LA BELLEZZA DI CRISTO NELL'ARTE, DALL'ANTICHITA' AL RINASCIMENTO
di Mons. Pasquale Iacobone
Fonte : http://www.azionecattolica.it/settori/ACR/Educatori/sezione/armad/NOVITA/CAMPI
Introduzione
In questo breve saggio non si vuol minimamente
abbozzare una trattazione
che possa dirsi completa, né tanto meno esaustiva, della complessa
e articolata iconografia della figura di Cristo, ed in particolare del suo
volto. Per questo si rimanda volentieri ai diversi studi in merito e alle voci
di dizionari o enciclopedie che ne trattano ampiamente[1].
Nel contesto specifico di questo numero
monografico di "PATH", centrato sulla "via della bellezza", si vuole piuttosto
evidenziare la singolare
bellezza di Cristo, ed in particolare del suo volto, così come ci viene mostrato
dall'arte cristiana dell'Antichità, del Medioevo e del primo Rinascimento.
Ci chiediamo, dunque, quale bellezza
riscontriamo in Cristo, e quale bellezza di Cristo, uomo‑Dio,
viene espressa e mostrata dall'arte. Dopo il necessario e sintetico riferimento
ad alcuni testi biblici, prendiamo in considerazione
testi patristici e documenti storici in cui viene man mano delineata
la "fisionomia" di Cristo e quindi la sua singolare bellezza. Sulla scorta di
tale documentazione sarà quindi più agevole ed interessante esaminare
alcune opere d'arte, solo pochissimi esempi dei tanti possibili, che
rispecchiano le diverse convinzioni sulla bellezza di Cristo maturate nella
riflessione cristiana.
Non entriamo, poi, nella complessa ed
articolata controversia relativa all'iconoclastia, che trova nel Niceno II una
risposta essenziale, poiché la materia è già ampiamente studiata e costituisce
comunque il naturale background di questo lavoro[2].
1. La bellezza di Cristo nel
Nuovo Testamento
Alcuni testi del Nuovo Testamento sono
particolarmente significativi per la teologia dell'immagine e per la definizione
della bellezza di Cristo nei suoi diversi aspetti.
I testi paolini, innanzitutto, ci offrono
alcune fondamentali affermazioni,
su cui riflettere tutta la tradizione cristiana.
Nella Seconda Lettera ai Corinzi
(4,4.6), in un contesto di polemica con «coloro che si perdono, ai quali
il dio di questo mondo ha accecato la mente incredula», Paolo riafferma
vigorosamente il suo annuncio del «glorioso vangelo di Cristo che è immagine
(eikon) di Dio». L’autorevolezza dell'Apostolo e la forza del suo annuncio
derivano dalla rivelazione ricevuta
da Dio, che ha fatto risplendere nel suo animo, nel suo cuore, come in quello
dei veri discepoli di Cristo «la conoscenza della gloria divina che rifulge sul
volto di Cristo».
Abbiamo, così, due
fondamentali affermazioni: Cristo è immagine-icona
di Dio, sul suo volto risplende la gloria divina.
Nel famoso Inno cristologico con cui si apre
la Lettera ai Colossesi viene ripreso il tema dell'immagine. Si afferma,
infatti, al v. 15: «Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni
creatura». Si precisa che Cristo è immagine, dunque realtà visibile,
percepibile, che rivela e manifesta la bellezza del Padre, del Dio invisibile. E
al cap. 2, v. 9 si afferma,
con termini molto pregnanti, che «è in Cristo che abita corporalmcnte
(somatikos) tutta la pienezza della divinità».
Nell'altro Inno
cristologico, riportato nella Lettera ai Filippesi (2,7-8), guardando al
Cristo della Passione, al vero Servo sofferente che riconcilia
l'umanità col Padre, si afferma:
«Spogliò se stesso, assumendo la condizione di
servo e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e
alla morte di croce».
Nell'Incarnazione Cristo lascia dunque la
morphé divina per assumere
la forma umana, quella di un servo, facendosi così simile all'uomo, e dunque
visibile e percepibile, dotato di caratteri pienamente umani.
Nell'incipit della Lettera agli
Ebrei (1,3), l'Autore sacro riprende e approfondisce la visione
paolina, offrendoci anche una precisa terminologia,
fondamentale negli sviluppi teologici ed iconografici successivi:
«Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria
e impronta (charakter) della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza
della sua parola [...]».
Cristo, dunque, non solo è immagine ma anche
irradiazione della gloria
di Dio, "carattere" della persona del Padre, reggitore del mondo con la forza
della sua Parola.
Il Vangelo di Giovanni,
al pari della letteratura
paolina, offre un contributo fondamentale alla definizione della "fisionomia"
di Cristo, e rivelandoci la sua identità divina ci aiuta anche a definire la sua
immagine umana, la sua corporeità e la sua visibilità/tangibilità.
Punto di partenza ineludibile evidentemente,
l'affermazione centrale
del Prologo (1,14): «Il Verbo si è fatto carne», a cui fa
da pendant l'affermazione
conclusiva: «Il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato».
L’essere di Cristo nella carne, nella concreta condizione umana, è la condizione
di possibilità perché la rivelazione del Padre possa entrare nella storia umana
ed essere ascoltata, percepita ed accolta.
Rafforza tale convinzione la perentoria risposta di
Gesù a Filippo, che lo interroga chiedendogli di mostrare il volto del Padre (Gv
14,9): «Chi ha visto me, ha visto il Padre».
Sarà questa affermazione a giustificare e
motivare, nella riflessione teologica e nell'arte cristiana, non solo la
rappresentazione figurativa di Cristo ma anche quella delle altre due Persone
della Trinità, raffigurate esattamente alla stessa maniera. Nella figura umana
visibile di Cristo si manifestano e si rivelano anche il Padre e lo Spirito[3].
Uno spunto più concreto e immediato per
l'iconografia cristiana dei primi secoli viene, inoltre, offerto dalla celebre
espressione che ritroviamo al capitolo 10 (vv. 11.14): «Io sono il
buon/bel pastore [...]». Cristo viene designato come pastore e in più
qualificato con l'aggettivo kalós, cioè bello, di una bellezza che non è
disgiunta dalla bontà, corrispondente all'aggettivo ebraico (tôb) che
ritroviamo, ad esempio, nel racconto della Creazione.
Un altro testo significativo, anche per le
suggestive e spesso commoventi
rappresentazioni che ha ispirato, è quello che si ritrova nel dialogo tra Gesù e
Pilato, il quale, mostrandolo alla folla dei Giudei, afferma (19,5): «Ecco
l'uomo!».
Non vanno, infine, dimenticati i testi dei
Sinottici che raccontano 1'evento teofanico della Trasfigurazione (Mc
9,2‑8; Mt 17,1‑8; Lc 9,28‑36), in cui la bellezza di
Cristo, e la sua rivelazione della gloria del Padre, vengono
espresse attraverso il linguaggio della luce e dei colori.
2. Testimonianze antiche sulla figura di Cristo,
sulla sua bellezza e sulla sua bruttezza o deformità
Se i testi biblici, ed in particolare quelli
evangelici, non parlano delle caratteristiche fisiche di Cristo e non ne
descrivono la fisionomia, né ce ne danno un "ritratto", evidenziando piuttosto
la sua identità divino‑umana, ci dicono qualcosa di più alcuni testi antichi.
Non si tratta, certo, di testi che possiamo considerare storicamente attendibili
sulla reale fisionomia fisica di Gesù, ma risultano comunque importanti, perché
ci rimandano a tradizioni orali o a convinzioni che circolavano in ambienti
cristiani già nei primi secoli[4].
Un primo testo ci riporta l'obiezione di Celso,
contenuta nell'opera Discorso vero, risalente all'incirca all'anno 170,
conosciuta attraverso la citazione che ne fa Origene nell'opera scritta proprio
per confutare le affermazioni dello stesso Celso:
«Qualora uno spirito divino avesse albergato
nel corpo (di Cristo), questo avrebbe dovuto necessariamente superare gli altri
corpi o per grandezza o per bellezza e forza o per la voce o per la maestà o per
il dono della persuasione [...]. Eppure d suo corpo non differiva affatto dagli
altri corpi; ma – a quanto dicono – era piccolo,
brutto a vedersi e volgare»[5].
Lo stesso Celso, dunque, rimanda ad una opinione da
lui appresa – “a quanto dicono" – e la ripropone come possibile.
Un testo interessante, di matrice giudaica ma
cristianizzato dal II secolo, è quello degli Oracoli Sibillini, in cui
possiamo intravedere quale fosse l'impatto sociale e antropologico
dell'affermazione della bruttezza di Cristo:
«Egli è venuto nel creato non in bellezza, ma
come uomo povero, disonorato e insignificante per dare speranza ai miserabili»[6].
I Padri della Chiesa e gli scrittori cristiani
dei primi secoli ripensano e tratteggiano la figura, e la singolare bellezza di
Cristo, a partire dall'Antico Testamento, secondo un procedimento più che
consueto nell'antichità cristiana.
Due testi scritturistici giocano un ruolo
assolutamente primario, senza escludere altri possibili riferimenti: il Salmo 45
(44), 2ss. e Isaia 53, 2ss.
Nel primo, un salmo regale, interpretato come
inno di nozze del re‑messia
con la sposa, figura della Chiesa, si afferma, nella versione della Vulgata:
«Speciosus forma prae filiis hominum, diffusa est
gratia in labus tuis […]. Specie tua et pulchritudine tua intende […]. ‑
Tu sei il più bello tra i figli dell'uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia
[…]. È bello e maestoso avanza […]».
Nel secondo leggiamo la profezia di Isaia riguardo
alla misteriosa figura del Servo sofferente di JHWH:
«Non est species ei,
neque decor, et vidimus eum, et non erat aspectus, et desideravimus
eum, despectum, et novissimum virorum, virum dolorum, et scientem infirmitatem,
et quasi absconditus vultus eius et despectus, unde nec reputavimus eum […].
‑ Non ha apparenza né bellezza per attirare i
nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere. Disprezzato e reietto
dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al
quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima».
Sulla scia di quest'ultimo brano, Padri come
Ireneo e Tertulliano attribuirono a Cristo, anche per rispondere alla polemica
docetista e gnostica,
tratti fisici decisamente negativi, ma che evidenziavano la sua piena assunzione
della umanità, con tutti i suoi limiti e miserie.
Se Cristo stesso pronuncia sulla croce le
prime parole del Salmo 22 (21), Tertulliano non esita ad
interpretare in chiave cristologica anche il seguito dello stesso Salmo, tra cui
il versetto 7: «Sono un verme e non un uomo»[7].
Giustino, nel suo Dialogo con Trifone,
afferma in proposito:
«Quando i principi celesti videro che la sua
figura era senza bellezza, senza onore e senza gloria, non riconoscendolo
domandarono: "Chi è questo signore della gloria?" e lo Spirito santo rispose
loro nel nome del Padre e a suo nome: "E signore delle potesta è il re della
gloria"»[8].
Nella letteratura successiva, ad esempio nell'opera
apocrifa conosciuta come Atti di Tomaso, la bruttezza di Cristo viene
vista come uno strumento per ingannare il diavolo, e dunque come strumento di
salvezza per l'uomo:
«Mentre pensavamo di poterlo assoggettare al
nostro potere, egli (Cristo) si voltò e ci precipitò nell'abisso. Noi non lo
conoscevamo, avendoci egli ingannato con il suo aspetto umile, con la sua
indigenza e povertà. Al vederlo pensammo che fosse uno dei figli degli uomini,
ignorammo che egli era il datore di vita a tutta l'umanità»[9].
Sulla dialettica tra bruttezza apparente e bellezza
sostanziale di Cristo, ci offrono suggestive testimonianze alcuni esponenti
della scuola alessandrina.
Clemente Alessandrino afferma, per un verso, che
«il nostro Salvatore supera ogni natura umana.
Egli è bello, tanto che Egli solo da noi è amato, da noi che aspiriamo alla
bellezza vera»[10].
D'altra parte sostiene che
«Egli stesso, il "capo della Chiesa", venne
sulla terra nella carne, benché "brutto e malforme nell'aspetto", insegnandoci
così a volgere lo sguardo alla natura invisibile e
incorporea della causa divina»[11].
Il concetto è ripreso in un altro brano della stessa
opera:
«Il Signore volle assumere un corpo di forme
meschine non invano, ma allo scopo che nessuno, apprezzando l'aspetto avvenente
e ammirando la bellezza fisica, si distogliesse dalle sue parole e restasse
escluso dalle realtà intelligibili solo per aver posto attenzione alle cose che
poi vanno lasciate»[12].
Anche Clemente, dunque, in vista della
redenzione dell'uomo, della sua divinizzazione, afferma che Cristo ha assunto su
di sé la deformità dell'uomo
per poi ridonargli la bellezza originaria, quella autentica, che si manifesta in
lui:
«Ma l'uomo in cui abita il Verbo [...] è
simile a Dio, è bello, non s'abbiglia; è la vera bellezza, perché è Dio [...].
Ma Dio stesso, patendo insieme, fece la carne libera dalla corruzione e,
liberatala da una schiavitù amara e portatrice di morte, la rivestì
dell'incorruttibilità, dandole questo santo e imperituro ornamento dell'immortalità
[...]. Che il Signore fosse brutto nell'aspetto lo attesta lo Spirito per mezzo
di Isaia: Lo vedemmo e non aveva bell'aspetto, né bellezza, ma un aspetto
spregevole, vile davanti agli uomini. Chi è meglio del Signore? Non mise in
mostra l'ingannevole bellezza della carne, bensì la vera berezza dell'anima e
del corpo, la bonta dell'anima e l'immortalità della carne»[13].
Origene, rispondendo alle posizioni di Celso, prima
accennate, afferma che ciascuno può percepire nell'aspetto di Cristo quel che
riesce a cogliere e che, per chi sa guardare oltre l'apparenza, si rivela la
vera bellezza del Signore:
«Non bisogna stupirsi, allora, se la materia,
per natura mutevole e plasmabile è tale da giustificare le seguenti parole: "Non
aveva forma, né bellezza"; e neppure bisogna stupirsi se essa è così gloriosa,
impressionante e degna di ammirazione che, di fronte a cotanta bellezza, i tre
apostoli saliti con Gesù sulla montagna, "caddero davanti al suo volto"»[14].
Nel volto sfigurato e deforme del Cristo
sofferente, Origene invita gli uomini purificati e spirituali a scorgere, con
sguardo di fede e in profondità,
la luminosa bellezza del Cristo trasfigurato e risorto[15].
Lo stesso Origene sembra poi conoscere quanto
scritto nell'opera apocrifa Atti di Giovanni, databile agli anni 140‑150,
in cui l'Apostolo prediletto racconta il suo incontro con Cristo:
«Quando ci allontanammo da quel luogo per
seguirlo, allora mi apparve con la testa quasi calva, ma con una barba che
discendeva folta, mentre a Giacomo apparve come un giovanetto con una barba
recente [...]. Spesso mi appariva come un uomo piccolo e brutto e quindi, altre
volte, come uno che mirasse al cielo»[16].
Condividono le posizione di Giustino e di
Clemente anche Ireneo[17];
Tertulliano[18]
e Ambrogio[19].
La convinzione origenista, per cui la bellezza
di Cristo è alla portata solo degli uomini "spirituali", viene condivisa da
Agostino, il quale sostiene
che bisogna essere dotati di una vista pura per riuscire a vedere la bellezza
sostanziale e spirituale di Cristo[20],
altrimenti vedremmo soltanto, come nel caso degli estranei e dei persecutori, la
sua povertà e deformità[21].
Anche per Agostino l'immagine sfigurata o
deforme di Cristo è motivata
dal suo assumere in toto la condizione umana, al fine di redimerla e di
trasformarla, rendendola veramente bella[22].
Il testo forse più significativo a tal proposito è
il commento alla Prima Lettera di San Giovanni:
«Noi dunque amiamolo, perché egli per primo
ci ha amati […]. Ci ha amati per primo e ci ha donato
la capacità di amarlo. Ancora noi non lo amavamo; amandolo,
diventiamo belli […]. La nostra anima, fratelli, è brutta per colpa del peccato:
essa diviene bella amando Dio. Quale amore rende bella l'anima che ama? Dio
sempre è bellezza, mai c'è in lui deformità o mutamento. Per primo ci ha amati
lui che sempre è bello, e ci ha amati quando eravamo brutti e deformi. Non ci ha
amato per congedarci brutti quali eravamo, ma per mutarci e renderci belli da
brutti che eravamo. In che modo saremo belli? Amando lui, che è sempre bello.
Quanto cresce in te l'amore, tanto cresce la bellezza; la carità è appunto la
bellezza
dell'anima»[23].
A partire da questa premessa Agostino si fa
carico della dialettica bellezza‑bruttezza di Cristo, il Messia annunciato dai
Profeti, e ci offre la sua magistrale interpretazione dell'apparente
contraddizione scritturistica, offrendo così un punto fermo in tutta la
tradizione cristiana:
«Quale fonte ci afferma che Gesù è bello? Le
parole del salmo: Egli è bello tra i figli degli uomini, sulle sue
labbra ride la grazia. Dove sta il fondamento di questa asserzione?
Eccolo: Egli è bello tra i figli degli uomini perché in principio era
il Verbo ed il Verbo era presso Dio ed il Verbo era Dio. Assumendo un corpo,
egli prese sopra di sé la tua bruttezza, cioè la tua mortalità, per adattare se
stesso a te, per rendersi simile a te e spingerti ad amare la bellezza
interiore. Ma quali fonti ci rivelano un Gesù brutto e deforme, come ce lo hanno
rivelato bello e grazioso più dei figli degli uomini? Dove troviamo che è
deforme? Interroga Isaia: Lo abbiamo visto: egli non aveva più
bellezza né decoro. Queste affermazioni scritturistiche sono come due trombe
che suonano in modo diverso ma uno stesso Spirito vi soffia dentro l'aria. La
prima dice: Bello d'aspetto, più dei figli degli uomini; e la seconda,
con Isaia, dice: Lo abbiamo visto: egli non aveva bellezza, non decoro.
Le due trombe
sono suonate da un identico Spirito; esse dunque non discordano nel suono. Non
devi rinunciare a sentirle, ma cercare di capirle. Interroghiamo l'apostolo
Paolo per sentire come ci spiega la perfetta armonia delle due trombe. Suoni la
prima: Bello più dei figli degli uomini: essendo nella forma di Dio, non
credette che fosse una preda l'essere lui uguale a Dio. Ecco in che cosa
egli sorpassa in bellezza i figli degli uomini. Suoni anche la seconda tromba:
Lo abbiamo visto e non aveva bellezza, né decoro: questo perché egli
annichilò se stesso, prendendo la forma di servo, divenendo simile agli uomini,
riconosciuto per la sua maniera di essere, come uomo. Egli non aveva né bellezza
né decoro, per dare a te bellezza e decoro. Quale bellezza, quale decoro?
L’amore della carità; affinché tu possa correre amando e possa amare correndo.
Già sei bello: ma non guardare te stesso, per non perdere ciò che hai preso;
guarda a colui dal quale sei stato reso bello. Sii bello in modo tale che egli
possa amarti»[24].
Che quella di Gesù Cristo sia una bellezza
assolutamente unica e singolare, non semplicemente apparente o corporea,
Agostino lo conferma nella Città di Dio: «La bellezza di Cristo è
tanto da amare e da ammirare, quanto meno è una bellezza corporea»[25].
Nel commento a diversi Salmi (44; 95; 103 […]
e in alcuni Sermoni (44; 62; 95; 138; 254 […], Agostino riprende questi
pensieri trasformandoli in tema nuziale: Cristo, lo sposo, per amore della
Chiesa‑sposa,
si è abbrutito (foedus factus est) ed è divenuto, come lei,
anch'egli deforme (deformis factus est), per rendere, col suo
amore e col suo sacrificio, bella la sposa, per arricchirla della sua bellezza (ut
faceret pulchram).
Proseguendo nella nostra ricerca, registriamo
l'interessante posizione a riguardo di Cirillo di Alessandria, che la proporrà
anche in seno alla disputa
con i Nestoriani. Volendo precisare la portata dell'Incarnazione, così afferma:
«L’immagine dell'invisibile Dio (Col
1,15), l'irradiazione dell'essere del Padre e l'impronta della sua sostanza (Eb
1,3) ha assunto forma di servo (Fil 2,7) non annettendosi un uomo,
come dicono i Nestoriani, ma dando a se stesso questa forma pur conservando
contemporaneamente la sua somiglianza col Padre»[26].
Per Cirillo, dunque, il mistero dell'Incarnazione
sta proprio nella straordinaria manifestazione, sul volto umano di Gesù, della
gloria di Dio:
«E Dio che disse: "Rifulga la luce dalle
tenebre" (Gen 1,3), rifulse nei nostri cuori
per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di
Cristo (2Cor 4,6). Osserva come "sul volto di Cristo" brilla la luce
della divina e ineffabile gloria di Dio Padre. Infatti il Figlio unigenito
mostra in se stesso la gloria del Padre anche dopo essere divenuto uomo. Solo
cosi e non diversamente egli viene riconosciuto
e chiamato il Cristo. Altrimenti ci spieghino i nostri avversari come un uomo
comune potrebbe mostrarci la luce defla gloria divina. Infatti noi non possiamo
vedere Dio in forma umana, tranne e unicamente che nel Verbo incarnato divenuto
uguale a noi, che anche in quanto divenuto carne resta per sua natura veramente
il Figlio»[27].
Lo stesso Cirillo, commentando il
detto di Mt 11,27, afferma:
«Il Figlio unigenito ci mostra la
straordinaria bellezza di Dio Padre, presentando se stesso quale immagine
luminosa di lui. Per questo dice anche: "Chi vede me vede d Padre"»[28].
Il Padre Alessandrino non
dimentica, però, l'altra dimensione, quella della sofferenza che sfigura il
volto di Cristo; afferma dunque che proprio nella sua "estrema non‑bellezza"
appare la vera e straordinaria bellezza di Dio, nell'abbassamento estremo fino
alla perdita di ogni behezza si rivela e si rende visibile la grandezza e la
bellezza dell'amore di Dio.
Tra i sostenitori della
bellezza di Gesù Cristo possiamo annoverare altre eccellenti personalità della
Chiesa antica. Citiamo, solo per fare qualche
esempio, Efrem Siro, Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo, Teodoreto, Girolamo[29].
A partire dal VI secolo si
moltiplicano, poi, le descrizioni, sempre più dettagliate, dell'aspetto fisico
di Cristo: sia in testi che vorrebbero descrivere
le sue caratteristiche fisionomiche, sia in documenti che ci descrivono,
invece, manufatti che lo rappresentano, si hanno descrizioni quasi
ritrattistiche, in cui sono presenti, come costanti, alcuni tratti somatici,
divenuti poi elementi di identificazione della figura del Salvatore.
Una prima significativa
descrizione si ha nell'Anonimo Piacentino, che riporta un Itinerarium
compiuto in Terrasanta intorno al 570. L’anonimo pellegrino dichiara di aver
visto a Gerusalemme, nel Pretorio di Pilato, un ritratto di Cristo che risaliva
ai tempi della sua vita terrena. Così viene descritta la figura di Gesù:
«Il piede bello, regolare,
sottile; la statura comune, la faccia bella, i capelli inanellati,
le mani formose, le dita lunghe: questi sono i caratteri del ritratto mentre lui
era vivo e collocato poi nello stesso Pretorio»[30].
Sempre al VI secolo si deve un
altro testo, attribuito a Elpidio Romano:
«Bella statura, sopracciglia
congiunte, begli occhi, naso prominente, capigliatura crespa e colorita, barba
nerastra, pelle color del grano, aspetto simile a quello della madre, dita
allungate, voce bella, eloquio dolce, molto semplice, tranquillo»[31].
Nel secolo successivo va
collocata la testimonianza di Massitno ll Confessore
(+662) il quale, nella Vita di Maria, commentando il versetto di Lc
2,52, così descrive Gesù:
«Egli era anche bello
corporalmente, "di una bellezza superiore a quella dei figli dell'uomo" (Ps
44,3), come dice il Profeta: meraviglioso nelle sue proporzioni, elegante
nella misura della sua statura, convenientemente snello, dolce e sereno nella
parola»[32].
Suggestiva è la descrizione che
troviamo in una recensione della Vita di Maria di Epifanio Monaco,
risalente al IX secolo:
«Gesù era di circa sei
piedi [circa m 1.701], con capigliatura bionda e un po' ondulata,
sopracciglia nere non del tutto arcuate, con una leggera inclinazione del collo
in modo che il suo aspetto non era del tutto perpendicolare, col viso non
rotondo ma alquanto allungato, come quello di sua madre, alla quale, del resto,
egli rassomigliava
in tutto»[33].
In Occidente, infine, riscuote
molta attenzione e diffusione un documento, spacciato per antico ma risalente
probabilmente al XIII secolo, che viene conosciuto come Lettera di Lentulo.
Lentulo sarebbe stato un
ufficiale romano che prestava servizio in Palestina ai tempi di Tiberio Cesare.
Ammirato dalle opere compiute da Gesù, avrebbe scritto al Senato Romano la sua
famosa lettera. In essa si dà questa descrizione di Gesù:
«È un uomo di media altezza,
grazioso, dall'aspetto dignitoso. Chi lo guarda lo può amare e temere. I capelli
sono color nocciola avellana non matura e scendono dolcemente
fino alle orecchie, dove si trasformano in anelli ricciuti, alquanto più cerulei
e appariscenti, ondeggianti sulle spalle. La testa è pettinata in due parti a
metà, alla maniera dei Nazirei. La fronte è ampia e molto distesa; la faccia è
senza rughe o difetto; ed è resa bella da un tono di rosso. il naso e la bocca
sono impeccabili; la barba è densa e presenta il colore dei capelli; non è lunga,
ma un po' biforcata al mento. L’espressione è semplice e matura, gli occhi
azzurri, variopinti e chiari [...]. Di statura slanciato e retto, con mani e
braccia piacevoli a vedersi. Grave nel parlare, riservato e modesto, tale da
essere chiamato giustamente, al dire del Profeta: il più bello dei figli
degli uomini»[34].
Il grande teologo del
Medioevo cristiano, San Tommaso d'Aquino, commentando il Salmo 44 e riferendosi
al Cantico dei Cantici (1,16), illustra ben quattro possibili significati
dell'aggettivo speciosus attribuito a Cristo: Egli fu sempre bello
conformemente con la sua dignità, ma fu deformato fisicamente nella Passione[35].
Nella Summa,
trattando deue appropriazioni delle tre Persone Divine, afferma «Species
autem, sive pulchritudo, habet similitudinem cum propriis Filii». Spiega,
quindi, come le tre caratteristiche della bellezza (integritas sive perfectio,
proportio sive consonantia, claritas) si addicano pienamente al
Figlio, giacché Egli possiede perfettamente e pienamente la stessa natura del
Padre, è la sua immagine manifestata al mondo, è il Verbo, luce del mondo e
splendor intellectus[36].
3. Testimonianze antiche sulle
rappresentazioni o immagini di Cristo
Già nel III secolo si
rintracciano testimonianze scritte che attestano la presenza di immagini di
Cristo, alcune delle quali ritenute "acheropite", cioè non fatte da mani di uomo
e dunque prodotte in maniera prodigiosa.
Ireneo, ad esempio, parlando
della setta gnostica di Carpocrate, i cui seguaci erano chiamati Carpocraziani,
afferma che essi
«si denominano gnostici e hanno
alcune immagini dipinte, altre fabbricate con altro materiale, dicendo che sono
l'immagine di Cristo fatta da Pilato nel tempo in cui Gesù era con gli uomini»[37].
Secondo alcune fonti
antiche sarebbe stata collocata una immagine di Cristo anche nel larario
dell'imperatore Alessandro Severo[38].
Famosa più di altre è la
presunta rappresentazione di Cristo e dell'emorroissa
di cui parla Eusebio di Cesarea nella lettera all'imperatrice Costanza, la quale
si rivolge a lui per farsi mandare una immagine di Cristo. Eusebio risponde
negativamente motivando il suo rifiuto:
«Tu
mi scrivi relativamente a una certa icona di Cristo col desiderio che io
te ne mandi una: di quale parli e di che qualità dev'essere quella che tu
chiami icona di Cristo? [...] Quale icona di Cristo cerchi tu? La vera,
immutabile immagine, che per sua natura porta i tratti di Cristo, oppure
quell'immagine che egli ha assunto per amore nostro, quando prese la forma di
servo? [...] Così certamente ti muove il desiderio dell'icona della sua forma di
servo, della povera carne, quindi, con la quale egli si è rivestito per amore
nostro. Ma noi di questa abbiamo appreso che è stata mischiata con la gloria di
Dio, che il mortale è stato inghiottito dalla vita»[39].
Lo stesso Eusebio conosceva
rappresentazioni di Cristo, sia immagini che sculture, come quella di
Paneas, ritenute da lui espressioni di paganesimo[40].
Molti scrittori cristiani
si rifanno, per secoli, al testo di Eusebio per comprovare la presenza di
una statua di Cristo gia nell'antichità. Il gruppo bronzeo di cui parla Eusebio,
in realtà, doveva rappresentare non Cristo e l'emorroissa, bensì Esculapio e
Igea[41].
Ma veniamo alle immagini di
chiara matrice cristiana, anzi addirittura ritenute opera dello stesso Cristo, e
prodotte miracolosamente, come, appunto, le cosiddette immagini "acheropite".
L’Anonimo Piacentino racconta di aver visto due suggestive immagini di
Cristo: una a Menfi, in Egitto, e l'altra a Gerusalemme nel Pretorio di Pilato.
La prima è costituita da un lino,
con cui Cristo si sarebbe asciugato la faccia:
«Là noi vedemmo un panno di
lino, nel quale è impressa l'immagine del Salvatore. Si dice che quando era vivo
si sia terso con quel panno il volto, lasciandovi la sua immagine. Oggi
questo panno viene venerato; e anche noi lo venerammo; ma per lo splendore che
da esso emanava non potemmo guardarlo, e quanto più cercavamo
di guardarlo tanto più si mutava davanti ai nostri occhi»[42].
La seconda è l'immagine che viene
vista nel Pretorio di Pilato: si tratta di un ritratto del corpo intero di Gesù,
e da essa probabilmente viene tratta la mensura Christi che i messi di
Giustiniano adoperano per poi fissarla nella Croce mensurale, custodita
in S. Sofia a Costantinopoli.
Due immagini ritenute
anch'esse acheropite godono in Oriente una fama assoluta, finché di esse non si
perde traccia: l'Acheropita di Camuliana
e quella di Edessa o Mandylion, che diventerà anche la più famosa, perché
la sua presenza è accompagnata da numerose testimonianze letterarie
ed attestata almeno fino al 1204, cioè al saccheggio di Costantinopoli,
ove era custodita.
Non ci soffermiamo sulla prima
immagine, di cui non si hanno più notizie già nella prima metà del VII secolo.
Ben più documentata è
l'altra immagine acheropita, cioè il Santo Mandylion di Edessa, che
esercita un notevole influsso non solo in Oriente ma anche in Occidente, e che
alcuni studiosi avvicinano o addirittura
identificano con la Sindone di Torino.
Le origini di questa
prodigiosa immagine vengono descritte nella Leggenda di Abgar di Edessa[43].
Abgar V, toparca di Edessa, è ammalato di lebbra. Sentendo parlare dei prodigi
compiuti da Gesù gli invia un pittore, Anania, per chiedergli, attraverso la
lettera che lo stesso Anania recapita,
di avere un suo ritratto, da cui spera di essere guarito. Anania non riesce a
ritrarre Gesù, il quale si lava il volto e si asciuga con un asciugamani
(questo il significato di mandylion), su cui rimane impressa la
sua immagine. Gesù avrebbe quindi consegnato ad Anania quell'immagine prodigiosa
insieme ad una lettera per Abgar. Questi, ricevendo la lettera e il Mandylion,
viene guarito dalla lebbra e si fa battezzare dall'apostolo Taddeo.
Il Mandylion e la
lettera di Cristo vengono gelosamente custoditi ad Edessa: il primo in una
nicchia sulla porta principale della città, l'altra in un prezioso cofanetto
depositato presso gli archivi cittadini, come attestano
sia Eusebio sia Egeria, nel suo Diario di viaggio[44].
L’immagine acheropita,
fatta murare in un periodo di pericolo per la città, viene riscoperta nel 544,
come racconta Evagrio Scolastico intorno all'anno 590[45].
Il racconto
di Abgar, e la corrispondenza con Gesù, conoscono un'ampia diffusione e vengono
ripresi negli scritti di numerosi Padri, tra cui Giovanni Damasceno, i tre
Patriarchi d'Oriente che inviano una lettera all'imperatore
iconoclasta Teofilo (836), i Padri del Concilio Niceno II.
Quando Edessa viene conquistata
dai musulmani, l'imperatore bizantino Romano I riesce a riscattare a caro prezzo
sia il Mandylion che la lettera inviata da Cristo ad Abgar: le due "reliquie"
approdano così a Costantinopoli nel 944 e la sacra immagine viene collocata
nella chiesa della Madre di Dio, detta "del Faro".
Con la conquista latina di
Costantinopoli, avvenuta nel 1204, si perdono le tracce delle tante preziose
reliquie raccolte nella capitale. Tra queste anche il Mandylion. In un
racconto, lasciato da un cavaliere piccardo che partecipa alla IV Crociata, si
ha questa descrizione:
«Fra queste altre chiese vi è
un'altra che si chiama Signora Santa Maria di Blacherne, dove si trovava
la sindone che aveva avvolto Nostro Signore, che ogni venerdì veniva esposta
dispiegata, tanto che si poteva ben vedere la figura di Nostro Signore»[46].
Ma in questa descrizione si
tratta del Mandylion o di un'altra reliquia? È lo stesso Mandylion
che viene poi portato in Occidente e conosciuto come Sindone di Torino,
oppure dobbiamo pensare a due immagini acheropite ben distinte?
E la vicenda leggendaria
della Veronica, diffusa in Occidente, non può essere dunque, con buona
probabilità, la versione latina di quella orientale del Mandylion di
Edessa?[47].
Non possiamo approfondire
la complessa ed affascinante problematica in questa sede; ci basti, però,
sottolineare il fatto che le immagini acheropite di Cristo esercitano un
influsso assolutamente unico in tutta l'arte cristiana, e determinano una sempre
maggiore convergenza verso un unico tipo di rappresentazione di Cristo[48].
4. La figura di Cristo nelle
rappresentazioni artistiche
Dopo questo sintetico ma
necessario excursus storico‑letterario, proviamo ora a identificare le
principali tipologie iconografiche che l'arte cristiana ha adottato per
rappresentare la figura di Cristo, descrivendolo come prototipo di bellezza o,
al contrario, brutto e sfigurato dai dolori della Passione. Tralasciamo qui
tutta la problematica relativa alla rappresentabilità di Cristo, uomo e Dio,
che esplode nella vicenda iconoclasta e trova una prima, decisiva risposta nel
II Concilio di Nicea del 787[49].
Dal punto di vista iconografico
possiamo operare una prima distinzione tra due tipi fondamentali di
rappresentazione: il Cristo giovanile, imberbe; e quello adulto o anziano,
barbato. Possiamo inoltre distinguere le rappresentazioni di Cristo in tipi
ideali (buon pastore, filosofo) e in tipi storico‑narrativi (taumaturgo,
crocifisso […].
Rivolgeremo, quindi, maggiore
attenzione alle rappresentazioni che ci propongono un Cristo "bello" e a quelle
che, al contrario, ci mostrano un Cristo "brutto" o sfigurato.
4.1 Il Cristo giovanile e
imberbe, il Buon Pastore
Gli artisti dell'antichità
cristiana ripresero e mutuarono dalle contemporanee rappresentazioni di
divinità pagane tre possibili modelli per rappresentare Cristo:
«il fanciullo divino dalla
giovinezza perenne, la figura luminosa di Apollo e la solenne maestosità di
Giove dalla barba e dai capelli fluenti»[50].
La rappresentazione di
Cristo come uno dei Genii dell'olimpo pagano si spiega probabilmente con la
volontà di manifestare ed «attestare il dogma dell'eterna preesistenza di Cristo
e la sua natura divina superiore a tutte le figure degli dei pagani»[51].
Raffigurandolo invece come Zeus‑Giove, gli artisti cristiani vollero tradurre la
sua qualità di sovrano dell'universo, giudice del mondo che ritornerà alla fine
dei tempi. Se, infine, Cristo è "luce da luce", come recita il Credo, ed
irradiazione della gloria del Padre, allora può essere raffigurato riprendendo
le caratteristiche iconografiche di Apollo, il dio della luce, figlio di Giove,
prototipo di bellezza.
Le prime e più antiche
rappresentazioni iconografiche di Cristo non si prefiggono certo lo scopo di
rappresentare l'aspetto terreno di Gesù di Nazareth. Gli affreschi delle
catacombe, i rilievi dei sarcofagi, alcuni mosaici absidali, ci mostrano il più
delle volte una figura di adolescente o di giovane, imberbe, dai capelli
riccioluti, raffigurato in tal modo sia in contesti narrativi, ad esempio per
l'illustrazione di miracoli, sia in contesti ritrattivi, in particolare nei
rilievi dei sarcofagi dove Cristo è collocato tra gli Apostoli,
Primeggia nella primitiva arte
cristiana la raffigurazione simbolica di Cristo come Buon Pastore.
Pensiamo ai numerosissimi affreschi delle catacombe, alla famosa statua a tutto
tondo, perla dei Musei Vaticani, ai tanti bassorilievi che ripetono il tema sui
sarcofagi. Gesù è raffigurato come un giovane pastore, spesso imberbe o con
barba molto rada, dai capelli corti, di bell'aspetto e dalla statura slanciata,
vestito di corta tunica e con i calzari tipici dei pastori, che reca sulle
spalle una pecorella o un agnello, mentre altre pecore si affiancano a destra e
sinistra. Oltre alla celebre statua, che non è comunque l'unica del genere,
ricordiamo anche il sarcofago con Cristo e gli apostoli in cui Gesù è al centro,
vestito da pastorello, e con un bastone nella sinistra, sempre ai Musei Vaticani.
Sono famosi, poi, gli affreschi che lo rappresentano in tal modo nelle
catacombe di Priscilla, di San Callisto, Domitilla etc. Celebre anche il mosaico
del Buon Pastore del Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna, risalente al V
secolo, in cui Cristo, imberbe e dalla lunga chioma riccioluta, appare adagiato
su una roccia tra sei agnelli, mentre con la destra regge una grande croce aurea.
Il Cristo giovanile compare anche
in scene narrative, che si riferiscono soprattutto ad episodi di miracoli o al
ciclo della Passione. Pensiamo, ad esempio, alla slanciata ed agile figura di
Cristo nel miracolo dell'emorroissa, affrescata nelle catacombe di Marcellino e
Pietro, o alle scene di miracoli del cimitero anonimo di via Anapo, in cui è
particolarmente suggestiva la figura di Gesù che compie la moltiplicazione dei
pani toccando le ceste con la virga.
Ma il Cristo adolescente o
giovanile, dai tratti davvero belli e affascinanti, di una bellezza apollinea,
compare ancora più spesso su alcuni sarcofagi di epoca paleocristiana. Nel
famoso sarcofago di Giunio Basso Cristo è un giovinetto dai capelli riccioluti,
seduto come Kosmokrator su un solenne trono, sotto cui compare la
raffigurazione del coelus, ed è ritratto frontalmente mentre compie il
gesto della Traditio legis, avendo Pietro e Paolo a destra e sinistra.
Nello stesso sarcofago Cristo appare, con le stesse fattezze, in scene del ciclo
della Passione: l'entrata in Gerusalemme, la sua cattura e il confronto con
Pilato. Anche su un altro famoso sarcofago, quello cosiddetto della Passione,
della metà del IV secolo, proveniente da Domitilla ed ora anch'esso ai Musei
Vaticani, Gesù viene raffigurato con le stesse fattezze. Nelle scene del Cristo
incoronato di spine (in realtà di alloro) e del Cristo portato in giudizio
davanti a Pilato, Gesù appare a figura intera, rivestito di tunica e pallio, ha
capelli corti e riccioluti, ha il volto di un adolescente imberbe. Gli esempi si
possono moltiplicare pressoché all'infinito, per quanto riguarda l'epoca
paleocristiana e altomedievale.
Ricordiamo soltanto, oltre ai
rilievi dei sarcofagi, gli splendidi mosaici ravennati, in cui alcune scene,
come ad esempio il Cristo del catino absidale di San Vitale o il Cristo che
giudica tra pecore e capri in Sant'Apollinare Nuovo, ci mostrano una figura con
fattezze giovanili, accanto a riquadri nei quali, al contrario, viene
raffigurato come un adulto con barba.
Il Cristo giovanile e
imberbe comparirà spesso, poi, nell'arte carolingia e persisterà in Occidente
fino agli inizi dell'XI secolo, soprattutto in avori e miniature raffiguranti il
Cristo Creatore dell'Esamerone o il Cristo dell'Apocalisse. Ma dalla prima metà
dello stesso XI secolo in poi assistiamo ad un brusco cambiamento: Cristo non
appare più col volto di un giovane imberbe, ma sempre come adulto, dal volto
maturo e grave, e barbato. Il cambiamento si avverte soprattutto dove il tipo
giovanile era quello adoperato più frequentemente, come a Reichenau[52].
4.2 11 Cristo adulto e barbato,
il Pantokrator e il Volto Santo
Accanto a questa tipologia, come
accennato, se ne trova un'altra che vuole Cristo rappresentato come adulto, o
anche anziano, con barba e lunga capigliatura.
Il tipo maturo e barbato si
ritrova già in epoca paleocristiana, a partire dal IV secolo, in scene in cui
Cristo assume la fisionomia e le fattezze dei Saggi dell'antichità, dei Filosofi
o anche quelle di alcune divinità delI'antichità pagana, come Zeus‑Giove ed
Apollo. L’aspetto si fa solenne e maestoso, talvolta anche severo.
Con tali fattezze compare anche
in immagini‑ritratti, in immagini, cioè, sganciate da riferimenti narrativi o
simbolici. Tra le primissime raffigurazioni di questo tipo abbiamo il famoso
affresco della catacomba di Commodilla, databile tra la fine del IV e gli inizi
del V secolo: in un pannello che simula quasi un soffitto a cassettoni vediamo
il mezzo busto di Cristo, evidentemente sovrapposto alla decorazione esistente,
che qui ha l'aspetto di un uomo maturo, con lunghi capelli spartiti nel mezzo e
folta barba che copre il mento e la gola. Lo sguardo è fisso, inclinato verso la
destra di chi guarda. Il capo è circondato da un nimbo fiancheggiato dalle
lettere apocalittiche A e Ω. È una delle primissime raffigurazioni occidentali
del Cristo barbato.
Una simile raffigurazione di
Cristo, ma collocata in un diverso contesto iconografico, si ha nelle catacombe
dei SS. Marcellino e Pietro: sulla volta di una cripta dove si riteneva fossero
sepolti i Martiri della catacomba, Cristo appare seduto in trono, barbato e con
aureola affiancata dalle lettere apocalittiche. Accanto a lui, rispettivamente
alla sua sinistra e alla sua destra, troviamo gli Apostoli Pietro e Paolo. Nel
registro inferiore dell'affresco quattro santi acclamano a Cristo‑Agnello
Mistico, collocato su una altura, da cui scaturiscono i quattro fiumi del
Paradiso.
Questo tipo di raffigurazione
doveva ritrovarsi anche in molte absidi dehe basiliche romane, in cui campeggia
sempre un Cristo, a figura intera o soltanto col busto, barbato e adulto. Per
citare gli esempi tra i più antichi e meno rimaneggiati, ricordiamo i mosaici
delle chiese romane di S. Pudenziana e dei SS. Cosma e Damiano, o quello più
tardo dell'oratorio di San Venanzio nel Battistero Lateranense. Ma tale
iconografia di Cristo doveva sicuramente apparire anche nelle absidi delle più
grandi basiliche costantiniane, a cominciare dalla Cattedrale di Roma, San
Giovanni in Laterano.
Questa tipologia trova, almeno a
partire dal VI secolo, la sua piena consacrazione nell'arte dell'Oriente
cristiano, dove le diverse immagini di Cristo confluiscono in un'unica tipologia,
quasi a voler definire una fisionomia tipica, quasi ritrattistica, di Cristo,
immediatamente riconoscibile da tutti. È il cosiddetto Pantokrator
bizantino, che troviamo già definito nei suoi tratti essenziali in opere d'arte
del VI e VII secolo, come ad esempio la famosa icona del monastero di S.
Caterina sul Sinai o il mosaico della Trasfigurazione nell'abside della chiesa
dello stesso monastero, le miniature dei Vangeli siriani di Rabula, ora
custoditi a Firenze, le ampolle di Terra Santa conservate a Monza e Bobbio, le
monete di Giustiniano II.
Cristo ha l'aspetto grave e
solenne di un uomo in età matura, ha folta capigliatura divisa a metà della
fronte, barba che copre abbondantemente mento e baffi con le punte rivolte
all'ingiù per unirsi alla barba. Talvolta, come nell'icona del Sinai, il volto
di Cristo presenta delle asimmetrie, interpretate come espressione del dogma
della duplice natura, divina ed umana, di Cristo[53].
Questo "ritratto" di Cristo, che
ben presto si impone come l'unico da ripetere all'infinito nelle icone come
negli affreschi delle chiese, risente evidentemente di una spiritualità
fortemente monastica, per cui la severità del volto ascetico di Cristo rimanda
alla fisionomia dei monaci orientali, alle loro figure ascetiche e gravi.
Ma la ragion d'essere di questa
tipologia, come pure le ragioni della sua affermazione pressocché assoluta, sono
da rintracciare in un altro motivo: essa viene sempre più compresa e venerata
come quella più vicina al volto storico di Cristo, trasmesso alle generazioni
cristiane, oltre che attraverso i testi che abbiamo precedentemente esaminato,
grazie alle immagini "acheropite", cioè al Mandylion di Edessa e alla
Camuliana, Partendo da questi prototipi "non dipinti da mani d'uomo" si
diffondono in Oriente le immagini del cosiddetto Volto Santo, in cui non
si rappresenta più Cristo a figura intera o a mezzo busto, ma si ha soltanto il
suo volto, circondato da un nimbo cruciforme.
Una stessa fisionomia del volto
di Gesù viene dunque trasmessa fedelmente, attraverso le due tipologie del
Volto Santo e del Pantokrator.
Questa immagine "standard" di
Cristo si diffonde poi anche in Occidente e il Pantokrator ritorna a
primeggiare prepotentemente nell'arte occidentale dall'XI secolo, ma talvolta
con i tratti in qualche modo addolciti e "occidentalizzati", resi più umani da
alcune caratteristiche fisionomiche. Compare così affrescato o mosaicato nelle
absidi (non si possono non ricordare le straordinarie immagini di Monreale e
Cefalù); scolpito nelle lunette dei portali delle chiese romaniche e poi di
quelle gotiche, o nelle statue a tutto tondo poste sulle facciate o sugli altari
delle chiese.
Il Volto Santo
delle icone orientali assume in
Occidente una diversa denominazione, è il velo della Veronica, e come tale viene
raffigurato, sempre sorretto dalla leggendaria figura di donna al seguito del
Maestro.
Cambiano gli stili, cambiano le
tecniche artistiche, ma l'immagine di Cristo rimane fondamentalmente la stessa,
fedele alle stesse caratteristiche fisionomiche.
Le acheropite dell’Occidente, a
cominciare da quella del Laterano per arrivare alla stessa Veronica, senza
dimenticare la preziosa e unica immagine a figura intera della Sindone di Torino,
costituiscono i prototipi indiscussi delle copie e riproduzioni che si
moltiplicano all'infinito, trasformandosi spesso in altrettante acheropite e
reliquie.
Il volto di Cristo riprodotto
dalle arti esprime una solenne bellezza, manifesta il mistero della sua persona,
evoca le sembianze che la tradizione attribuiva a Gesù di Nazareth, confermate
dalle immagini "acheropite".
Se le più antiche immagini del
Cristo adolescente o giovanile ed imberbe, dalla bellezza apollinea, intendevano
probabilmente esprimere e manifestare la sua eternità, la sua eterna giovinezza
quale Logos eterno di Dio, le immagini di Cristo adulto e barbato rimandavano
invece alla pienezza di umanità e di saggezza, di perfezione umana unita alla
onnipotenza divina.
In ogni caso, nell'ambito di
queste diverse tipologie rappresentative, Cristo è raffigurato come modello,
prototipo, tipo della perfezione e della bellezza scaturita dall'incontro tra la
divinita e l'umanità. Anche le caratteristiche "imperiali" attribuite alla
figura di Cristo e al contesto rappresentativo rafforzano potentemente tale
convinzione.
Sarebbe necessario ben altro
spazio per ricordare solo alcuni tra i numerosissimi esempi che illustrano
quanto detto. Ci limitiamo, così, solo a ricordare alcune rappresentazioni che
in qualche modo riassumono le tipologie di raffigurazione di Cristo come
prototipo di bellezza, secondo i canoni estetici rintracciati finora. Ci
riferiamo alle famose statue del Cristo denominato, appunto, "Beau Dieu",
e che troviamo, ad esempio, nel portale sud della cattedrale di Chartres, nel
portale ovest di Notre‑Dame di Amiens o nel portale nord della cattedrale di
Reims.
La figura di Cristo che domina
sul pilastro centrale del portale sud di Chartres, scolpita intorno al 1210, è
un mirabile esempio di simmetria e di geometrica bellezza:
«Questa figura è divina nelle sue
proporzioni belle, chiare ed equilibrate. Questo viso potrebbe essere concepito
come norma fondamentale di tutta la creazione, come struttura base del creato,
concentrata in una figura umana»[54].
Non possiamo non accennare alla
bellezza di Cristo così come viene proposta nel Rinascimento, da due figure
gigantesche, Michelangelo e Raffaello, che propongono il loro ideale umanistico
di bellezza quando rappresentano la figura di Gesù di Nazareth.
Michelangelo, col Cristo del
Giudizio nella Cappella Sistina (1536‑1541) e Raffaello col Cristo della
Disputa (1509‑1510), solo per citare gli esempi più famosi, ci offrono due
immagini straordinarie in cui il motivo della bellezza divino‑umana di Cristo
viene tradotta e rappresentata, passando per il filtro della diversa
sensibilità artistica dei due genii, attraverso i canoni della bellezza
idealizzata dall'umanesimo: il corpo nudo è quello di un eroe classico, di
apollinea perfezione, che risplende di raggi luminosi, sfolgorante di bellezza.
La riscoperta del mondo classico e delle opere d'arte antica, cbe costituiscono
uno degli elementi fondamentali del Rinascimento, giocano evidentemente un ruolo
notevole nell'arte dal XV-XVI secolo. La rappresentazione di Cristo e della sua
bellezza ne risente fortemente.
Nello stesso periodo, però,
scopriamo altre interessanti linee di ricerca artistica, volte anch'esse a
manifestare la bellezza di Cristo, in particolare del Risorto. Pensiamo ad un
famoso esempio: la Resurrezione di Grünewald (1513‑1515), uno dei
pannelli dell'altare di Isenheim, ora a Colmar. Il Cristo è una figura
luminosissima, un sole che sorge a rischiarare le tenebre, con un corpo quasi
trasparente, in cui brillano come pietre preziose le ferite della Passione. È
una visione impressionante, di una bellezza abbagliante, che effonde pace.
4.3 Il Cristo "brutto" o
deforme
Passiamo, ora, a considerare
quella che potremmo definire la "corrente minoritaria", il filone artistico
corrispondente a quello teologico‑letterario, in cui Cristo viene rappresentato
con caratteristiche opposte, e dunque come "brutto", cioè sfigurato e deformato
dai dolori e dalle sofferenze della Passione e Morte.
La tipologia compare in Oriente,
in Siria e Palestina, intorno al VI secolo. Uno dei primi esempi ci viene dato
dalle immagini dipinte su una cassetta porta reliquie (pietre provenienti dai
Luoghi Santi della Palestina), custodita nei Musei Vaticani e già custodita nel
Sancta Sanctorum del Laterano, databile al VI secolo. Nella scena della
Crocifissione, posta al centro della tavoletta, il volto di Cristo, dipinto con
pochi capelli, e contornato da una linea scura, rivela l'intenzione dell'artista
di mostrarlo sfigurato dalle sofferenze della Crocifissione. Ma per mostrare,
contemporaneamente, la sua dignità, I'artista riveste tutto il corpo di Cristo
con il colobium.
Allo stesso periodo vengono
assegnati alcuni avorii costantinopolitani, in cui la figura di Cristo è
caratterizzata da tratti decisamente brutti e sgraziati. Sembra che a
Costantinopoli, per un certo tempo, alcuni laboratori artistici abbiano
volutamente diffuso il modello di un Cristo dall'aspetto brutto, sfigurato[55].
L’esempio più famoso è il dittico di Berlino, in cui Cristo è raffigurato
secondo la tipologia dell'Antico dei giorni: è un vegliardo, con grandi
orecchie svasate che sporgono dai capelli come manici di una brocca, naso grosso,
sopraciglia spioventi. Tanto è brutta e sgradevole questa figura, quanto è
armoniosa e bella quella del Cristo Bambino, seduto sulle ginocchia della
Madre, nell'altro pannello del dittico.
Il tipo non ha, evidentemente,
molta fortuna e viene forse ripreso in copie grossolane di avorii bizantini,
prodotte in Gallia intorno all'VIII secolo.
Si ritrova, tuttavia, in alcuni
Salterii bizantini del IX secolo, come il Salterio Chludov, ora a
Mosca, in cui si vuole evidenziare la realtà dell'Incarnazione dipingendo nelle
miniature marginali un Cristo brutto, ed assorto in occupazioni banali.
Anche in Occidente non mancano
esempi di questo filone iconografico, pur se sporadici. È il caso del
cosiddetto Maestro di Echternach, un anonimo intagliatore d'avorio che
raffigura il Cristo Crocifisso, ad esemplo nella copertina dei Vangeti di
Echternach, con tratti decisamente brutti e sgradevoli: occhi sporgenti,
naso a punta e schiacciato, zigomi sporgenti, orecchie vistose, mento sfuggente.
Ma le espressioni di maggiore
bruttezza e deformità di Cristo si ritrovano più numerose nelle
rappresentazioni della Passione e Morte. In esse, evidentemente, non è la
eventuale bruttezza fisica costitutiva di Cristo che viene messa in risalto,
come in certi testi patristici prima ricordati, bensì il suo corpo reso deforme
e sfigurato dalle torture e dalle sofferenze subite fino alla Crocifissione. Ad
alimentare questa tendenza artistica, ben diffusa per tutto il Medioevo ed
oltre, concorrono sensibilmente nuove istanze spirituali, espresse
principalmente da nuovi ordini religiosi.
Con San Bernardo, e poi con
Francescani e Domenicani, la predicazione sollecita la dimensione affettiva ed
emotiva e dunque verte soprattutto sull'umanità di Cristo, sulla considerazione
delle sofferenze patite da Cristo e sulle sue piaghe, attraverso le quali ci
viene donata la salvezza e il perdono. Per rendere più efficace la predicazione
rivolta al popolo, gli Ordini Mendicanti sottolineano, dunque, maggiormente la
dimensione umana di Cristo, le cui sofferenze vengono visualizzate ed offerte
alla compassione e alla contemplazione della gente proprio attraverso le tante
opere d'arte, soprattutto pitture e sculture, che mostrano al popolo le carni
straziate dalle torture, le piaghe causate dalla Crocifissione, i segni evidenti
della Passione, il sangue versato fino all'ultima goccia. Si vuol così suscitare
emozione, compassione, partecipazione affettiva ed intensa alle sofferenze di
Cristo, per essere poi degni e veramente partecipi della gioia e della vittoria
della Resurrezione.
Le rappresentazioni dei vari
momenti della Passione si moltiplicano quasi all'infinito, e si scelgono per
tali rappresentazioni i momenti più cruciali e più tristi della vicenda umana di
Cristo: l'arresto, il processo davanti a Pilato e I'Ecce Homo, lo
scherno dei soldati, la fustigazione e la coronazione di spine, la salita al
calvario con le tre cadute, ma soprattutto la crocifissione, la morte in croce,
la deposizione. Nascono e si diffondono anche nuove immagini, come paradigmi di
tutte le sofferenze subite: l'Imago Pietatis o Vir dolorum, che
comunque riprende il tema bizantino del Nynphios; la cosiddetta Messa
di San Gregorio e le Arma Christi; la Pietà, in cui il corpo di
Cristo già morto appare accasciato tra le braccia della Madre, in una scena
ormai isolata dal contesto storico della Crocifissione.
Prendiamo in considerazione, a
mo' di esempio, proprio quest'ultimo soggetto iconografico. Intorno al XIV
secolo, a partire dalla Renania, si diffonde, soprattutto attraverso la scultura,
una immagine di Cristo deposto sul grembo della Madre, che genera pietà e
produce un forte impatto emotivo per i suoi tratti così realisticamente tragici
e sfigurati. Tra gli esempi più famosi citiamo la cosiddetta Pietà Röttgen,
al Provinzialmuseum di Bonn, databile al 1350‑1370. Sulle
ginocchia di Maria, dal volto affranto di dolore, vediamo il corpo scheletrico
di Cristo, con il capo fortemente reclinato all'indietro e circondato dalle
lunghe spine della corona. Il suo volto, ad occhi chiusi, è segnato da una
smorfia di dolore e sembra quasi staccarsi dal resto del corpo. Dalle piaghe del
fianco, delle mani e dei piedi scaturiscono fiotti di sangue, disposti quasi
come petali di un fiore.
L’immagine ha una larga
diffusione: ovunque viene riprodotta, la figura di Cristo è sempre segnata da
evidente sproporzione, appare scheletrica e dinoccolata, spigolosa ed anche
raccapricciante per i particolari realistici delle ferite.
A tal proposito non possiamo non
ricordare quell'opera straordinaria e impressionante costituita dalla
Crocifissione di Grünewald, uno dei pannelli del famoso altare di Isenheim,
prima ricordato. La scena occupa il grande pannello centrale dell'altare. Al
centro è posta la croce col Cristo morto, che ha alla sua destra la Maddalena,
la Madre e l'apostolo Giovanni, alla sua sinistra Giovanni Battista, che indica
il Cristo con la destra e regge con la sinistra un libro aperto; alle sue spalle,
inoltre, si legge l'iscrizione «Illum oportet crescere, me autem minui» (Gv
3,30) e ai suoi piedi è rappresentato I'Agnello mistico che
versa il sangue in un calice. La figura del Crocifisso è impressionante per il
crudo realismo con cui viene rappresentato il corpo straziato e terribilmente
deformato. Sono soprattutto le mani e i piedi che, se osservati attentamente,
generano quasi fastidio e ribrezzo e da soli possono ben esprimere il più
profondo grido di sofferenza e di strazio disumano.
La stessa cosa può dirsi per il
corpo di Cristo deposto, rappresentato nel pannello sottostante, collocato sotto
la mensa dell'altare. Il volto fa impressione per la sua deforme bruttezza, è
una smorfia di sofferenza e di dolore, l'orecchio sinistro è troppo sporgente,
proprio come nell'avorio di Berlino, e il volto allungato evoca immediatamente
quello dell'Uomo della Sindone. Le mani e i piedi, qui mostrati ancor più
evidentemente e a distanza ravvicinata, sono di una crudezza estrema nella loro
sofferente deformità. Questa immagine, che pur faceva parte di un altare,
rappresenta sicuramente una delle espressioni più estreme del realismo che
intende presentare il Cristo come deforme e sfigurato dai dolori della Passione.
L’immagine che può
senz'altro competere con quest'ultima è dovuta al pennello di Hans Holbein il
giovane. Questi rappresenta il Cristo morto, adagiato sulla lastra tombale.
L’opera, datata al 1522, ora al Kunstmuseum di Basilea, rappresenta il
Cristo in un nuovo «modo di spietato realismo»[56],
in cui viene ancor più evidenziato l'abbandono e l'isolamento del Cristo nella
morte, temi che emergono nel periodo della Riforma Protestante. L’opera è
sconvolgente, sembra che il corpo del Signore cominci a putrefarsi, i capelli
sono spaventosi, la mascella pendente, gli occhi spenti fissano il vuoto. Si
narra che il pittore abbia preso come modello il cadavere di un annegato nel
Reno.
In alcune scene della Passione,
infine, non volendo riprodurre Cristo con forme sfigurate e sconvolgenti, ma
volendo comunque rappresentare la crudeltà e la bruttezza dell'evento, si
dipingono i personaggi che circondano Cristo con tratti deformi, brutti,
grossolani o anche caricaturali.
Conclusione
La riflessione cristiana, a
partire da alcuni testi del Nuovo Testamento e dalla rilettura di alcuni
brani veterotestamentari, ha sottolineato due aspetti della figura di Cristo: la
sua bellezza, innanzitutto spirituale e poi anche fisica, e la sua bruttezza o
deformità, manifestazione della sua vera umanitò e delle sofferenze patite nella
Passione e Morte. Altrettanto ha fatto l'arte cristiana che si è affiancata a
tale riflessione e ne è stata il riflesso eloquente. Un primo filone artistico,
sicuramente quello di maggior diffusione e successo, ha cercato, dunque, con i
mezzi propri dell'arte, di mostrare la bellezza di Cristo, lo splendore della
sua divinità attraverso la perfezione delle sue forme umane. Un secondo filone,
minoritario, ha invece mostrato un Cristo con fattezze umane non belle, e
soprattutto un Cristo che nelle scene della Passione si mostra sfigurato,
deforme, raccapricciante o commovente, mostrando così, sub contraria specie,
la bellezza dell'amore di Dio.
È in tal modo che
l'arte cristiana ha proposto un nuovo, singolare ideale di bellezza, che supera
quello dell'estetica classica e dell'antica Grecia, ed è capace di sfidare
l'urto della bruttezza e del male che deturpa l'uomo ed il creato. È questa,
quella del volto di Cristo, l'unica autentica bellezza, l'unica che ha il
potere di donare la salvezza all'umanità[57].
[1]
Ricordiamo solo alcune opere più
recenti e più utili ad un approfondimento del tema qui trattato: M. BACCI, "Cristo
‑ Iconografia", in Dizionario Enciclopedico del Medioevo, vol. I,
Città Nuova‑Cerf‑J.Clarke, Roma 1998, 506‑508; H. BELTING, Das Bild und
sein Publikum im Mittelalter. Form und Funktion früher Bildtafeln der
Passion, Mann, Berlin 1981; ID., Bild und kult: eine Geschichte des
Bildes vor dem Zeitalter der Kunst, Beck, München 1990 (tr. it. Il
culto delle immagini: storia dell'icona dall'età imperiale al tardo
Medioevo, Carocci, Roma 2001, 71‑82 e 255‑277); V. BERTOLONE, Una
ricerca interdisciplinare, in Il volto dei volti. Cristo, Velar,
Gorle‑Bergamo 1997, 12‑23; C. CECCHELLI, "Il Cristianesimo: Cristo e
l'iconografia", in Enciclopedia Universale dell'Arte, vol. IV,
Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma‑Venezia 1958, 116‑121; Y CHRISTE,
L’image du Christ jeune, in "La Vie spirituelle" 704 (1993), 189‑207;
ID., "Cristo", in Iconografia e Arte Cristiana (Dizionari San Paolo),
vol. I, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2004, 540‑547; E. VON
DOBSCHÜTZ, Christusbilder. Untersuchungen zur christlichen Legende,
J. C. Hinrichs, Leipzig 1899; G. GHAMB, Le icone di Cristo. Storia e
culto, Città Nuova, Roma 1993; R. GIORDANI, "Gesù Cristo ‑ iconografia",
in Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, vol. II,
Marietti, Casale Monferrato, 1498‑1505; A. GRABAR, Le vie della creazione
nell'iconografia cristiana. Antichità e Medioevo, Jaca Book, Milano
1983; P. HINZ, Deus Homo: das Christusbild von seinen Ursprüngen bis zur
Gegenwart, voll. I‑II, Evangelische Verlagsanstalt, Berlin 1973 e
1981; J. KOLLWITZ ET AL., "Christus", in Lexikon der cbristlichen
Ikonographie, vol. I, Herder, Roma 1968, 355‑454; E. LAVAGNINO, "Gesù
Cristo. VII. Nella iconografia", in Enciclopedia Cattolica, vol.
VI, Città del Vaticano 1951, 273‑284; H. PFEIFFER, Ragioni storiche,
teologiche e politiche per la tradizione del volto di Gesù nei secoli,
in Il volto dei volti. Cristo, vol. II, Velar, Gorle‑Bergamo 1998;
ID., L’immagine di Cristo nell'arte, Città Nuova, Roma 1986;
1D., La storia dell'immagine di Cristo nell'arte, in P. CODA ‑ L.
GAVAZZI (edd.), L’immagine del divino, Mondadori, Milano 2005, 48‑58;
G.. SCHILLER, Ikonographie der christlichen Kunst, voll.
I‑III, Mohn, Gütersloh 1966‑1971; P. SZUBISZEWSKI, "Cristo", in
Enciclopedia dell'Arte Medievale, vol. V, Istituto della
Enciclopedia Italiana, Roma 1994, 493‑521.
[2]
Si veda, ad esempio, C. SCHÖNBORN,
L’Icona di Cristo. Fondamenti teologici, Edizioni Paoline, Cinisello
Balsamo 1988.
[3]
Cf. P. IACOBONE, Mysterium Trinitatis. Dogma e Iconografia
nell’Italia medievale, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma
1997, 107 ‑110.
[4]
Cf. E. VON DOBSCÜDTZ, Christusbilder. Untersucbungen zur
christlicben Legende, cit.; G. GHARIB, Le icone di Cristo. Storia e
culto, cit.; M. RIZZI, Il corpo redento. Un percorso
intellettuale tra tradizioni teologicbe e antropologia nel cristianesimo
tardoantico, in "Comunicazioni sociali. Rivista di media, spettacolo e
studi culturali" 2 (2003), 158‑168.
[5]
ORIGENE, Contra Celsum, VI,
75.
[6]
Oracoli Sibillini
VIII, 256ss.
[7]
TERTULLIANO, Adv. Marcion.,
III, 17,3.
[8]
GIUSTINO, Dial. cum Tryph. 36,6;
si veda anche 14,8.
[9]
Atti di Tomaso
45, in L. MORALDI, Apocrifi del Nuovo Testamento, II, Atti degli
Apostoli, Piemme, Casale Monferrato 1994, 353.
[10]
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata,
II, 5,21 (tr. it. Gli Stromati. Note di vera filosofia, Ed. Paoline,
Milano 1985, 246).
[11]
Ivi,
III, 17,103 (tr. it. Ivi, 423).
[12]
Ivi,
VI, 17,151 (tr. it. Ivi, 764); si veda anche Paed. III, 1, 3 e
III, 3,3.
[13]
CLEMENTE ALESSANDRINO, Paed. 111, 1
(tr. it. 11 Pedagogo, a cura di A. BOATTI, SEI, Torino 1953,
384‑388).
[14]
ORIGENE, Contra Celsum VI,
77.
[15]
ORIGENE, Sermo in Mt, 35.
[16]
Atti di Giovanni,
88‑89, in M. ERBETTA, Gli Apocrifi del Nuovo Testamento, II, Marietti,
Casale Monferrato 1969, 57.
[17]
Adv. Haer
III, 19,2.
[18]
Adv. Jud.
14; De Carne Chr. 9,6; Adv.
Marcion, III,17.
[19]
In Luc.
7,12.
[21]
Enarr in Psalmos,
XLIII, 16; XLIV,
14; CIII, 1,5; Sermo 138,6.
[22]
Per un'analisi ampia della problematica in Agostino cf. J.
TSCHOLL, Dio e il bello in Sant'Agostino, Ares, Milano 1996.
[24]
lbidem.
[25]
De civ. Dei
17, c. 16,1.
[26]
PG
75, 1329.
[27]
lbidem.
[28]
PG
69, 465.
[29]
Per un approfondimento si veda G. GHAM, Le icone di Cristo.
Storia e culto, cit., 60ss.
[30]
Anonimo Piacentino,
in P. GEYER (ed.), Itinera hierosolymitana saeculi IV‑VIII, F.
Tempsky, Vindobonae 1898, 175.
[31]
Riportato in G. GHARIB, Le icone di
Cristo. Storia e culto, cit., 64.
[32]
MASSIMO IL CONFESSORE, Vita di Maria, in Testi
mariani del I millennio, vol. II, Città Nuova, Roma 1989, 231‑232.
[33]
Riportato in G. GHARIB, Le icone di
Cristo. Storia e culto, cit., 68
[34]
Ivi,
70.
[35]
TOMMASO D'AQUINO, In Psalmos Davidis.
Super Ps. 44, 2.
[36]
TOMMASO D'AQUINO, S. Th., I, q.
3 9, a. 8.
[37]
IRENEO, Adv. Haer I, 26,6.
[38]
Storia Augusta, vita
di Alessandro Severo,
29,2, in P SORESINI (ed.), Scrittori della Storia Augusta, Torino
1983, II, 682; si veda anche ELIO LAMPIDIO, La vita di Alessandro Severo,
29,2.
[40]
EUSEBIO, Hist. Eccl, VII, 18, 4.
[41]
Così Y. CHRISTE, "Cristo", cit., 540.
[42]
Anonimo Piacentino,
cit., 44,1‑3.
[43]
Cf. E. VON DOBSCHCTZ, Christusbilder.
Untersucbungen zur christlichen Legende cit.; G. GHARIB, Le
icone di Cristo. Storia e culto, cit., 42‑44.
[44]
EUSEBIO, Hist. Eccl. I,
13. Cf. G. GHARIB, Le icone di Cristo. Storia e
culto, cit., 44.
[45]
EVAGRIO SCOLASTICO, Hist. Eccl.;
PG 867 2745‑2748.
[46]
Citato in G. GHARIB, Le icone di
Cristo. Storia e culto, cit., 55‑56.
[47]
Cf. H. PFEIFFER, La veronica romana ed i suoi riflessi
nell'arte, in Il volto dei volti. Cristo, I, Velar, Gorle‑Bergamo
1997, 189‑195; T. M. Di BLASIO, Veronica. Il mistero del Volto. Itinerari
iconografici, memoria e rappresentazione, Città Nuova, Roma 2000.
[48]
H. PFEIFFER, Ragioni storiche, teologiche e politiche per
la tradizione del volto di Gesù nei secoli, cit.; ID., L’immagine di
Cristo nell'arte, cit.; ID., La storia dell'immagine di Cristo
nell'arte, cit.; G. MORELLO ‑ G. WOLF (edd.), Il volto di Cristo,
Electa, Milano 2000.
[49]
C. SCHONBORN, L’Icona di Cristo. Fondamenti teologici,
cit.; L. RUSSO ET AL., Nicea e la civiltà dell’immagine,
Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo 1998. Si veda anche la
Lettera Apostolica Duodecimum Saeculum, di GIOVANNI PAOLO II (4
dicembre 1987).
[50]
H. PFEIFFER, L’immagine di Cristo nell'arte, cit., 25.
[51]
Ibidem.
[52]
Y. CHRISTE, L’image du Christ jeune, cit.,
189‑207; ID., "Cristo", cit., 543.
[53]
H. PFEIFFER, L!immagine di Cristo nell'arte, cit., 46.
[54]
H. PFEIFFER, L’immagine di Cristo nell'arte, cit., 55.
[55]
Y CHRISTE, "Cristo", cit., 542.
[56]
H.A. SCHMID, Hans
Holbein d.J., I, Basel 1945‑1948,158.
[57]
Per approfondire l'affermazione si vedano, ad esempio, J.
RATZINGER, Presentazione al volume J. TSCHOLL, Dio e il bello in
Sant’Agostino, Ares, Milano 1996; ID., Il bello è il buono,
Intervento al Meeting di Rimini 2002, in "Tracce
‑
Litterae communionis ‑
Speciale Meeting 2002", 34‑36;
B. FORTE, La porta della Bellezza. Per un'estetica
teologica, Morcelliana, Brescia 1999; C. M.
MARTINI, Quale bellezza salverà il mondo? Lettera pastorale 1999‑2000,
Centro Ambrosiano, Milano 1999; ID., La bellezza cbe salva. Discorsi
sull'arte, Ancora, Milano 2002; R. VILADESAU, La bellezza e la croce,
in "Il regno-attualità"
12 (2004), 428‑435.
Fonte : http://www.azionecattolica.it/settori/ACR/Educatori/sezione/armad/NOVITA/CAMPI
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