giovedì 20 maggio 2021

La rivoluzione semantica del cristianesimo

 


LA RIVOLUZIONE SEMANTICA DEL CRISTIANESIMO




Un capitolo a parte è costituito dai molti grecismi introdotti dal Cristianesimo. Questa religione veniva infatti dall’Oriente dove la lingua della cultura era il greco. La sua forza dirompente ha minato alle fondamenta l’impero romano, negando i valori su cui si fondava. Data la necessità dell’evangelizzazione, inoltre, il Cristianesimo ha significato anche una forte apertura verso le masse popolari. Greca, pertanto, è la lingua della dogmatica e della liturgia; il latino, non va dimenticato, divenne lingua liturgica in Occidente solo alla fine del II secolo. Al greco quindi, e non al latino, dobbiamo i termini della teologia, come baptismus (> it. battesimo) o eucharistia (> it. eucarestia).

D’altra parte, anche se portato più alla riflessione morale e all’attività pastorale che alle sottili questioni dottrinali, l’Occidente latino non sempre accettò passivamente i termini greci, che talvolta entrarono nell’uso con una certa fatica. È il caso di battesimo a cui si cercò di opporre, ma senza successo, il latino lavacrum (> it. lavacro). La stessa cosa, in fondo, accade oggi coi termini dell’informatica che si impongono in tutto il mondo in inglese perché provengono dagli Stati Uniti, il Paese a tecnologia più avanzata. Angelo (< gr. ángelos = messaggero) ha un’origine più complessa, perché è la traduzione dell’ebraico biblico mal’ak che voleva dire «inviato di Dio»: non esistendo in greco alcun termine corrispondente, fu attribuito ad ángelos, che aveva il valore di «messaggero», il significato particolare di «messaggero di Dio». Ebraiche invece, senza ulteriori trasformazioni, sono pasqua, la ricorrenza più importante dell’anno liturgico, e sabato, il nome di un giorno della settimana che interrompe la serie dedicata agli dèi pagani iniziata con lunedì (< lat. Lunae dies) e anticipa la dominica (dies) (= il giorno del Signore). Dominicus (–a –um), aggettivo che nel latino classico designava «ciò che è del padrone», assume ora un significato pregnante, perché il signore per antonomasia è Dio.

Il Cristianesimo ha lasciato tracce anche in vocaboli che sono al di fuori dell’ambito religioso. Ad esempio parola viene da parabola, il genere di racconto a cui Gesù spesso affidava il suo insegnamento, e sostituisce verbum che resta in italiano (verbo) soltanto in ambito grammaticale, e in ambito religioso a designare il Cristo (Verbo traduce il greco Lógos del Vangelo di Giovanni). Simile è il caso di tribolo, nome di una pianta spinosa (che entra nel latino e poi nell’italiano attraverso la locuzione spinae et tribuli, attestata nel Vangelo di Matteo) passato poi a significare anche sofferenza fisica e morale. Massa, infine, parola così importante nel mondo moderno («società di massa»), ha origine da un passo di San Paolo, che la usa in riferimento alla pasta fermentata, metafora che sta a indicare un gruppo di persone.

La rivoluzione operata dal Cristianesimo si misura anche dalla profonda trasformazione semantica che hanno subito alcuni termini che indicavano i valori ‘ideali’ su cui poggiava la cultura pagana. Così fides, spes, caritas, che prima significavano la «lealtà», la «speranza», la «benevolenza», diventano le tre virtù teologali: la fede nella Rivelazione, la speranza nella salvezza, la carità cioè l’amore verso Dio e verso il prossimo. Virtus («valore nelle armi») diventa virtù in senso morale, oratio (in origine «discorso») diventa «preghiera», il colloquio con Dio. In italiano, peraltro, accanto al nuovo significato religioso, resta anche traccia di quello antico, che è talvolta in polemica con l’accezione cristiana. Un caso per tutti: virtù, parola usata da Machiavelli nel XVI secolo per indicare – spesso in contrasto con la morale tradizionale – tutte le qualità che il principe deve possedere se vuole acquistare e mantenere uno Stato.

Negli ultimi anni dell’impero si verificano numerosi cambiamenti nella lingua, sintomo di una grave crisi politica che porta alla progressiva ‘marginalizzazione’ del ristretto gruppo di dotti in grado di controllare la situazione, e al prevalere delle parole popolari provenienti dai ceti più bassi. Così, caduta la sensibilità per la quantità vocalica, os (con o breve = «osso») rischia di confondersi con os (con o lungo = «bocca»): al posto di queste due parole, poco resistenti anche perché monosillabiche, si affermano rispettivamente ossum (> it. osso) e bucca (> it. bocca), che prima significava gota. E vicino a capo (< lat. caput) si sviluppa testa, che designava in origine un vaso di terracotta. Parallelamente, si diffonde l’uso dei diminutivi, che sostituiscono, nell’esito italiano, i sostantivi ‘normali’; la frequenza dei diminutivi, tratto tipico della lingua d’uso latina (sia arcaica che classica) torna nella fase ‘tarda’ della lingua. Così, auricula viene usato al posto di auris ed è l’antecedente dell’italiano orecchio (attraverso auricla che presenta un altro fenomeno tipico, cioè la sincope della vocale atona). Lo stesso si può dire di cultellus, diminutivo di culter da cui l’italiano coltello. Sono di questo periodo anche i diminutivi di nomi propri, come «Giulietta», creato grazie a un suffisso popolare per i nomi femminili in –itta (< lat. Iulitta).

Tutto questo riguarda il latino parlato; ma fin da ora bisogna porre l’accento sull’incidenza del lessico latino che si trasmette attraverso la tradizione scritta, molto più consistente, a cominciare da quest’epoca, soprattutto nell’ambito giuridico-amministrativo – con parole come ultimare (> it. ultimare), intimare (> it. intimare), secretarius (> it. segretario) – o in quello filosofico-teologico – con parole come scibilis (> it. scibile), scientificus (> it. scientifico), incorruptibilis (> it. incorruttibile). Questo apporto sarà una costante nella storia della lingua italiana.

Dopo il 476, con le invasioni barbariche inizia una nuova fase. Sappiamo che, di fatto, alla disgregazione politica non corrispose la fine della civiltà latina. I motivi sono essenzialmente due: l’inferiorità culturale dei popoli che occuparono l’Italia, inferiorità che permise la loro assimilazione alla cultura del Paese occupato, e il ruolo egemone, sul piano civile, politico, e di conseguenza linguistico, della Chiesa. Il latino, così, non solo rimase la lingua della cultura dei Paesi dell’Europa che un tempo facevano parte dell’impero, ma fu importato insieme al Cristianesimo presso quei popoli che solo allora emergevano dal buio di una vita tribale.

In questo periodo abbiamo il progressivo diversificarsi delle lingue romanze dal comune tronco latino. Fino all’VIII secolo assistiamo a una lenta alterazione del latino parlato che, a causa della profonda decadenza culturale, è sempre meno vincolato dalla norma scritta. Un momento cruciale in questo processo è rappresentato dalla politica scolastica di Carlo Magno. Preoccupato per la dilagante ignoranza del clero a cui era demandato il delicato compito di trasmettere la conoscenza delle lettere sacre, il re si fa ispiratore di una riforma – realizzata da Alcuino, dotto monaco anglosassone e figura di spicco della cosiddetta Rinascenza carolingia – che consiste nel ritorno alle forme classiche del latino (come lingua dei dotti), corrotto dalla licenza dei secoli precedenti. Per l’Italia abbiamo poi l’importante decreto di Lotario dell’825, che riguarda l’istituzione di scuole regie in otto città del centro-nord (Torino, Ivrea, Pavia, Cremona, Vicenza, Cividale, Firenze, Fermo). Al tempo stesso, però, il Concilio di Tours, indetto da Carlo Magno nell’813, stabilisce che le omelie siano tenute nella lingua del popolo, che ormai non è più il latino ma la rustica Romana lingua (il francese) e la thiotisca lingua (il tedesco). Trent’anni più tardi la situazione si è ormai definita: nell’842 la formula dei Giuramenti di Strasburgo viene pronunciata dai due fratelli eredi dell’impero carolingio, Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico, in due lingue (la romana e la theudisca), perché sia capita dai rispettivi eserciti.

I cambiamenti intervenuti nell’italiano in questo periodo sono dovuti in primo luogo allo sganciarsi del latino parlato da quello scritto che era stato riportato, come abbiamo visto prima, alle forme classiche. Lasciata libera, la lingua parlata tende a modificarsi. Per quanto riguarda la fonologia, la morfologia e la sintassi si fissano quei fenomeni già annunciati nel latino parlato dell’età imperiale, come la sparizione del costrutto dell’accusativo con l’infinito, che si riduce ad alcuni residui causativi (del tipo «far fare»); a questi fenomeni se ne aggiungono altri, nuovi. Tra i più importanti possiamo citare il dittongamento di e breve in ie (pedem > it. piede) e di o breve in uo (focus > it. fuoco) in sillaba aperta, cioè che non termina in consonante; la comparsa del condizionale (un modo che non esisteva in latino) modellato sul futuro latino, con l’infinito e il perfetto del verbo habere (avere); la trasformazione progressiva è amare habui > amare hebui > amare ei > it. amerei.


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Fonte :  Leggere e scrivere (mondadorieducation.it)



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