mercoledì 26 marzo 2025

L'Eucaristia segno e simbolo della vita, del Card. Walter Kasper


L'Eucaristia segno e simbolo della vita

del Card. Walter Kasper





RISCOPERTA DELLA REALTÀ SIMBOLICA DELL'EUCARISTIA

Vorrei iniziare con un flashback al tempo del mio primo incontro con il movimento liturgico. Eravamo nel dopoguerra; il movimento della gioventù cattolica, dopo la fine della dittatura nazista, non era più proibito e conosceva una grandissima fioritura. Nelle liturgie del movimento eravamo fieri di celebrare la santa messa nella forma della messa comunitaria, come si diceva allora: partecipando con preghiere e canti, leggendo le letture e il vangelo in lingua volgare; non volevamo essere solo spettatori e pregare in silenzio, ma essere coinvolti attivamente. Tutto questo è oggi più o meno una cosa scontata; allora era una cosa nuova. Per noi era importante quella che successivamente il concilio Vaticano II avrebbe chiamato «actuosa participatio», partecipazione consapevole e attiva [1].

Eravamo stimolati soprattutto dalle opere di Romano Guardini, Lo Spirito della liturgia, I santi segni e Pensieri sulla Santa Messa [2], che erano già state pubblicate nel periodo tra le due guerre. In Guardini trovava espressione con forza l'idea di comunità del movimento della gioventù cattolica. Oltre a ciò, fu per noi particolarmente importante la riscoperta dei Padri della chiesa, che ci era stata permessa soprattutto dagli studi del grande teologo francese Henri de Lubac [3]. Infine, fu la lettura dell'opera in due volumi di Josef Andreas Jungmann, Missarum Sollemnia, ad avere su di me quasi l'effetto di una rivelazione. Per la prima volta venni a conoscenza della storia della messa latina ed ebbi la possibilità di comprenderne la forma concreta [4].

Il concilio Vaticano II ha ripreso tutti questi impulsi, li ha sviluppati, approfonditi e fatti diventare il programma della chiesa universale. La Costituzione sulla sacra liturgia, Sacrosanctum concilium, nella sua discussione, decisione e attuazione, è stata per noi, quarant'anni fa, una grande esperienza di vita. Tutti coloro che hanno oggi meno di 55 anni non possono proprio più farsi un'idea della novità che essa allora rappresentò. Allora la riforma liturgica era animata dalla speranza che la liturgia rinnovata avrebbe attratto le persone e avrebbe contribuito ad una nuova fioritura della vita religiosa. Non tutto è andato in questo verso. Sicuramente nel primo entusiasmo tante cose sono state fatte in modo errato o precipitoso; alcune cose hanno persino fatto ricordare la lotta contro le immagini. Nel complesso, però, il rinnovamento liturgico ha dato buoni frutti per i quali non possiamo che essere riconoscenti. Esso ha reso più profonda la nostra comprensione della liturgia e ha rivitalizzato la celebrazione di tutti i fedeli. Nessuno che sia responsabile vorrebbe tornare indietro, neppure a Roma.

Papa Benedetto XVI non è interessato a questa o a quella riforma esteriore della riforma. Il suo desiderio è molto più profondo. Non vuole andare indietro, ma andare in profondità. Egli vuole dare di nuovo ascolto ed evidenza al centro e al fondamento della fede, e con essi anche alla centralità dell'eucaristia, così come ha fatto nella sua prima enciclica, Deus caritas est (2006), e come continua a fare in tutti i suoi discorsi e nelle sue omelie. Lo fa con il suo linguaggio spiritualmente esigente e al tempo stesso semplice. Egli vuole portare avanti una alfabetizzazione della fede andando così esattamente incontro alla situazione attuale. Come mostra un afflusso senza precedenti, egli va incontro in tal modo anche alle aspettative di tante persone. La maggior parte di coloro che si affollano ogni settimana per ascoltarlo, vogliono evidentemente gustare questo cibo spirituale.

La domanda è: come si arriva a questa profondità spirituale nella liturgia? Certamente si può ricorrere alle metodologie didattiche oggi disponibili e utilizzarle nell'ambito della liturgia. Sicuramente non è sbagliato e può essere utile. Io vorrei percorrere però un'altra via. Vorrei partire dalla "cosa" stessa e farla parlare. Ma che cos'è qui la "cosa"? La liturgia non è una dottrina, né un sistema astratto e neppure un'ideologia. Essa, come la fede cristiana in generale, è qualcosa di concreto, è una persona, Gesù Cristo, diventato carne concreta e uomo concreto, del quale nel prefazio di Natale si dice che in lui conosciamo visibilmente le realtà invisibili. Papa Leone Magno fa un passo ulteriore e ci dice: «Tutto ciò che era visibile nel Redentore, è passato nei sacramenti» [5]. Agostino definisce i sacramenti «verbum visibile — parola visibile» [6]. Se i sacramenti non avessero somiglianza con le cose di cui sono sacramenti, non sarebbero affatto sacramenti [7].

La liturgia è quindi una realtà simbolica. I sacramenti non sono, però, dei segni e dei simboli puramente esteriori. Dei segni sacramentali, piuttosto, si deve dire che essi contengono ed operano ciò che significano. In questo senso, con Karl Rahner si parla oggi di simboli reali [8]. Dunque, per capire i sacramenti bisogna farli parlare e farli agire su se stessi. Serve a poco interrompere e spiegare continuamente la liturgia con commenti. Le parole possono anche uccidere i simboli. Se vengono compiuti come si deve, essi possono e devono parlare ed agire da se stessi.

Per questo motivo l'ultimo sinodo ha dato importanza all'ars celebrandi. Ciò non va affatto inteso nel senso che il celebrante debba mettere se stesso in primo piano; al contrario egli deve mettersi da parte per far parlare la "cosa", che in fondo non è una "cosa", ma è l'incontro personale con Cristo, e far risaltare la bellezza interiore della liturgia. Questa bellezza non è un fasto esteriore, ma è lo splendor veritatis, lo splendore della verità della stessa realtà eucaristica. Dovrebbe accadere come ai discepoli di Emmaus. Gesù aveva spiegato loro molte cose lungo il cammino, ma solo quando Gesù spezzò il pane si aprirono i loro occhi (Lc 24, 30ss.; cf. Gv 21.12s.). In quel momento compresero non solo con l'intelletto, ma con il cuore. Insieme agli occhi, si aprì il loro cuore.

Questo approccio, che riconosce l'importanza dei segni e dei simboli, nasconde un rischio. Il nostro mondo, sotto molti punti di vista, ha come unica dimensione la tecnologia, è diventato puramente funzionale e strumentale. Il pensiero simbolico ci è diventato in gran parte estraneo. Di conseguenza siamo diventati come incapaci di cogliere la "musica" della liturgia e siamo quasi dislessici dal punto di vista liturgico. D'altra parte, però, è in crescita la richiesta di simboli, anche di simboli religiosi. C'è addirittura una nuova richiesta e nei molti, talvolta assai problematici, nuovi movimenti religiosi c'è anche un grande commercio in tal senso. Per questo, per esprimerci ancora in termini economici, non dovremmo mettere sotto terra la nostra "offerta", molto più seria, ma far fruttare i nostri talenti.

Di seguito, pertanto, in modo simile a quanto fece Guardini nel suo libretto I santi segni e a quanto ha nuovamente tentato di fare Joseph Ratzinger [9], vorrei prendere in considerazione alcuni simboli eucaristici fondamentali e farli parlare. 
Per motivi di brevità devo limitarmi a una presentazione essenziale dei segni del pane e del vino. Ad altri segni, come il calice e l'altare, potrò soltanto accennare. Per quanto riguarda questi due segni fondamentali, vorrei mostrare come essi, allo stesso modo della sacra Scrittura, accanto al loro significato simbolico naturale abbiano un ulteriore triplice livello di significato simbolico [10].



IL PASTO, IL PANE E IL VINO NEL LORO QUADRUPLICE SIGNIFICATO SIMBOLICO

1. Cominciamo con la semplice constatazione che l'eucaristia fu istituita da Gesù durante "l'ultima Cena", la sera prima della sua passione e morte, nel contesto di un pasto rituale ebraico. Probabilmente si trattava della cena ebraica della pasqua. Ci ha dunque lasciato il suo grande testamento nel contesto di un pasto. Questo è un motivo sufficiente per dare conto innanzitutto del significato del pasto.

Consumare insieme pasti rituali ha in molte culture, fin dai tempi più remoti, un significato simbolico. Oggi non siamo ormai più consapevoli di un simile significato, poiché molto spesso il fast-food, la ristorazione self-service e cose simili hanno preso il posto dei pasti insieme. Il pasto in comune è qualcosa di più di un'azione per nutrirsi. Nel consumare i pasti insieme si manifesta un profondo elemento umano comune, la comune conditio humana, che consiste nel fatto che noi, come esseri umani, siamo esseri con bisogni elementari. Abbiamo fame e sete, abbiamo bisogno di mangiare e di bere. Nello stesso tempo, nel pasto sperimentiamo come la terra sia benevola verso di noi e come possiamo beneficiare insieme, e non solo come singoli, dei beni che la terra ci offre e che altri hanno preparato per noi premurosamente. Il pasto comune ci mostra qualcosa di un mondo che è buono e sano, anzi di un mondo che è squisito. Per questo diventa motivo di gratitudine. Esso ha, in modo consapevole oppure anche inconsapevole, una dimensione religiosa, che si esprime per esempio nella benedizione ebraica della mensa, ripresa da Gesù e poi dalla tradizione cristiana: «Ti rendiamo grazie, Dio onnipotente, per i tuoi benefici».

Questo simbolismo religioso del pasto si esprime soprattutto nei due elementi fondamentali della cultura del cibo mediterraneo, il pane e il vino. Il pane è un alimento fondamentale, così essenziale da non venire mai a nausea. Così il pane rappresenta l'alimento e il sostentamento della vita in generale. In questo senso Gesù ci insegna a pregare per il pane quotidiano (Mt 6,11; Lc 11,3). Nella cultura mediterranea anche il vino rappresenta un alimento fondamentale. Il salmista sa che, come il pane dà forza all'uomo, così il vino rallegra il suo cuore (Sal 104,15). Il vino sta quindi per gioia di vivere. Non ci può essere festa senza vino.

Il pasto è un simbolo primordiale anche nella Bibbia. Quando nell'Antico Testamento si stipula un'alleanza, si mangia e si beve insieme (Gen 15,9ss.; 26,30; 31,46.54), sperimentando così la vicinanza e la bontà di Dio (Es 24,11). Infine, il pasto diventa simbolo della pienezza escatologica di vita e di salvezza. L'immagine del banchetto escatologico servì per esprimere l'attesa della salvezza definitiva (Is 25,6-8). L'Antico Testamento aspettava il giorno in cui Dio avrebbe radunato intorno alla mensa tutti i popoli (Is 2,2-5; Mi 4,1-3; Ez 37,16-28) [11], stabilendo così una pace universale (shalom) tra i popoli, le culture e le religioni. Nell'idea biblica del pasto, quindi, trova espressione una visione grandiosa e una speranza universale di pace.

Si può così comprendere come per Gesù, nel contesto del suo annuncio del regno di Dio, i pasti abbiano avuto un ruolo importante. Gesù sapeva di essere il pastore preannunciato dai profeti che avrebbe raccolto le pecore perdute di Israele (Mc 6,34; Gv 10). Segno di questo sono stati i pasti comunitari insieme ai suoi discepoli; come segno di perdono e di riconciliazione, egli ha invitato a parteciparvi anche i pubblicani e i peccatori. I pasti di Gesù erano quindi segni dell'arrivo del tempo della salvezza e, per così dire, una pre-celebrazione del regno di Dio che doveva venire (Mc 2,15 ss.; Lc 15,1; 19,5 passim). I pasti continuano anche nel periodo postpasquale. Dopo la risurrezione, Gesù appare sempre nel contesto di un pasto: ai discepoli di Emmaus, poi a tutti i discepoli a Gerusalemme e ancora sul lago di Tiberiade (Lc 24,30s.41 -43 ; Gv 21,12s.). Nella forma del pasto Gesù continua ad essere in mezzo ai suoi discepoli. Al di là della sua morte, il pane e il vino devono permettere la comunione con lui e gli uni con gli altri (Mc 14,25 par.). «Spezzare il pane» (Lc 24,35; At 2,46; 20,7) e «cena del Signore» (1 Cor 10,21) diventano così le espressioni più antiche per designare l'eucaristia.

2. A questo punto è già chiaro come la Bibbia vada oltre il significato antropologico primordiale, sociologico e generalmente religioso del simbolo. Nella Bibbia il simbolismo universale del pasto e della comunione diventa a sua volta anche un simbolo che rimanda a un altro livello di realtà spirituale. 
La Scrittura non conosce soltanto la fame e la sete fisiche, ma parla anche della fame e della sete che solo Dio può saziare. «La mia anima ha sete di Dio, del Dio vivente. Quando verrò e vedrò il volto di Dio?» (Sal 42,3). «Ma io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine» (Sal 17,15). Così nella Scrittura mangiare e bere, fame e sete, pane e vino, fanno risuonare le corde mistiche della nostra anima. Agostino ha espresso questa fame e questa sete dicendo che il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Dio [12].

Il passaggio dal piano naturale a quello spirituale è particolarmente evidente nel grande discorso del pane del vangelo di Giovanni. Dopo la moltiplicazione dei pani, Gesù rimprovera la folla di non aver compreso che il cibo, che ha saziato la fame naturale, è un segno (semeion). Ciò che importa a Gesù non è il cibo corporale, che sazia per un momento, ma che poi fa tornare di nuovo fame e non salva dalla morte. A lui importa il cibo per la vita eterna. In questo senso, egli dice di donare il vero cibo. Chi ne mangia non avrà più né fame né sete (Gv 6,27-58). Dice la stessa cosa nel colloquio con la samaritana al pozzo di Giacobbe: chi beve dell'acqua che egli dà, non avrà più sete; anzi, quell'acqua diventerà in lui sorgente che zampilla per la vita eterna (Gv 4,13s.; cf. 7,37; Ap 21,6.17). Il vescovo martire Ignazio d'Antiochia si pone sulla stessa linea quando definisce il pane eucaristico «rimedio di immortalità» [13].

Nel modo più chiaro il passaggio dal piano naturale a quello spirituale e soprannaturale avviene nella sala dell'ultima Cena. Gesù condivide con i suoi discepoli il pane e il vino, come aveva già fatto tante altre volte. Ora, però, egli interrompe il rito usuale della pasqua ebraica e questa interruzione dell'azione simbolica significa un'interruzione nella stessa realtà di ciò che stava accadendo. Ciò a cui prima si alludeva solamente anticipandone il significato, è ora realtà in senso pieno. «Panis caelicus dat figuris terminum — Il pane del cielo pone fine ai segni». Dal segno che allude a qualcos'altro si passa ora alla realtà. Gesù condivide il pane dicendo: «Questo è il mio corpo, che è per voi» e «questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti» (1 Cor 11,24s.; Mt 26,26.28) [14].

La tradizione della chiesa ha sempre insistito sul fatto che Gesù, sulla base della testimonianza biblica, non ha detto «Questo significa», ma «Questo è». Ciò che prima era pane naturale, ora è trasformato nel corpo e nel sangue di Gesù, vale a dire in segni totalmente reali del dono e dell'offerta che egli ci ha fatto dí se stesso e del suo amore «fino alla fine» (Gv 13,1). Nell'eucaristia Gesù non ci dà "qualcosa". Egli ci dà se stesso. Nel grande discorso del pane, che sí trova nel vangelo di Giovanni, è lui stesso il pane della vita (Gv 6,35). Come è il pane della vita, allo stesso modo egli è anche la vera vite (Gv 15,1-8). La presenza eucaristica non è quindi una presenza statica, quasi fosse un pezzo di legno, ma è una realtà dinamica. L'eucaristia è il dono e l'offerta personale che Gesù fa di se stesso; in essa egli si dona a noi come cibo, vale a dire come ciò che può saziare definitivamente, eternamente e pienamente la nostra fame e la nostra sete di vita.

In essa Gesù stesso diventa la nostra vita (Gv 14,6). Se mangiamo il pane eucaristico, Cristo stesso è in noi e noi in lui (Gv 6,56).

Riconoscendo in questa autodonazione e abnegazione il significato profondo dell'eucaristia, diventa subito chiaro come non si possa più continuare a contrapporre il carattere di pasto e il carattere di sacrificio. Sminuire o respingere l'idea di sacrificio spesso ha meno a che fare con motivazioni teologiche che antropologiche. Se il proprio progetto esistenziale è totalmente orientato all'autosoddisfazione e all'autorealizzazione individuale, se non in certi casi egoistica, non c'è evidentemente nessun posto per l'idea del sacrificio e della rinuncia. È però proprio su questo punto che l'atteggiamento eucaristico di Gesù mette un accento contrario. Chi vuol salvare la propria vita la perderà, chi invece la perderà la salverà (cf. Mc 8,35). Con questo atteggiamento fondamentale Gesù ha ripreso il significato più profondo dell'idea veterotestamentaria di sacrificio interpretandola allo stesso tempo in modo nuovo. Sacrificio non è un dono materiale, ma un'offerta personale.

In questo senso i testi neotestamentari dell'ultima Cena riprendono la terminologia veterotestamentaria del sacrificio; Gesù parla del suo corpo dato per noi (1 Cor 11,24). Nella redazione di Marco e di Matteo i testi ricordano addirittura in modo esplicito il sacrificio dell'alleanza del Sinai (Es 24,8; Mc 14,24; Mt 26,28). Anche i simboli del calice e dell'altare esprimono questa idea. Il calice, infatti, nella Bibbia non è soltanto una coppa e l'altare non è soltanto una mensa. Il calice è piuttosto anche segno del sangue versato e recipiente che lo raccoglie [15] e l'altare è il luogo nel quale qui ed ora si rende presente il sacrificio della nuova alleanza, offerto una volta per tutte [16], affinché anche noi diventiamo un sacrificio spirituale (Rm 12,1; 1 Pt 2,5), facendo della nostra vita una lode a Dio e un servizio ai fratelli. L'idea di sacrificio, quindi, esprime tutto il progetto di vita cristiano e l'opzione fondamentale cristiana nella sequela di Gesù, che certamente entra in conflitto con altri progetti di vita. Non si tratta tanto di una dottrina astratta, ma soprattutto di una spiritualità eucaristica concreta che vede nell'amore il senso della vita. Questa spiritualità non ci sottrae la vita, ma la porta al suo vero compimento. Gesù Cristo è venuto perché abbiamo la vita e l'abbiamo in abbondanza (Gv 10,10).

Se per sacrificio si intende l'offerta di se stessi compiuta una volta per tutte (Eb 7,27), l'amore che dona se stesso (Ef 5,2) per noi (1 Cor 11,24; Lc 22,19), allora con il concetto di sacrificio si esprime, nella sua radicalità estrema, l'idea fondamentale che era già emersa chiaramente parlando dell'eucaristia come pasto, vale a dire l'idea dell'amore che consuma se stesso e si dà per essere consumato. Qui tra sacrificio e pasto non c'è contrapposizione, ma approfondimento vicendevole. In questo senso le aspre controversie del tempo della Riforma sul carattere sacrificale, per fortuna, possono ritenersi superate [17].

In definitiva nell'eucaristia si manifesta la realtà più profonda di Dio, vale a dire che Dio è amore, amore che dona se stesso e si comunica. Questo è il tema che Benedetto XVI ha tratto dalla prima lettera di Giovanni per la sua prima enciclica, nella quale egli descrive il contenuto centrale della fede cristiana e allo stesso tempo il mistero, arduo a comprendersi per il nostro intelletto, della Trinità. In fondo questa, che è la più alta di tutte le affermazioni della nostra fede, vuole dire soltanto che Dio è in se stesso auto-offerta e auto-comunicazione. Già nella grande opera di sant'Agostino, De Trinitate, leggiamo: «Sì, tu vedi la Trinità, se vedi la carità» [18].

Per mezzo dell'eucaristia noi veniamo presi all'interno di questo movimento dell'amore divino. In esso si trova il senso più profondo dell'incarnazione; infatti, per i Padri della chiesa Dio è diventato uomo per la nostra divinizzazione [19]. La trasformazione del pane e del vino mira alla trasformazione della nostra vita perché «la partecipazione al corpo e al sangue di Cristo altro non fa, se non che ci mutiamo in ciò che prendiamo» [20]. Un canto della liturgia dice: «Chi celebra questo mistero, deve essere egli stesso come pane; così si fa consumare dai bisogni di tutti gli uomini» [21]. Non possiamo condividere il pane eucaristico senza condividere il pane quotidiano e tutta la nostra vita. La comunione con Dio per mezzo di Gesù Cristo non è possibile senza comunione con i fratelli. Essa ci indirizza verso una nuova cultura di condivisione, di solidarietà, dí comunione, di amore. Questo ci porta al prossimo punto e alla terza dimensione simbolica dell'eucaristia.

3. La presenza personale di Cristo e la comunione personale con lui si aprono dall'interno alla comunione con i fratelli e le sorelle e, in tal modo, alla dimensione ecclesiale. Mediante la trasformazione del pane e del vino viene trasformato anche il carattere comunitario del pasto. Esso riceve una nuova dimensione. 
Questo terzo livello del "transsimbolismo" emerge chiaramente soprattutto nella prima lettera ai Corinzi dell'apostolo Paolo. Qui Paolo critica le situazioni inopportune della comunità corinzia, che si creano perché ciascuno pensa solo a se stesso e si preoccupa solo del proprio pasto. A fronte di ciò Paolo dice che spezzare e condividere l'unico pane e bere dall'unico calice significa che noi partecipiamo insieme all'unico corpo di Cristo, anzi che diventiamo l'unico corpo di Cristo. «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione (koinonia) con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione (koinonia) con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all'unico pane» (1 Cor 10,16-18) [22]. Potremmo dirlo anche con queste parole: la partecipazione all'unico corpo di Cristo rimanda ulteriormente oltre se stessa, operando la comune partecipazione all'unico corpo ecclesiale di Cristo, che è la chiesa.

L'affermazione dell'apostolo Paolo ha dato vita a un'enorme storia degli effetti [23]. Già nei primi Padri della chiesa si trova il seguente paragone: come il pane è preparato macinando molte spighe e come il vino è ottenuto spremendo molti grappoli, allo stesso modo l'eucaristia riunisce tutti noi, che siamo molti e proveniamo dai quattro angoli della terra, a formare una grande unica comunità [24]. Agostino esprime la stessa idea in termini ancor più drastici e dice: «Il vostro mistero sta nell'altare». «Voi siete ciò che vedete e ricevete ciò che siete» [25]. È in questo senso che Agostino definisce l'eucaristia «signum unitatis et vinculum caritatis – segno dell'unità e vincolo della carità» [26]. I grandi teologi dell'alto medioevo lo hanno seguito in questo. Per Tommaso d'Aquino la vera "res" e il significato ultimo dell'eucaristia non è la presenza reale, ma l'unità della chiesa. L'eucaristia è per lui «sacramentum ecclesiasticae unitatis» [27] . Il concilio Vaticano II ha ripreso più volte la formula agostiniana [28] superando così una concezione unilateralmente individualistica dell'eucaristia a favore di una concezione ecclesiale più approfondita in senso comunionale.

Henri de Lubac ha studiato la storia di questa concezione ecclesiale dell'eucaristia ed ha potuto affermare: «L'eucaristia fa la chiesa» [29]. In effetti, dove si partecipa all'unico pane e si beve all'unico calice, lì c'è la chiesa. Ecclesia de eucharistia è, per questo, il titolo dell'ultima enciclica di Giovanni Paolo II (2003). La chiesa non è una delle tante organizzazioni, non è un consorzio, non è una semplice istituzione. La chiesa nasce dall'eucaristia, si nutre di essa ed ha in essa il suo sostentamento. La chiesa vive dell'eucaristia. La chiesa è dove si celebra l'eucaristia.

Su questa base si è sviluppata, prima nella teologia ortodossa e poi anche in quella cattolica, l'ecclesiologia eucaristica [30]. Essa parte dalla convinzione che ci sia la chiesa ovunque viene celebrata l'eucaristia. Questo significa in termini ancor più chiari: la chiesa locale non è tanto una provincia o un distretto amministrativo della chiesa universale. Essa è pienamente chiesa, pur non essendo tutta la chiesa. Infatti, poiché in ogni eucaristia è presente l'unico Cristo, nessuna chiesa locale può isolarsi, ma può esistere soltanto nella comunione con tutte le altre chiese locali. Quindi, l'unica chiesa universale esiste «nelle e dalle» chiese locali [31], allo stesso modo in cui le chiese locali esistono nella e dall'unica chiesa universale [32]. Come segno di questo rapporto e per esprimere questa comunione universale, in ogni eucaristia citiamo il nome del vescovo e del papa. Il fatto che non siamo in piena comunione con tutte le chiese che celebrano l'eucaristia rappresenta una ferita dolorosa per ogni celebrazione eucaristica, ferita che ci spinge a chiedere a Dio di non guardare ai nostri peccati, ma di donare unità e pace alla sua chiesa.

Anche sotto molti altri aspetti la nostra celebrazione della cena dell'amore, della pace e della comunione avviene in un mondo profondamente deformato dal peccato, nel quale i conflitti sono così aspri e le spaccature dell'inimicizia così profonde che l'unità e la pace non sono possibili se non mediante il perdono e la riconciliazione. Anche sotto questo punto di vista il carattere di pasto e di comunione non può essere separato dal carattere di sacrificio. Al riguardo ci si deve tutelare da alternative troppo semplici. È solo la riattualizzazione dell'azione riconciliatrice della croce che può fondare il carattere di comunione e difenderlo dal pericolo di banalizzazione. Da essa riceve la sua serietà e la sua dimensione profonda. Se si mette da parte la croce e il sacrificio, si perde anche la serietà del carattere di comunione. La comunione del pasto eucaristico non si può comprendere se non come comunione sotto la croce. La celebrazione dell'eucaristia ci mette sotto la croce. Giovanni ne dà un'indicazione simbolica nell'acqua e nel sangue che sgorgano dal costato trafitto del Signore innalzato sulla croce (Gv 19,34).


4. Pur essendo vero che in ogni eucaristia celebriamo l'unità, la piena realizzazione dell'unità continua a restare per noi un compito. La chiesa continua a sanguinare dalle ferite che non permettono ancora a tutti i cristiani la piena e vicendevole partecipazione all'unica mensa del Signore. Questa constatazione ci spinge a considerare un'ulteriore ed ultima dimensione dell'eucaristia, la dimensione escatologica.

Celebrando l'ultima Cena, Gesù, in modo molto più chiaro ed esplicito di quanto non era avvenuto negli altri suoi pasti, collocò quella cena nell'orizzonte globale del suo annuncio del regno di Dio. «In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio» (Mc 14,25); oppure: «Finché essa non si compia nel regno di Dio» (Lc 22,16; cf. 1 Cor 11,26) [33]. Questa prospettiva escatologica era così importante per la comunità delle origini che essi spezzavano il pane con gioia escatologica (At 2,26). Nelle loro celebrazioni eucaristiche risuonava l'invocazione: «Venga la grazia e passi il mondo!». «Maràna tha» [34] . «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20).

I primi cristiani erano convinti di anticipare nell'eucaristia il banchetto escatologico del regno di Dio e di pregustarlo fin d'ora. La lettera agli Ebrei esprime così questa convinzione: «Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all'adunanza festosa e all'assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli» (Eb 12,22s.). Cantando il tre volte Sanctus nelle nostre liturgie, o in quelle orientali l'Inno dei Cherubini, prendiamo parte qui sulla terra all'adorazione celeste dell'agnello di cui parla l'Apocalisse (Ap 5,8-14). Concelebriamo la liturgia celeste, e gli angeli e tutta la «comunione dei santi» concelebrano con noi. L'adorazione è dunque un elemento essenziale dell'eucaristia.

Dopo il concilio il carattere di pasto dell'eucaristia venne contrapposto spesso all'adorazione con la seguente motivazione: c'è il pane affinché sia mangiato, non adorato. Ciò trovava una giustificazione nella giusta proibizione, stabilita dopo il concilio, di celebrare la messa davanti al Santissimo Sacramento esposto, come era comune fare precedentemente. Tuttavia si trattava complessivamente di una visione riduttiva che perdeva di vista l'aspetto escatologico. Già Agostino diceva: «Nessuno mangia di questa carne, se prima non ha adorato» [35]. L'«Adoro te devote, latens Deitas – Adoro te devotamente, o Deità che ti nascondi, che sotto questi segni ti celi veramente» [36], fa parte di ogni celebrazione eucaristica. Dà motivo di rallegrarsi il fatto che ci siano diversi segni di un rinnovato ritorno di questo stupor eucharisticus e del conseguente atteggiamento di adorazione eucaristica, dello stupore di fronte alla vera presenza di Dio in mezzo a noi, dentro il nostro mondo, sotto i semplici segni del pane e del vino. È però vero che, in parte, dobbiamo reimparare di nuovo questo atteggiamento di adorazione [37].

L'eucaristia, anticipando la lode escatologica di tutta la realtà, fa sì che nella liturgia sia coinvolta la creazione intera. Infatti, rendendo presente la missa coelestis, l'eucaristia è anche missa mundi e, come anticipazione della glorificazione celeste di Dio, è anche anticipazione della trasfigurazione escatologica del mondo [38]. Per questo tra culto e cultura esiste un intimo rapporto. Al riguardo, nel modo in cui prepariamo la liturgia purtroppo ci accontentiamo spesso di molto poco. Dobbiamo reimparare di nuovo come nella liturgia tutto quello che l'arte umana può offrire, la luce, la musica, gli abiti, giocano un ruolo importante. Non sono uno sfarzo esteriore e neppure manifestazione di trionfalismo. La dimensione universale-simbolica, piuttosto, deve mostrare come nella celebrazione dell'eucaristia venga anticipata la realtà escatologica, nella quale Dio sarà «tutto in tutti» (1 Cor 15,28).

Pertanto tutto ciò che abbiamo detto sul carattere sacrificale dell'eucaristia non deve essere visto nella luce del sole che si oscurò il Venerdì santo, ma va considerato nella luce della risurrezione. Quello che Agostino dice della domenica, come sacramento della Pasqua [39] e come piccola Pasqua, vale di ogni celebrazione dell'eucaristia. Essa dirige lo sguardo verso il cielo nuovo e la terra nuova (Ap 21,1), dove tutte le lacrime saranno asciugate e non ci sarà più né lutto, né lamento, né pianto (Ap 21,4). Ogni eucaristia è una festa della speranza; ci fa alzare gli occhi verso il futuro, aiutandoci così a sostenere le difficoltà e le delusioni della vita quotidiana, i malanni della vecchiaia, la malattia, la sofferenza e la morte, a trovare consolazione nella certezza che non la morte ma la vita, non l'odio e la violenza ma l'amore avranno l'ultima parola.

Così, in conclusione, siamo arrivati ancora alla dimensione universale-cosmica di un shalom che abbraccia l'umanità e il mondo. Questa dimensione di una speranza universale mi sembra essere particolarmente importante nella situazione attuale. Infatti, la speranza è diventata una merce rara; noi giriamo a vuoto, riconosciamo i problemi, ma non troviamo nessuna via d'uscita; in parte ciò accade per poca fantasia, in parte per mancanza di coraggio e di preparazione ad affrontare il rischio e il sacrificio. Ovunque, tanto nella politica quanto nella chiesa, c'è mancanza di idee che aprano orizzonti, di prospettive che diano entusiasmo e dello slancio e della perseveranza necessari a concretizzarle. 

È compito di noi cristiani reagire profeticamente a questa situazione e prendere coscienza dell'alternativa del regno di Dio, celebrarla e viverla. L'eucaristia è, a questo riguardo, fonte e missione. Ce ne rende capaci e ci incoraggia. Ogni volta ci rinnova la missione di essere testimoni di speranza. Al mondo dobbiamo mostrare il nostro volto pasquale.




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NOTE

1 SC 11; 14; 48.

2 R. GUARDINI, Vom Geist der Liturgie, Freiburg i. Br. 1918 [trad. it., Lo spirito della liturgia. I santi segni, Morcelliana, Brescia 200711]; ID., Von heiligen Zeichen, Mainz 1927 [trad. it., Lo spirito della liturgia. I santi segni, cit.; ID., Besinnung vor der Feier der heiligen Messe, Düsseldorf 1939 [trad. it., Il testamento di Gesù. Pensieri sulla S. Messa, Vita e Pensiero, Milano 1950].

3 Soprattutto H. DE LUBAC, Katholizismus als Gemeinschaft, Einsiedeln - Kiiln 1943 [trad. it., Cattolicismo. Aspetti sociali del dogma, in Opera Omnia 7, Jaca Book, Milano 1979]; lD., Betrachtungen über die Kirche, Graz 1954 [trad. it., Meditazione sulla chiesa, in Opera Omnia 8, Jaca Book, Milano 1987].

4 J.A. JUNGMANN, Missarum Sollemnia. Eine genetische Erklärung der römischen Messe, 2 voll., Wien 1949 [trad. it., Missarum sollemnia. Origini; liturgia storia e teologia della messa romana, 1: La messa nel corso dei secoli, la messa e la comunità della chiesa, la messa didattica; 2: La messa sacrificale, Marietti, Torino 1953-1954].

5 LEONE MAGNO, Serm. 74, 2 [trad. it., Omelia LXX1V, 2, in Omelie, Lettere, UTET, Torino 1969, 413].

6 AGOSTINO, In Jo. XXVIII, 3 [trad. it., Commento al Vangelo e alla Prima Epistola di San Giovanni, cit.].

7 AGOSTINO, Ep. 44,9 [trad. it., Le Lettere I, in Opere di Sant'Agostino 21, Città Nuova, Roma 1969].

8 K. RAHNER, Zur Theologie des Symbols, in ID., Schriften zur Theologie 4, Einsiedeln 1960, 275-311 [trad. it., Sulla teologia del simbolo, in ID., Saggi sui sacramenti e sull'escatologia, Edizioni Paoline, Roma 1965, 51-107]. Uno sviluppo grandioso di una concezione teologica di simbolo, rinnovata e profonda, si trova in H.U. VON BALTHASAR, Herrlichkeit, 111/ 1 e 2, Einsiedeln 1967.1969 [trad. it., Gloria. Un'estetica teologica, Jaca Book, Milano 1975-1978].

9 RATZINGER, Der Geist der Liturgie, Freiburg i. Br. 2000 [trad. it., Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello B. 2001]. Su questo tema nel suo insiemef. W. KASPER, Sakrament der Einheit – Eucharistie und Kirche, in ID., Die Liturgie der Kirche, Freiburg i. Br. 2010, 222-313 [trad. it., Sacramento dell'unità, in questo volume pp. 200-283].

10 Il quadruplice senso della Scrittura ci è stato nuovamente illustrato da H. DE LUBAC, Les quatres sens de l'Écriture, Paris 1959-1964 [trad. it., Esegesi medievale. I quattro sensi della scrittura, 2 voll., Jaca Book, Milano 2006].

11 Cf inoltre Mt 8,11; Mc 13,27; Gv 11,51s.; Did. 10,5 [trad. it., Didachè, cit., 35s.]; 1 Clem. 29,1-3; 59,3s. [trad. it., CLEMENTE ROMANO, Lettera ai Corinzi, in I Padri apostolici, cit., 68s.88s1.

12 Confessioni, I, 1 [trad. it., Le Confessioni, cit., 5].

13 IGNAZIO, Eph 20,2 [trad. it., Lettera agli Efesini, in I Padri apostolici, cit., 107].

14 La bibliografia sul racconto, o sui racconti, dell'ultima Cena è sterminata. Qui si rimandi soltanto a H. SCHURMANN, Ursprung und Gestalt, Düsseldorf 1970, 193-208; X. LÉON-DUFOUR, Abendmahl und Abschiedsrede im NT, Stuttgart 1983; H. J. KLAUCK, Gemeinde – Amt – Sakramente, Würzburg 1989, 313-347; T. SODING, Das Mahl des Herrn (FS T. Schneider), Mainz 1996, 134-163.

15 Cf. L. GOPPELT, notiípiov, in ThWNT 6, 149-153 [trad. it., Grande lessico del Nuovo Testamento 10, cit., 262-278]; Kelch, in LCI 2, 496s.

16 Cf Eb 13, 10; IGNAZIO, Eph. 5, 2 [trad. it., Lettera agli Efesini, in I Padri apostolici, cit., 101]; Magn. 7, 2 [trad. it., Lettera ai Magnesii, ibid., 111]; Philad. 4 [trad. it., Lettera ai Filadelfiesi, ibid., 128]. Altar, in X. LFON- DUFOUR (ed.), Wörterbuch zum Neuen Testament, Freiburg i. Br. 1964, 8-10 [trad. it., Altare, in Dizionario del Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 1978, 108s.]; Altar, in LCI 1, 105-107.

17 K. LEHMANN - E. SCHLINK (edd.), Das OpferJesu Christi und seine Gegenwart in der Kirche. Klärungen zum Opfercharakter des Herrenmahles, Freiburg i. Br. - Göttingen 1983.

18 AGOSTINO, Trin. VIII, 8 [trad. it., La Trinità, in Opere di Sant'Agostino 4, Città Nuova, Roma 1973, 353]; cf W. KASPER, Der Gott Jesu Christi (WKGS 4), Freiburg 2008, 465-479 [trad. it., Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 20119, 407-419].

19 IGNAZIO, Eph. 20, 2 [trad. it., Lettera agli Efesini, in I Padri apostolici, cit., 107]; IRENEO, Haer. III, 19, 1 [trad. it., Contro le eresie, cit., 278]; ATANASIO, Ar. I, 38, 19 [trad. it., Trattati contro gli ariani, Città Nuova, Roma 2003]; Incarn. 54 passim [trad. it., L'incarnazione del Verbo, Città Nuova, Roma 1976]; GREGORIO DI NISSA, Or. catech. 25 [trad. it., La grande catechesi, Città Nuova, Roma 1982]. Non è purtroppo possibile, in questo contesto, trattare del significato dello Spirito Santo e dell'epiclesi. Cf al riguardo W. KASPER, Wege der Einhei t. Perspektiven fiir die Ökumene, Freiburg i. Br. 2005, 145-148 [trad. it., Vie dell'unità. Prospettive per l'ecumenismo, Queriniana, Brescia 2006, 152-156].

20 LEONE MAGNO, Serm. 63, 7 [trad. it., Omelie, Lettere, cit., 353].

21 Gotteslob: Katholisches Gebet- und Gesangbuch, a cura delle Conferenze Episcopali di Germania, Austria e Svizzera e dei vescovi di Lussemburgo, Bolzano-Bressanone e Liegi, n. 620.

22 Sull'interpretazione del passo, con un ampio studio della letteratura di riferimento, cf. W. SCHRAGE, Der erste Brief an die Korinther (EKK 7/2), Einsiedeln - Neukirchen 1995,430-442.

23 Cf H. DE LUBAC, Corpus mysticum. L'Eucharistie et au Moyen Age, Paris 19492 [trad. it., Corpus Mysticum. L'Eucarestia e la chiesa nel Medioevo, Jaca Book, Milano 19962]. Grande abbondanza di materiale si trova anche in H. DE LUBAC, Katholizismus als Gemeinschaft, cit., 79-99 [trad. it., Cattolicismo. Aspetti sociali del dogma, in Opera Omnia 7, cit.].

24 Did. 9, 4 [trad. it., Didachè, cit., 35]; cf. CIPRIANO, Ep. 69, 5, 3 [trad. it., Lettere 2, Città Nuova, Roma 2007]; AGOSTINO, Serm. 227; 229 [trad. it., Discorsi IV/1, in Opere di Sant'Agostino 32/1, Città Nuova, Roma 1984]; 272 passim [trad. it., Discorsi IV/2, in Opere di Sant'Agostino 32/2, Città Nuova, Roma 1984].

25 AGOSTINO, Serm. 272 [trad. it., Discorsi IV /2, cit.].

26 AGOSTINO, In Jo. XXVI, 6, 13 [trad. it., Commento al Vangelo e alla Prima Epistola di San Giovanni, cit.].

27 STh III 73, 3.

28 SC 47; LG 3; 7; 11; 26 passim.

29 H. DE LUBAC, Betrachtungen iiber die Kirche, cit., 100-106 [trad. it., Meditazione sulla chiesa, cit.].

30 In ambito ortodosso: A. Afanas'ev, A. Schmemann, J. Zizioulas ed altri.; in ambito cattolico: J.M.R. Tillard, B. Forte ed altri. Cf. Eucharistische Ekklesiologie, in LThK 3, 969-972.

31 LG 23.

32 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera Communionis notio, 9.

33 Dal punto di vista ortodosso, questo aspetto è stato messo in grande rilievo da A. SCHMEMANN, The Eucharist. Sacrament of the Kingdom, New York 2003, 11-26. La sua polemica contro la teologia occidentale riguarda la teologia manualistica tradizionale, ma non è giusta nei confronti della grande teologia scolastica e dell'attuale rinnovamento liturgico.

34 Did. 10, 6 [trad. it., Didachè, cit., 36]; cf 1 Cor 16, 22.

35 AGOSTINO, Enarr. in Ps. 98,9 [trad. it., Esposizioni sui salmi 3, cit.].

36 Repertorio Nazionale. Canti per la liturgia 345.

37 GIOVANNI PAOLO II, Ecclesia de eucharistia, 5s. È certamente vero che la chiesa del primo millennio non conosceva l'adorazione eucaristica al di fuori della celebrazione eucaristica, così come si è invece sviluppata nella chiesa latina nel corso del secondo millennio. Tuttavia, questa pratica si può comprendere facilmente come ricordo, interiorizzazione, approfondimento personale e "prolungamento" dell'adorazione oltre la celebrazione eucaristica e, in tal senso, come sviluppo organico della pratica della fede del primo millennio.

38 Questo punto di vista, che fino ad oggi è stato sempre particolarmente presente nella teologia orientale, è stato nuovamente rivalutato soprattutto da P. TEILHARD DE CHARDIN, Lobgesang des Alls, Olten - Freiburg i. Br. 1961 [trad. it., Inno dell'Universo, Queriniana, Brescia 2011].

39 AGOSTINO, In Jo. XX, 20, 2 [trad. it., Commento al Vangelo e alla Prima Epistola di San Giovanni, cit.].


(La liturgia della Chiesa, Queriniana 2015, pp. 185-199)





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domenica 23 marzo 2025

Passione e Resurrezione di Cristo nella poesia contemporanea, di Alessandra Giappi


Passione e Resurrezione di Cristo 
nella poesia contemporanea

di Alessandra Giappi



La Passione e la Resurrezione di Cristo costituiscono il nodo tematico più dirompente con il quale la letteratura si trovi a misurarsi. Si tratta di una missione quasi impossibile, perché la Pasqua è evento soprannaturale da dirsi con parole umane. Allora la poesia si attrezza, tentando di ambientare in una cornice quel tema indicibile, nel quale si contrappongono incessantemente vita e morte, luce e ombra, materia e spirito.

Lo studio prende in esame il tema della Passione e della Resurrezione di Cristo nella poesia italiana del Novecento: sono compresi nel catalogo testi dedicati alla Pasqua da diversi autori: tra gli altri, Carlo Betocchi, Giorgio Caproni, Andrea Zanzotto, Cristina Campo, Leonardo Sinisgalli e soprattutto Mario Luzi, nel suo centenario, autore della Via Crucis commissionata dal pontefice Giovanni Paolo II per la processione del Venerdì Santo del 1999. 
L’analisi, di tipo prevalentemente testuale, non può non soffermarsi sulla natura della poesia che talvolta si fa preghiera invocazione e lode e talora si interroga sul mistero, o, ancora, riflette sulla dimensione sociale della religione. Il tema del ‘sacro’, talvolta affrontato problematicamente, come nel caso di Giovanni Testori, è tuttavia ben presente nella poesia del nostro tempo. La poesia non è fatta solo di cose o di occasioni: è una via per interrogare l’assoluto, l’assolutamente Altro.
In causa è la portata stessa della poesia, la sua capacità di cantare l’ineffabile.

Dopo secoli in cui aveva ispirato poeti soprattutto credenti e devoti, ci si aspetterebbe di vedere affievolito il tema della Passione e Resurrezione nel secolo breve, intriso di nichilismo, in cui sembra prevalere la materia sullo spirito. Spogliato dalla minaccia di stilemi convenzionali e da ogni retorica, quel tema indicibile, perché innaturale, oltre che soprannaturale, acquista invece nuova tensione e nuova intensità nella lirica italiana contemporanea: anche nel caso in cui se ne dovesse registrare la crisi. Si intende qui darne prova, attraverso un piccolo inventario di grandi autori.

Concluso il lungo silenzio letterario successivo ai Frammenti lirici e ai Canti anonimi, la poesia di Clemente Rebora (1885-1957) fattosi rosminiano tornerà a scorrere nella raccolta scaturita dal calvario della malattia, i Canti dell’infermità, nei quali Gesù è l’interlocutore privilegiato del poeta sofferente, che con lui perfettamente si identifica per la comune esperienza di agonia, tanto da considerare la propria vicenda come un mezzo per riprodurre il sacrificio dell’Agnello: così da proseguire l’attività sacerdotale celebrando non più il sacrificio sull’altare, ma il sacrificio della Croce, fino a comporre una sua personalissima Via Crucis. In una poesia del 1956 il poeta si immedesima nel Christus patiens solo, spremuto e quasi ebbro del suo stesso sangue, segno dell’amore che si immola:

Solo calcai il torchio:
con me non era nessuno:
calcarono su me tutti:
inebriato quasi spreco di sangue
in una rossa follia:
solo il torchio calcai:
liquido amore profuso
in estremo furore,
calcai il torchio, solo:
solo a torchiare,
solo a spremere il sangue mio:
tutto il mio Sangue sparso,
tutto in me già arso
dall’Immacolato Cuore di Maria:
invisibile ardore, quaggiù:
l’incomprensibile amore del Padre.
Gesù Gesù Gesù! [1]


Il fuoco della sofferenza sembra non raggiungere l’ardore. Gesù è medium invocato, il Padre si avverte lontano e incomprensibile. Sul trionfo della Resurrezione prevale il tema della Passione. La Croce [2] afferma che in un mondo instabile e vano solo l’amore di Cristo è indispensabile e vero. Rèbora è animato dall’ansia mistica, non si sottrae alla prova, affronta il suo Calvario: canta mentre il suo fisico si dissolve. Così in Notturno:

Il sangue ferve per Gesù che affuoca,
Bruciami! dico: e la parola è vuota.
Salvami tutto crocifisso (grido)
insanguinato di Te! Ma chiodo al muro,
in fisiche miserie io son confitto.
La grazia di patir, morire oscuro,
polverizzato nell’amor di Cristo:
far da concime sotto la sua Vigna,
[…]
questo, Gesù, da me volesti… [3]

Eppure, disfatto, non soccombe se il suo sacrificio si mescola con quello di Cristo, se oblativamente accetta di farsi martire, strumento di grazia: lo spirito vince la materia e il male.

La Pasqua dei poveri [4] di Carlo Betocchi (1899-1986) è una poesia corale nella quale sono i rappresentanti del sottoproletariato ad attendere e a celebrare la Pasqua, intesa come festa spirituale e sociale.

Forse per noi, che non abbiam che pane,
forse più bella è la tua Santa Pasqua,
o Gesù nostro, e la tua mite frasca
si spande, oliva, nelle stanze quadre.

Povero il cielo e povere le stanze,
Sabato Santo, il tuo chiaror ci abbaglia,
e il nostro cuore fa una lenta maglia
col cielo, che ne abbraccia le speranze.

Semplice vita, alle nostre domande
tu ci rispondi: Su coraggio, andate!
Noi t’ubbidiamo; e questa povertà
non ha bisogno più d’altre vivande.

Noi siamo tanti quanti alla campagna
sono gli uccelli sulle mosse piante,
cui sembra ancor che le parole sante
giungan col vento e l’acqua che li bagna.

A noi, non visti, nelle grigie stanze,
miriadi in mezzo alla città che fuma,
Sabato Santo, la tua luce illumina
solo le mani, unica festa, stanche:

a noi la pace che verrà, operosa
già dentro il cuore e sulla mano sta,
che ti prepara, o Pasqua, e che non ha
che il solo pane per farti festosa.


Lo scenario è un quadro urbano dominato dalla tonalità grigia (della città e degli interni). E i poveri, grigi a loro volta, mimetici in una città già in preda ai fumi, provvisti solo di pane e non di companatico, rivolgono una preghiera a Gesù: e la sua parola li sostiene e li sazia: «Su coraggio, andate». I poveri sono un popolo di invisibili, più numerosi degli uccelli della campagna che hanno abbandonato per trovare lavoro nelle fabbriche. Se la povertà è assenza di luce («Povero il cielo e povere le stanze»), la vera ricchezza è lo splendore del Sabato santo. Invitati prediletti di Cristo sono gli appartenenti al terzo stato; destinatari privilegiati del mistero sono i semplici che nutrono speranza e aspettano con fede una risposta, i miti che riempiono le stanze quadrate di rami di ulivo. La luce di Cristo inonda le mani stanche dei poveri: apporta pace e rende operose le loro mani e il loro cuore. L’effetto dell’obbedienza all’incitamento di Gesù è una pacificazione che diventa fermento di operosità nelle intenzioni e negli atti (il cuore, le mani). Non soltanto slancio dunque, ma predisposizione a compiere il bene: perché il bene non sia cieco o casuale serve intelligenza e intenzione. E la pace interiore ne è la condizione preliminare. Si comprende facilmente che l’ingrediente indispensabile e sufficiente alla festa è il pane: non fu forse Cristo a spezzare il pane nell’ultima cena? E non è il pane nel mistero eucaristico il corpo di Cristo che straziato e vituperato nella Passione risorge in tutto il suo fulgore? Più strettamente liturgico risulta un altro componimento di Betocchi: Resurrexit. [5] Se solo il titolo sembra alludere alla Pasqua (si celebra in realtà la prima comunione delle bambine della parrocchia), un verso suggerisce il desiderio di rinnovamento, insito nel pensiero pasquale: «Via il peso delle private abitudini!». Ancora una volta si auspica il mutamento, invocato come si invoca la pioggia benedetta. La preghiera investe in questa cerimonia uno dei padri astanti, in attesa della moglie e delle figliole: un padre-tipo, onesto e magari comunista: «Dio ti benedica nelle tue speranze». La virtù (di moglie e figlie) si qualifica qui come «attiva innocenza»: che di nuovo sottolinea l’operatività della poesia, la fattualità dello stupore che essa genera.

Dedicata a Giorgio Caproni, Per Pasqua: auguri a un poeta [6] si apre con uno scenario di croci sul monte e sulle colline: croci non di prima scelta, croci di poveri: anche Gesù ebbe una croce rimediata tra gli scarti di un falegname, «eppure estesa, ed alta, ed indomabile / e tentennante com’è la miseria». La precarietà diviene, come in tutto il Novecento, garanzia di reattività e di grandezza. Gli auguri non sono di circostanza, ma dettati da quel solito motivo che scampa dalle occasioni: del cuore che soffre solo di non amare.

A questo biglietto d’auguri fa eco idealmente il destinatario, Giorgio Caproni (1912-1990), con la sua Pasqua di Resurrezione [7]. Non fosse il calendario a segnare la data, nulla farebbe presumere la festa: nessun indizio allude a una festosità assente dalla scena popolata da figure – da figuri – perverse che appaiono dal nulla. La bellezza primaverile incarnata dalla rosa è subito minata da una simbolica vipera dalla lingua bifida (quella che Maria schiaccerà col piede). Ogni tentativo di esultanza o di leggerezza è negato da improvvisi cali di luce: «Inutile / cercare di alzare il bicchiere». Il sintagma ossimorico «brulla risorgenza» nega una qualità precipua della rinascita, la facoltà di (ri)fiorire: che invece così, spoglia e senza gemme, suggerisce più una condanna che una liberazione. Somiglia piuttosto a un’antipasqua quella che si va rappresentando in questo quadro in cui a prevalere sono i divieti, le impossibilità. Questo componimento è in linea con la smagata ironia e il sarcasmo che pervadono l’intera raccolta caproniana (e molta parte del Novecento poetico italiano), nella quale l’unico approdo non potrà che essere il nulla.

Elegia pasquale, [8] di Andrea Zanzotto (1921-2011), concepita negli anni ’43-44, e appartenente al libro del 1951, Dietro il paesaggio, risente del clima cupo e del desiderio di uscire dalla pesantezza del periodo bellico:

Pasqua ventosa che sali ai crocifissi
con tutto il tuo pallore disperato,
dov’è il crudo preludio del sole?
e la rosa la vaga profezia?

Dagli orti di marmo ecco l’agnello flagellato
a brucare scarsa primavera
e illumina i mali dei morti
pasqua ventosa che i mali fa più acuti

E se è vero che oppresso mi composero
a questo tempo vuoto
per l’esaltazione del domani,
ho tanto desiderato

questa ghirlanda di vento e di sale
queste pendici che lenirono
il mio corpo ferita di cristallo;
ho consumato purissimo pane.

Discrete febbri screpolano la luce
di tutte le pendici della pasqua,
svenano il vino gelido dell’odio;
è mia questa inquieta
gerusalemme di residue nevi,
il belletto s’accumula nelle
stanze nelle gabbie spalancate
dove grandi uccelli covarono
colori d’uova e di rosei regali,
e il cielo e il mondo è l’indegno sacrario
dei propri lievi silenzi.

Crocifissa ai raggi ultimi è l’ombra
le bocche non sono che sangue
i cuori non sono che neve
le mani sono immagini
inferme della sera
che miti vittime cela nel seno.


Il tema pasquale si affaccia qui per la prima volta nella poesia di Zanzotto, accostato a quello primaverile: ma la primavera è scarsa, ossia prematura e improduttiva. Promette ma non mantiene («la rosa la vaga profezia»). È una primavera implacabile nella sua ventosità questa che anziché lenire le ferite le rende più nitide e quindi più acute, spazza via le illusioni. Si concentrano i simboli pasquali - su tutti, l’agnello flagellato, il corpo fragile del poeta che si assimila a Cristo - ma mescolati e confusi ad aspetti esteriori della festa: il belletto, le uova, i rosei regali, le mani oranti. La luminosità è tagliente, febbrile: nient’altro che un «pallore disperato». C’è un’assunzione di responsabilità da parte del poeta («è mia questa inquieta / gerusalemme»), la consapevolezza di un destino individuale e certo collettivo non facile, di una sorte da vivere fino in fondo. La consapevolezza rivela la realtà qual è: le bocche sono sangue, i cuori neve, le mani immagini paralizzate della sera che nasconde vittime. È questa una Pasqua più che ‘dietro’ calata ‘nel’ paesaggio: ha pendici e croci sui monti, gli orti sono cimiteri immobili, sterili. Manca lo scatto verso l’alto, il guizzo di vitalità. Non si cangia in inno l’elegia. Anche in Pasqua di maggio, [9] appartenente al libro del ’73, Pasque, il poeta indica chiaramente un adunaton, un’impossibilità. Questa è una Pasqua altissima, tardiva: tanto più strano risulta allora il freddo diffuso, dominante nella sera dalle tinte verde-rosa-azzurro, che immaginiamo pastello, con nuvole che si accumulano e si sfanno, in un passaggio di biciclette. «Pasqua è Pasqua non è che un passa e va»: Pasqua è davvero un passaggio, ma qui più psicologico ed esistenziale che spirituale e religioso. Tanto più che il soggetto è ributtato da un’onda anomala oltre il «giusto significato». L’eccesso di slancio produce un fuori luogo (l’ennesimo). Sopravvive il simbolo della festa laica e pagana, l’uovo con i significati di nascita, di passaggio e di sorpresa che gli sono connessi. Soprattutto sono i sogni-uova a scivolare via. Eppure Pasqua che «tuba» da ogni parte dichiara la stagione dell’amore, nonostante una pioggia puntuale si accanisca come un pettine sul panorama. L’augurio-desiderio umano oltre che cristiano è che tutti siamo Pasqua e possibilità aperte: persone nuove, strumenti docili e consapevoli di un disegno di rinnovamento. Si tratta dello svolgimento di un rito interiore, mentale, ambientato nella campagna veneta che ha i colori dei dipinti di Paolo Veronese o del Tiepolo: un vero processo di percezione e di proiezione delle minacce più latenti, insite nell’apparentemente semplice e lucido teatrino naturalistico e antropologico. Peccato non ci sia più Zanzotto a parlarci di queste tracce, di queste vene, di questo gioco crudele sottostante la realtà. A rappresentare questo groviglio di sensi è, oltre alla partitura cromatica, lo spartito sonoro, giocato in chiave musicale attraverso la contaminazione, la sperimentazione linguistica ricorrente ad allitterazioni, anafore, onomatopee ma anche ad inserti di pittogrammi, stranierismi, cifre, lingue speciali. Un corredo al quale Zanzotto ci ha abituati (e Pascoli prima di lui). Nello stesso libro, La Pasqua a Pieve di Soligo [10] è un omaggio a Cendrars, autore di Le Paques à New York. Costituita da alessandrini a rima baciata, è il resoconto della rifioritura dell’io in tempo pasquale:

è il tempo del Passaggio, del (Signore): piangete
e gioite meco voi che di erbette avete fame, di vini sete.

È il tempo tuo, (Signore), che fa e disfa il bianco e il blu
nei fossati pei cieli sui monti e oltre e più.


Pieve di Soligo è un intrico nel quale l’io prende le distanze dalla festa. Sopravvivono i simboli sacri: «salita trave spugna lancia che squarcia il petto» e vengono percorse le Stazioni della Via Crucis. Ma la sacra rappresentazione dialogata si fa critica corrosiva contro la pseudociviltà dei consumi e dell’immagine, nella quale la vista si è imbastardita e si è persa la possibilità di riconoscere il miracolo:

Dic nobis Maria: quid vidisti in via?
Ho visto attizzarsi e consumarsi il mito del vedere.

Dic nobis Maria: quid vidisti in via?
Ho visto trionfare le cose puttane, emarginarsi le vere.

Dic nobis Maria: quid vidisti in via?
Ho visto insaccarsi incensarsi il vinario il braciere.

Fa’ o Signore che – ma il tuo fare cos’è?
Fa’ o Signore che – ma non vedo il perché.


La preghiera si perde nell’interrogazione o nel dubbio. E ancora:

Fa’ o Signore – e tutto si disponeva, ma altrove, in valore.
Fa’ o Signore – e s’apre lo schizoma nel suo puro albore.

Fa’ o Signore – e preme e lievita il comico soma
congiuntamente a vita e a morte nel producente schizoma.


I valori sono altrove. Sul tono iconoclastico prevale quello ironicamente destrutturante che radiografa la scena rivelandone la fantasmagoria imperdibile ma anche le contraddizioni che irrimediabilmente la crettano. Il «soma», il corpo, è «comico». Il tutto è percepito e reso con accenti e non coperti rimandi lacaniani e freudiani: «cerco a tentoni i congegni per cui s’inneschi l’universa euforia; / per questo scatto, schizo, tic, rovesciata è la pietra». Il grido «gloria gloria» si confonde con il rombo dei motori. Il poeta è immerso in un’insolita turbolenta atmosfera pasquale, nel rito collettivo (da sagra o da luna park) che ha scardinato l’ordine consueto del «suo paese». In un componimento di Fosfeni Zanzotto apostroferà così la Pasqua: «Pasqua, tu, mutevole» e «sempre, forse, la più mutevole di tutte, / la più faina delle feste, la più infrugabile» e ancora: «Pasqua, inutile rincorrerti». Pasqua è una festa irraggiungibile, intangibile: solo da desiderare.

Con Pasqua 1952, [11] appartenente alla raccolta La vigna vecchia, Leonardo Sinisgalli (1908-1981) ci immerge nel clima della sua campagna, quella lucana:

[…]
Cristo risorgerà dal sepolcro di iris:
i messaggeri ce l’hanno annunziato
bussando alle imposte.
I piccoli pastori ci portano i primi
asparagi dalle spinete, l’ortolana
scalza è entrata con un cesto di fiori di rape.

Aspettavo da trent’anni una Pasqua
tra i fossi, il muschio sopra i sassi,
le viole tra le tegole. Ma i morti
dormono nelle bare di castagno,
sugli archi delle stalle e dei porcili,
sulle crociere delle cantine e dei pollai.
Fanno fatica ad abbandonare per sempre
le nostre sedie, i nostri letti,
dove vissero tanti anni di lenta agonia.

[…]
M’ero messo in viaggio verso una Pasqua
in fiore, incontro al Cristo purpureo
che solleva il coperchio di grano bianco
cresciuto nelle grotte.

[…]
Ci è toccata questa valle, questa valle
abbiamo scelta per tornarci a morire.
Dove Gesù risorgerà con molta pena
noi speriamo ardentemente di sopravvivere
nel cuore dei compagni,
nel ricordo dei vicini di casa e di campo.


Si tratta ben più di una poesia d’atmosfera. È il bilancio di un destino: esprime la speranza disattesa e l’accettazione della realtà. Nella Pasqua fredda la famiglia si seppellisce in casa. Ad annunciare la Pasqua sono i giovani che bussano alle persiane e l’ortolana che reca fiori e rape, sorella della donzelletta leopardiana. Vita e morte si intrecciano in questa valle che è culla e sepolcro. La morte si annida e permane nella casa. E a Cristo che risorge fa da contrappunto il padre morente del poeta. Eppure non c’è tragedia: si avverte una continuità di affetti e di memoria. Agli umani resta la speranza di non morire completamente, di sopravvivere foscolianamente nel ricordo degli amici. La religione, con i suoi riti popolari, unisce e accompagna il passaggio sulla terra. Viene ribadita l’insufficienza della conoscenza rispetto allo choc dell’esperienza: si celebra la vittoria della realtà sulla teoria.

La non mai abbastanza studiata Cristina Campo (1923-1977) ci ha lasciato due poesie di argomento pasquale: nella prima, Mattutino del venerdì santo, [12] un «magistrale discorso» si tiene in una scena che evoca l’antica alleanza, quando Mosè ricevette le Dodici Tavole, ma attualizzata: «l’altare vuoto e spoglio / al centro di un Cespuglio Ardente / di bocci e braci». Dio Padre che germoglia e brucia si rivolge a «proni volti in fiamme». Il sangue di Cristo, «cruenta porpora», è l’inchiostro necessario con il quale è stato possibile firmare un nuovo patto di alleanza tra Dio e l’umanità. Grazia del Dio immortale e condanna del Dio morto sono i due termini dello stesso grandioso e tremendo mistero. «Nella carne addormentato», Cristo risorge. L’altro componimento, Ràdonitza (Annuncio della Pasqua ai morti), [13] è un inno altissimo e modernissimo di lode alla Pasqua:

Vento di primavera
traslucido come spada:
esilia dal sépalo affilato
il boccio cremisi che ancora trema,
come dall’anima lo spirito,
il sangue dalla vena.
L’inverno, occulto stelo
che cullò le intenzioni, incubò le mortali esitazioni,
falcia senza un grido;
le psichiche vecchiezze recide
dalla terribile vita.
Pasqua d’incorruzione!
Nel vento di primavera
l’antica chiesa indivisa
annuncia ai morti che indivisa è la vita:
su lapidi d’ipogei
posa i sepali che ancora tremano
e al centro, al plesso, al cuore,
là dov’è sepolto il Sole,
là dov’è sepolto il Dono,
il piccolo uovo cremisi del perenne tornare,
dell’umile, irriconoscibile
trasmutato tornare.
Pasqua che sciogli ogni pena!


Nucleo centrale della poesia è l’annuncio ai morti da parte della chiesa che la vita è intera. Non c’è separazione tra vita e morte. Un vento di primavera lucido e affilato decapita i sepali, stronca di colpo l’inverno, pigro alimentatore di intenzioni e di indugi, taglia i pensieri decrepiti. La giovane Pasqua non ammette ciò che è corrotto, esige un rinnovamento radicale. Soltanto così garantisce la liberazione da ogni dolore, pronto a sciogliersi sotto l’effetto del perenne ritorno della vita. La testimonianza della «morte della morte» è affidata a donne agghindate e attonite in una metropoli. La «notizia tremenda» della resurrezione chiama in causa ogni popolo, ogni regione, ogni storia, ogni pensiero: è una notizia globale ed eterna: è memoria proiettata nel futuro per i millenni a venire.

Violenti chiaroscuri, compresenza di buio e di splendore sono poli indispensabili alla poesia religiosa di Margherita Guidacci (1921-1993). Nel libro del 1980, L’altare di Isenheim, ispirato al maestoso e sconvolgente polittico [14] di Grünewald, proclamando la riconsacrazione della vita attraverso la meditazione sulla morte, la poetessa dedica alcuni componimenti al tema, così adatto all’ossimoro di ombra-luce: Crocifissione, Deposizione, Resurrezione. Leggiamo il primo:

A questo crocevia di tenebre
davanti a noi sorgi tremendo,
albero secco, stadera
che reggi il gran corpo inerte.

Un nudo legno trasversale
taglia lo spazio
e un nudo legno verticale
svetta oltre il tempo:

assi cartesiane
della vita e della morte,
intorno a cui si schiude
ora il nero quadrifoglio.

Nei lobi in alto, il vuoto ed il terrore
come al grido «Mio Dio
perché mi hai abbandonato?».
In basso, fatto roccia in tre figure,
tutto il dolore umano.

Ma ecco avanza l’Agnello vittorioso
verso la sua piagata controparte.
E un Profeta ci addita, perentorio,
salvezza nella metafora! [15]


La croce di Cristo squadra lo spazio e vince il tempo, è misura di tutte le cose, determina direzione e senso. Al terrore dell’abbandono, al dolore umano coagulato nella concentrazione delle tre figure - Maria, Maria di Magdala, Giovanni - impietrite ai piedi della croce che regge il corpo del Dio piagato ed esanime subentra la vitalità dell’Agnello che sconfiggendo la morte ha procurato la salvezza a tutta l’umanità. In Deposizione regna il silenzio assoluto: «Nulla più turba la natura esausta. / La terra che tremò nell’ora nona / adesso giace immota». [16] E in Resurrezione la luce del Risorto vince le tenebre:

Come naufraghi, a stento
sopravvissuti alla burrasca,
atterriti sul lido della notte
stanno i tre soldati,
con l’inutile spada
e l’inutile elmo
su cui improvviso si riflette il guizzo
d’una luce violenta –
il Signore s’innalza dalla tomba
e s’aprono le tenebre
davanti a Lui come un tempo le onde
del Mar Rosso davanti ad Israele [17]


Di Giovanni Testori (1923-1993) si ricordano diverse poesie di ispirazione religiosa che esprimono un percorso di ricerca e di fede costantemente messo alla prova. In Crocifissione [18] Cristo cade per la seconda volta sotto il legno della croce: è il pegno e il segno del suo amore. Le analogie spesso fioriscono:

è qui il pegno,
sacro legno,
fama,
orma.

Cristo è anche «stella» e «astro»: sintetizzando la sua parabola di uomo, l’autore nota che scelse una nascita umile, illuminata dalla stella, destinato a sua volta a far ritorno al cielo. Le cadute di Cristo si moltiplicano, ben oltre le tre attestate dalla Via crucis: corrispondono ad ogni colpa reiterata dell’uomo. In Nel tuo sangue la provocazione diventa sempre più forte, fino a rasentare la profanazione iconoclastica:

Perché hai gridato
che ti lasciava
se era tuo padre
e t’amava? [19]


E ancora:

Hai voluto morire come uno
che volesse qualcosa dimostrare.
Ma tu dovevi soltanto
vivere e amare. [20]


La poesia di Testori, che egli stesso definisce «religiosa», si risolve in drammatico incontroscontro, in estremo confronto, con un Cristo non mistico ma carnale: un rapporto di amoreodio tra il poeta e Dio; e in ultima istanza individua nell’assenza di religiosità la ragione della crisi della cultura moderna.

La Passione [21] di Mario Luzi (1914-2004) è da ritenersi poema sacro d’occasione. Il poeta non l’avrebbe composto se Giovanni Paolo II non glielo avesse espressamente richiesto: non si sarebbe cimentato in un’impresa tanto ardua. Eppure la morte e la rinascita alludono a uno dei temi più cari al poeta: il mutamento, secondo il cui principio ciò che è vecchio deve decadere per lasciare spazio al nuovo. Non a caso la festa pasquale coincide con la primavera: il mistero della Resurrezione non poteva che essere celebrato nella stagione della rinascita e del risveglio della luce.

Luzi concepisce una Via Crucis del tutto nuova: in forma di recitativo, è un lungo monologo di Gesù che parla in prima persona, da uomo, rivolgendosi al Padre che è Dio. A Lui, come sono soliti fare i figli, Egli confida i propri dubbi e il proprio sgomento di fronte all’agonia che lo attende, all’ultimo atto della missione che sa che di dover compiere («Tutto è compiuto», dirà sulla Croce). La natura umana di Gesù trema; quella divina sa. Mai la poesia aveva osato tanto: diventare Parola di Dio. Le stazioni di questo testo offrono spunti teologici e filosofici: esiste una sola eternità, quella governata da Dio, che è anche dove pare assente. Anche nella morte. Gesù parla nel gorgo del tempo che domina gli umani e di cui avverte la tristezza indicibile: Dio ne è immune. Gesù è vittima di una giustizia ingiusta che vuole uccidere il divino in Lui. In presa diretta Egli commenta la propria Passione: il bacio di Giuda, la cattura, il tradimento di Pietro, le cadute, il gesto pietoso della Veronica, la croce… Cristo che è vita («io sono la via, la verità, la vita») teme, più della morte stessa, la Via Crucis e i tre giorni di esilio nel nulla dopo la morte. Lo assale un dubbio umanissimo - Dio non dubita - circa l’utilità della sua missione salvifica: «La mia permanenza sulla terra è stata vana?». Vorrebbe essere stato più dio, per meglio testimoniare il Padre e per non patire, ora, il distacco; e più uomo, per meglio calarsi nella vicenda umana. Al Gesù di Luzi dispiace lasciare il mondo. Lui, Dio, è innamorato della terra, «terribile» ma «bella», così amabilmente umanizzata, sulla quale si conduce una vita «dolorosa» eppure «gioiosa». Tutto ciò che è umano è pieno di contraddizioni e di fascino. Il Figlio di Dio si intenerisce davanti alla creazione magnifica del Padre:


XIII

Padre mio, mi sono affezionato alla terra quanto non avrei creduto.
È bella e terribile la terra.
Io ci sono nato quasi di nascosto, ci sono cresciuto e fatto adulto
in un suo angolo quieto
tra gente povera, amabile e esecrabile.
Mi sono affezionato alle sue strade,
mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti,
le vigne, perfino i deserti.
È solo una stazione per il figlio tuo la terra
ma ora mi addolora lasciarla
e perfino questi uomini e le loro occupazioni,
le loro case e i loro ricoveri
mi dà pena doverli abbandonare.
Il cuore umano è pieno di contraddizioni
ma neppure un istante mi sono allontanato da te.
Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi
o avessi dimenticato di essere stato.
La vita sulla terra è dolorosa,
ma è anche gioiosa: mi sovvengono
i piccoli dell’uomo, gli alberi, gli animali.
Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario.
Congedarmi mi dà angoscia più del giusto.
Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?
Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?
La nostalgia di te è stata continua e forte,
tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna. [22]


Se l’eternità pertiene a Dio, il tempo, invenzione umana, si declina lungo stagioni fragili, labili. È plausibile aspirare all’eternità: ma stranamente Gesù prova nostalgia della terra fin dal momento in cui si appresta a lasciarla: lui, destinato a tornare all’eternità con il Padre. Tutto il monologo si incentra sul contrasto (e la compresenza) di divino e umano - di celeste e terrestre, scriverebbero Agostino e Luzi -: che sono i due piani sui quali si gioca la promessa pasquale, concentrati nella sacra effige della Sindone. Il mistero della Passione e della Resurrezione di Cristo intessuto con la storia dell’umanità è quello che più radicalmente esprime la vocazione di una poesia che non esaurisca la propria ispirazione entro l’orizzonte della quotidianità: e che dunque si fa cercatrice dei fondamenti invisibili, soprattutto attraverso l’esperienza del magma del mondo. Chiamando in causa il nostro destino, individuale e collettivo, alimenta la nostra fiducia in una rinascita possibile, ci sospinge al rinnovamento dello spirito, alla ricerca di affrancamento. Ci dà speranza ed energia. In un mondo spesso triviale e distratto, ci fa avvertire la coscienza di una separatezza, della lontananza mai arresa dall’origine. La ripresa di temi generi e forme del sacro nella poesia di Mario Luzi muove da una sua convinta adesione alla fede, maturata durante l’infanzia grazie all’esempio e all’educazione materna, misurata poi negli anni dall’esperienza quotidiana. Ma il fattore biografico certo non basta a sostenere le ragioni essenzialmente poetiche del dettato. Si tratta di poesia del sublime in senso dantesco, attecchita nel terreno petrarchista e fertile dell’ermetismo fiorentino. La verticalità della poesia di Luzi presuppone però sempre la dimensione orizzontale, il senso della natura e della storia, della creaturalità degli esseri: direzioni perfettamente rappresentate dai bracci ortogonali della croce. Il poeta, figura naturale [23] per eccellenza, cerca in alto il proprio riferimento e il proprio interlocutore; in pieno relativismo novecentesco si ostina a perseguire le cause prime e il senso dell’esistere, a invocare l’assoluto. La poesia è spesso già preghiera, in Dante come in Luzi: è verbo che non smette di interrogarsi intorno all’Essere ed è a sua volta verbo creante. Il dire della poesia presuppone il fare, nella sua forma più semplice e più alta. La parola è germe ed essenza della realtà, idea che produce forma e svolgimento. Il tema religioso alimenta la sofferta necessità del mutamento, collettivo e individuale. Il riflesso del sacro nella poesia di Luzi afferma la bontà e la verità del divenire, riscattando così la parola occidentale dalla condanna che la confinava ad essere fossile di un’idea, crocifissa sul foglio bianco. Il suo discorso da «estremo principiante» che si colloca sempre «in quel punto pullulante dell’origine continua», dove sorgiva sgorga la vena dell’infinità dei possibili, dei virtuali - e dunque più intensi sorgono l’interrogativo e il dubbio - ha la stessa forza di una preghiera sempre ritornante e mai uguale a se stessa.

Il tema del sacro, soprattutto del mistero più alto, quello della Passione e della Resurrezione di Cristo, è, come si è visto, presente nella lirica italiana contemporanea. La poesia del nostro tempo non è solo fatta di ‘cose’ o di ‘occasioni’ per visitare l’altrove sfuggendo a un ‘qui e ora’ costipato, stringente e apparentemente invalicabile: è una via per interrogare l’assoluto passando attraverso la realtà, per porsi le domande ultime.




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NOTE:
[1] C. RÈBORA, Le poesie, a cura di G. Mussini e V. Scheiwiller, Milano, Garzanti, 1988, 286.
[2] Al tema della croce è dedicata una poesia scritta per la festa di Cristo Re del 1955, quando, in occasione del centenario della morte di Antonio Rosmini, venne issata un’alta croce sul Sacro Monte Calvario di Domodossola: «La Croce irraggia luce dal Calvario, / di nuovo posta da Rosmini al sommo: / dice in salvezza del mondo precario / che un solo Amore è vero e necessario». (ID., Le poesie…, 266).
[3] Ivi, 273.
[4] C. BETOCCHI, Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1996, 79.
[5] Ivi, 341.
[6] Ivi, 20.
[7] G. CAPRONI, L’opera in versi, Milano, Mondadori, 1998, 615.
[8] A. ZANZOTTO, Le poesie e prose scelte, Milano, Mondadori, 1999, 49.
[9] Ivi, 433.
[10] Ivi, 423.
[11] L. SINISGALLI, La vigna vecchia, Milano, Mondadori, 1956.
[12] C. CAMPO, La Tigre Assenza, Milano, Adelphi, 1991, 52.
[13] Ivi, 56.
[14] Il celebre polittico, realizzato da Grünewald per l’altar maggiore della chiesa del convento di Isenheim, è ora custodito nel Museo Unterlinden, a Colmar.
[15] M. GUIDACCI, Crocifissione, in Le poesie, a cura di M. Del Serra, Firenze, Le Lettere, 1999, 293.
[16] EAD., Deposizione, in EAD., Le poesie…, 294.
[17] EAD., Resurrezione, in EAD., Le poesie…, 296.
[18] G. TESTORI, Opere 1965-1977, a cura di F. Panzeri, Milano, Bompiani, 1997.
[19] Ivi, 977.
[20] Ivi, 981.
[21] M. LUZI, La Passione, Milano, Garzanti, 1999. Lo stesso monologo venne contemporaneamente pubblicato anche a Brescia per i tipi de l’Obliquo con il titolo Via Crucis al Colosseo. L’opera fu recitata dall’attore Sandro Lombardi durante la processione del venerdì santo del 1999 a Roma.
[22] ID., Via Crucis al Colosseo, Brescia, l’Obliquo, 1999, 27.
[23] Cfr. ID., Naturalezza del poeta, Milano, Garzanti, 1995.


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