se conoscessimo veramente la bellezza di questo dono, di questo regalo che il Signore ci fa! Si tratta della vita divina in noi. Si tratta di sentirsi amati e, quindi, di amare come mai abbiamo neanche lontanamente immaginato. Spesso prendiamo vita da un pozzo di acqua stagnante, mentre nel cuore di Gesù troviamo una sorgente di vita che è una felicità indescrivibile. Il profeta Isaia parla di avere «acqua assicurata» (Is 33,16), cioè che non verrà mai meno. È il fiume, che tutto risana e che a tutto dà vita, di cui parla il profeta Ezechiele e che guarda caso parte dal lato destro del tempio (cfr. Ez 47). Se il tempio è Cristo, ecco che la sua ferita nel fianco destro è la sorgente di questo fiume. Lo stesso fiume è citato anche nell’ultimo capitolo della Scrittura nel libro dell’Apocalisse, perché è il fiume della città del cielo in cui si trova l’albero della vita. Se questo albero è identificato con la croce di Cristo, ecco che questo fiume che sgorga da lì è sempre il suo sangue prezioso. San Paolo afferma, infatti, che «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori» (Rm 5,5).

Gesù Cristo dice di se stesso che è «la via, la verità e la vita». Ecco, da tale descrizione possiamo definire anche la spiritualità del Sangue di Cristo: anzitutto «è sorgente di vita», poi – lo vedremo − «ci testimonia la verità» e, per finire, «è esso stesso una via nuova e vivente».

Spesso riguardo agli scritti di san Gaspare sul Sangue di Cristo si pensa più facilmente a quelli in cui si sottolinea la dimensione del sacrificio o del prezzo della nostra salvezza. Ma, in realtà, sono moltissimi i testi mistici di san Gaspare sul Sangue di Cristo, che si riallacciano alla tradizione di grandi mistici come santa Caterina da Siena. Il percorso spirituale da lui descritto, dal titolo I sette gradi della Scala Mistica, si conclude proprio con una delle immagini a lui più care, quella della cella vinaria del Cantico dei Cantici in cui la sposa dice: «Mi ha introdotto nella cella del vino e il suo vessillo su di me è amore» (Ct 2,4). Egli afferma che «l’amor di Dio è simboleggiato al vino […] oh beato chi è ebbro». Il Sangue di Cristo risponde al desiderio di felicità dell’uomo e infatti in un testo per gli esercizi spirituali, egli scrive che c’è bisogno «di quel mistico vino» che «rinvigorisca il nostro spirito» e possa «togliere l’abbattimento». Così «il pane sostiene il cuore dell’uomo» e «il vino allieta il cuore dell’uomo» (Sal 104,15). Non si può dubitare ascoltando queste parole sulla dimensione mistica in san Gaspare per cui anzitutto il Sangue di Cristo è la sorgente di vita che ci regala la felicità più autentica, che consiste nell’amore più grande, quello che non viene mai meno. Nel primo scrutinio della preparazione al battesimo degli adulti si sottolinea proprio la necessità che abbiamo di un amore vero, ossia di una sete autentica di vita autentica. Per questo il sacerdote fa sul candidato al battesimo una preghiera di esorcismo proprio perché sia distaccato dalla felicità falsa e orientato alla fonte della felicità vera. Ecco qui descritto il passaggio dalla falsa alla vera felicità. Il Sangue di Cristo è il dono di una vita nuova che circola in noi, cioè l’essere amati in modo supremo da Dio. Benedetto XVI in una sua tesi giovanile scriveva che l’amore vero consiste nel volere che l’altro esista e che sia contento, felice, valorizzato. Così l’amore di Dio per noi consiste in questo: nel volere che esistiamo e – altrimenti è troppo poco! – che siamo contenti, felici, valorizzati. Il Sangue di Cristo è il dono, la sorgente di questa vita piena.


2 - “Il Sangue di Cristo e lo Spirito Santo”

Battesimo, Eucaristia e Riconciliazione

Con queste prime due tappe del nostro percorso abbiamo potuto vedere cos’è la vera felicità. Cristo è la vita, la vita in abbondanza perché è il Figlio di Dio e con Lui e in Lui anche noi siamo chiamati a questa figliolanza, che è il vero grande dono per la nostra gioia.

La Costituzione dei Missionari del Preziosissimo Sangue, infatti, come già abbiamo potuto vedere, mette al primo posto il significato del Sangue di Cristo come sorgente della vita stessa di Dio. Il suo sangue è la sua vita, che ci viene donata. Questa vita consiste nel suo amore che ci fa esistere, uscir fuori, vivere pienamente. Il Sangue di Cristo è, prima di tutto, la manifestazione speciale e la sorgente di questo amore divino che colma e sovrabbonda il nostro desiderio. Una sorgente inesauribile! Più si attinge a questa fonte più questa però non finisce. Allo stesso tempo «colui che ha sete è lieto di bere, ma non si rattrista perché non riesce a prosciugare la fonte» (Efrem il Siro). La Costituzione nella parte in cui si parla dell’apostolato dei Missionari del Preziosissimo Sangue riprende questo primo aspetto facendocelo vedere stavolta dal punto di vista del “carisma missionario” piuttosto che della “spiritualità”. Insomma questo dono del Sangue di Cristo come sorgente del suo amore viene portato nell’annuncio della fede e, dunque, viene ancora meglio spiegato.

Leggiamo il C21 della Costituzione CPPS.
C21. I Missionari del Preziosissimo Sangue prendono parte alla Missione apostolica della Chiesa annunciando il mistero di Cristo che ha redento e riconciliato tutti nel suo sangue, per farli partecipi del Regno di Dio.

Il carisma missionario del Preziosissimo Sangue ha, quindi, la sua centralità nell’annuncio del mistero di Cristo che ha redento e riconciliato tutti nel suo sangue. San Gaspare scriveva così a Papa Leone XII: «Nella devozione al sangue divino è compendiata la fede stessa: infatti diciamo nella consacrazione del Calice: Mysterium Fidei; − in questa per conseguenza è riposta la salute (salvezza) delle anime». Durante la liturgia eucaristica vengono riprese, infatti, le parole dell’istituzione dell’Eucaristia da parte di Gesù e possiamo accorgerci di qualcosa di molto evidente nelle parole che il celebrante dice durante la messa. Eccole:

Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi.

Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati.

Fate questo in memoria di me.

Mistero della fede.

È immediatamente evidente che la parte che riguarda il pane/Corpo di Cristo è molto più piccola delle parole che sono dette invece del vino/

Sangue di Cristo. Come mai? A cosa si devono queste aggiunte? Forse è proprio da queste parole che possiamo cogliere la ricchezza ulteriore che troviamo nel mistero del Sangue di Cristo.

Infatti, se in entrambi i casi troviamo la presenza eucaristica del Signore: «questo è il mio corpo / questo è il calice del mio sangue»; se ancora in entrambi i casi vediamo la componente sacrificale dell’Eucaristia: «offerto in sacrificio per voi / versato per voi»; tuttavia nella parte del Sangue di Cristo troviamo tre aggiunte significative. La prima è che si aggiunge che il Sangue di Cristo è «per la nuova ed eterna alleanza»; poi che è versato «per voi e per tutti», cioè si immette una valenza ancora più universale e, difatti, infine si dice anche che è versato «in remissione dei peccati».

Queste cose non sono dette nelle parole di consacrazione del pane, lo sono invece in quelle che riguardano il vino che diventa il Sangue di Cristo.

Parlare di «nuova alleanza» e di «remissione dei peccati», relativamente al Sangue di Cristo è proprio ciò che afferma la Costituzione quando richiama l’annuncio del mistero di Cristo che ha redento e riconciliato tutti nel suo sangue. Questa verità della nostra fede è quella che riassumiamo nel Credo dicendo: «Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati» o nel Simbolo apostolico dicendo, invece, più semplicemente: «Credo la remissione dei peccati». Il sacramento del Battesimo d’altronde non è altro che questa sorgente di vita di cui abbiamo parlato, come leggiamo nel Prefazio del rito: «Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti glorifichiamo, per il sacramento della nostra rinascita. Dal cuore squarciato del tuo Figlio hai fatto scaturire per noi il dono nuziale del Battesimo, prima Pasqua dei credenti, porta della nostra salvezza, inizio della vita in Cristo, fonte dell’umanità nuova». Il Battesimo è detto il sacramento della nostra rinascita perché ci restituisce la figliolanza divina, liberandoci dai nostri peccati. Così anche la Riconciliazione come sacramento viene detta “sorella del Battesimo”, perché nel perdono ci fa ritornare alla vita dei figli di Dio. Questi sacramenti sono il dono di Cristo Risorto ai suoi discepoli: «Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”» (Gv 20,22-23). Il Battesimo e la Riconciliazione che troviamo legati nel Sangue di Cristo nell’Eucaristia sono i sacramenti istituiti da Cristo Risorto quando dona lo Spirito Santo.

Il Battesimo, infatti, avviene nell’acqua e nello Spirito e così anche la Riconciliazione avviene nell’acqua delle lacrime della penitenza e nello Spirito.

Lo Spirito Santo, infatti, è la Persona della Santissima Trinità che personalizza l’amore del Padre e del Figlio, la stessa vita divina che consiste nella loro comunione. Per questo, quando diciamo che il Sangue di Cristo è la sorgente dell’amore di Cristo e della sua vita divina non stiamo dicendo altro che nel Sangue di Cristo c’è il dono del suo Spirito, lo Spirito Santo.

Infatti, nelle liturgie orientali spesso la parte del racconto dell’istituzione eucaristica viene arricchita dai riferimenti allo Spirito Santo. Il Missionario del Preziosissimo Sangue don Giulio Martelli ha particolarmente ripreso e approfondito il legame tra il Sangue di Cristo e la Vita Spirituale. Ad esempio ha sottolineato come nell’Anafora di Giacomo o in quella di Marco Evangelista il sacerdote dice queste parole: «Egli prese il calice […] rese grazie, pronunciò la benedizione, lo riempì dello Spirito Santo, lo distribuì…». Il teologo Tomáš Špidlík richiama anche a tal proposito il rito della liturgia bizantina dello zèon per cui il diacono prima della comunione con un piccolo cucchiaio versa, tracciando un segno di croce, un po’ di acqua calda nel calice dicendo: «Il fervore della fede, pienezza dello Spirito Santo. Amen». Il grande liturgista Placido De Meester spiega questo rito così: «L’acqua calda versata nel calice e le parole che accompagnano questo gesto, significano ugualmente che lo Spirito Santo si comunica ai fedeli per mezzo della comunione al sangue di Gesù Cristo». E il più famoso teologo orientale Nicola Cabasilas parla di questo rito come una «Pentecoste eucaristica».

Quindi nel Sangue di Cristo non abbiamo solo la componente eucaristica, ma anche quella pentecostale perché − come scrive Martelli − il vino eucaristico è visto come «simbolo privilegiato della comunicazione dello Spirito». È nel Sangue di Cristo che ci viene comunicata la sua vita divina, il suo amore, appunto lo Spirito Santo che ci dona il Battesimo della rinascita e la Riconciliazione come figli di Dio. È qui che risiede la felicità somma dell’uomo.

Martelli cita anche altri padri della Chiesa. Lo Pseudo Ippolito parla del «calice dell’allegrezza, calice spumeggiante e infuocato, sangue reso forte dall’alto con il calore dello Spirito». Tertulliano pure allude al calice eucaristico quando scrive: «Si chiamano fratelli […] coloro […] che si sono abbeverati al medesimo Spirito di santità». Ancora più forte poi è il paragone che usa San Giovanni Crisostomo: «Guardate i bambini con quanta avidità afferrano il seno! Con quale slancio incollano le loro labbra alla mammella! Con il medesimo ardore avviciniamoci a questa mensa e alla mammella del calice spirituale. Con avidità ancor più grande succhiamo, come bambini dalla mammella, la grazia dello Spirito».

Appunto, nel calice spirituale abbiamo la grazia dello Spirito. Una riflessione di Papa Benedetto XVI sul capitolo 15 del Vangelo di Giovanni, in cui Gesù si paragona alla vite rispetto a noi che siamo i tralci, evidenziava proprio come «Egli si è fatto frutto e vino per noi, che il suo sangue è il frutto dell’amore che nasce dalla terra per sempre e, nell’Eucaristia, il suo sangue diventa il nostro sangue, noi diventiamo nuovi, riceviamo una nuova identità, perché il Sangue di Cristo diventa il nostro sangue». Aggiungeva anche che «il vino è simbolo, è espressione della gioia dell’amore. Il Signore ha creato il suo popolo per trovare la risposta del suo amore e così questa immagine della vite, della vigna, ha un significato sponsale, è espressione del fatto che Dio cerca l’amore della sua creatura, vuole entrare in una relazione d’amore, in una relazione sponsale con il mondo tramite il popolo da lui eletto».

Sempre il teologo Špidlík ha parlato di «mistica del sangue inebriante», sottolineando come per gli antichi l’anima, lo spirito abita nel sangue. «Nel Sangue di Cristo abita lo Spirito di Cristo. Offrendoci il suo sangue da bere, Cristo manifesta la sua volontà di comunicarci il suo Spirito». Il Salmo 22 «Il Signore è il mio pastore…» nella sua seconda parte parla della mensa che il Signore prepara al pellegrino del deserto usando l’espressione: «il mio calice trabocca».

Špidlík commenta che qui si vede la differenza tra l’ebbrezza del mondo e la «sobria ebbrezza» dello Spirito e cita San Cipriano che dice: «Il calice del Signore inebria, infatti, in modo tale da non togliere la ragione; conduce le anime alla saggezza spirituale, toglie il gusto alle cose profane, concede la dimenticanza della vita profana e ci mette a nostro agio, dando la gioia della bontà divina al cuore che era triste, tenebroso, oppresso dal peccato». Ecco che dalla tristezza siamo passati così alla felicità più autentica. Nel Sangue di Cristo!


3 - “Il Sangue di Cristo è il luogo di una speciale unità”

Abbiamo ricordato che Gesù ai suoi discepoli, prima della sua Pasqua, dice di se stesso che Egli è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Da questa sua descrizione abbiamo visto come si può definire, allora, anche la spiritualità del Sangue di Cristo, che anzitutto «è sorgente di vita», ma poi anche «ci testimonia la verità» e, infine, si manifesta come «la via nuova e vivente» della salvezza. La frase di san Gaspare che guida il nostro anno missionario, “Felice e grande quando ti unisci a Dio”, ci mette davanti tre temi fondamentali per la nostra vita: la felicità, la grandezza e l’unione con Dio. Questi tre aspetti in qualche modo ricalcano il fatto che Gesù è la Vita, è la Verità ed infine è anche la Via. Dire che Gesù è la Vita risponde alla domanda e al desiderio profondo che abbiamo della felicità. Essere felici significa in fondo vivere, vivere in modo pieno, autentico, eterno. Vivere significa amare ed essere amati. Questo ci rende felici. Sappiamo infatti che solo l’amore vero dà la gioia vera! Ed ecco che, quindi, viene in gioco subito il secondo aspetto di cui parla Gesù che è quello della Verità. Se la felicità consiste nel vivere e nell’amore, bisogna anche capirsi bene su quello che è il vero amore. Oltre alla felicità viene in gioco anche quella che san Gaspare chiama la grandezza.

Possiamo dirla anche in un altro modo. La felicità, come la Vita, appartiene più al campo dei sentimenti. Una persona si sente felice, si sente viva, quando appunto si sente amata. La grandezza dell’uomo, invece, come la Verità, appartiene più al campo della ragione. Una persona conosce ciò che è giusto, ciò che realizza pienamente se stesso, la verità del suo essere e della sua persona. Ci si sente felici nell’essere amati da Dio, ma perché? In cosa consiste questo amore? Si può provare se non a definirlo, almeno a descriverlo un po’? Se la Vita è l’Amore di Dio, in cosa consiste più precisamente? Qual è il vero amore, che – dice san Gaspare – ingrandisce l’uomo, sollevandolo al piano di Dio. Il Concilio Vaticano II nella sua costituzione Gaudium et spes al numero 22 dice chiaramente che «in realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo». San Giovanni Paolo II nella sua enciclica Redemptor hominis scrive appunto che Cristo «svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione». Ecco la grandezza di cui parla san Gaspare: è la verità del nostro essere e solo Cristo ce la svela. Ciò che ci rende felici è la nostra Verità. La spiritualità del Sangue di Cristo ci viene ancora una volta in aiuto, perché il Sangue di Cristo certamente identifica la vita divina, il suo amore che ci viene donato e viene a scorrere nelle nostre vene e a circolare nel nostro corpo. Ma oltre a questo il Sangue di Cristo identifica anche che tipo di vita, qual è questo amore che ci rende “grandi” e perché è davvero la compiutezza e la verità di noi stessi!

La Costituzione dei Missionari del Preziosissimo Sangue così dice al numero C9:

IL SANGUE DI CRISTO È IL “LUOGO” DI UNA SPECIALE UNITÀ 
C9. Poiché tutto il popolo di Dio è unito nel sangue della nuova alleanza, la Congregazione dà viva testimonianza di questa speciale unità attraverso la vita comunitaria secondo lo spirito di san Gaspare.

Quando parliamo del Sangue di Cristo non possiamo non toccare questo secondo aspetto fondamentale: esso realizza una «speciale unità», come la chiama la Costituzione CPPS. Si tratta di far risplendere quella vita di comunione che manifesta l’essere membri della famiglia di Dio “in Cristo”. Qual è la verità dell’uomo e quale la sua grandezza se non il diventare parte della comunione trinitaria? La stessa Chiesa non è altro che la comunione trinitaria che si estende agli uomini nell’unica famiglia di Dio. L’uomo è costitutivamente fatto per la relazione con Dio («Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza», Gen 1,26) e con gli altri («Non è bene che l’uomo sia solo», Gen 2,18). Ecco la sua verità.

Perché questa grandezza si realizzi bisogna che il Sangue di Cristo distrugga ed elimini la falsa grandezza di cui abbiamo parlato. Se la vera grandezza dell’uomo è vivere questa “speciale unità”, la falsa grandezza è nell’affermazione di se stessi verso gli altri con tutte le forme di invidia, rivalità, competizione, divisione, vanagloria e orgoglio che conosciamo.

Il testo biblico che più ci fa vedere come è proprio il Sangue di Cristo a costituire il “luogo” teologico di questa “speciale unità” è quello tratto dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini: «Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al Sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra d’angolo lo stesso Cristo Gesù. In lui tutta la costruzione cresce ben ordinata per essere tempio Santo nel Signore; in Lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito» (Ef 2,13-22).

San Paolo lo dice chiaramente che è nel Sangue di Cristo che coloro che sono “lontani” diventano “vicini”. È il Sangue di Cristo che abbatte ogni muro che fa da separazione, divisione, inimicizia. È nel Sangue di Cristo che si realizza che non siamo più stranieri, ma familiari di Dio. Come si può diventare, infatti, familiari di Dio, se non perché si viene ad avere lo stesso sangue? La Chiesa è, infatti, il Corpo di Cristo e, dunque, per essere tale ed essere unita, come un organismo richiede, bisogna che in tutte le sue membra e cellule circoli il sangue ed è questo a permettere l’organicità. Stiamo così ad identificare cos’è la nostra Verità: è la comunione dei figli di Dio e questa ha a che fare col Sangue di Cristo.

Perché il Sangue di Cristo sia il “luogo” di questa speciale unità, bisogna fare i conti col fatto che nella nostra vita questa verità non la vediamo, siamo ciechi e non abbiamo luce. Così, se parlando della felicità e della vita abbiamo fatto molto riferimento all’acqua e alla fonte della vita eterna con un accenno all’incontro di Gesù con la donna samaritana, ora parlando della grandezza dell’uomo e della verità non possiamo non fare riferimento invece all’elemento della luce e alla guarigione del nostro non-vedere. Per questo ci viene in aiuto il Vangelo dell’incontro di Gesù con un cieco dalla nascita (cfr. Gv 9).

In Lui viene a manifestarsi l’opera di Dio e il cieco entrerà nella luce, conoscendo che la Verità è che Gesù è il Figlio di Dio e che lui non è una persona insignificante, indegna ed emarginata ma è veramente un uomo, con tutta la sua dignità, capace di dialogare con Cristo e di annunciarlo a tutti, anche ai potenti del tempo senza paura e con grande franchezza. Perché questo avvenga Gesù con la sua saliva e la terra fa del fango e unge i suoi occhi. Questo sta a significare una sorta di nuova creazione da parte di Cristo.

Con la Sua Parola che si unisce alla terra ecco che viene ad essere “unta” (il verbo greco epi-chrìo è proprio lo stesso da cui deriva il nome di Cristo) e redenta la sua malattia.

Il cieco nato va a lavarsi nella piscina di Siloe, che significa “Inviato” ed è così che scopre la sua missione. I suoi genitori non lo accolgono guarito, anzi quasi lo disconoscono per paura, ma egli ormai veramente «ha l’età» e può «parlare da sé». Il cieco scopre che può smettere di essere un mendicante, di chiedere agli altri il diritto di esistere, perché il suo rapporto con Cristo gli ha dato un’identità nuova. Il risultato è che lui diventa un profeta, parla con parresia, tiene testa ad un tribunale, perché la sua vita non è più quella senza luce che gli hanno dato i suoi genitori. Così incontra Cristo e fa un atto di fede, ora è diventato luce ed è l’unico dei presenti al processo che ha riconosciuto il Cristo e lo sa professare.

Il Sangue di Cristo nella nostra vita rappresenta questa nuova identità e ci permette di entrare nel nuovo tempio che è il Corpo di Cristo, la sua Chiesa, la sua comunione. Ma, perché avvenga questo, bisogna uscire dalla propria cecità, di chi pensa di vedere, ma non vede affatto; di chi pensa di conoscere la Verità, ma ne è lontano; di chi crede di essere grande ed invece è il più povero di tutti. Il capitolo 9 del Vangelo di Giovanni si chiude con la grande provocazione di Gesù ai falsi “grandi” del suo tempo: «Gesù allora disse: “È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi”. Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: “Siamo ciechi anche noi?”. Gesù rispose loro: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: ‘Noi vediamo’, il vostro peccato rimane”» (Gv 9,39-41).


4 - "Il sangue di Cristo e la carità"

Quando abbiamo analizzato le parole dell’istituzione dell’Eucaristia che si dicono durante la Messa abbiamo fatto notare come quelle che si riferiscono al vino/Sangue di Cristo sono di più rispetto a quelle relative al pane/Corpo di Cristo. Ci siamo detti che il motivo era triplice.

Anzitutto ciò è dovuto al fatto che solo del Sangue di Cristo si dice che è «versato in remissione dei peccati» e poi che questo ha valore universale, cioè è «per tutti». Da qui siamo partiti per approfondire il valore del Sangue di Cristo come la vita divina in noi, che ci fa rinascere come figli di Dio e, proprio per questo, viene a identificarsi con lo Spirito Santo, che è il Signore che «dà la vita», la vita nella sua pienezza, appunto la vita eterna.

Ma, come avevamo già anticipato, c’è una terza aggiunta nelle parole relative al Calice del Sangue di Cristo e cioè che questo è «per la nuova ed eterna alleanza». Quest’espressione non viene detta riguardo al pane, ma solo riguardo al vino eucaristico. Siamo così di fronte ad una seconda caratteristica fondamentale della spiritualità del Sangue di Cristo e cioè che realizza una “alleanza” tra Dio e gli uomini, stavolta “nuova” perché non è possibile farla venire meno, come leggiamo in Geremia: «Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo». (Ger 31,32-33). Questa è dunque la nuova alleanza: siamo costituiti come popolo di Dio e ciò si realizza proprio grazie al Sangue di Cristo. Ecco, allora, come le Costituzioni dei Missionari del Preziosissimo Sangue descrivono proprio tutto questo nella sezione relativa all’apostolato che deriva da questo carisma.

C25. Poiché Cristo ha effuso il suo sangue per tutti riscattandoli «da ogni tribù, lingua, popolo e nazione» (Ap 5,9) per costituire di tutto il genere umano l’unico popolo di Dio, la nostra Congregazione è spinta dal proprio fine e spirito a realizzare questo piano di salvezza anche attraverso l’apostolato delle Missioni estere.

Già abbiamo detto che la nostra vita risiede nell’amore di Dio e questo perché la verità della nostra persona è che siamo fatti per la relazione, siamo costituiti per essere parte di un’unica famiglia, quella divino-umana che è il Popolo di Dio, la Chiesa. Il filosofo e poeta russo Vjačeslav Ivanovič Ivanov (1866-1949), quasi in contrapposizione al cartesiano «Cogito ergo sum» («Penso, dunque sono») dal sapore assai individualista, diceva invece: «Tu es, ergo sum» («Tu sei, dunque sono»). Io sono perché tu sei. Se tu non sei, non sono io. È la vocazione dell’uomo: divinizzarsi tramite la relazione con Dio e quella con il prossimo. Tramite le relazioni con il prossimo cresce anche la propria personalità umana. Diciamo infatti «persona» chi ha molte relazioni. Queste relazioni sono diverse, perché fondate su un altro sangue, il Sangue di Cristo. Sulla croce, infatti, Gesù stesso fa nascere relazioni nuove che non hanno più una base biologica, ma teologica. Gesù vede davanti sua madre e il suo discepolo amato.

Cosa succede? Succede che dalla sua croce, dal suo sangue nasce la Chiesa, nascono legami nuovi. Alla madre dice: «Donna, ecco tuo figlio!». Al discepolo, invece, dice: «Ecco tua madre!». Attenzione non dice al discepolo: «Questa è mia madre, ma d’ora in poi che io non ci sarò più, occupati di lei e fai come fosse tua madre». No, assolutamente. Gesù non dà in questo caso un’indicazione morale, ma rivela proprio una nuova identità. Dice proprio in modo secco e chiaro: «Ecco tua madre!». Se ci pensiamo bene, quand’è che tutti noi abbiamo fatto veramente esperienza della Chiesa? In fondo è quando veramente ci siamo resi conto e abbiamo sperimentato che la vita cristiana ci ha regalato nuovi fratelli, nuove sorelle, nuovi padri o madri, nuovi figli o figlie, che non derivano dai legami biologici, ma appunto dal cammino di fede. Ad esempio un Missionario vive questo rendendosi conto di avere dei nuovi fratelli a cui è legato – secondo il volere di san Gaspare – dal vincolo della carità che discende dal Sangue di Cristo (cfr. Col 3,14: «Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione», trad. CEI 1974). Avviene così che ci si rende conto che siamo chiamati ad occuparci, a prenderci cura di qualcuno che non è legato a noi da una relazione biologica, ma appunto divina. C’è di mezzo un altro sangue in queste relazioni e si genera l’intima convinzione che siamo legati, che siamo fratelli, che siamo padri/madri, che siamo figli/figlie. Proviamo a pensare quando Dio nella nostra vita ci ha chiamato a fare un’esperienza di Chiesa in questo senso, regalandoci nuovi legami e nuove relazioni. Probabilmente è già successo!

La Chiesa è costituita per iniziativa di Dio e questo è possibile proprio a partire dalla croce di Cristo e dal suo versamento del sangue della nuova alleanza, del nuovo popolo di Dio. Non si tratta tanto di amicizie nel senso come lo intende il mondo, perché gli amici si scelgono, mentre i fratelli no, restano sempre tali, anche qualora dovessero deluderci.

Il 25 marzo 1995 venne pubblicata l’enciclica di san Giovanni Paolo II Evangelium vitae il cui primo capitolo aveva questo titolo: «Il sangue di tuo fratello grida a me dalla terra». Si faceva riferimento all’uccisione di Abele da parte di Caino. Alla domanda del Signore: «Dov’è Abele, tuo fratello?», Caino rispose: «Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?». A questo punto il Signore dice: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo». Il Sangue di Cristo che ci unisce come fratelli ci rende certo “custodi” l’uno dell’altro, per cui il Sangue di Cristo è anche il sangue che grida il bisogno di amore e di carità. Il Missionario del Preziosissimo Sangue Barry Fischer (quattordicesimo Moderatore Generale della Congregazione), approfondendo questa traccia scrisse nel 2001 il libro Il grido del sangue. La sfida della rifondazione, in cui riprendeva le parole del Papa e richiamava la nostra Congregazione dei Missionari del Preziosissimo Sangue a riscoprire questa verità scrivendo: «In queste parole del Santo Padre sento una chiamata per la nostra Congregazione che porta il nome del Preziosissimo Sangue, ad essere “la voce delle vittime dell’oppressione e della sofferenza”, ad essere gli occhi e le orecchie per la nostra Chiesa e per la Società, accrescendo la consapevolezza della gente al grido del sangue che sale dalla nostra terra così spesso insanguinata. Il Santo Padre chiama noi cristiani a questa missione, ma non siamo noi chiamati in modo speciale? Come congregazione religiosa nella Chiesa noi siamo tenuti ad arricchire e a contribuire alla missione della Chiesa per la nostra particolare identità di Missionari del Preziosissimo Sangue! Noi siamo chiamati ad essere “voce vivente del Sangue di Cristo che grida dalla terra nel sangue di coloro che soffrono oggi”! Non può essere questo un modo di focalizzare la nostra Identità e la nostra Missione, un modo che supera i legami della cultura e del linguaggio, un modo di comprenderci gli uni gli altri in qualsivoglia apostolato o ministero portiamo avanti?». Non può non essere questa la verità che ci pone davanti il Sangue di Cristo. Noi cristiani non abbiamo più una distinzione per razza. Infatti, quando facciamo la comunione e beviamo tutti lo stesso Sangue di Cristo, inevitabilmente non esistono più italiani, europei, americani, africani, asiatici, ma siamo tutti cristiani e battezzati, della sola e unica razza che viene dall’unico Sangue di Cristo. Siamo consanguinei di Cristo.

Per questo Barry Fischer sottolinea il superamento in Cristo delle barriere di cultura e identità, perché si viene a formare una ricchezza nuova nella comunione di queste diversità.

Per noi cristiani la nostra verità è la Carità, la comunione che è nel Sangue di Cristo. Ecco la nostra grandezza: il fatto che siamo chiamati ad essere l’unico Popolo di Dio. La Costituzione CPPS cita il passo dell’Apocalisse (Ap 5,9-10) in cui si dice che Cristo «ci ha riscattati col suo sangue», noi uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione, per farci – letteralmente dal greco − «un regno e sacerdoti». Col Battesimo, infatti, siamo costituiti tutti re, sacerdoti e profeti. Questa è la nostra grandezza e la nostra somma dignità.

Che il Sangue di Cristo sia identificato con la Carità è patrimonio antico della Chiesa. I Missionari lo hanno solo riscoperto e diffuso. Infatti, già sant’Ignazio di Antiochia, padre della Chiesa del I-II secolo d.C, nella sua Lettera ai Tralliani scriveva: «Voi, dunque, prendendo con voi la mansuetudine, rigeneratevi nella fede, che è la carne del Signore, e nella carità, che è il sangue di Gesù Cristo». È molto chiara la proporzionalità: la fede sta alla carne come la carità al Sangue di Cristo. Ancora nella Lettera ai Romani scriveva: «Voglio il pane di Dio, che è la carne di Gesù Cristo, del seme di Davide, e per bevanda voglio il suo sangue, che è l’amore incorruttibile». E nella Lettera agli Smirnesi: «Infatti ho potuto constatare che voi siete… confermati nella carità per mezzo del Sangue di Cristo». È evidente l’equazione sangue-carità.


5 - "Il Sangue di Cristo implica il sacrificio della volontà"

Proseguiamo il nostro percorso che ci fa vedere come la frase di san Gaspare «Felice e grande quando ti unisci a Dio» trova la sua spiegazione e manifestazione più efficace e viva proprio nell’Eucaristia e, in modo particolare, nella spiritualità del Sangue di Cristo.

Abbiamo visto come le tre parti di cui si compone la frase, cioè la felicità, la grandezza e l’unione con Dio, possono essere messe in parallelo con la descrizione che Gesù dà di se stesso quando ai discepoli dice: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Così la vera felicità abbiamo visto che è Cristo, perché è Lui la vita, è Lui l’amore che colma e sovrabbonda ogni nostro vuoto. Il Sangue di Cristo è la sorgente di questa vita, che viene donata nel profondo del nostro cuore. La vera grandezza è Cristo, perché è Lui la verità, è Lui che – come dice san Gaspare – è il vero compimento dell’uomo, che è costitutivamente fatto per la relazione con Dio e con gli altri. Il Sangue di Cristo testimonia e realizza questa verità, perché ci dice che siamo veramente tutti consanguinei di Cristo e di ogni uomo e donna nell’unica famiglia di Dio. Adesso, ancora, vediamo che la vera unione con Dio è Cristo. Tutte le altre visioni, anti-cristiche, della religione portano fuori strada, perché o Dio è Amore e viene verso di noi, incarnandosi nella nostra realtà, oppure se è astratto e non concreto, allora non si tratta di una vera unione con Dio, ma di una gnosi, che viene dagli uomini e non da Dio. Per questo Cristo è anche la via, cioè è l’unico modo per aderire veramente a Dio Padre e evitare gli sconfinamenti nelle religioni, in cui si può avere delle immagini di Dio assolutamente false, che non hanno nulla a che fare con ciò che Lui veramente è: Amore.

Il Sangue di Cristo ancora una volta ci viene in aiuto e ci manifesta e spiega ancora meglio questa realtà, perché – come troviamo scritto nella Lettera agli Ebrei − «noi abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente» (Eb 10,19-20). Entrare nel santuario significa unirsi veramente a Dio e questa unione avviene per mezzo del sangue di Gesù che, appunto, è definito come la “via nuova e vivente”.

Nel testo della Costituzione CPPS troviamo infatti questo importante articolo:

C19. A imitazione di Cristo che versò il suo sangue, i sodali sono obbedienti alla volontà del Padre, manifestata in primo luogo nel Vangelo. Ciò implica per ogni sodale il sacrificio della volontà per la cooperazione nella vita di comunità e per il servizio del popolo di Dio. Questa obbedienza trova la sua espressione pratica nell’osservanza della costituzione e delle norme e regole, come pure nell’obbedienza all’autorità legittimamente costituita nella Congregazione e nell’obbedienza al Sommo Pontefice quale superiore supremo (canone 590 §2).

Con questa terza parte del nostro approfondimento sulla spiritualità del Sangue di Cristo, attraverso la Costituzione dei Missionari del Preziosissimo Sangue, finalmente possiamo vedere la dimensione del sacrificio, che spesso viene messa in primo piano quando si parla del Sangue di Cristo. È una dimensione fondamentale, ma che non può essere considerata come la prevalente. Ci indica infatti la via, il passaggio per poter giungere a quella vita/felicità e a quella verità/grandezza di cui abbiamo parlato e che sono i due aspetti prioritari

Il sacrificio – vedremo – non è mai fine a se stesso. La stessa realtà della croce, per noi cristiani rappresenta il passaggio alla Risurrezione, cioè a Dio Padre.

Il testo della Costituzione mette in paragone il versamento di sangue di Gesù Cristo con l’obbedienza alla volontà di Dio Padre dei Missionari, cosa che vale comunque in vario modo per ogni cristiano. Questo parallelismo si fonda su un testo della Lettera agli Ebrei in cui si legge appunto che Cristo «imparò l’obbedienza da ciò che patì» e così fu «reso perfetto», che è lo stesso verbo (teleióō) che si usa per la consacrazione sacerdotale. Il testo ribadisce il senso di questo versamento del sangue parlando proprio del «sacrificio della volontà». San Paolo nella Lettera ai Romani lo spiega anche con queste parole: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, Santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,1-2). Il tema evidente è quello del sacrificio.

Ogni atto cristiano, in fondo, richiede questo “sacrificio della volontà” e questo ci fa comprendere il senso spirituale del “versamento di sangue”. La Lettera agli Ebrei, infatti, dice anche: «Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato e avete già dimenticato l’esortazione a voi rivolta come a figli: Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d’animo quando sei ripreso da lui; perché il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio. È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre?» (Eb 12,4-7). Se ci pensiamo bene ogni atto d’amore vero, ogni atto che porta alla comunione richiede il passaggio dall’attaccamento a se stessi al dono e all’attenzione verso l’altro. Si tratta di quel rinnegamento di se stessi di cui parla Gesù. Questa scelta costa! Costa fatica, sacrificio, rinuncia, perché si tratta di passare dal seguire la propria volontà auto affermativa per mettere al centro il bene verso Dio e verso gli altri. Il punto è che quando si ama c’è sempre qualcosa da perdere, ovviamente poi si ottiene molto di più e quello che all’inizio era un rinnegamento di sé, poi si rivela come la più bella realizzazione di sé. Si tratta, però, all’inizio di perdere la vita individuale, tipica di questo mondo, e passare a quella relazionale che si compie nel regno dei cieli. Quando si vive il passaggio non si vede subito il risultato e questo è lo spazio del cosiddetto “rischio” o “salto” tipico dell’amore. Chi ama rinuncia a se stesso e sa che riceverà molto di più, ma nel frattempo vive sia una prima fase di distacco e poi una in cui si è nel vuoto e solo alla fine arriva la terza fase del nuovo riempimento che compensa il tutto.

Questa è la dinamica del Triduo Pasquale che caratterizza la nostra vita in questo mondo segnato dal peccato originale. C’è inevitabilmente un Venerdì Santo che rappresenta il nostro atto d’amore inteso come rinuncia a se stessi, ossia il sacrificio della volontà. Inevitabilmente c’è poi il Sabato Santo che è il momento di stallo, di vuoto, in cui ciò che avevi l’hai mollato, ma ancora non hai ciò che speravi dall’amore. Solo alla fine ecco la Domenica della Risurrezione che rappresenta la gioia grande che raggiunge colui che ha donato se stesso per amore (ricordiamo «le parole del Signore Gesù, che disse: “Si è più beati nel dare che nel ricevere!”», At 20,35). Se ci pensiamo bene tutti abbiamo vissuto un evento importante nella nostra storia in cui abbiamo sperimentato questa dinamica: ho rischiato per amore e poi, dopo un tempo di difficoltà, di prova e di rischio, ecco che ho assaporato una gioia molto più grande. Quando abbiamo sperimentato qualcosa di simile ecco che possiamo chiamarlo “evento fondante”, come per Lazzaro fu l’esperienza di essere stato risuscitato: la sua esistenza è per sempre cambiata. L’evento fondante diventa, infatti, un parametro per la nostra vita di essere sempre pronti a far morire l’uomo “vecchio”, attaccato a se stesso, per risorgere come “uomo nuovo” capace di donarsi e di gustare i frutti del dono di sé. Tutte le realtà più belle della nostra vita sono secondo questa dinamica. Pensiamoci. È così l’amicizia, il matrimonio, ogni consacrazione, il lavoro ecc. Davvero si può dire che vale la pena il sacrificio.

Può sorprendere, certo, come riguardo alla spiritualità del Sangue di Cristo nei primi incontri l’abbiamo approfondita sottolineando gli aspetti della vita, della felicità, della comunione, della grandezza e così via ed ora, invece, ne vediamo aspetti assai più cupi, come il sacrificio e le rinunce. In una sua predicazione sul Sangue di Cristo, padre Raniero Cantalamessa ha messo in evidenza proprio questa “contraddizione” con queste parole: «Ma come è possibile che lo stesso segno rappresenti, in quanto sangue, la sofferenza e, in quanto vino, la gioia?». Egli stesso ha risposto così, con questo bellissimo esempio: «Non si escludono a vicenda queste due cose? No, se pensiamo al sacrificio fatto per amore, come fu quello di Cristo. Il vino, che la Bibbia chiama spesso “il sangue dell’uva”, ricorda il misterioso rapporto che esiste, nell’esperienza umana, tra amore e sacrificio. «Non si vive in amore senza dolore», dice la Imitazione di Cristo. Quanti sacrifici comporta, per dei giovani sposi, l’arrivo del primo bambino, ma anche quanta gioia! Il vino eucaristico rappresenta la gioia del sacrificio!».

Circa la spiritualità del Preziosissimo Sangue, anche quando si parla di sacrificio, allora, se ne sottolinea sempre di più “la gioia del sacrificio”, alla stessa stregua delle fatiche di due sposi che sono diventati mamma e papà. Il bambino fa faticare, ma quanta gioia! Così vale per la spiritualità eucaristica del Sangue di Cristo che si mostra nella specie del Vino. È sangue ma è anche vino. Cioè durante la messa contempliamo veramente come il massimo dell’amore donato (Gesù versa tutto il suo sangue) diventa il massimo della gioia sperimentabile (il Vino del banchetto richiama la gioia di una comunione senza fine). Tutti noi possiamo vivere questa pasqua prima nel nostro cuore, così come poi avverrà nei nostri corpi. Ha scritto san Leone Magno: «Appaiano anche ora nella città santa, cioè nella Chiesa di Dio, i segni della futura risurrezione e, ciò che un giorno deve verificarsi nei corpi, si compia ora nei cuori. […]. Il sacro Sangue di Cristo ha spento il fuoco di quella spada, che sbarrava l’accesso al regno della vita». Come abbiamo visto, il Sangue di Cristo è la via, è l’unione con Dio.


6 - "Il Sangue di Cristo e la Parola di Dio"

L’efficacia della predicazione

Approfondendo il mistero dell’unione con Dio che rende possibile sia la felicità che la grandezza di cui parla san Gaspare, abbiamo anche potuto vedere come il Sangue di Cristo è la «via nuova e vivente» in cui sperimentare la vera unione con Dio. San Gaspare, infatti, nel suo scritto da cui è tratta questa frase, utilizza dei paragoni per farsi meglio comprendere.

La grandezza che tocca all’uomo ha un’analogia − scrive san Gaspare − con ciò che sono gli onori militari per il soldato o il raccolto di frutti per il contadino. Allo stesso modo la divinizzazione è la grandezza che spetta all’uomo, il suo compimento. Si tratta appunto della sua felicità più autentica e vera, quella che non è effimera, ma duratura, eterna e che riempie davvero ogni vuoto della nostra umanità. Non solo, ma come per il soldato e il contadino è necessario “faticare” per guadagnarsi il loro compimento, così anche per l’uomo è necessario un passaggio che permette il suo compimento. Questo passaggio consiste nell’“unirsi a Dio”. Si tratta di un “passaggio”, di una “pasqua” e il passaggio richiede sempre una perdita e un guadagno. La perdita qui sta nel lasciare tutto ciò che c’impedisce di unirci a Dio; in fondo si tratta del rinnegamento di tutte le altre idolatrie, a cominciare dalla principale, quella dell’assolutizzazione del nostro io che impedisce di passare dall’egoismo all’amore.

Dunque, è proprio in questo contesto che viene in gioco la questione della conversione, per cui la spiritualità del Preziosissimo Sangue è fortemente collegata al carisma della predicazione della Parola. Leggiamo come viene visto questo collegamento nella Costituzione CPPS.

C23. Il Missionario deve essere un testimone vivente della Parola di Dio. La sua testimonianza apostolica sarà efficace quando si nutrirà della spiritualità del Sangue Prezioso, nelle Sacre Scritture, nella liturgia, nella preghiera e nella tradizione viva della Chiesa.

Per i Missionari − come anche lo era per san Gaspare − è evidente questa relazione tra il Sangue di Cristo e la Parola di Dio. In che termini? Soprattutto nel fatto che solo se è “nutrita” della spiritualità del Sangue Prezioso la predicazione della Parola di Dio sarà efficace.

La Costituzione dei Missionari del Preziosissimo Sangue parlando della predicazione e del ministero della Parola di Dio usa molto spesso la terminologia della testimonianza/essere testimone, proprio a sottolineare che si tratta di rendere visibile, credibile, sperimentabile la bellezza della Parola di Dio. Ecco come san Gaspare spiegava ai suoi missionari la differenza tra una predicazione nutrita del Sangue di Cristo e una no. Egli diceva che «l’unione con Gesù Cristo è la meta a cui aspiriamo», ma «questa unione consiste nel perfetto, vero, puro amore. Dunque amare Gesù Cristo…». Ma questo amore si differenzia secondo le diverse forme e vocazioni. San Gaspare invita i suoi Missionari a non occuparsi degli «uffici che non competono. […]. Si dice, a me piace lo spirito dei Certosini, dei Gesuiti ecc. Essi fanno così, anche noi! Stoltezza! Dovevate allora farvi Gesuita o Certosino, non venire già in questa Congregazione». Cosa caratterizza, infatti, il carisma dei Missionari del Preziosissimo Sangue?

San Gaspare lo spiega così: «Come membri della Congregazione del Preziosissimo Sangue poi dobbiamo predicare l’amore a Gesù Cristo agli altri; ma chi è freddo non riscalda. Dunque… la devozione al Preziosissimo Sangue sarà il mezzo più sicuro per giungere all’amore di Gesù Cristo». Ecco identificato lo specifico dei Missionari.

Tutti i cristiani certamente sono chiamati alla predicazione del Vangelo, ma il punto è che il grande rischio è che ci sia una predicazione “fredda” che “non riscalda”. È incredibile come san Gaspare tocca un grande problema che coinvolge ancora oggi la missione della Chiesa. La sua ricetta è questa: solo la devozione al Preziosissimo Sangue può essere il mezzo più efficace per far giungere all’amore di Gesù Cristo. Solo una predicazione nutrita del Sangue di Cristo non è fredda, ma riscalda il cuore. Perché? Da cosa dipende la vera conversione?

Se leggiamo il brano degli Atti degli Apostoli sulla Pentecoste (At 2) ci possiamo rendere conto di una cosa importante. I discepoli sono riuniti nel cenacolo e lo Spirito Santo scende su di loro e il testo ripete la descrizione di un fatto. Si legge che «la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua (tē idía dialéktō?). Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: “Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa”». Alla terza ripetizione si dà un’indicazione maggiore per cogliere cosa stava accadendo: «li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio». Il punto è proprio questo: quando si sente qualcuno parlare delle “grandi opere di Dio” sembra davvero che quelle parole ci coinvolgono, ci riscaldano il cuore, hanno a che fare con la nostra vita, sono una lingua, un dialetto che conosciamo ed è per noi efficace, immediato, sorprendente. Quante volte abbiamo fatto quest’esperienza che la Parola di Dio, la predicazione, la catechesi o la testimonianza di persone cristiane ci hanno sconvolto tanto da commentare: «sembra che parlava proprio a me!». È un’esperienza questa che possono vivere anche gli atei. Questa è la Pentecoste. Tanto che il capitolo 2 degli Atti si conclude sottolineando come dopo la predicazione di Pietro, «all’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”. E Pietro disse loro: “Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo…”. Allora coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone». Il testo dice che le persone che ascoltavano «si sentirono trafiggere il cuore». Ecco l’esempio di una predicazione non fredda, ma che riscalda il cuore. Perché è stata tale? Perché ha messo al centro la testimonianza delle “grandi opere di Dio” e questa è una spinta attrattiva di conversione. Non a caso il commento iniziale degli ascoltatori verso gli apostoli che parlavano era stato questo: «Si sono ubriacati di vino dolce». In realtà si tratta di un altro tipo di ebbrezza e il vino di cui è ripiena la loro parola è l’amore immenso che si manifesta nel Sangue di Cristo.

Nel capitolo primo della Prima Lettera di san Pietro apostolo troviamo un passo celebre riguardante il Sangue di Cristo. La lettera si rivolge ai cristiani chiamati alla conversione della loro condotta (il termine anastrophē si ripete spesso) e subito si dice che noi siamo stati «scelti… per obbedire a Gesù Cristo e per essere aspersi dal suo sangue» (v. 1). La chiamata è quella ad «essere santi» e a «comportarsi con timore di Dio», aggiungendo: «nel tempo in cui vivete quaggiù come stranieri». In realtà quest’espressione in greco suona «nel tempo della paroikía» dove paroikía (da cui il nostro vocabolo “parrocchia”) significa l’essere “al di fuori delle case”, un po’ come stranieri, ospiti, pellegrini. Noi cristiani siamo “parrocchia”, perché pur stando in questo mondo, non siamo più di questo mondo, appartenendo già al regno dei cieli, la nostra vera patria a cui siamo chiamati. Questo cambio di comportamento (“conversione”) è possibile – dice la Lettera – perché «non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta, ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia» (v. 18). Il passaggio della conversione è nella liberazione dalla «mataías anastrophēs» cioè dalla «condotta vana», che va a vuoto nella vita, falsa, ipocrita. Questa è la vera “purificazione” che porta «eis philadelphían anypókriton» – letteralmente – “alla philadelphìa non-ipocrita”, cioè «ad amarvi sinceramente come fratelli». Ecco la vera conversione per il Sangue di Cristo.

Si tratta di «amarsi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri». Questa fratellanza, “philadelphia”, si attua per mezzo del Sangue di Cristo perché è così che siamo «rigenerati non da un seme corruttibile ma incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna».

Troviamo di nuovo il legame tra il Sangue di Cristo e il seme della Parola di Dio che viene messo in ognuno dei nostri cuori, tanto che ci “trafigge il cuore” e la stessa Parola di Dio viene nella Scrittura paragonata alla spada a doppio taglio che «penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito… e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12). La Parola di Dio come tale sempre converte, trafigge, sciocca. Si parla, infatti, a proposito di una predicazione efficace, che essa provoca ad un certo momento uno «schock cognitivo» perché i nostri pensieri e sentimenti tendono all’omeostasi, cioè a non variare. Tendenzialmente non andiamo oltre la nostra mentalità e i nostri schemi. Invece la conversione in greco si dice proprio metà-noia, cioè significa: “oltre la mentalità”. Quando la predicazione è efficace e riscalda è perché in essa c’è presente una destabilizzazione che fa cambiare direzione. La Parola di Dio comporta sempre un sanguinamento, perché muove e trafigge il cuore, rigenera, purifica. Quando sentiamo parlare dell’amore di Dio non possiamo rimanere gli stessi.

Questa non è una riflessione solo di san Gaspare e dei Missionari, ma è un patrimonio da sempre della Chiesa. Il più grande padre della Chiesa che ha studiato le Scritture è, infatti, san Girolamo, il quale le ha anche tradotte. Ebbene – come ha riportato in una sua relazione lo studioso Jean-Paul Lieggi – nella sua Omelia sul Salmo 147 san Girolamo afferma: «Ogni volta che ascoltiamo la Parola di Dio e la Parola di Dio, e la carne di Cristo e il suo sangue, viene versata nelle nostre orecchie (in auribus infunditur), e noi pensiamo ad altro, in che grande pericolo incorriamo?». Vediamo da una parte come san Girolamo invita all’ascolto attento della Parola di Dio, come quando si è attenti a non far cadere alcun pezzo di ostia o goccia di vino. D’altronde il sangue è la vita, il respiro di Dio e, dunque la Parola di Dio è anch’essa Sangue di Cristo. E infatti, da un’altra parte, Lieggi sottolineava la bellezza di quest’espressione di san Girolamo: «ci viene versata nelle orecchie la Parola di Dio». Quest’espressione scaturisce da una piena accoglienza dell’«identificazione del Sangue di Cristo con la parola delle Scritture: quando la ascoltiamo, la Parola ci viene “versata” nelle orecchie!».


7 - "Il Sangue di Cristo ci rende uomini liberi per amare"

Eccoci giunti all’ultima tappa del nostro percorso. Attraverso l’approfondimento della spiritualità del Sangue di Cristo, così come viene presentata nella Costituzione dei Missionari del Preziosissimo Sangue, abbiamo potuto verificare e riflettere su come la frase di san Gaspare «Felice e grande quando ti unisci a Dio» possa essere sperimentata soprattutto attraverso l’Eucaristia e, in modo particolare, proprio nel dono di Cristo del suo sangue. Se Gesù si è presentato ai suoi discepoli come «la via, la verità e la vita», allora ecco che il suo sangue è la sorgente di vita che si identifica con lo Spirito Santo. Quindi ci rivela la verità della nostra esistenza, che è la carità, la comunione. Infine è la via nuova e vivente del sacrificio identificandosi con la stessa Parola di Dio che spinge alla conversione dei cuori.

Ecco, allora, che il frutto di tutto questo itinerario non può non essere la pienezza e la realizzazione della nostra umanità. Possiamo, infatti, notare come si arriva ad una vera e propria trasfigurazione di tutta la nostra persona in tutti i suoi aspetti. Il Sangue di Cristo dopo essere stato collegato allo Spirito, alla Carità e alla Parola di Dio, ora non può non collegarsi anche con l’antropologia cristiana che ci fa vedere l’uomo nuovo, quello veramente tale. Non possiamo, infatti, confonderci pensando che la natura umana sia quella corrotta per via del peccato originale. Infatti, già san Leone Magno precisò che «il peccato non fa parte della natura umana», non è in tal senso originario, perché, anzi, in principio l’uomo «era cosa molto buona» (Gen 1,31). Dunque, la vera umanità è quella libera perché liberata nel Sangue di Cristo. Ecco, infatti, le ultime due citazioni sul Sangue di Cristo della Costituzione CPPS.

C28. Chiamati a partecipare alla Missione di Cristo nel mondo, i Sodali della nostra Congregazione, animati dal mistero del Sangue di Cristo e vivendolo con consapevolezza, si sforzano continuamente di raggiungere la conformità con Lui nella formazione umana, cristiana, comunitaria e apostolica per servire meglio il Regno di Dio.

C45. La nostra Congregazione è una comunione di uomini resi liberi dal Sangue di Cristo e uniti dal vincolo di carità. Come fratelli, i Sodali lavorano insieme per creare una comunità in cui ognuno di essi può rispondere in piena libertà alla chiamata di Cristo. Con l’impegno reciproco, tuttavia, essi debbono usare la loro libertà per promuovere il bene della comunità.

Nell’Antico Testamento il sangue rappresenta la vita, ma è sempre raccontato e visto come qualcosa di esteriore, da un punto di vista esterno. Il sangue degli agnelli di pasqua viene spalmato negli stipiti delle porte delle case degli Ebrei, affinché siano salvati dall’angelo sterminatore (Es 12,22-23); oppure viene posto sull’altare (Lv 17,11) o se è sparso è il segno dell’omicidio commesso (Dt 21,7). Ma si tratta sempre di sangue “esteriore” e, come sappiamo, tutta l’antica alleanza alla fine fallisce, in quanto l’uomo non raggiunge la sua liberazione e salvezza interiore (cfr. Ger 31,32). Qual è invece la novità del Nuovo Testamento? Che il sangue diventa qualcosa che viene bevuto, cioè che entra nell’uomo, ed essendo Sangue di Cristo, vita divina lo rigenera. Si attua quella che la Costituzione CPPS chiama conformità a Cristo. Gesù Cristo, infatti, è vero Dio ma anche vero uomo. Il Vangelo di Giovanni quando racconta la passione di Gesù sottolinea la frase di Pilato: «Ecco l’uomo» (Gv 19,5) che assume un significato profondo. In Gesù si manifesta la più autentica umanità.

Per questo nella parte della Costituzione dedicata alla formazione dei Missionari si parla della “cristoconformità”, perché il vero uomo è colui che «vive in Cristo e Cristo vive in lui» (cfr. Gal 2,20). L’Antico Testamento ci dà l’indicazione della salvezza attraverso le dieci parole sintetizzabili nel grande insegnamento dell’amore: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10,27; cfr. Dt 6,5 e Lv 19,18). Effettivamente solo l’amore con tutto il cuore, la mente, l’anima, le forze rende felice e grande la vita. Ma l’Antico Testamento si ferma qui. Il dato finale è che l’uomo, ogni uomo non riesce ad amare in questo modo. Per questo il Nuovo Testamento segna il passaggio dalla legge alla Grazia, in quanto Cristo è l’uomo che compie il comandamento dell’amore e lo rinnova perché rende possibile il fatto che chiunque lo segue può amare come ha amato Lui: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri», (Gv 13,34-35). La congiunzione greca kathōs può avere, oltre al valore comparativo (“come”), anche quello causale (“siccome”) per cui si vede ancora meglio la qualità dell’amore divino: è il Padre che lo rende possibile nel Figlio ed è il Figlio che lo rende possibile in noi; da soli, non potremmo mai amare come ci chiede Gesù. Com’è possibile allora diventare uomini capaci di amare con il cuore, la mente, le forze, ecc.? Come può essere redenta tutta la nostra umanità, in tutte le sue dimensioni? Una branca della teologia si chiama soteriologia e si occupa di studiare come avviene la nostra salvezza. Ci sono due principi classici della soteriologia. Il primo è quello della “ragione equivalente” che afferma che l’uomo non può salvarsi da solo e con i suoi soli sforzi, ma ha bisogno dell’azione di Dio. Il secondo è quello della “redenzione per assunzione” («quod non est assumptum non est sanatum», “ciò che non è stato assunto non è stato salvato”), per cui non solo è necessaria l’azione di Dio, ma bisogna che lui assuma tutte le dimensioni dell’uomo e che tutte siano purificate. Se dunque la salvezza è amare Dio e il prossimo con tutto noi stessi (cuore, mente, forze, ecc.) bisogna che tutte queste dimensioni siano assunte da Dio e purificate.

A questo punto possiamo ancora più comprendere la portata immensa del Sangue di Cristo e soprattutto di quelli che sono i misteri delle sue effusioni di sangue. In quest’ultimo incontro scopriamo come e perché la spiritualità del Sangue di Cristo si fa devozione (preghiera e venerazione) e perché la devozione diventa una modalità per crescere nella vita spirituale
Infatti, da san Gaspare in poi i Missionari del Preziosissimo Sangue diffondono la preghiera della Coroncina del Preziosissimo Sangue e spesso questa viene vista come semplice devozione. Ma in realtà in questa preghiera contempliamo come in un cammino spirituale (infatti viene anche chiamata VIA SANGUINIS) i misteri delle sette effusioni di sangue di Gesù, che riguardano tutte le dimensioni della nostra umanità, rendendo possibile così quell’«amore fino alla fine» (cfr. Gv 13,1) che ci ha manifestato il Signore. 

Così la prima effusione, la circoncisione, ha a che fare – come scrive san Paolo – con la purificazione dei desideri e delle passioni del nostro spirito (cfr. Rm 2,28-29) per poter iniziare e ricominciare sempre il nostro cammino di fede desiderando di “tagliare”, di rompere, di circoncidere i nostri desideri egoistici e i nostri vizi, per far posto ai desideri dello Spirito. Questa preghiera ci fa invocare il dono dello Spirito del Timor di Dio per vincere il vizio della gola con tutte le sue dipendenze, idolatrie e affezioni disordinate.

La seconda effusione, l’agonia, riguarda la redenzione della nostra volontà come anche della nostra memoria. Come infatti, accadde a Gesù nel Getsemani, così anche per noi si tratta di passare dalla volontà autoaffermativa a quella di obbedienza all’amore di Dio e di ricordarci il suo amore di predilezione per noi. In questa preghiera invochiamo il dono dello Spirito di Pietà, che è la memoria della tenerezza di Dio e che vince i demoni della tristezza e dell’ira.

La terza effusione, la flagellazione, ci fa vedere Gesù che viene ferito, denudato, umiliato, che perde ogni «apparenza e bellezza», «deriso e disprezzato, senza più alcuna stima» (cfr. Is 53,2-3). Col suo sangue egli redime le nostre ferite affettive e intime, la nostra carne, il nostro bisogno di stima e apprezzamento. Qui chiediamo e otteniamo il dono dello Spirito della Scienza, che è l’amore che si prende cura in modo profondo della persona, onorandola e rispettandola, distruggendo i vizi della superficialità, della lussuria e strumentalizzazione.

La quarta effusione, la coronazione, riguarda la nostra mentalità e intelligenza. Gesù versa il suo sangue dalla testa e, quindi, redime anche questa dimensione affinché nella nostra vita possiamo governare, discernere, decidere secondo l’amore di Dio. Qui invochiamo il dono dello Spirito di Consiglio e del discernimento per vincere il demone dell’avarizia, tipico di chi è chiuso all’amore, al servizio al dono di sé e dei suoi beni.

La quinta effusione, la salita al Calvario, è la redenzione delle nostre forze. Gesù versa sangue portando la croce, specialmente con le sue spalle. Invochiamo così il dono dello Spirito della Fortezza che ci aiuta a vincere il demone dell’accidia, che consiste nell’uscire fuori dalla nostra missione, per scoraggiamento, mancanza di perseveranza, poca pazienza e sopportazione o anche per un attivismo insensato e a vuoto per evadere e scappare dalle difficoltà

La sesta effusione, la crocifissione, ci fa vedere Gesù che versa sangue dalle sue mani e piedi inchiodati e fa nascere la Chiesa. Anche tutto il nostro agire viene redento e salvato dal Sangue di Cristo. Invochiamo infatti il dono dello Spirito dell’Intelletto (dal latino intus-legere cioè «leggere dentro» o intus-ligare cioè «legare dentro») che è il dono di vivere le relazioni secondo l’amore fraterno e divino contro ogni invidia, vanagloria, rivalità e competizione.

Infine la settima effusione, la ferita del costato, ci mostra l’amore di Cristo fino alla fine e viene redento il profondo del nostro spirito e il nostro cuore. Il dono dello Spirito di Sapienza porta alla completa unione con Dio e in Dio (“un cuor solo e un’anima sola”), sconfiggendo il male della philautìa (l’amore proprio, per se stessi) e della superbia. Altro che semplice devozione. Questa preghiera è profondamente biblica e compendia tutta la dinamica della nostra salvezza.

Il testo della Costituzione finisce in modo meraviglioso dicendo che il Sangue di Cristo ci ha resi uomini liberi. Perché la vera libertà è quella di poter e saper amare contro tutti i condizionamenti e le schiavitù interiori che ci impediscono di farlo.
L’ultima beatitudine della Scrittura dice infatti: «Beati coloro che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello» (cfr. Ap 22,14; 7,14). 
Insomma, questo è un altro modo, forse il più bello, il migliore per definire i Missionari del Preziosissimo Sangue e tutti coloro che seguono questa spiritualità. Chi siamo noi? Siamo una «comunione di uomini resi liberi dal Sangue di Cristo»
Stupendo!






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martedì 1 luglio 2025

Creazione divina e creatività della natura. Dio e l'evoluzione del cosmo, di Mariano Artigas


Creazione divina e creatività della natura. Dio e l'evoluzione del cosmo

di Mariano Artigas



Índice

Una nuova cosmovisione
Creatività naturale ed azione divina
Evoluzione e auto-organizzazione
Argomenti teleologici
La contingenza dell'ordine naturale
Contingenza e piano divino
Natura e persona umana



Una nuova cosmovisione

Per la prima volta nella storia oggi possediamo una cosmovisione scientifica completa e rigorosa. Nel dire che è completa non pretendo affermare che sappiamo tutto sulla natura, al contrario, quanto più progredisce la scienza, più scopriamo la vastità di ciò che rimane da conoscere. Voglio dire che la scienza attuale ci fornisce conoscenze fondate su tutti i livelli della natura, da quello microfisico delle particelle sub-atomiche, dove abbiamo a che fare con grandezze dell'ordine di 10–15 cm, fino a quello macrofisico delle stelle e delle galassie, con estensioni dell'ordine di 1027, passando tra gli esseri di dimensioni medie del mesocosmo, dove ci sono i viventi e l'essere umano. Conosciamo, inoltre, molte relazioni importanti tra i diversi livelli della realtà.
In quest'immagine della natura occupano un posto importante i concetti di dinamismo, modellizzazione e informazione.Oggi sappiamo che non esiste una materia puramente passiva ed inerte. La materia è dotata di un dinamismo proprio a tutti i livelli, e ciò che si manifesta come materia inerte è il risultato di equilibri dinamici. Inoltre, il dispiegarsi del dinamismo naturale si realizza secondo determinati modelli. Il dinamismo naturale è immagazzinato in strutture spaziali e si dispiega seguendo alcuni schemi o modelli. Il concetto di modellizzazione è determinante in questo contesto. Nella natura non ci sono solo dei modelli (patterns), ma tutto è articolato intorno a modelli. La scienza cerca e acquista una conoscenza sempre più dettagliata di questi modelli, ossia strutture spaziali e temporali che si ripetono.
Se passiamo dallo studio sincronico della natura, com'è al presente, allo studio diacronico della sua evoluzione, ci imbattiamo non solo in modelli già esistenti, ma nella progressiva formazione di nuovi modelli. È il fenomeno della modellizzazione (patterning). Dinamismi diversi possono coincidere per dar luogo ad un nuovo tipo di strutturazione e di dinamismo, prima non esistente. I dinamismi, come i modelli spaziali e temporali, si possono integrare reciprocamente, per dare origine a nuove entità, proprietà e processi. Per spiegare la modellizzazione è utile il concetto di informazione.
Un tipico esempio di informazione è l'informazione genetica contenuta nel DNA. Si tratta di una macromolecola la cui struttura spaziale contiene, codificata, l'informazione necessaria per la formazionee il funzionamento di un organismo. I viventi iniziano la loro esistenza come un'unica cellula nella quale si trova tutta questa informazione genetica, dalla quale, per successive replicazioni e differenziazioni, si formano i diversi tipi di cellule costituenti l'organismo pluricellulare. La formazione di queste cellule differenziate, come la loro distribuzione nelle diverse parti dell'organismo che man mano si sviluppa, è regolata dall'informazione genetica.


Creatività naturale ed azione divina

Una natura in cui si formano nuovi modelli è una natura creativa, poiché produce tipi di esseri che prima non esistevano. Questa creatività naturale non si oppone all'azione divina, come se la natura e Dio fossero in concorrenza. Si tratta piuttosto di azioni complementari. La creatività naturale si spiega come il risultato del dispiegamento e delle interazioni dei diversi dinamismi esistenti in natura, vale a dire, è il dispiegarsi dell'informazione contenuta nelle strutture naturali. La scienza fornisce spiegazioni sempre più profonde di questa creatività, ma il fatto che esistano le condizioni che la rendono possibile rimanda all'azione di una causa trascendente, che dà l'essere a tutto ciò che esiste in natura. Inoltre, la natura in mezzo alla quale viviamo mostra un carattere straordinariamente specifico: il suo dinamismo rende possibile l'esistenza di entità e di processi enormemente sofisticati, che consentono l'apparire di un essere razionale come l'essere umano. L'informazione naturale è razionalità materializzata, in quanto orienta la produzione di molti risultati che sono razionali, perché impiegano mezzi per il raggiungimento di fini e con modalità molto sofisticate. La biologia molecolare fornisce molti esempi, in continuo aumento con il progredire della scienza. Per di più, la razionalità umana poggia su una base naturale, e anche in questo senso si può dire che la natura è razionale.
Solo Dio può essere la fonte assoluta dell'essere e dell'operare. Il dinamismo naturale ed i suoi risultati sono limitati e non hanno in se stessi la spiegazione o ragione assoluta della loro esistenza e del loro modo di essere. La natura rimanda al suo fondamento ultimo, che è la libera azione divina. Solo l'Essere per sé può dare ragione adeguata dell'essere limitato e contingente. Non esiste contrapposizione, ma complementarietà, tra l'attività naturale e l'azione divina. Molti equivoci e confusioni derivano dal non accorgersi di questa complementarietà. Talvolta l'azione naturale e l'attività divina vengono contrapposte, come se fossero realtà che si escludono, senza avvertire che la natura non potrebbe esistere senza l'azione divina, e che Dio rende possibile l'esistenza e il manifestarsi delle meravigliose potenzialità che Egli stesso ha posto nella natura. La complementarietà si esprime in modo adeguato con i concetti classici di Causa Prima e cause seconde. Solo qualche volta la Causa Prima può sostituirsi alle cause seconde, e in questo caso si ha un miracolo, ma di solito ciò non avviene, perché Dio stesso ha dato alle cause seconde la capacità di agire, e desidera rispettarle.
Il miracolo è, ovviamente, qualcosa di soprannaturale, anche se si tende a pensare che, se non avvenissero dei miracoli, la natura seguirebbe il suo corso indipendentemente dall'azione divina. Ma non è così. Non esiste un corso naturale degli eventi indipendente dall'azione divina. Tutti i processi naturali, in ciascuno dei loro stadi ed aspetti, esigono un'azione divina fondante posta in un altro ordine, diverso dall'ordine dalle cause seconde naturali: l'ordine dell'azione divina fondante, che dà l'essere e rende possibile l'agire di quanto esiste in natura. Quindi la creatività naturale si integra con la creatività divina.


Evoluzione e auto-organizzazione

Nulla dovrebbe portare a considerare l'evoluzione come qualcosa di opposto all'azione divina. Al contrario, l'evoluzione si può considerare come il modo che Dio ha voluto utilizzare per dare l'esistenza a quanto esiste nel mondo, utilizzando canali naturali, la cui potenzialità dipende dai piani della sapienza divina e dall'azione divina fondante. In questo contesto acquista particolare rilievo una definizione di natura, proposta da san Tommaso in modo quasi incidentale nel commento ad un testo di Aristotele. Osserva Tommaso d'Aquino che «la natura non è altro che il piano di un Artista, e di un Artista divino, iscritto all'interno delle cose, grazie al quale si muovono verso un fine determinato, comese il costruttore di una nave potesse fornire ai pezzi di legno la capacità di muoversi da sé per la produzione della forma dellanave»2. Nel secolo XIII questo modo di esprimersi era solo metaforico, mentre oggi sappiamo che la metafora si riferisce ad un processo reale.
In effetti, la metafora più adeguata per designare l'attuale cosmovisione scientifica è l'auto-organizzazione; è l'idea di san Tommaso presa alla lettera. Le particelle subatomiche hanno un dinamismo che permette loro di unirsi, formando prima nuclei di atomi, poi atomi completi. Le leggi che governano questa morfogenesi sono specifiche. Una, molto semplice ma di grande rilievo, è il principio di esclusione, formulato dal fisico Wolfgang Pauli nella decade del 1920, per cui due fermioni che appartengono allo stesso sistema non possono trovarsi nel medesimo stato quantico. Gli elettroni sono fermioni (particelle che seguono la statistica di Fermi-Dirac). L'applicazione di questo principio porta alla distribuzione degli elettroni periferici in diversi strati e in livelli ben determinati: dall'atomo di idrogeno, che ha solo un elettrone intorno al nucleo, fino a quello di uranio, che ne ha 92, si ottengono i 92 tipi di atomi esistenti in natura. Il principio di esclusione può essere considerato come un principio diauto-organizzazione, perché indica come si organizzano gli elettroni periferici degli atomi secondo il loro dinamismo proprio. Il principio, quindi, spiega le proprietà fondamentali dei diversi tipi di atomi e molte caratteristiche dei composti di atomi (molecole, macromolecole, ecc.), che dipendono dalle proprietà degli elettroni periferici degli atomi.
Una natura capace di auto-organizzarsi nel modo che conosciamo ha un dinamismo specifico a livello fisico-chimico, in grado di fornire la base della struttura e della funzionalità dei viventi. A livello biologico, questo dinamismo è munito di una sorprendente complessità organizzativa. Tutto funziona, in ultimo termine (semplificando un po'), sulla base di pochi elementi che si combinano in modi molto funzionali: tre particelle subatomiche (protone, neutrone, elettrone) forniscono la base della materia ordinaria; 92 atomi sono gli elementi basilari della natura; 20 aminoacidi sono i componenti delle proteine; 4 nucleotidi sono i blocchi basilari del DNA. In tutti questi casi, la strutturazione e le interazioni di tali componenti producono una meravigliosa varietà di risultati, fino ad arrivare all'organismo umano.


Argomenti teleologici

Alla luce dell'attuale cosmovisione scientifica, la base degli argomenti teleologici a sostegno del passaggio dalla natura a un Dio personale che l'ha creata e la mantiene nel suo essere e nella sua attività, rimane ampliata e rinforzata. Senza dubbio, ogni argomento teleologico implica una riflessione filosofica. Il passaggio dalla natura a Dio non è automatico. Dall'antichità ai nostri giorni questa argomentazione è particolarmente semplice ed efficace per lo spirito umano e si è ripetutamente sostenuto che il progresso scientifico l'ha invalidata. Queste mie riflessioni dimostrano però che non è così. Nell'epoca moderna la teleologia è stata sottoposta a numerose e dure critiche, che devono essere tenute in considerazione per valutarne adeguatamente gli argomenti. La scienza attuale, tuttavia, dà piuttosto un nuovo sostegno al fondamento empirico del ragionamento teleologico.
Un ruolo importante, e una novità nel pensiero moderno, ha avuto il progresso verificatosi in biologia. Per molto tempo, lo sviluppo della scienza empirica moderna e della relativa epistemologia è stato legato alla fisica. All'epoca della nascita e dello sviluppo iniziale della scienza moderna, nel Seicento e Settecento, il meccanicismo sembrava escludere ogni riferimento alla finalità naturale. Le teorie evoluzionistiche dell'Ottocento sembravano escludere la finalità dall'ultima possibilità che rimaneva, cioè dall'ambito dei viventi. L'ulteriore sviluppo della fisica e della chimica hanno, invece, reso possibile un grande progresso della biologia che, come nell'antichità ma ora con un rigoroso fondamento scientifico, torna ad essere al centro delle scienze naturali e, quindi, della riflessione filosofica sulla natura. Il mondo dei viventi è pieno di dimensioni teleologiche o finaliste. Talvolta, per evitare le implicazioni teologiche della teleologia, si parla diteleonomia o si nega la rilevanza della finalità, ma i concetti finalistici riemergono con più forza con il progresso della biologia. Quando gli scienziati spiegano i risultati delle loro ricerche, spesso devono ricorrere a concetti non solo finalistici, ma addirittura antropomorfici.


La contingenza dell'ordine naturale

Si potrebbe obiettare che nel mettere insieme, come sto facendo, la cosmovisione scientifica con l'azione divina si corre il rischio di un concordismo destinato ad essere superato dall'ulteriore progresso scientifico. La storia confermerebbe quest'obiezione. Anche l'immagine del mondo ricavata dalla fisica classica fu messa in relazione con l'azione divina, ma fu poi superata dallo sviluppo delle scienze.
Ovviamente, nessuna immagine scientifica del mondo può essere messa in relazione diretta con l'azione divina, come se fosse l'unica espressione o conseguenza possibile. L'azione divina è libera e non è limitata da nulla all'infuori di Dio. Sembra un'eco dell'argomentazione che Urbano VIII desiderava fosse accolta ed accettata da Galileo per salvare la trascendenza e l'onnipotenza di Dio. In quest'atteggiamento, come nello strumentalismo del Bellarmino, si è visto una posizione coerente con la moderna filosofia della scienza, che insiste sulla subordinazione delle teorie ai dati empirici: nessun insieme di dati empirici implica l'accettazione di una teoria o prova che sia vera in modo completo e definitivo.
Non sappiamo con certezza se Galileo pensava di disporre di prove decisive a favore dell'eliocentrismo. Ciò che, però, dobbiamo sapere è che la sua ricerca della verità e di dimostrazioni valide era fondamentalmente corretta. Questo atteggiamento ha reso e continua a rendere possibile il progresso delle scienze. Senza dubbio, dobbiamo rinunciare al razionalismo che cerca o pretende di aver raggiunto una conoscenza assolutamente completa, il che è fuori dalle nostre possibilità. La nostra conoscenza è sempre parziale e limitata. Possiamo però arrivare a conoscenze vere e certe, sia pure parziali, approssimative ed in grado di essere perfezionate.
Questo vale nella scienza. Forse tra venti o quarant'anni le particelle subatomiche saranno conosciute in un modo diverso da oggi, ma, anche in questo caso, le nuove teorie non dovranno dimenticare quanto è stato già confermato. Qualcosa di simile avviene anche al di fuori della scienza empirica. Pur consapevoli che l'attuale cosmovisione è parziale e perfettibile, sappiamo tuttavia che gli aspetti fondamentali, di cui abbiamo parlato, esistono veramente nella realtà. Non sto promovendo un nuovo concordismo adatto alle nostre circostanze. Mi limito a segnalare alcune conoscenze scientifiche ben fondate, per riflettere sul tipo di relazione che hanno con l'azione divina. Non ho difficoltà ad ammettere che quanto oggi afferma la scienza non è una verità assoluta, perché spiega una situazione concreta dell'ordine naturale che è sempre contingente. Possiamo attingere conoscenze certe e prove autentiche nella misura in cui l'ordine naturale ha alcuni elementi di necessità. Il successo della scienza empirica dimostra che ve ne sono a sufficienza, ma si tratta solo di una necessità fisica, ossia di una stabilità non assoluta dell'organizzazione della natura.
Forse viviamo in un angolo dell'universo particolarmente organizzato e in un'epoca privilegiata. È possibile. Ma l'ordine naturale che ci circonda e del quale formiamo parte ci fornisce un fondamento molto appropriato del pensiero teologico. Il disordine fisico e le limitazioni naturali inerenti ad una cosmovisione evolutiva non sono un ostacolo; risultano anzi comprensibili se ammettiamo che Dio rispetta l'attività naturale e conta su di essa per realizzare il piano creatore.
Non dovremmo rappresentarci gli effetti dell'azione divina in un modo troppo "tranquillo". Il rispetto per l'attività naturale implica che le cause naturali ordinariamente dispiegheranno le loro energie senza evitare gli effetti collaterali, che potrebbero essere contrari alle tendenze di altri esseri. Le catastrofi, grandi e piccole, sono componenti naturali di questo piano. La diversità degli esseri significa che, spesso, le diverse tendenze non possono essere riconciliate. Questi aspetti potrebbero aiutarci a comprendere meglio la funzione che il male fisico può avere nei piani di Dio. Di fatto, il disordine può avere un ruolo molto importante nello sviluppo complessivo della natura, sì che Dio può permettere diversi tipi di disordine proprio per stimolare l'ulteriore sviluppo.
La cosmovisione attuale sottolinea l'importanza della contingenza, poiché ogni risultato è visto come il risultato di molte coincidenze. La novità e la diversità non sono un'eccezione, ma piuttosto la regola. L'imprevedibilità ormai fa parte dei temi scientifici più classici. Certamente, quando parliamo d'imprevedibilità non ci riferiamo a Dio, la cui conoscenza è al di fuori delle categorie dello spazio e del tempo, e la cui onnipotenza contiene tutto il reale, come causa prima.
Mi sembra interessante mettere in risalto l'enfasi di Thomas Torrance sul concetto di "ordine contingente", come una delle idee cristiane più stimolanti per lo sviluppo della scienza sperimentale3. Ricordo anche l'enfasi di Wolfhart Pannenberg sul ruolo della contingenza come ponte tra la natura e l'azione divina nella storia. Pannenberg rileva acutamente che le cosiddette "leggi della natura" non rispecchiano delle regolarità esatte, perché gli avvenimenti naturali non si ripetono maiesattamente4.Perciò, scrive Ted Peters nell'introduzione ad una raccolta di saggi di Pannenberg: «La continuità di questa creazione può essere caratterizzata come la continuità di una storia di Dio che si compromette con la sua creazione. Questa continuità storica si unisce alla continuità espressa nelle regolarità dei processi naturali: mentre la descrizione di queste regolarità, nella forma di "leggi naturali", prescinde dalle condizioni contingenti della loro realizzazione, la continuità storica comprende invece la contingenza degli eventi e l'emergere delle regolarità. In questo modo, la categoria della storia dà una descrizione più completa dei processi continui dellanatura»5.
L'ordine naturale è contingente poiché è il risultato di circostanze singolari. La natura, però, ha molta organizzazione, direzionalità, sinergia (cooperatività) e attività complesse. Il che è coerente con l'attività "continua" della sapienza divina.
La discussione sulla contingenza porta a chiederci: come possiamo armonizzare l'esistenza di un piano divino con l'evoluzione, che implica una non piccola dose di caso?


Contingenza e piano divino

Il problema di solito è presentato in forma più diretta: esiste una direzione nell'evoluzione? Se la risposta è negativa, la domanda successiva è: come possiamo mettere insieme la mancanza di direzionalità nell'evoluzione con l'esistenza di un piano divino che governa il mondo naturale?
Non dovrebbe essere un problema associare l'evoluzione all'esistenza di un piano divino, poiché Dio trascende le nostre categorie e non è limitato ad agire in un modo particolare. Le difficoltà nascono spesso dall'idea erronea di pensare che un piano divino dovrebbe produrre una catena di eventi, che porti a riconoscere l'esistenza di una relazione necessaria tra essi, come se l'esistenza di un piano divino dovesse implicare una spiegazione deterministica della natura che, ovviamente, contraddice la contingenza.
L'esistenza di una forma di contingenza naturale compatibile con il piano divino non è una novità in teologia. Nel commento alla Metafisica di Aristotele, Tommaso d'Aquino risponde a coloro che sostengono che in natura tutto accade per necessità. Egli ammise l'esistenza del caso nella natura, pur affermando la sua compatibilità con l'esistenza di una provvidenza divina che governa tutto il mondo naturale. Dio è la causa prima da cui tutto dipende nel suo essere, ma Egli non impone lo stesso tipo di necessità su tutti gli effetti creati: Dio fa sì che alcuni effetti avvengano in modo necessario, altri in un modocontingente6.
Ovviamente, Tommaso d'Aquino non si riferiva all'evoluzione, ma la sua idea è importante. Di fatto, l'azione di Dio è l'azione della Prima Causa che estende la sua influenza, come fondamento del medesimo essere, su tutte le creature e su qualsiasi loro aspetto; quindi, la contingenza dei fatti particolari non contrasta con l'azione di Dio. Piuttosto è Lui a rendere possibile la produzione di fatti contingenti. Tendiamo a concepire i piani e l'attività di Dio secondo il nostro agire, ma questa analogia ha i suoi limiti. Tutto dipende dall'attività di Dio, ma ciò non significa che tutto abbia lo stesso tipo di necessità.
Che Dio governi il mondo non significa che la natura si comporti in un modo completamente ordinato, secondo i nostri criteri. Perciò non è valida l'affermazione che i fatti evolutivi contingenti e il carattere opportunista degli adattamenti evolutivi sarebbero incompatibili con un piano divino. Al contrario, l'esistenza di molti fatti contingenti si adatta molto bene all'azione di un Dio che rispetta il modo di essere e di operare delle sue creature, perché Lui stesso l'ha ideato e voluto.
Del resto, il caso contenuto nell'evoluzione opera all'interno di un complesso di condizioni che impongono una certa direzionalità. Christian de Duve ha affermato che «il caso non operò nel vuoto. Agì in un universo governato da leggi precise e costituito da una materia dotata di proprietà specifiche. Queste leggi e queste proprietà pongono un limite alla roulette evolutiva e limitano i numeri che possonouscire»7.
Stephen Jay Gould sottolinea giustamente come il cammino evolutivo che ha condotto all'esistenza degli esseri umani include molti eventiaccidentali8. Il che, però, non è incompatibile con l'esistenza di un piano divino. Alcuni commenti del premio Nobel Christian de Duve sono interessanti: egli propone come una via intermedia tra altri due premi Nobel: il determinista Albert Einstein e il casualista Jacques Monod. De Duve, riprendendo la spiegazione neo-darwinista dell'evoluzione, che accetta, aggiunge che il caso opera all'interno di un complesso di condizioni limitanti e che «messi di fronte all'enorme somma di partite fortunate esistenti dietro il successo del gioco evolutivo, sarebbe legittimo chiedersi fino a che punto questo successo è iscritto nella fabbrica dell'universo. Ad Einstein, che in una certa occasione affermò che "Dio non gioca ai dadi", si potrebbe rispondere: "Sì, gioca, poiché Egli è sicuro di vincere". In altre parole, può esserci un piano. Ed esso iniziò con la grande esplosione o "big bang". Lo stesso punto di vista lo condividono alcuni, ma non altri. Lo scienziato francese Jacques Monod, uno dei fondatori della biologia molecolare e autore di Il caso e la necessità , pubblicato nel 1970, difendeva l'opinione contraria: "il nostro numero", scriveva, "è uscito al casinò di Monte Carlo". E aggiungeva:"l'universo non era impregnato di vita, né la biosfera portava l'uomo al suo interno". La sua conclusione finale rifletteva l'esistenzialismo stoicamente (e romanticamente) disperante che conquistò gli intellettuali francesi della sua generazione: "l'uomo sa ora che è solo nell'immensità indifferente dell'universo, da cui è emerso per caso". Il che è, indubbiamente, assurdo. L'uomo non ha nulla a che vedere con questa tesi. Quello che sa — o almeno, dovrebbe sapere — è che, con il tempo e con la quantità di materia disponibile, nemmeno qualcosa che assomigli alla cellula più elementare, per non riferirci all'uomo, avrebbe potuto originarsi da un caso cieco se l'universo non l'avesse già portato al suointerno»9. De Duve conclude, come scienziato vicino al filosofo, che il pensiero evolutivo è compatibile con l'esistenza di un piano divino e suggerisce indizi che portano ad ammettere l'esistenza di un simile piano.
L'attuale cosmovisione offre una nuova comprensione delle vie seguite dall'evoluzione, aggiungendo alla concezione classica quella dell'auto-organizzazione. Questa nuova prospettiva è ancora agli inizi, ma ha già aperto nuovi orizzonti, che probabilmente si amplieranno grazie ad ulteriori progressi scientifici. La combinazione di caso e di necessità, di variazione e di selezione, insieme alle potenzialitàdell'auto-organizzazione, possono essere facilmente viste come il cammino seguito da Dio per causare il processo dell'evoluzione. Dadi truccati, un universo impregnato di vita e di esseri umani, potenzialità specifiche, sono concetti e metafore che mostrano che si può combinare l'azione divina architettata da Dio con l'azione delle cause naturali. Carsten Bresch porta un altro paragone. Immagina un pilota che col suo aereo è sul Polo Nord e decide la rotta in modo aleatorio, utilizzando una roulette: qualsiasi direzione segua, un giorno o l'altro arriverà al Polo Sud (a condizione che non torniindietro)10. Questo paragone mostra che le condizioni limitanti possono rendere comprensibile la direzionalità dell'evoluzione.
Possiamo concludere che l'evoluzione può essere associata al piano divino, anche se il processo evolutivo include avanzamento ed errori, poiché non c'è un motivo per caratterizzare il piano divino come necessariamente monolineare, ossia sempre progressivo e vantaggioso per tutte le creature da ogni punto di vista. D'altra parte, come abbiamo visto, l'esistenza di eventi casuali nella catena evolutiva è compatibile con l'esistenza di una direzionalità nell'evoluzione.


Natura e persona umana

Il progresso scientifico fornisce importanti spunti per conoscere la nostra stessa natura, in quanto manifesta le capacità del soggetto che costruisce la scienza.
La natura non parla. Costruiamo linguaggi molto sofisticati per porre domande alla natura e per interpretare le risposte fornite dal nostro interlocutore muto. Ciò dimostra che, nonostante siamo parte della natura, allo stesso tempo la trascendiamo.
Non esistono metodi automatici per acquistare nuove conoscenze scientifiche. Dobbiamo mettere in gioco la nostra capacità di creatività e di interpretazione, dobbiamo formulare nuove ipotesi, pianificare esperimenti per metterli alla prova, interpretarne i risultati, valutare le ipotesi.
La creatività scientifica è una prova della nostra singolarità. Dimostra che abbiamo dimensioni che trascendono l'ambito naturale e che si possono definire spirituali. L'esistenza e il progresso della scienza naturale sono tra i migliori argomenti per dimostrare le dimensioni spirituali dell'essere umano. Allo stesso tempo, la creatività dimostra che queste dimensioni fanno parte, insieme a quelle materiali, di un unico essere che è contemporaneamente materiale e spirituale.
La cosmovisione evolutiva non si oppone alla spiritualità umana. L'agnostico Karl Popper vede le funzioni descrittive ed argomentative del linguaggio, necessarie per l'esistenza ed il progresso della scienza sperimentale, come un risultato dell'evoluzione, ma considera questo risultato enormemente misterioso e aggiunge che l'evoluzione non può essere una spiegazione ultima: «Ora voglio mettere in rilievo quanto poco significhi dire che la mente è un prodotto emergente dal cervello. Ciò non ha praticamente nessun valore esplicativo ed equivale a stento a qualcosa di più che mettere un punto interrogativo ad un certo stadio dell'evoluzione umana. Tuttavia ritengo che ciò sia tutto quello che possiamo dire a questo proposito da un punto di vista darwiniano (…) L'evoluzione non può certo essere assunta in nessun senso come una spiegazione definitiva. Dobbiamo trovare un accordo con il fatto che viviamo in un mondo in cui quasi tutto ciò che è molto importante rimane essenzialmenteinesplicato»11.
In effetti, se si pensa all'evoluzione come una spiegazione ultima, tutto resta senza spiegazione. Con questo non intendo negare l'importanza della prospettiva evolutiva. L'evoluzione non spiega completamente i problemi riguardanti la singolarità degli esseri umani. Questi problemi diventano perfino più acuti, poiché l'evoluzione implica uno sviluppo alquanto misterioso delle capacità di conoscenza e della loro base biologica.
Di fatto, la scienza sperimentale acquista tutto il suo senso quando la si considera nel suo aspetto più fondamentale, come un'attività umana volta all'acquisizione di una conoscenza della natura che possa essere utilizzata per un dominio controllato. La ricerca della verità e il servizio all'umanità sono i due grandi valori, connessi, di ogni attività scientifica.
La ricerca della verità è un valore umano fondamentale. Giovanni Paolo II, con poche parole dense di contenuto filosofico, ha scritto: «Si può definire, dunque, l'uomo come colui che cerca la verità»12. In questo senso il progresso scientifico dà indicazioni importanti sulla capacità umana di ricercare la verità e, pertanto, sulla stessa natura umana.
In un altro passaggio dell'enciclica Fides et ratio che potrebbe passare inosservato, anche se è all'inizio, si legge analogamente: «sia in Oriente che in Occidente, è possibile ravvisare un cammino che, nel corso dei secoli, ha portato l'umanità a incontrarsi progressivamente con la verità e a confrontarsi con essa. È un cammino che s'è svolto — né poteva essere altrimenti — entro l'orizzonte dell'autocoscienza personale: più l'uomo conosce la realtà e il mondo e più conosce se stesso nella sua unicità, mentre gli diventa sempre più impellente la domanda sul senso delle cose e della sua stessaesistenza»13.
Un essere capace di ricercare la verità, di trasformare questa ricerca in un valore essenziale della sua esistenza, e di giudicare che grado di verità ha raggiunto in ogni caso concreto, è un essere posto ad un livello superiore rispetto al resto della natura, pur facendone parte. In questo modo, il progresso scientifico e la corrispondente creatività forniscono uno dei migliori argomenti per convalidare la capacità conoscitiva dell'essere umano e la sua stessa natura. Non ha senso pretendere di dimostrare con argomenti scientifici che l'essere umano non è altro che un essere naturale tra tanti. L'esistenza e il progresso della scienza sperimentale presuppongono, come condizione necessaria, che esista un soggetto capace di elaborarla, un essere dotato di una capacità unica di creatività e di interpretazione. La creatività umana è come un ponte tra la creatività naturale e quella divina: grazie alla partecipazione alla creatività divina, la persona umana può conoscere la creatività naturale e, allo stesso tempo, può autoconoscersi ed orientare il sapere verso la pienezza di conoscenza e di amore alla quale è destinata nel disegno di Dio.




Note:

(1) Facultad Eclesiástica de Filosofía. Universidad de Navarra (Spagna).
(2) Tommaso d'Aquino, In octo libros Physicorum Aristotelis Expositio, Marietti Torino-Roma 1965, II, c. 8, l. 14, 268: «Unde patet quod natura nihil est aliud quam ratio cuiusdam artis, scilicet divinae, indita rebus, qua ipsae res moventur a finem determinatum: sicut si artifex factor navis posset lignis tribuere, quod ex se ipsis moverentur ad navis formam inducendam» (Ndc: la traduzione italiana è nostra).
(3) Cfr. Thomas F. Torrance, Divine and Contingent Order, Oxford University Press, Oxford 1981.
(4) Si veda Wolfhart Pannenberg, Towards a Theology of nature. Essays on Science and Faith, Westminster-John Knox Press, Louisville (Ky) 1993; in particolare "Contingency and Natural Law", pp. 72–122.
(5) Ted Peters, "Editor's Introduction: Pannenberg on Theology and Natural Science", in Wolfhart Pannenberg, Towards a Theology of Nature, cit., p. 22.
(6) Cfr. Tommaso d'Aquino, In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis Expositio, Marietti, Torino-Roma 1964, VI, c. 3, l. 3, 1191–1222.
(7) C. de Duve, La célula viva, Labor, Barcelona 1988, 356–357.
(8) Stephen Jay Gould, "L'evoluzione della vita sulla terra", Le Scienze, 316 (dicembre 1994), pp. 65–72.
(9) C. de Duve, La célula viva, cit., 357.
(10) Cfr. Rainer Isak, Evolution ohne Ziel? Ein interdisziplinären Forschungsbeitrag, Herder, Freiburg im B. 1992, p. 380.
(11) Karl R. Popper – John C. Eccles, L'io e il suo cervello, Armando, Roma 1981, p. 669.
(12) Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et ratio (14 settembre 1998), n. 28.
(13) Ibidem, n. 1. La traduzione spagnola si discosta leggermente dal testo originale. In essa, infatti, si perde una sfumatura importante, presente invece nei testi polacco, latino, italiano, inglese, francese, tedesco e portoghese. Su questo punto si veda Miroslaw Karol, "Fides et ratio nº 1: ¿cuál es el texto correcto?", Anuario Filosófico 32 (1999) 689-696.



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Conferencia pronunciada en: Simposio Dio e la natura celebrado en la Pontificia Università della Santa Croce (Roma), marzo de 2001 y publicada en Dio e la natura, a cura di R. Martínez e J. J. Sanguineti, Armando, Roma 2002, pp. 73-84.

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