lunedì 6 novembre 2023

Il rapporto uomo-natura nella religione cristiana, di don Marco Belleri


Il rapporto uomo-natura nella religione cristiana

di don Marco Belleri



“Si imparano più cose nei boschi che non nei libri.
Gli alberi e le rocce vi insegneranno cose che voi non sapreste comprendere in altro modo.
Vedrete da voi stessi che si può ricavare miele dalle pietre e olio dalle rocce più dure”

(S. Bernardo, epist. 101)

“E vieni ancora a dirmi che tu sei povero!
Sai cosa faccio io: ti do’ proprio ragione.
Perché povero è colui che ha bisogno di molte cose.
E voi, infatti, siete poveri della vostra insaziabile avidità”

(S. Basilio)



IL RAPPORTO UOMO-NATURA NELLA VISIONE CRISTIANA

Affrontare questo argomento non è semplice, sia perché la Chiesa è una realtà vasta e complessa, e all'interno di essa, al di là del nucleo essenziale della fede molto brevemente riassunto nel Credo, ci sono sottolineature diverse su vari argomenti; sia perché essa non è una realtà astratta ed è quindi condizionata dal pensiero circostante. Per questo non sempre e non in tutti gli ambiti la riflessione è stata chiara né la risposta pratica coerente. E' possibile tuttavia dare un quadro del pensiero della Chiesa sull'argomento partendo dai riferimenti indiscutibili della Bibbia e da vari documenti del Papa; indicherò poi alcune delle conseguenze pratiche che la natura, nel suo rapporto con Dio Creatore, sembra mostrare abbastanza chiaramente all'uomo.


VISIONE BIBLICA, STORIA E MAGISTERO

Il Vecchio Testamento

Per la visione biblica il cosmo è un elemento essenziale dell' identità dell'uomo nel mondo. L'uomo ha la sua signoria sul mondo, ma soggetta alla superiore signoria di Dio. Da qui nasce da un lato la relativizzazione della natura rispetto a Dio, dall'altro la sua valorizzazione come Sua opera e quindi messaggio preciso per l'uomo, chiamato ad ascoltare in essa un'eco della Parola divina di cui è frutto.
Nella Bibbia creazione e salvezza sono due aspetti inscindibili dell'azione di Dio; la prima è l'inizio permanente della seconda, il terreno vitale, e non solo strumentale, in cui mette la sua base l'azione di Dio.
L'uomo non è visto, come nel dualismo greco, come un composto di anima e corpo, ma come una unità in cui lo spirito (rapporto con Dio), l'anima (soggettività aperta) e il corpo (relazione con i propri simili e con la natura) sono diversi aspetti della totalità dell'uomo. In questa visione l'ascesi biblica non nasce dalla lotta dello spirito contro il corpo e la materia, ma dalla necessità di ordinare, faticosamente dopo il peccato, le relazioni con le creature secondo le esigenze dello Spirito, cioé nel rispetto della volontà di Dio.
Un altro aspetto dell'unità della visione biblica è nella continuità tra l'atto creativo iniziale e la cura continua di Dio per tutte le sue creature (ad es. sal 104,13; 145,15; 147,8). Spesso nel passato si è creata una divisione tra i due aspetti, accentuando la fede in Dio creatore onnipotente a scapito del Dio che si prende cura delle sue creature. E questo ha portato a vedere l'uomo, immagine del Dio onnipotente, come dominatore della natura, più che curatore provvidente. La Genesi mostra l'uomo partecipe della dignità del Creatore, che si prolunga attraverso la custodia e il dominio; ma questo antropocentrismo biblico non vuole certo dare carta bianca per lo sfruttamento; la signoria dell'uomo, vertice del creato, deve essere in armonia con quella di Dio, cioè basata sulla sapienza e sull'amore di Dio stesso, secondo l'immagine divina ricevuta. Purtroppo questa verità viene spesso dimenticata o travisata.
Nella preghiera biblica tutto il Creato canta le lodi di Dio, ne esprime la sapienza, la grandezza e la bontà. E l'uomo è invitato ad associarsi al coro delle altre creature per lodare all'unisono il comune Signore. Questo “associarsi” significa anche ascoltarne la voce, perchè le cose non sono semplicemente oggetti d'uso, ma sono anche creature ricche di significati che aiutano l'uomo a cogliere e a realizzare la propria missione nel mondo, che lo spingono a cogliere i valori in esse racchiusi, assumendoli nei progetti di crescita personale, di sviluppo sociale, di umanizzazione del mondo.
Nell'ottica biblica ha valore la realtà concreta nella sua singolarità, non le astrazioni. L'uomo biblico sale a Dio partendo dalle cose sensibili, come il platonico, ma non fuggendole bensì passando in mezzo ad esse e amandole per quello che sono. Di conseguenza anche la molteplicità e il divenire delle cose non sono visti come conseguenza di un imprigionamento nella materia -alla maniera greca- ma come frutto di una particolare benedizione di Dio. Il divenire allora non è diminuzione, dispersione dell'essere, ma sviluppo, realizzazione progressiva del progetto creativo di Dio. Si capisce allora anche l'enorme differenza nel parlare delle cose: l'uomo greco tende a definire, a tracciare i confini, quello biblico tende a raccontare, cioé a descrivere i rapporti (segno che non si può incapsulare l'infinita ricchezza della realtà).
Infine, il mondo materiale non è come un velo che nasconde l' “idea”, ma una realtà carica di significato, un messaggio che si rivolge all'uomo e che può essere da lui compreso.


Il Nuovo Testamento

La visione del Nuovo Testamento mette ancora più in chiaro la partecipazione della natura al grande disegno d'amore del Padre, che ha al centro Gesù. Il mondo è creato in Cristo e per Cristo; S.Paolo e S.Giovanni affermano con forza l'unità del piano divino di creare e salvare il mondo (vedi ad es. Gv 1,1ss; Col 1,15-20; Eb 1,2-3; At 17,24). Il fatto che al centro del disegno di Dio ci sia la sua venuta nella natura umana, dà la massima dignità alla materia, assunta nel corpo di Cristo come luogo privilegiato in cui Dio si comunica all'uomo: in un volto di carne brilla la gloria di Dio. Per la tradizione orientale l'incarnazione del Verbo è il trionfo di tutta la creazione. Nello splendore di Gesù S.Paolo intravede il destino a cui Dio chiama non solo l'uomo, ma anche l'universo intero, che non è visto come qualcosa da demolire, ma come un tutto solidale con l'uomo che avrà parte con lui nella vita eterna (vedi Rm 8,19-22).
Un'ulteriore conferma della dignità delle realtà create viene dalla fede nella risurrezione dei corpi. Un corpo capace di vita eterna era una prospettiva completamente estranea all'umanesimo greco, ma esprime bene la visione biblica della salvezza che abbraccia tutti gli aspetti della creazione.


La storia

Il cammino teologico successivo, pur riconoscendo la natura come il primo messaggio di Dio all'uomo, non sempre ha portato nella giusta direzione le conseguenze di questo pensiero. Spesso la natura, specie nella Chiesa occidentale, è stata vista in stretta relazione col peccato. In generale, comunque, questo argomento è stato abbastanza accantonato nella riflessione teologica, almeno come aspetto centrale. E questo abbandono ha permesso lo svilupparsi di una visione distorta all'inizio dell'era moderna; con Bacone il sapere umano, che prima serviva per l'orientamento morale dell'uomo, diventa capacità di dominio; con Cartesio la complessità della realtà diventa semplicemente “estensione”, consegnata all'intervento manipolatorio dell'uomo e della sua scienza, tutt'altro che universale; Galileo pretende di imprigionare la realtà nel calcolo matematico e nella verifica sperimentale, secondo dei criteri 'scientifici' che ben poco possono cogliere la complessità della vita (chissà che la sua condanna, al di là dei modi e dei termini discutibili, non fosse in realtà una profezia!). I teologi cristiani hanno accettato spesso acriticamente questo atteggiamento che ci porta a impadronirci della natura per i nostri scopi umani, giustificandolo anche con un uso inappropriato dei testi biblici
Un tentativo di ripensamento è iniziato dopo che la tradizione ebraico-cristiana è stata accusata, a partire dagli anni '60, di essere una delle cause principali del dissesto ambientale a motivo della sua visione dell'uomo come dominatore della natura.


Giovanni Paolo II

Questo ripensamento del rapporto con la creazione è frequentemente presente nelle parole di Giovanni Paolo II, che sottolinea, tra l'altro, il valore morale della crisi ecologica.

"[L'uomo] pensa di poter disporre arbitrariamente della terra, assoggettandola senza riserve alla sua volontà, come se essa non avesse una propria forma e una destinazione anteriore datale da Dio, che l'uomo può sviluppare, ma non tradire. Invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio nell'opera della creazione, l'uomo si sostituisce a Dio e così finisce per provocare la ribellione della natura, piuttosto tiranneggiata che governata da lui. Si avverte in ciò, prima di tutto, una povertà o meschinità dello sguardo dell'uomo, animato dal desiderio di possedere le cose anziché di riferirle alla verità, e privo di quell'atteggiamento disinteressato, gratuito, estetico che nasce dallo stupore per l'essere e per la bellezza, il quale fa leggere nelle cose visibili il messaggio del Dio invisibile” (Centesimus Annus 37).

"Il dissesto ecologico, che suppone sempre una forma di egoismo anticomunitario, nasce da un uso arbitrario delle creature, di cui si violano le leggi e l'ordine naturale, ignorando o disprezzando la finalità che è immanente all'opera della creazione" (La creazione e la legittima autonomia delle cose create, in Insegnamenti IX, 1 (1986) 903 ).

"L'insieme delle creature costituisce l'universo, il cosmo visibile e invisibile, nel cui complesso e nelle cui parti si riflette l'eterna Sapienza e si esprime l'inesauribile Amore del Creatore" ( La creazione è la rivelazione della gloria di Dio, op.cit 37-40).

"Fin dai tempi dei Padri della Chiesa si è consolidato l'insegnamento secondo cui il creato porta in sé 'le vestigia della Trinità'. Esso è opera del Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo.[...] Le singole creature non sono soltanto'parole' del Verbo, con cui il Creatore si manifesta alla nostra intelligenza, ma sono anche 'doni' del Dono: esse portano in sé l'impronta dello Spirito Santo, Spirito Creatore" (La creazione è opera della Trinità, in op. cit. 617).

Da queste e da tante altre parole del Papa è chiaro che la natura non è solo una freccia direzionale per indicarci la presenza di Dio, come quasi sempre è stata intesa nella Chiesa, ma ha una sua ricchezza intrinseca che nasce da questo legame e diventa per l'uomo una maestra di vita concreta. Purtroppo però diventa difficile fare il passo successivo e capire cosa questo insegnamento significhi nella concretezza delle scelte. Senz'altro nel campo della sessualità la natura è una guida importante che non può essere messa da parte in nome di alcuna visione storicista-esistenzialista, ma deve essere una guida anche in tanti altri campi in cui è invece ignorata.


LE INDICAZIONI DELLA NATURA

Non è facile, ma è comunque possibile cercare di risalire ad alcune delle indicazioni della natura che sembrano più evidenti, anche se dimenticate dalla nostra civiltà. Per un cristiano gli insegnamenti della creazione sono in realtà gli insegnamenti di Colui che è all'origine di tutto ciò che esiste. La venuta di Gesù porta sicuramente ad andare anche al di là della natura, la supera; ma questo non avviene distruggendo le sue indicazioni per rifarne di nuove, bensì permettendo all'uomo di entrare nella vita stessa di Colui che ne è l'origine, guardandola con lo stesso amore di Chi ce l'ha data come madre e sorella e maestra di vita terrena. Ma l'aspetto pratico, concreto, del suo insegnamento rimane importante per il cristiano come per tutti i popoli, che da sempre traggono da essa non solo il cibo ma anche i principali insegnamenti della vita.


Sacralità, rispetto e mistero

Il riferimento a Gesù come principio e sapienza creatrice di tutto ciò che esiste, permette di dare il giusto valore al termine “sacralità” della natura. La riluttanza della Chiesa nei confronti di questo termine è ben comprensibile di fronte a tante visioni distorte di essa, che sconfinano nel panteismo o nell'idolatria. Tantissimi popoli però non avevano questa visione distorta, ma una visione molto simile a quella cristiana, in cui il pensiero alla sacralità della creazione è un riconoscere la presenza della sapienza e del cuore di Dio in ogni cosa creata, è l'espressione del valore immenso che ogni creatura, e la creazione nel suo insieme, ha per il suo legame col Creatore.
Questo comune legame con Dio creatore spingeva S.Francesco a chiamare la natura 'sorella' e 'madre'. Intesa come sorella e madre la natura sarebbe accostata in altro modo rispetto a come è accostata considerandola un supermercato a servizio dei bisogni dell'uomo. Questo non esclude l'uso delle creature per i bisogni fondamentali dell'uomo, ma è diverso farlo con senso di riconoscenza e affetto dal farlo prendendo come qualcosa di dovuto; è diverso uccidere un animale per mangiare pregando di essere perdonati, come fanno vari popoli, dal costruire allevamenti industriali senza alcun rispetto per gli animali.
Dal suo legame con la sapienza creatrice di Dio deriva che la natura è un mistero unitario immensamente pìù grande, armonioso, complesso e delicato di quello che potremo mai conoscere seguendo la via della scienza occidentale; di esso non possiamo ignorare e distruggere gli equilibri senza patirne le conseguenze sul piano fisico, psicologico, spirituale. Il mondo naturale ha delle leggi e dei cicli con i quali vivere in armonia e all'interno dei quali cercare la libertà e il progresso, perché essi sono la scuola che il Padre ha predisposto per ogni uomo per imparare la pazienza e il mistero dei ritmi e delle attese, la grandezza della vita che muore e rinasce, il legame che unisce tutte le creature.


Varietà e unità

Uno degli aspetti più evidenti e grandiosi di questo mistero è l'immensa varietà e insieme unità della vita. Di fronte a questa varietà l'uomo, che necessariamente incide sulla natura per sopravvivere e anche per esprimere sé stesso, può percorrere due strade: inserirsi in questa varietà e modificarla ma cercando l'armonia con questo disegno, sia nella coltivazione, sia nell'abitazione, sia nel trasporto, oppure ignorarla, considerarla una limitazione e semplificare il più possibile per avere tutto sotto controllo, rendendo la complessità della vita prossima a una equazione lineare, nell'agricoltura come nella produzione, nei trasporti come nell'economia; e di conseguenza nei rapporti tra gli uomini. L'uomo tecnologico ha percorso questa seconda via, spesso, purtroppo, anche col plauso della Chiesa.


Umiltà

Di fronte a un mistero di vita più grande noi, che non è un ostacolo alla comprensione ma semplicemente una porta da cui entrare per inserirsi in esso ed essere man mano illuminati dalla stessa Sorgente da cui anch'esso ha origine, l'unico atteggiamento corretto possibile è quello dell'umiltà, che non è certo in contrasto con la grandezza dell'uomo; anzi la manifesta pienamente. L'umiltà non è contro 'il' progresso, ma contro 'questo' progresso che non fa progredire per nulla l'uomo. L'umiltà anzi aiuterebbe a capire la direzione del vero progresso.
Il progresso non è andare più veloci, togliere la fatica, stare più comodi, avere il mondo nel computer, delegare l'artigianato all'industria, risolvere i problemi con un motore e un po' di petrolio, dipendere totalmente dalla tecnologia, creare continuamente nuovi bisogni e dire che il loro soddisfacimento ci rende più uomini,...... Anche l'argomento principe per giustificare un certo progresso, cioè la medicina, pur non discutendo alcune acquisizioni, sarebbe tutto da riverificare; nelle argomentazioni portate, infatti, ci sono alcune verità ma anche tantissime falsità (anche senza parlare dello strapotere delle multinazionali farmaceutiche nei confronti di tutto il mondo medico).
Semplificare tutto, eliminare quello che sembra un ostacolo, fare tutto più velocemente, ma per arrivare dove? Per perdere i collegamenti vitali tra le cose, perché è il tempo che fa crescere ciò che vale e aiuta a capire ciò che è bene; superando tanti limiti di tempo, oltre che distruggendo gli infiniti legami di cui vive, si superano anche i limiti entro cui la natura, sia quella dell'uomo sia quella intorno a lui, riesce a parlare e a farsi sentire.


Possibilità di riassorbimento

Dovrebbe essere chiaro che l'uomo può e deve costruire secondo l'intelligenza che gli è stata data, ma tutto quello che fa deve essere sempre e comunque riassorbibile con facilità dalla natura. Purtroppo la maggioranza dei cattolici non ha detto molto riguardo all'industria, né all'agricoltura chimico-industriale, né alla plastica, né all'energia nucleare; eppure tralasciare questa ovvia necessità sta portando ad una distruzione della natura, e con essa dell'uomo, che solo i ciechi possono non vedere. E questo, è da notare, non a causa delle deviazioni interessate, ma a causa dello stesso principio di fondo che ha condotto alla civiltà chimico-industriale-informatica, basato sull'allontanamento sistematico da ciò che è naturale. Anzi, proprio da questo allontanamento dalla natura tanti prodotti assumono il loro valore, legato alla loro artificialità inattaccabile dagli agenti naturali (mi pare fosse il 1987 quando il premio Nobel per l'economia è andato a Robert Solow, del M.I.T., per la sua teoria della crescita basata sulla superfluità della natura).


L'economia locale

La natura insegna che l'equilibrio e il rispetto si hanno solo su piccola scala e con produzioni differenziate e complementari. In un'economia locale non ci sono sprechi, si produce quello che realmente serve, si deve aver cura dell'ambiente che ci dà da vivere, è possibile tramandare l'arte di rapportarsi in modo vitale con l'ambiente, si creano facilmente i legami tra le generazioni, si mantengono tutte le capacità pratiche che servono alla vita.
L'industria, insieme con l'agricoltura industriale, sua figlia, hanno già dentro di sé, per principio, una direzione diversa. L'industria porta inevitabilmente: alla distruzione dell'artigianato e quindi dell'unità del lavoro creativo dell'uomo; alla centralizzazione della produzione per ammortizzare il valore delle macchine; all'appiattimento dei bisogni e alla creazione di una enorme quantità di bisogni artificiali; al moltiplicarsi in modo vertiginoso di trasporti inutili; alla ricerca spasmodica di materie prime a basso costo (gran parte delle guerre e della fame del mondo sono legate a questo; ma sono lontane e il sistema complesso dei commerci mette grossi filtri alla comprensione del legame strettissimo con i nostri consumi); alla concentrazione del sapere e delle capacità, rendendo le persone sempre più incapaci di fare quello che serve alla vita e quindi sempre più dipendenti e manipolabili.
Forse un ostacolo alla comprensione del problema è la confusione tra tecnica e tecnologia. La prima comprende quegli strumenti che aiutano l'uomo, ma senza sostituirlo, permettendo la diversità tipica dell'arte, con la cura e la fatica e la riserva di tempo racchiusi in ogni oggetto. La seconda è una crescita abnorme dello strumento che sottopone l'uomo al codice di funzionamento della macchina e deforma il comportamento quotidiano, cambia i valori, impoverisce la cultura. La tecnica aiuta ad allargare l'attività della natura rispettandone le radici, la tecnologia è il rifacimento di una pseudo natura artificiale.


L'informatica e l'unità dell'uomo

In generale riguardo al rapporto tra uomo e tecnologia, strettamente legato al rapporto uomo-natura, c'è nella Chiesa bisogno di un ulteriore approfondimento. Spesso sembra che sia sufficiente dare un riferimento antropologico e morale perché gli interventi della tecnologia che potenziano enormemente le varie attività dell'uomo, possano equilibrarsi con le altre dimensioni dell'uomo. Ma la natura ci insegna che questo non è possibile, perché l'uomo, come la creazione, non è fatto a compartimenti stagni da aggiungere o togliere, oppure da stringere e allargare.
In particolare riguardo all'informatica, che sembra ormai l'orizzonte attuale e futuro dell'uomo, a parte alcuni aspetti problematici ad essa legati (come l'impoverimento della percezione del reale e la concentrazione di un sapere-potere), la riflessione è scarsa. L'unico problema sembrerebbe quello di creare una 'nuova sintesi', 'un nuovo progetto di uomo e di cultura' che tenga conto di questa direzione presa dall'uomo. Ma l'uomo è una unità che pone le sue radici in quello che ha fatto Dio, non nel mondo che costruisce lui stesso. Le nostre facoltà sono equilibrate in modo che per realizzare le cose essenziali alla vita siano utilizzati tutti i lati della nostra umanità, da quelli fisici, a quelli intellettivi, a quelli del sentimento, a quelli sociali, nell'equilibrio del loro peso sulla persona. Qualsiasi strumento che alteri questo equilibrio e unità ferisce l'uomo e non può essere superato con la creazione di una super umanità più artificiale.
Un profondo ripensamento morale è indispensabile proprio di fronte a questo mondo artificiale che abbiamo creato e che stiamo continuando a creare, in contrasto col Creatore. Questo mondo artificiale, in cui l'uomo pone il suo agire, il suo farsi, come pietra fondante della società, cresce a scapito del piano naturale e spirituale dell'esistenza. La natura elaborata e snaturata, lo spirito degradato e incivilito si incontrano su questo piano artificiale. E così rischiamo di chiamare civiltà la contronatura che creiamo, con i suoi eccessi indispensabili e i suoi inganni volontari resi normali dall'educazione, l'esercizio e l'abitudine.


Il limite, la giustizia e la povertà

Il limite, di tempo, di spazio, di risorse, di forza, di capacità, ci richiama alla fragilità della natura, che è presente accanto alla sua grandezza, e ricorda all'uomo il suo essere creatura, quindi la provvisorietà delle cose. Quest'ultima, come tutti gli apparenti limiti, è una grande ricchezza, da amare e cercare come reale affidamento alla Provvidenza di Dio.
In particolare un limite quantitativo delle cose: la terra non è un pozzo senza fondo, è limitata, per cui se si accumula da qualche parte, dalle altre si crea miseria. Ci richiama a un profondo senso di giustizia che cerchi uno stile di vita che non toglie agli altri il necessario per vivere e non distrugge la fonte della vita. Se ognuno di noi tenesse per sé solo ciò che è realmente necessario, nessuno sarebbe povero. All'uomo è dato il pane quotidiano e nulla più; se accetta questo, ne avrà in abbondanza ogni giorno; se non lo accetta nascono le diseguaglianze da cui dipendono tutte le miserie e una profonda, radicale insoddisfazione.
La legge divina attraverso la Creazione ci insegna che la vera cultura non consiste nella moltiplicazione dei bisogni, nella autoindulgenza, ma nella limitazione dei nostri bisogni, nel loro controllo perché ci sia una vera crescita della persona.
Questa sobrietà a cui ci spinge la natura è molto concreta non è certo una povertà 'spirituale', un 'distacco dalle cose' che non tocca la vita concreta. Questa povertà reale, scelta e vissuta, è la misura per valutare una cultura, un'economia; è la vera maestra e ricchezza dei popoli in quanto porta con sé giustizia, rispetto, bellezza, condivisione, autonomia, legame con la terra, capacità di gioire del poco.
Non per nulla il Figlio di Dio ha scelto la povertà; Egli, scegliendola, ci ha detto che questa povertà concreta, materiale, non è semplicemente uno dei tanti valori ascetici da perseguire nella vita, ma è parte essenziale, indispensabile, caratterizzante della Verità e dell'Amore. Se Gesù ha vissuto povero e parlato di semplicità significa che questa è la strada del vero progresso dell'uomo in ogni campo, è questa la strada per utilizzare più pienamente e secondo verità tutti i doni di intelligenza e capacità pratiche che il Signore ci ha dato. Senza questi riferimenti possiamo solo distruggere, e ogni tentativo di giustificazione porta la nostra stessa mente su un piano sempre più astratto in cui è sempre più difficile sentire la voce di Dio.
Semplicità e povertà sono da sempre i cardini dela saggezza. La libertà dalle cose, dal superfluo, fa sentire veramente liberi, felici del poco che c'è, fiduciosi nella provvidenza di Dio, riconoscenti per l'immensa ricchezza e bellezza della natura donata gratuitamente a tutti, attenti alle più piccole cose, non ricattabili dai mille inganni che cercano di distogliere dal bene. Solo nell'essenzialità si percepisce il senso più vero e profondo delle cose.
La semplicità e la sobrietà della vita danno una grande libertà e leggerezza nel cammino e proprio per questo permettono di arrivare alle vette più elevate della dignità e grandezza umana. Padre Ellacuria, ucciso nel Salvador assieme ad altri tre gesuiti, chiede che si vada verso "una civiltà della povertà, che si contrapponga a quella civiltà della ricchezza che sta portamdo il mondo alla propria consunzione, senza peraltro conseguire lo scopo di dare agli uomini la felicità che loro spetta".


S. Francesco

Altri santi hanno approfondito il rapporto con la natura (pensiamo ad esempio a S. Bernardo o a S. Ildegarda), ma quello più famoso è senz'altro Francesco d'Assisi.
Egli intuitivamente, senza previa riflessione teologica se non il Vangelo preso alla lettera, riesce a cogliere in modo nuovo il rapporto con la creazione, che vede come una grandiosa sinfonia il cui maestro è Dio stesso. Il mondo parla, è pieno di vita, di intenzioni e di appelli del Padre, ed è pieno di lode al suo Creatore.
Francesco non loda il Signore 'attraverso' le creature; vorrebbe dire essere sordi di fronte all'inno che tutti intonano a Dio. Egli canta 'con' le creature, come fanno alcuni Salmi. Questo aspetto è fondamentale perché mostra che le creature sono amate, non strumentalizzate. Francesco è innamorato di Gesù e ogni cosa gli riflette la luce di questo volto amato e di esso 'porta significazione': "In qualunque oggetto ammirava il suo Autore e in tutti gli avvenimenti riconosceva il Creatore....Ricercava ovunque l'Amato seguendo le orme impresse nelle creature...Considerando che tutte le cose hanno un'origine comune, si sentiva ricolmo di pietà ancora maggiore e chiamava le creature per quanto piccole col nome di fratello e sorella: sapeva bene che tutte provenivano, come lui, da un unico Principio". Ma questo rapporto non è in chiave platonica, quasi che egli non amasse le creature in se stesse, ma solo come segno, rimando a Qualcuno che le trascende; se così fosse non avrebbe portato nulla di nuovo alla tradizionale spiritualità patristica e medievale di stampo platonico-agostiniano. Esse sono segno in quanto realtà che contiene la ricchezza del Creatore, e quindi oggetto di profondo affetto per se stesse.
Non per nulla i contemporanei percepirono immediatamente la novità di questo modo di essere: "egli appariva a tutti come un uomo di un altro mondo"; "uomo nuovo, donato dal cielo al mondo". Per questo è assurdo vedere in lui un romantico ante litteram: il romanticismo è un prodotto della soggettività moderna, in cui i sentimenti dell'io vengono proiettati sul mondo, ma non c'è l'ascolto del messaggio che viene dalla natura e rinvia a un'istanza al di là della soggettività della coscienza. In Francesco l' 'io' è chiamato a uscire da se stesso, ad affratellarsi con le cose, così da poter cantare insieme l'inno di lode al Creatore, atteggiamento possibile solo quando rinunciamo al possessso delle cose, come Francesco ha fatto nel modo più radicale ed essenziale.
Francesco è stato proclamato dal Papa nel 1979 “patrono celeste dei cultori di ecologia”. Ma certo l'ecologia di Francesco è ben altra cosa del calcolato rispetto dell'attuale ecologismo. Il termine stesso “ecologia”, che significa “scienza del vivere bene nella casa planetaria comune”, è molto riduttivo per esprimere il rapporto con la creazione a cui siamo chiamati. Non per nulla i criteri ecologici rimangono “scientifici” e “tecnologici”: si tratterebbe solo di far fare un salto qualitativo alla tecnologia perché non distrugga l'ambiente. Anche il salvataggio degli animali diventa molto artificioso, intellettuale e sentimentale, da parte di gente che non ha più un reale rapporto vitale, di popolo, con la terra. L'ecologia di Francesco è invece sensibile al mistero del mondo, all'esperienza del mondo come unità organica sostenuta dallo Spirito, come casa fraterna voluta dal Padre comune e modellata su Cristo.
Francesco ci insegna che il vero problema non è quello di difendere la natura dall'opera dell'uomo, ma di verificare, attraverso gli insegnamenti della creazione, la qualità intrinseca di tale opera e, se necessario, cambiarla radicalmente. Per questo bisogna certo conoscere i delicati e meravigliosi equilibri naturali, ma soprattutto bisogna ascoltare la voce della terra; perché la terra ha una voce, pronuncia una parola, che riecheggia la stessa parola di Dio.



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Fonte: https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=9093

martedì 3 gennaio 2023

La santità di Papa Benedetto XVI


LA SANTITA'
 
di Papa Benedetto XVI



Cari fratelli e sorelle,

nelle Udienze generali di questi ultimi due anni ci hanno accompagnato le figure di tanti Santi e Sante: abbiamo imparato a conoscerli più da vicino e a capire che tutta la storia della Chiesa è segnata da questi uomini e donne che con la loro fede, con la loro carità, con la loro vita sono stati dei fari per tante generazioni, e lo sono anche per noi. I Santi manifestano in diversi modi la presenza potente e trasformante del Risorto; hanno lasciato che Cristo afferrasse così pienamente la loro vita da poter affermare con san Paolo “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Seguire il loro esempio, ricorrere alla loro intercessione, entrare in comunione con loro, “ci unisce a Cristo, dal quale, come dalla Fonte e dal Capo, promana tutta la grazia e tutta la vita dello stesso del Popolo di Dio” (Conc. Ec. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium 50). Al termine di questo ciclo di catechesi, vorrei allora offrire qualche pensiero su che cosa sia la santità.

Che cosa vuol dire essere santi? Chi è chiamato ad essere santo? Spesso si è portati ancora a pensare che la santità sia una meta riservata a pochi eletti. San Paolo, invece, parla del grande disegno di Dio e afferma: “In lui – Cristo – (Dio) ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità” (Ef 1,4). E parla di noi tutti. Al centro del disegno divino c’è Cristo, nel quale Dio mostra il suo Volto: il Mistero nascosto nei secoli si è rivelato in pienezza nel Verbo fatto carne. E Paolo poi dice: “E’ piaciuto infatti a Dio che abiti in Lui tutta la pienezza” (Col 1,19). In Cristo il Dio vivente si è fatto vicino, visibile, ascoltabile, toccabile affinché ognuno possa attingere dalla sua pienezza di grazia e di verità (cfr Gv 1,14-16). Perciò, tutta l’esistenza cristiana conosce un’unica suprema legge, quella che san Paolo esprime in una formula che ricorre in tutti i suoi scritti: in Cristo Gesù. La santità, la pienezza della vita cristiana non consiste nel compiere imprese straordinarie, ma nell’unirsi a Cristo, nel vivere i suoi misteri, nel fare nostri i suoi atteggiamenti, i suoi pensieri, i suoi comportamenti. La misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua. E’ l’essere conformi a Gesù, come afferma san Paolo: “Quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo” (Rm 8,29). E sant’Agostino esclama: “Viva sarà la mia vita tutta piena di Te” (Confessioni, 10,28). Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione sulla Chiesa, parla con chiarezza della chiamata universale alla santità, affermando che nessuno ne è escluso: “Nei vari generi di vita e nelle varie professioni un’unica santità è praticata da tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio e … seguono Cristo povero, umile e carico della croce, per meritare di essere partecipi della sua gloria” (n. 41).

Ma rimane la questione: come possiamo percorrere la strada della santità, rispondere a questa chiamata? Posso farlo con le mie forze? La risposta è chiara: una vita santa non è frutto principalmente del nostro sforzo, delle nostre azioni, perché è Dio, il tre volte Santo (cfr Is 6,3), che ci rende santi, è l’azione dello Spirito Santo che ci anima dal di dentro, è la vita stessa di Cristo Risorto che ci è comunicata e che ci trasforma. Per dirlo ancora una volta con il Concilio Vaticano II: “I seguaci di Cristo, chiamati da Dio non secondo le loro opere, ma secondo il disegno della sua grazia e giustificati in Gesù Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere nella loro vita e perfezionare la santità che hanno ricevuta” (ibid., 40). La santità ha dunque la sua radice ultima nella grazia battesimale, nell’essere innestati nel Mistero pasquale di Cristo, con cui ci viene comunicato il suo Spirito, la sua vita di Risorto. San Paolo sottolinea in modo molto forte la trasformazione che opera nell’uomo la grazia battesimale e arriva a coniare una terminologia nuova, forgiata con la preposizione “con”: con-morti, con-sepolti, con-risucitati, con-vivificati con Cristo; il nostro destino è legato indissolubilmente al suo. “Per mezzo del battesimo - scrive - siamo stati sepolti insieme con lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti… così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rm 6,4). Ma Dio rispetta sempre la nostra libertà e chiede che accettiamo questo dono e viviamo le esigenze che esso comporta, chiede che ci lasciamo trasformare dall’azione dello Spirito Santo, conformando la nostra volontà alla volontà di Dio.

Come può avvenire che il nostro modo di pensare e le nostre azioni diventino il pensare e l’agire con Cristo e di Cristo? Qual è l’anima della santità? Di nuovo il Concilio Vaticano II precisa; ci dice che la santità cristiana non è altro che la carità pienamente vissuta. “«Dio è amore; chi rimane nell'amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1Gv 4,16). Ora, Dio ha largamente diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di Lui. Ma perché la carità, come un buon seme, cresca nell’anima e vi fruttifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e, con l'aiuto della grazia, compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all'Eucaristia e alla santa liturgia; applicarsi costantemente alla preghiera, all'abnegazione di se stesso, al servizio attivo dei fratelli e all'esercizio di ogni virtù. La carità infatti, vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr Col 3,14; Rm 13,10), dirige tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine. Forse anche questo linguaggio del Concilio Vaticano II per noi è ancora un po' troppo solenne, forse dobbiamo dire le cose in modo ancora più semplice. Che cosa è essenziale? Essenziale è non lasciare mai una domenica senza un incontro con il Cristo Risorto nell'Eucaristia; questo non è un peso aggiunto, ma è luce per tutta la settimana. Non cominciare e non finire mai un giorno senza almeno un breve contatto con Dio. E, nella strada della nostra vita, seguire gli “indicatori stradali” che Dio ci ha comunicato nel Decalogo letto con Cristo, che è semplicemente l'esplicitazione di che cosa sia carità in determinate situazioni. Mi sembra che questa sia la vera semplicità e grandezza della vita di santità: l’incontro col Risorto la domenica; il contatto con Dio all’inizio e alla fine del giorno; seguire, nelle decisioni, gli “indicatori stradali” che Dio ci ha comunicato, che sono solo forme di carità. Perciò il vero discepolo di Cristo si caratterizza per la carità verso Dio e verso il prossimo” (Lumen gentium, 42). Questa è la vera semplicità, grandezza e profondità della vita cristiana, dell'essere santi.

Ecco perché sant’Agostino, commentando il capitolo quarto della Prima Lettera di san Giovanni, può affermare una cosa coraggiosa: “Dilige et fac quod vis”, “Ama e fa’ ciò che vuoi”. E continua: “Sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; vi sia in te la radice dell'amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene” (7,8: PL 35). Chi è guidato dall’amore, chi vive la carità pienamente è guidato da Dio, perché Dio è amore. Così vale questa parola grande: “Dilige et fac quod vis”, “Ama e fa’ ciò che vuoi”.

Forse potremmo chiederci: possiamo noi, con i nostri limiti, con la nostra debolezza, tendere così in alto? La Chiesa, durante l’Anno Liturgico, ci invita a fare memoria di una schiera di Santi, di coloro, cioè, che hanno vissuto pienamente la carità, hanno saputo amare e seguire Cristo nella loro vita quotidiana. Essi ci dicono che è possibile per tutti percorrere questa strada. In ogni epoca della storia della Chiesa, ad ogni latitudine della geografia del mondo, i Santi appartengono a tutte le età e ad ogni stato di vita, sono volti concreti di ogni popolo, lingua e nazione. E sono tipi molto diversi. In realtà devo dire che anche per la mia fede personale molti santi, non tutti, sono vere stelle nel firmamento della storia. E vorrei aggiungere che per me non solo alcuni grandi santi che amo e che conosco bene sono “indicatori di strada”, ma proprio anche i santi semplici, cioè le persone buone che vedo nella mia vita, che non saranno mai canonizzate. Sono persone normali, per così dire, senza eroismo visibile, ma nella loro bontà di ogni giorno vedo la verità della fede. Questa bontà, che hanno maturato nella fede della Chiesa, è per me la più sicura apologia del cristianesimo e il segno di dove sia la verità.

Nella comunione dei Santi, canonizzati e non canonizzati, che la Chiesa vive grazie a Cristo in tutti i suoi membri, noi godiamo della loro presenza e della loro compagnia e coltiviamo la ferma speranza di poter imitare il loro cammino e condividere un giorno la stessa vita beata, la vita eterna.

Cari amici, come è grande e bella, e anche semplice, la vocazione cristiana vista in questa luce! Tutti siamo chiamati alla santità: è la misura stessa della vita cristiana. Ancora una volta san Paolo lo esprime con grande intensità, quando scrive: “A ciascuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo… Egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” (Ef 4,7.11-13). Vorrei invitare tutti ad aprirsi all’azione dello Spirito Santo, che trasforma la nostra vita, per essere anche noi come tessere del grande mosaico di santità che Dio va creando nella storia, perché il volto di Cristo splenda nella pienezza del suo fulgore. Non abbiamo paura di tendere verso l’alto, verso le altezze di Dio; non abbiamo paura che Dio ci chieda troppo, ma lasciamoci guidare in ogni azione quotidiana dalla sua Parola, anche se ci sentiamo poveri, inadeguati, peccatori: sarà Lui a trasformarci secondo il suo amore. Grazie.




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Fonte:  Udienza generale di Papa Benedetto XVI, Piazza San Pietro, Mercoledì, 13 aprile 2011  https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110413.html 


lunedì 2 gennaio 2023

Benedetto XVI - Film Completo by Film&Clips DOC


Papa Benedetto XVI - film documentario biografico

Fede, ragione e università, di Papa Benedetto XVI, Ratisbona 2006


VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
A MÜNCHEN, ALTÖTTING E REGENSBURG
(9-14 SETTEMBRE 2006)

INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI DELLA SCIENZA
Aula Magna dell’Università di Regensburg
Martedì, 12 settembre 2006


Papa Benedetto XVI

Fede, ragione e università.
Ricordi e riflessioni.



Eminenze, Magnificenze, Eccellenze,
Illustri Signori, gentili Signore!

È per me un momento emozionante trovarmi ancora una volta nell'università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l'Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico all'università di Bonn. Era – nel 1959 – ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c'era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c'era un cosiddetto dies academicus, in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti dell'intera università, rendendo così possibile un’esperienza di universitas – una cosa a cui anche Lei, Magnifico Rettore, ha accennato poco fa – l’esperienza, cioè del fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell'unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione – questo fatto diventava esperienza viva. L'università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch'esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del "tutto" dell'universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c'era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva – di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell'insieme dell'università, era una convinzione indiscussa.

Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d'inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue.[1] Fu poi presumibilmente l'imperatore stesso ad annotare, durante l'assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non quelli del suo interlocutore persiano.[2] Il dialogo si estende su tutto l'ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull'immagine di Dio e dell'uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le – come si diceva – tre "Leggi" o tre "ordini di vita": Antico Testamento – Nuovo Testamento – Corano. Di ciò non intendo parlare ora in questa lezione; vorrei toccare solo un argomento – piuttosto marginale nella struttura dell’intero dialogo – che, nel contesto del tema "fede e ragione", mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema.

Nel settimo colloquio (διάλεξις – controversia) edito dal prof. Khoury, l'imperatore tocca il tema della jihād, della guerra santa. Sicuramente l'imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: "Nessuna costrizione nelle cose di fede". È probabilmente una delle sure del periodo iniziale, dice una parte degli esperti, in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l'imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il "Libro" e gli "increduli", egli, in modo sorprendentemente brusco, brusco al punto da essere per noi inaccettabile, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: "Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava".[3] L'imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell'anima. "Dio non si compiace del sangue - egli dice -, non agire secondo ragione, „σὺν λόγω”, è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell'anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un'anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte…"[4]

L'affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio.[5] L'editore, Theodore Khoury, commenta: per l'imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest'affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza.[6] In questo contesto Khoury cita un'opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazm si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l'uomo dovrebbe praticare anche l'idolatria.[7]

A questo punto si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: "In principio era il λόγος". È questa proprio la stessa parola che usa l'imperatore: Dio agisce „σὺν λόγω”, con logos. Logos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell'Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: "Passa in Macedonia e aiutaci!" (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una "condensazione" della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l'interrogarsi greco.

In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall'insieme delle divinità con molteplici nomi affermando soltanto il suo "Io sono", il suo essere, è, nei confronti del mito, una contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso.[8] Il processo iniziato presso il roveto raggiunge, all'interno dell'Antico Testamento, una nuova maturità durante l'esilio, dove il Dio d'Israele, ora privo della Terra e del culto, si annuncia come il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una semplice formula che prolunga la parola del roveto: "Io sono". Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sarebbero soltanto opera delle mani dell'uomo (cfr Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la forza l'adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l'epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell'Antico Testamento, realizzata in Alessandria – la "Settanta" –, è più di una semplice (da valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo.[9] Nel profondo, vi si tratta dell'incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall'intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire "con il logos" è contrario alla natura di Dio.

Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine, nei suoi successivi sviluppi, portò all'affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz'altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazm e potrebbero portare fino all'immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui – come dice il Concilio Lateranense IV nel 1215 –certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l'analogia e il suo linguaggio. Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l'amore, come dice Paolo, "sorpassa" la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l'amore del Dio-Logos, per cui il culto cristiano è, come dice ancora Paolo „λογικη λατρεία“ – un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).[10]

Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell'Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa.

Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della deellenizzazione del cristianesimo – una richiesta che dall'inizio dell'età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della deellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l'una dall'altra.[11]

La deellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati della Riforma del XVI secolo. Considerando la tradizione delle scuole teologiche, i riformatori si vedevano di fronte ad una sistematizzazione della fede condizionata totalmente dalla filosofia, di fronte cioè ad una determinazione della fede dall'esterno in forza di un modo di pensare che non derivava da essa. Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il sola Scriptura invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l'accesso al tutto della realtà.

La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della deellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento[12] e non intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei però tentare di mettere in luce almeno brevemente la novità che caratterizzava questa seconda onda di deellenizzazione rispetto alla prima. Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell'umanità. Gesù avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di Harnack è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso, l'esegesi storico-critica del Nuovo Testamento, nella sua visione, sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell'università: teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile nell'insieme dell'università. Nel sottofondo c'è l'autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo classico nelle "critiche" di Kant, nel frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali. Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla in breve, su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il successo tecnico ha confermato. Da una parte si presuppone la struttura matematica della materia, la sua per così dire razionalità intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla nella sua efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così dire, l'elemento platonico nel concetto moderno della natura. Dall'altra parte, si tratta della utilizzabilità funzionale della natura per i nostri scopi, dove solo la possibilità di controllare verità o falsità mediante l'esperimento fornisce la certezza decisiva. Il peso tra i due poli può, a seconda delle circostanze, stare più dall'una o più dall'altra parte. Un pensatore così strettamente positivista come J. Monod si è dichiarato convinto platonico.

Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra questione. Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercavano di avvicinarsi a questo canone della scientificità. Importante per le nostre riflessioni, comunque, è ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione.

Tornerò ancora su questo argomento. Per il momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina "scientifica", del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: se la scienza nel suo insieme è soltanto questo, allora è l'uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del "da dove" e del "verso dove", gli interrogativi della religione e dell'ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla "scienza" intesa in questo modo e devono essere spostati nell'ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la "coscienza" soggettiva diventa in definitiva l'unica istanza etica. In questo modo, però, l'ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell'ambito della discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l'umanità: lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione – patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell'ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un'etica partendo dalle regole dell'evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente.

Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della deellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.

Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. L’ethos della scientificità, del resto, è – Lei l’ha accennato, Magnifico Rettore – volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell'uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell'università e nel vasto dialogo delle scienze.

Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni – un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l'opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall'universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell'ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l'intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: "Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell'irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull'essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell'essere e subirebbe un grande danno".[13] L'occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all'ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. "Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio", ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all'interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell'università.





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[1] Dei complessivamente 26 colloqui (διάλεξις– Khoury traduce: controversia) del dialogo („Entretien“), Th. Khoury ha pubblicato la 7 ma „controversia“ con delle note e un'ampia introduzione sull'origine del testo, sulla tradizione manoscritta e sulla struttura del dialogo, insieme con brevi riassunti delle „controversie“ non edite; al testo greco è unita una traduzione francese: Manuel II Paléologue, Entretiens avec un Musulman. 7 e Controverse. Sources chrétiennes n. 115, Parigi 1966. Nel frattempo, Karl Förstel ha pubblicato nel Corpus Islamico-Christianum (Series Graeca. Redazione A. Th. Khoury – R. Glei) un'edizione commentata greco-tedesca del testo: Manuel II. Palaiologus, Dialoge mit einem Muslim, 3 volumi, Würzburg – Altenberge 1993 – 1996. Già nel 1966, E. Trapp aveva pubblicato il testo greco con una introduzione come vol. II dei „Wiener byzantinische Studien“. Citerò in seguito secondo Khoury.

[2] Sull'origine e sulla redazione del dialogo cfr Khoury pp. 22-29; ampi commenti a questo riguardo anche nelle edizioni di Förstel e Trapp.

[3] Controversia VII 2c: Khoury, pp. 142-143; Förstel, vol. I, VII. Dialog 1.5, pp. 240-241. Questa citazione, nel mondo musulmano, è stata presa purtroppo come espressione della mia posizione personale, suscitando così una comprensibile indignazione. Spero che il lettore del mio testo possa capire immediatamente che questa frase non esprime la mia valutazione personale di fronte al Corano, verso il quale ho il rispetto che è dovuto al libro sacro di una grande religione. Citando il testo dell'imperatore Manuele II intendevo unicamente evidenziare il rapporto essenziale tra fede e ragione. In questo punto sono d'accordo con Manuele II, senza però far mia la sua polemica.

[4] Controversia VII 3b – c: Khoury, pp. 144-145; Förstel Bd. I, VII. Dialog 1.6 pp. 240-243.

[5] Solamente per questa affermazione ho citato il dialogo tra Manuele e il suo interlocutore persiano. È in quest'affermazione che emerge il tema delle mie successive riflessioni.

[6] Cfr Khoury, op. cit., p. 144, nota 1.

[7] R. Arnaldez, Grammaire et théologie chez Ibn Hazm de Cordoue. Parigi 1956 p. 13; cfr Khoury p. 144. Il fatto che nella teologia del tardo Medioevo esistano posizioni paragonabili apparirà nell'ulteriore sviluppo del mio discorso.

[8] Per l'interpretazione ampiamente discussa dell'episodio del roveto ardente vorrei rimandare al mio libro "Einführung in das Christentum" (Monaco 1968), pp. 84-102. Penso che le mie affermazioni in quel libro, nonostante l'ulteriore sviluppo della discussione, restino tuttora valide.

[9] Cfr. A. Schenker, L’Écriture sainte subsiste en plusieurs formes canoniques simultanées, in: L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Atti del Simposio promosso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Città del Vaticano 2001, p. 178-186.

[10] Su questo argomento mi sono espresso più dettagliatamente nel mio libro "Der Geist der Liturgie. Eine Einführung", Friburgo 2000, pp. 38-42.

[11] Della vasta letteratura sul tema della deellenizzazione vorrei menzionare innanzitutto: A Grillmeier, Hellenisierung – Judaisierung des Christentums als Deuteprinzipien der Geschichte des kirchlichen Dogmas, in: Id., Mit ihm und in ihm. Christologische Forschungen und Perspektiven. Freiburg 1975 pp. 423-488.

[12] Nuovamente pubblicata e commentata da Heino Sonnemanns: Joseph Ratzinger – Benedikt XVI., Der Gott des Glaubens und der Gott der Philosophen. Ein Beitrag zum Problem der theologia naturalis. Johannes-Verlag Leutesdorf, 2. ergänzte Auflage 2005.

[13] 90 c-d. Per questo testo cfr anche R. Guardini, Der Tod des Sokrates. Mainz-Paderborn 19875, pp. 218-221.



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Fonte:  https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2006/september/documents/hf_ben-xvi_spe_20060912_university-regensburg.html

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