lunedì 16 giugno 2025

Alcune linee di Ontologia Trinitaria, di Szymon Krzysztof Ciecko

ALCUNE LINEE DI ONTOLOGIA TRINITARIA

SZYMON KRZYSZTOF CIEćKO



Riassunto. L’articolo presenta la storia di un concetto chiamato ontologia trinitaria. L’autore descrive come emerge questa idea nel pensiero di stampo cristiano, partendo dalle intuizioni di Sant’Agostino. Avendo analizzato il concetto di persona riferito tanto a Dio quanto all’uomo, si è presentato un testo di un teologo tedesco, Klaus Hemmerle, da cui ha preso le mossa la ricerca contemporanea in proposito. Di seguito, si è analizzato i testi scelti di Piero Coda, in cui lui si occupa di un’ontologia trinitaria.



INTRODUZIONE

Ontologia trinitaria deriva dalla teologia trinitaria e, partendo dalla rivelazione neotestamentaria, sviluppa, in modi diversi nelle diverse epoche, una linea di pensiero ontologico.1
Se per ontologia trinitaria intendiamo il contemplare il rifesso del mistero della Trinità nel creato, allora possiamo affermare che essa, in un certo senso, è sempre stata.
È opportuno affrontare questo discorso e quindi questo articolo vuole offrire ciò per presentare un riassunto del contemporaneo pensiero italiano alla comunità scientifica polacca affinché essa ne prenda le mosse per contribuire alla ricerca di quel genere.
Il testo presenterà in un primo momento alcune nozioni storiche, evidenziando come un concetto di un’ontologia trinitaria si faceva presente nel pensiero cristiano. Poi, si discuterà il contenuto di un libro di Klaus Hemmerle intitolato Tesi di un’ontologia trinitaria in quanto esso sia, in un certo senso, il punto di partenza dell’idea odierna del concetto analizzato. Infine, saranno evidenziati i fili conduttori provenienti dall’Italia soprattutto dalla scuola costruitasi attorno alle intuizioni di Chiara Lubich.


1. STORIA E FONTI DEL CONCETTO

In Agostino d’Ippona si trova teorizzata la presenza analogica della Trinità nell’uomo,2 particolarmente nella sua componente spirituale:3 in essa, infatti, l’essere, il conoscere e il volere sono intimamente connessi, pur nella loro diversità, e richiamano rispettivamente il Padre, il Figlio e lo Spirito.4

L’argomento è approfondito successivamente ne La Trinità,5 in cui il santo aveva rivisitato in modo piuttosto originale le categorie del pensiero greco, avendo avviato un cambiamento sostanziale in campo trinitario, di cui oggi si gode i frutti: ancorandosi alla Scrittura, infatti, Sant’Agostino poteva pensare l’essere di Dio come Amore, senza per questo abbandonare il rigore del procedere razionale.

La verità fondamentale, per lui, è che “Dio è senza dubbio sostanza o, se il termine è più proprio, essenza, che i greci chiamano ousia […] dal verbo esse si è fatto derivare essentia”.6

Quindi, dopo aver dimostrato la perfetta identità delle persone divine a livello di essenza 7 e di perfezioni assolute, 8 Agostino concludeva che la distinzione fra loro deve essere cercata altrove e cioè nella categoria della relazione, dove quest’ultima non ha lo stesso contenuto dell’accidente aristotelico, ma si riferisce all’essere di Dio in modo sostanziale: si afferma l’unità dell’essenza e la distinzione dei Tre. 9

In altri termini Agostino ha osservato che se si parla in Dio di Padre, Figlio e Spirito, ciò vuol dire che in lui vi sono delle relazioni – paternità, figliazione e donazione 10 – e che queste relazioni non significano tanto diversità, quanto distinzione. 11

In Dio, tutto è sostanziale, pertanto queste relazioni non possono essere accidenti: dal momento che sfuggono alla temporalità e perciò alla mutazione, sono eterne. 12

Ne La Città di Dio, il santo d’Ippona afferma ancora una volta che “il Padre ha certamente il Figlio ma non egli è il Figlio, il Figlio ha il Padre ma non egli è il Padre.

Dunque in base agli attributi che si dicono in senso assoluto e non relativo, in Dio si identifcano essere e avere”. 13

Il teologo d’Ippona, introducendo la categoria della relazione ad invicem in un contesto trinitario, presenta quindi lo Spirito Santo come intratrinitario Amor Patris et Filii, l’Amore tra l’Amante e l’Amato: Amor et dilectio, che permetterà di contemplare le relazioni trinitarie nella reciprocità, come amore dato e ricambiato. 14

Malgrado i Padri della Chiesa si sforzassero di spiegare l’evento di Cristo alla luce dell’unità divina, si avvertiva l’insufficienza dell’ontologia da loro adoperata, 15 e questo vale anche per Agostino, a proposito della riflessione sul concetto di persona, 16 a cui non si può non dedicare almeno un accenno in questo articolo perché un’ontologia trinitaria vuole spiegare la realtà a partire dall’unitrinità di Dio 17 e questo è sempre riferito alla nozione della persona. 18

Il termine ipostasi o persona vuole precisare che il Figlio e lo Spirito Santo non sono né qualcosa di increato né degli esseri intermedi, della cui presenza ci si trova nel giudaismo vetero- e intertestamentario, 19 né attributi di Dio o modi di rivelazione dell’unico Dio.

Nel IV secolo, i cosiddetti Padri Cappadoci sono i primi a riflettere sulle ipostasi di Dio in modo sistematico e, con il concetto di ipostasi, tutti e tre vogliono sottolineare ciò che differenzia una realtà da un’altra. 20

D’altro canto, con la sua formula tres personae – una substantia 21 è Tertulliano il primo teologo ad utilizzare il termine persona nell’ambito della teologia trinitaria, distinguendo la persona, che indica la differenza – in quanto manifesta qualcosa di individuale, dotato di caratteristiche peculiari e per cui in Dio vi è distinto e caratteristico –, dalla sostanza, che denota ciò che è comune. 22

Per quanto riguarda il magistero agostiniano, 23 il termine persona costituisce “un nome generico, tanto che lo si può applicare anche all’uomo, sebbene sia così grande la distanza tra l’uomo e Dio”, 24 e il suo impiego nel discorso sulla Trinità è indispensabile, in quanto ci permette di distinguere il piano dell’essenza divina ed il piano della sua sussistenza (hypóstasis) relazionale.25

In altre parole, Sant’Agostino, nell’elaborare la dottrina trinitaria, pone in stretto rapporto il termine “persona” e quello di “relazione”, in quanto il primo indica appunto la relazione del Padre, del Figlio e dello Spirito.26

L’autore di De civitate Dei, tuttavia, non offre una vera e propria definizione della persona, che, invece, darà Severino Boezio, come naturae rationalis individua substantia.27

Il discorso boeziano prende avvio da una preoccupazione teologica: confutare le eresie cristologiche, avanzate da Eutiche e Nestorio. Quest’ultimo negava l’unità del Cristo, affermando che vi sarebbero due persone in lui. Boezio precisa che in Cristo vi è una duplice natura, una divina e una umana, ma non una duplice persona, ponendo allo stesso tempo le basi della futura riflessione antropologico-personalista di stampo cristiano: la persona è tale in quanto dotata di una natura razionale, ma soprattutto in quanto sostanza individuale.28

Alla ricerca trinitaria agostiniana, si rifarà San Tommaso d’Aquino, che trova in questo modo buone premesse per condurre la teologia sul versante ontologico e penetrare il mistero trinitario con un pensiero fortemente metafisico. L’Aquinate spiega che la paternità, la figliazione e la spirazione passiva sono tre relazioni sussistenti29 e quindi sono le tre “persone” o ipostasi divine.30

Le tre persone divine hanno anche nomi propri:31
la prima si chiama Padre, in quanto genera il Figlio; ingenito, perché non deriva da nessuno; principio, perché da lui derivano il Figlio e lo Spirito Santo.32
La seconda persona si chiama Figlio, in quanto viene generata dal Padre; verbo, perché è termine del pensiero divino; immagine, perché riproduce sostanzialmente il Padre.33
La terza, invece, si chiama Amore, in quanto termine della volizione; Dono, perché in essa Dio si dà; Spirito, perché va spirata dal Padre e dal Figlio.34

Per Tommaso, il termine “persona”, riferito alla Trinità, indica relazione,35 mentre, attribuito all’essere umano, significa individualità.36

Date queste permesse generali, possiamo approfondire l’indagine, anche perché, come sottolinea A. Clemenzia, in realtà il contributo degli autori citati, e di tanti altri, va ben oltre il desiderio iniziale del semplice contemplare il rifesso del mistero del Dio Uno e Trino nella creazione.37



2. TESI DI ONTOLOGIA TRINITARIA DI K. HEMMERLE E IL SUO IMPATTO ALLA RICERCA CONTEMPORANEA

Si può partire da uno scritto di Klaus Hemmerle, intitolato Tesi di ontologia trinitaria,38 dove “il tema dell’ontologia trinitaria viene riproposto in forma programmatica”.39

Hemmerle afferma che la teologia ha bisogno di un’ontologia, mostrando come, in sua assenza, si riduca in qualcosa di altro: nella storia delle religioni,40 nell’antropologia,41 nell’etica,42 nella testimonianza di fede.43

D’altro canto, non solo la teologia necessita di un’ontologia, ma anche la filosofa, che, pur potendo limitarsi alla filosofa della scienza, alla logica, all’etica della vita personale o sociale, deve giustificare i motivi di questa scelta, che, appunto, “pervengono però inevitabilmente all’ambito dell’ontologia”,44 poiché anche “chi sostiene che la domanda sull’essere non ha senso, ha già compiuto una scelta preliminare sul senso dell’essere”.45 Affermando l’inevitabilità del ritorno dei due saperi all’ontologia,

K. Hemmerle invita filosofi e teologi ad elaborare, in una relazione di interscambio – giustificata storicamente, perché, come nota l’autore delle Tesi, “nel corso della storia spesso, anzi fondamentalmente sempre, la teologia si è rifatta, per formulare il proprio specifico, a scelte preliminari e precomprensioni ontologiche proprie del pensiero coevo oppure ricevute in eredità”;46 d’altronde, anche la teologia ha spinto gli studiosi ad assegnare a questi concetti filosofici un’importanza di gran lunga maggiore, rispetto al passato,47 favorendo la nascita di una “nuova ontologia”, fondata sullo specifico della fede in Gesù Cristo: l’“evento trinitario”.48

Occorre dunque domandarsi: “in che modo si trasformano dal di dentro le esperienze e le concezioni fondamentali che l’uomo ha di Dio, del mondo e dell’uomo, quando vi irrompe la fede in Gesù Cristo?”.49

Dal momento che Dio ha donato il suo Figlio, obbediente fino alla morte, il nostro essere è chiamato ad una conversione, che consiste nel “credere all’amore”, spostando il baricentro da sé verso l’A/altro.50

L’agápe – compresa come dono di sé, come essere-per l’altro – è il “ritmo” dell’essere di Dio, che si rivela all’uomo in Gesù Cristo, che dona se stesso sulla croce; un “ritmo”, al quale occorre aderire, per ritrovare le origini e il senso del proprio essere.51

Qui appaiono i concetti fondamentali per costruire, anzi per riscoprire una nuova ontologia: l’agápe e il darsi, i cui approcci sono quelli dall’accadere, dal compiersi.52

Un’ontologia trinitaria propone di attribuire un nome al Dio Uno-Trino, quello di amore, come ciò che si dona e si comunica, nella relazione che non obbliga, ma, al contrario, lascia libero ogni ente di rispondere, accogliendo o meno il dono.53

Il teologo tedesco nota che la novità di quella ontologia consiste nel fatto che essa prende le mosse dal mistero di Dio Trino 54 e che quel mistero altro non è che l’amore; anzi, l’amore che si dona, tramite Gesù Cristo,55 che da una parte rivela il Padre, mentre, dall’altra, è da lui glorifcato.56

“Ma fondare l’ontologia in chiave trinitaria rappresentava, per Hemmerle, un’esigenza legata non solo al rinnovamento della filosofia e della teologia, ma anche della società. Egli, infatti, era del tutto persuaso che, se è vero che oggi, come forse mai in precedenza, la fallacia del pensiero, la caducità dell’essere, la problematicità del soggetto, l’assenza di Dio, i pericoli che minacciano la libertà e il senso sono diventati pane quotidiano, è altrettanto vero che l’ontologia trinitaria – se recepita come invito a una nuova prassi di vita – potrebbe sollecitare a una ‘nuova società’ fondata sul «modello trinitario»”.57

Detto questo, per prima cosa si può affermare che un’ontologia trinitaria sarà quel novum, attraverso il quale si vuole cogliere il significato dell’ente. Essa parte dall’analisi dell’amore reciproco delle persone divine, rivelato nell’evento di Gesù Cristo, visto come dono.

Detto ciò si va ad accennare allo sviluppo che questo concetto ha ricevuto in Italia, dove un’ontologia trinitaria è stata portata avanti, in modo particolare, da Piero Coda.58

Tuttavia, a questo proposito, non si può non partire da Bruno Forte, che sin dall’inizio della sua attività teologica mostra di essere profondamente convinto dell’importanza di pensare l’universale e i particolari della verità rivelata “a partire dallo specifico cristiano della fede nel Dio trinitario”.59

Del resto, lui riconosce nel mistero pasquale “il centro dell’economia della salvezza, il luogo sempre vivo della dispensazione dell’amore trinitario per gli uomini”, perché è nella prospettiva pasquale-trinitaria che diviene possibile “tracciare le linee di un’ontologia trinitaria, intesa come la riflessione sull’essere degli enti sviluppata a partire dall’accadere originario e sempre nuovo, che è l’evento della donazione creatrice operata dalla Trinità e rivelata pienamente nella kenosi del Venerdì Santo e nella gloria di Pasqua: la Trinità si ofre come il mistero del mondo, la sua profondità ultima e originaria, la sua origine e il suo grembo trascendenti, che segnano di sé tutto ciò che esiste”.60

Parlando di ontologia trinitaria, non si può non riferirsi a Piero Coda, in quanto autore di Evento Pasquale. Trinità e storia. Elaborando la sua proposta di ontologia trinitaria, lui parte dalle intuizioni espresse nelle Tesi di Hemmerle, dimostrando, allo stesso tempo, una grande sensibilità per le idee e prospettive ontologico-trinitarie del pensiero di stampo protestante e ortodosso. Nel suo primo saggio: Evento Pasquale con il significativo sottotitolo Genesi, significato e interpretazione di una prospettiva emergente nella teologia contemporanea. Verso un progetto di ontologia trinitaria, lo studioso mette in evidenza l’emergente tendenza, in alcuni teologi, di affrontare il discorso in una prospettiva pasquale-trinitaria.61

Secondo Coda, è inevitabile incamminarsi verso un “progetto” di ontologia trinitaria (ontologia del mistero dell’essere come dischiuso dall’evento pasquale), grazie al quale sarebbe finalmente possibile articolare i tre fondamentali livelli del mistero cristiano – creazione, evento pasquale,62 mistero trascendente della Trinità – e prevedere, di conseguenza, un’ analogia entis all’interno dell’analogia fidei,63 ovvero un’analogia creationis,64 un’analogia crucis 65 e un’analogia amoris ovvero analogia Trinitatis.66

L’intenzione del teologo italiano è innanzitutto quella di mettere in luce ciò che nelle Tesi di Hemmerle è stato annunciato, ma non molto approfondito dal punto di vista teologico: l’assoluta centralità e inevitabilità della realtà di Cristo crocifisso e abbandonato, perché in e da lui viene assunta e redenta ogni realtà dell’essere creaturale, persino la negazione esistenziale della vocazione della creaturalità (trascendersi in Dio), compiuta dalla libera decisione dell’uomo stesso.67

Cristo, sulla croce e nell’abbandono, sperimenta come uomo-Dio le conseguenze di questo rifiuto, “ma ne fa come Dio-uomo l’analogia reale e strumentale del dono-di-Sé al Padre, e del dono agli uomini della relazione che lo unisce e lo distingue al e dal Padre: lo Spirito Santo”. 

“In tal modo – continua a spiegare P. Coda –, Cristo crocifisso e risorto non solo ri-dona all’uomo la relazione col Padre, ma gli dona il compimento della vocazione di questa relazione: la vita nello Spirito (pericoresi teandrica come partecipazione alla pericoresi trinitaria). In essa, l’interpersonalità ecclesiale diventa, per grazia, analogia reale della Trinità, in seno alla Trinità, e segno e strumento (sacramento) nella storia della partecipazione universale e cosmica a questa vocazione escatologica, fino a che «Dio sarà tutto in tutti»”.68

Coda ritorna a parlare di ontologia trinitaria in vari altri interventi, sottolineando la centralità del concetto del “non-essere” e affermando che il pensiero metafisico classico lo adopera in due direzioni: assoluta, quando di una cosa si dice che essa non è, e relativa, che dichiara che una cosa non è l’altra.69

Esiste, però, un altro modo per impiegare questo concetto. Nota, infatti, Coda che, “per affermare logicamente e ontologicamente, nel rigore del discorso teologico, la reale distinzione/alterità dei Tre nell’unica essenza divina”, sant’Agostino dice che “l’uno non è l’altro, essendo però ciascuno l’unico vero Dio”.70

Questa nozione del non-essere è chiamata il “non-essere relativo” e fa sì che le persone divine, allo stesso tempo, siano-Uno e siano-distinte. In questo senso, il ‘non-essere’ appare come “atto più profondo dell’essere delle divine Persone”. “Ogni divina Persona, proprio perché non è, è: perché non è sussistenza chiusa in sé, ma è sussistenza che è dono senza residui di sé (e dunque, in qualche maniera, rinunciando a sé, “non è”), proprio per questo è se stessa, è Persona divina nell’unità-distinzione con altre divine Persone, nella unità-unicità dell’Essere divino come Amore”.71

Di conseguenza, il “non-essere” nell’amore di Cristo - che introduce nel mistero del rapporto d’unità-nella-distinzione delle persone divine - permette di trovare la via d’accesso, per poter pensare il mistero della creazione e della divinizzazione delle persone create, ovvero il rapporto di unità e distinzione tra il Creatore e la creatura e, successivamente, anche il rapporto intersoggettivo.

Come Hemmerle, così anche Coda analizza attentamente il concetto dell’agápe, perché “la rivelazione cristiana dischiude l’orizzonte dell’essere come Agápe, e cioè come libero, gratuito, reciproco ed effusivo dono di sé. È questo il novum della rivelazione ebraica, che giunge a inaspettato compimento in Cristo. Lo dicono l’incarnazione del Figlio di Dio, la sua morte in croce e risurrezione, l’essere di Dio come Trinità, la creazione, la salvezza, ecc.”72

Secondo Coda, quindi, la filosofa e la teologia contemporanee si trovano di fronte all’esigenza di elaborare un’ontologia che sarà fondata sulla rivelazione cristiana e, quindi, che sarà capace di esprimere il più adeguatamente possibile l’ermeneutica pasquale e trinitaria del mistero cristiano.73

In questo senso, la categoria del “non-essere” (dono di sé) - introiettata nella comprensione dell’essere come condizione di possibilità della sua immanente struttura trinitaria – appare come il primo passo sulla via di una tale elaborazione.

Lasciando dunque nuovamente la parola a P. Coda, si può affermare che “il lemma «ontologia trinitaria» può essere preso in due sensi: uno più largo e uno più stretto. In senso largo, ontologia trinitaria designa ogni interpretazione della realtà che – esplicitamente o anche implicitamente – muova dal luogo entro cui l’evento di Gesù Cristo ci ha attirati. […] In questo senso – e ciò è senz’altro un tema da approfondire – un’ontologia trinitaria può costruire l’orizzonte interpretativo di riferimento, libero e plurale, di ogni interpretazione particolare della realtà messo in opera dai diversi saperi. […] C’è poi un signifcato più stretto ed epistemologicamente preciso di ‘ontologia trinitaria’, secondo cui questo lemma nomina quella specifica interpretazione dell’essere in quanto essere scaturisce dalla presa di coscienza formalmente istituita del luogo in cui Gesù ci ha attirati tenendo conto della sua rilevanza propriamente ontologica”.74

Volendo riassumere questi brevi pensieri, dobbiamo quindi dire che un’ontologia trinitaria vuole cogliere lo specifico della realtà alla luce dell’essere divino che si rivela in Gesù Cristo come l’unione delle tre persone e perciò come l’amore.75






Note:

1 Cfr. E. Iezzoni, Ontologia trinitaria: dal mistero della Rivelazione una sfida per la flosofia contemporanea, “Nuova Umanità” 170 (2007) 2, 187.
2 Cfr. L.F. Ladaria, Il Dio vivo e vero. Il mistero della Trinità, Ed. San Paolo, Milano 2012, 299–300.
3 Cfr. Gn 1, 26.
4 Cfr. Sant’Agostino d’Ippona, Confessionum, XIII, 11, 12 [trad. it. Le confessioni, NBA, Città Nuova, Roma 1965].
5 Cfr. Sant’Agostino d’Ippona, De Trinitate, X, 11, 17 – X, 12, 19 [trad. it. La Trinità, NBA, Città Nuova, Roma 1973]. D’ora in poi cit. come La Trinità. Cfr. anche P. Coda, Il De Trinitate di Agostino e la sua promessa, “Nuova Umanità” 140–141 (2002) 3–4, 219–248.
6 La Trinità, V, 2, 3.
7 Per approfondire argomento veda A. Clemenzia, In unum con-venire. L’unità ecclesiale in Agostino di Ippona, Città Nuova, Roma 2015, 123–135.
8 Cfr. La Trinità, VII, 1, 2.
9 Cfr. La Trinità, V, 5, 6. Cfr. anche L.F. Ladaria, La Trinità mistero di comunione, Ed. Paoline, Milano 2004, 95–96; P. Coda, Dalla Trinità. L’avvento di Dio tra storia e profezia, Città Nuova, Roma 2011, 378.
10 Lo Spirito Santo è chiamato nella Scrittura “dono di Dio” (cfr. Gv 4, 10; At 8, 20). Da questa permessa Sant’Agostino trae che anche nei riguardi allo Spirito possiamo parlare usando il concetto della relazione. Cfr. La Trinità, V, 11, 12. Cfr. anche P. Milano, Persona in teologia. Alle origini del signifcato di persona nel cristianesimo antico, Ed. Dehoniane, Napoli 1984, 301–302.
11 La Trinità, V, 5, 6. Ivi: “si parla a volte di Dio secondo la relazione; così il Padre dice relazione al Figlio e il Figlio al Padre, e questa relazione non è accidente, perché l’uno è sempre Padre, l’altro sempre Figlio” anche se “non è la stessa cosa esser Padre ed essere Figlio, tuttavia la sostanza non è diversa, perché questi appellativi non appartengono all’ordine della sostanza, ma della relazione; relazione che non è un accidente, perché è mutevole”. I due dati, uno dalla filosofia e pure dalla rivelazione veterotestamentaria, l’altro proveniente da quella nuovo testamentaria, sono qui accolti in modo tale che l’unità di colui che è non è infranta dall’alterità di Padre, di Figlio e di Spirito la quale non dice altro che la non accidentale relazione dell’Uno all’Altro che sempre sono coloro che sono.; P. Sguazzardo, Sant’Agostino e la teologia trinitaria del XX secolo. Ricerca storico-ermeneutica e prospettive speculative, Città Nuova, Roma 2006, 512; P. Sguazzardo, Unità e trinità in Dio secondo Agostino d’Ippona, “Path” 11 (2012) 2, 327–346.
12 Cfr. La Trinità, V, 4, 5. “La sostanza dice esse ad se, mentre la relazione dice esse ad aliud. La relazione non può dunque ridursi alla sostanza. In Dio si distinguono delle perfezioni assolute che si riferiscono a se stesse e delle perfezioni che si riferiscono ad alium: le prime sono comuni, le seconde stabiliscono le distinzioni fra i Tre; quelle si predicano substantialiter; queste relative. Il Padre allora non si distingue dalla divinità, santità e così via, ma solo dal Figlio”. Milano, op. cit., 302.
13 Sant’Agostino d’Ippona, De civitate Dei, XI, 10, 1 [trad. it. Città di Dio, NBA, Città Nuova, Roma 1988]. Sottolineatura mia. Questo principio sarà riformulato dal Concilio di Firenze (1442), che dogmatizzerà che in Dio omniaque sunt unum, ubi non obviat relationis oppositio. Bolla Cantate Domino sull’unione con i copti e gli etiopi (il 4 febbraio 1442), in Denz 1330.
14 Cfr. La Trinità, VIII, 10, 14. Per un approfondimento veda: Clemenzia, op. cit., 158–165.
15 Cfr. P. Coda, L’altro di Dio. Rivelazione e kenosi in Siergiej Bulgakov, Città Nuova, Roma 1998, 87–89.
16 Per un accenno sull’etimologia del lemma veda M.J. Farrelly, The Trinity. Rediscovering the Central Christian Mytery, Rowman&Littlefeld Publisher 2005, 219–224.
17 Cfr. A. Clemenzia, Ontología y razón trinitaria, “Isidorianum” 22 (2013) 44, 384. Cfr. anche Id., op. cit., 71–72.
18 “Il concetto e la specifca comprensione di persona trovano la propria origine nella teologia cristiana, in particolare nel suo sforzo di denominazione dal punto di vista del linguaggio e di cogliere concettualmente due misteri centrali della fede: in primo luogo la realtà di Gesù Cristo, così come risulta costituita dall’interagire e dal mutuo rapportarsi dell’essere-uomo ed essere-Dio […] e in secondo luogo – soprattutto – la realtà della rivelazione cristiana, che si mostra nella ‘tensione’ tra essere-uno ed essere-tre, tra unità e diversità”. G. Greshake, Il Dio Unitrino. Teologia trinitaria, Queriniana, Brescia 2000, 79.
19 Per approfondire veda: P. Gamberini, Un Dio relazione. Breve manuale di dottrina trinitaria, Città Nuova, Roma 2007, 27–33. Cfr. anche Ladaria, Il Dio..., op. cit., 263–280; B. Sesboüé, Il mistero della Trinità: Rifessione speculativa ed elaborazione del linguaggio. Il “Filioque”. Le relazioni trinitarie, in: B. Sesboüé, J. Wolinski (edd.), Storia dei dogmi, vol. 1: Il Dio della salvezza, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1996, 263–268.
20 Gamberini, op. cit., 44.
21 Tertulliano, Adversus Praxeam, PL 2, 180.
22 Cfr. Gamberini, op. cit., 44–45.
23 Nonostante le sue obiezioni verso il termine “persona”, il santo d’Ippona lo adopera perché nell’epoca della composizione di De Trinitate esso era già entrato nel linguaggio ufficiale della Chiesa all’interno della professione di fede del I Concilio di Costantinopoli.
24 La Trinità, V, 6.
25 Cfr. Farrelly, op. cit., 225.
26 Cfr. Gamberini, op. cit., 45; Ladaria, Il Dio..., op. cit., 309–314. Per un approfondimento veda Clemenzia, op. cit., 136–158.
27 Boethius, Liber de persona et duabus naturis contra Eutychem et Nestorium, III (PL 64, 1343).
28 Cfr. E. Simonotti, La persona: individualità e relazione. Itinerari dell’umanesimo cristiano, “Sapienza” 58 (2005) 4, 401.
29 Per un approfondimento veda Ladaria, Il Dio..., op. cit., 322–327; Sesboüé, op. cit., 282–287.
30 Cfr. STh I q. 29, a. 4. Qui il Dottor Angelico fa presente che “persona” indica individualità, quando si predica dell’essere umano (“la persona in generale, come si è detto, significa una sostanza individua di natura ragionevole”), mentre quando se la riferisce all’essere del Dio-Trinità essa indica relazione: “la persona divina significa una relazione come sussistente”.
31 “Il nome proprio di una persona significa ciò che la distingue da tutte le altre”. STh I, q. 33, a. 2.
32 STh I, q. 33.
33 STh I, qq. 34–35.
34 STh I, qq. 37–38. Qui il Dottor Angelico afferma che l’amore come tale è una caratteristica che riguarda Dio nella sua essenza e perciò tutte e tre le persone divine. Distinguendo fra amore essenziale che si riferisce alle persone ed alla loro unità, ed amore personale o nozionale, quest’ultimo lo attribuisce allo Spirito Santo.
35 Cfr. STh I, q. 14, a. 2, ad 1.
36 Per approfondimento veda G. Bertuzzi, Natura e persona in San Tommaso, a proposito della personalità ontologica di Cristo, “Divus Thomas” 115 (2012) 1, 90–118.
37 Clemenzia, art. cit., 385, nota 9.
38 K. Hemmerle, Tesi di ontologia trinitaria. Per un rinnovamento del pensiero cristiano, Città Nuova, Roma 1996.
39 L. Žák, Permessa: Verso una ontologia trinitaria, in L. Žák, P. Coda (edd.), Abitando la Trinità. Per un rinnovamento dell’ontologia, Città Nuova, Roma 1998, 11.
40 Hemmerle, op. cit., 26–27.
41 Ibidem, 27.
42 Ibidem
43 Ibidem, 27–28.
44 A. Frick, Le Tesi di ontologia trinitaria di K. Hemmerle. Un nuovo inizio, in P. Coda, A. Tapken (edd.), La Trinità e il pensare. Figure percorsi prospettive, Città Nuova, Roma 1997, 286.
45 Hemmerle, Tesi, 28.
46 Ibidem, 29.
47 Ibidem
48 Ibidem, 39. Per approfondire questo aspetto veda Iezzoni, art. cit., 196–208.
49 Hemmerle, op. cit., 39.
50 Cfr. ibidem, 50.
51 Cfr. Žák, op. cit., 12.
52 Cfr. Hemmerle, op. cit., 51.
53 Cfr. Iezzoni, op. cit., 191.
54 Cfr. Frick, op. cit., 289.
55 Cfr. Hemmerle, op. cit., 65–66.
56 Cfr. ibidem, 69.
57 Žák, op. cit., 12.
58 Una prova di condurre il discorso entro orizzonte di un’ontologia trinitaria è stata adoperata da M.F. Sciacca, nel suo Ontologia triadica e trinitaria. Discorso metafisico teologico, Marzorati, Milano 1976.
59 B. Forte, Trinità come storia, Ed. Paoline, Milano 1988, 14.
60 B. Forte, Teologia della storia. Saggio sulla rivelazione, l’inizio e il compimento, Ed. Paoline, Milano 1991, 267.
61 Cfr. P. Coda, Gesù Crocifisso e abbandonato e la Trinità. III. Analogia del Cristo e dello Spirito, “Nuova Umanità” 28–29 (1983), 31–80.
62 Cfr. P. Coda, Gesù Crocifisso e abbandonato e la Trinità. IV. Analogia Trinitatis, “Nuova Umanità” 32 (1984), 60.
63 Cfr. ibidem, 79.
64 “L’essere creato personale è posto in essere come imago del Padre nel Verbo per poi essere assunto dal Verbo stesso come sua propria espressione nel mistero dell’Incarnazione”. Ibidem
65 “L’essere personale creato è condotto nella libertà dal Verbo incarnato a ‘perdersi’ sulla Croce nella sua autonomia creaturale assolutisticamente intesa, ed anche a ‘convertire’ la dinamica della sua stessa libertà che nel peccato si pone contro Dio – e qui si collocherebbe la giusta esigenza di una dialettica negativa centrata sulla Croce, come momento interiore dell’affermazione analogica”. Ibidem
66 “L’essere personale creato, che si è perso con e in Cristo crocifisso e abbandonato, ‘si ritrova’ con Lui e in Lui per lo Spirito Santo nella koinonía trinitaria della risurrezione e della trasfgurazione ecclesiale – e questo è il livello dove possono risultare preziosi gli sviluppi della teologia orientale”. Ibidem
67 Cfr. P. Coda, Il Cristo Crocifsso e Abbandonato redenzione della libertà e nuova creazione, “Nuova Umanità” 105–106 (1996) 3–4, 365–400. Cfr. anche P. Coda, Evento Pasquale. Trinità e Storia. Genesi, signifcato e interpretazione di una prospettiva emergente nella teologia contemporanea. Verso un progetto di ontologia trinitaria, Città Nuova, Roma 1984, 161.
68 P. Coda, Evento Pasquale, 177.
69 P. Coda, Postilla sulla semantica del “non-essere” in teologia, in: P. Coda, J. Tremblay, A. Clemenzia (edd.), Il nulla-tutto dell’Amore. La teologia come sapienza del Crocifisso, Città Nuova, Roma 2013, 201. È possibile parlare anche di non-essere come “negazione, a livello esistenziale, della relazione ontologica di creaturalità che lega la persona a Dio nella libertà (= negazione «negativa»): questa negazione ha come frutto un non-essere perché nega ciò che è l’essere della persona creata (la costitutiva relazionalità a Dio). Ma, abbiamo notato, questa negazione è possibile perché la libertà è in radice la possibilità che la persona è di negar-si (negazione «positiva») come immanenza autosufficiente, per trascendersi in Dio – attuando così il suo essere come atto di relazione a Lui. La negazione esistenziale della creaturalità è dunque, per così dire, negazione (negativa) della negazione (positiva)”. P. Coda, Gesù Crocifisso e abbandonato e la Trinità. II. Creazione Croce Trinità: Una permessa sull’analogia, “Nuova Umanità” 24–25 (1982–1983), 45, nota 33.
70 P. Coda, L’unità e la Trinità di Dio nel ritmo di un’ontologia trinitaria, “Sophia: Ricerche su i fondamenti e la correlazione dei saperi” 2 (2010) 2, 178.
71 P. Coda, Il negativo e la Trinità. Ipotesi su Hegel, Città Nuova, Roma 1987, 402.
72 Coda, Dalla Trinità..., op. cit., 559.
73 Cfr. P. Coda, Il negativo..., op. cit., 414.
74 P. Coda, L’ontologia trinitaria: che cos’è?, “Sophia: Ricerche su i fondamenti e la correlazione dei saperi” 4(2012)2, 165. Cfr. anche P. Coda, Trinità: 2. L’ontologia trinitaria, in: J.-Y. Lacoste (ed.), Dizionario critico di Teologia, Borla-Città Nuova, Roma 2005, 1412–1415; L. Žák, Unità di Dio: quaestio princeps dell’ontologia trinitaria, “Path” 11(2012)2, 442.
75 Dio in Gesù di Nazaret si è fatto uomo ed in questo atto si è rivelato un Dio in tre persone e questa auto-rivelazione comporta la redenzione del mondo. Come giustamente sottolinea Clemenzia: “l’ ‘ontologia’ considera l’essere, anzi, il dinamismo che caratterizza tutto ciò che ‘è’, al di là di una sua possibile funzionalità. ‘Trinitaria’, invece, proprio perché non funge da sostantivo, ma da aggettivo, è in qualche modo la qualificazione di ciò di cui si sta parlando (nel nostro caso l’ontologia). ‘Trinitaria’, in particolare, allude alla prospettiva da cui si osserva, e dunque al luogo da cui si guarda una particolare realtà”. Clemenzia, op. cit., 69–70.



BIBLIOGRAFIA

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UNIWERSYTET KARDYNAłA STEFANA WYSZYńSKIEGO W WARSZAWIE
SZ.CIECKO@UKSW.EDU.PL
ORCID 0000-0002-5046-7085
DOI: http://dx.doi.org/10.12775/TiCz.2020.002

domenica 15 giugno 2025

La gloria di Dio è l'uomo vivente, di Giuseppe Dovigo


La gloria di Dio è l'uomo vivente 
(Gv 13, 31-33; A. 34-35)

di Giuseppe Dovigo




Restiamo umani

Il Vangelo (Gv 13, 31-35) di oggi fa parte del discorso di Gesù dell'ultima cena, quando egli rivela ai dodici che uno di loro lo tradirà e quando egli sente nel cuore tutta la pesantezza della morte vicina.
Gli Apostoli alla notizia del tradimento si consultano a vicenda. Giovanni, piegandosi verso Gesù, gli domanda: "Signore, chi è?". Gesù risponde con un semplice gesto: intinge un pezzo di pane e lo offre a Giuda, come segno di gentilezza e di amicizia. Il traditore, ricevuto il boccone, “esce” dalla sala della cena e si immerge nelle tenebre della notte per attuare il progetto oscuro del tradimento.


La gloria

In questo momento Gesù esulta: "Ora il figlio dell'uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui". L’affermazione è paradossale, poiché dice queste parole quando Giuda lo tradisce e quando è nella tristezza. Ma non esagera, poiché già vede la realizzazione del progetto del Padre e guarda al di là del presente. Sa che la sua morte non sarà la fine di tutto ma il sigillo della sua rivelazione e della sua glorificazione.
La parola gloria a noi richiama i personaggi famosi nel mondo di oggi e della televisione. Quelli acclamati dalla gente come i cantanti che vincono il festival di Sanremo, i giocatori che arrivano primi nel campionato di calcio, le stelle del cinema, i decorati dei premi Nobel… Ed è giusto che sia così, poiché si distinguono nello sport, nell’arte, nelle scienze, nel cercare il bene dell’umanità…


La gloria di Gesù

Ma la gloria di cui parla Gesù ha un significato più profondo. È la manifestazione del suo amore. È la gloria nell'adempiere fedelmente fino in fondo la sua missione per la quale è venuto nel mondo. È la gloria della rispettabilità di Dio che appare in tutto il suo splendore e in tutta la sua forza nel dono di Gesù sulla Croce. Le sue promesse di fedeltà e di amore non sono prive di significato, ma realizzazione concreta nella persona e opera di Gesù.
Che cosa è più splendido, più sorprendente e più affascinante della grandezza divina di farsi uomo e di donarsi per liberare gli uomini dal male? Dio manifesta realmente il suo potere, la sua santità e la sua gloria. 
San Ireneo dice: "La gloria di Dio è l'uomo vivente".


Noi sulle orme della gloria di Gesù.

Se la gloria di Gesù consiste nel manifestare un amore senza misura, la nostra vera gloria è di fare altrettanto.
La nostra gloria sarà quella di praticare un amore sano, luminoso, concreto, umile, oblativo, fecondo, rispettoso.
La nostra gloria sarà nel poter dimostrare azioni d’amore (cfr. Mt 25), invece di passare la vita ad elemosinare applausi di poca durata.
La nostra vera gloria sarà di condividere la gloria di Dio, quando Dio emerge nella nostra vita autentica con la condivisone del suo amore.
Alla fine del breve brano del vangelo di oggi, Gesù ci dà un comandamento per dire quello che è il più importante e nello stesso tempo per indicarci la via della gloria: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni e gli altri".
Giovanni nel suo racconto della passione prende una iniziativa particolare. Omette la descrizione dell’ultima cena per sostituirla con la lavanda dei piedi, quasi per dire che la liturgia dell’Eucaristia è falsa se non è seguita dal servizio ai fratelli più fragili…


Un esempio di vera gloria

È morto recentemente Jean Vanier (7 maggio) a 90 anni. Figlio del governatore generale del Canada e cresciuto in Europa, nel 1964 avvertì il bisogno di spogliarsi di ogni gloria e di ogni eredità. Si stabilì in una casetta di campagna nel nord di Parigi. Decise di condividere tutto con Raphael e Philippe, due giovani con deficienze mentali e diede inizio a una grande opera. Per oltre mezzo secolo, soprattutto al fianco dei suoi «amici» con disabilità mentali, Jean Vanier, fu fondatore dell’Arca, che oggi conta 154 comunità in una quarantina di Paesi, Italia compresa, con circa 10mila membri. Hanno detto di lui che «Ha abbracciato un intero popolo di anime arse dalla sete d’amore, spesso riscattate dai margini della società e che ha restituito dignità ai più fragili.”


Per uscire da una crisi morale che precede molto prima di quella politica, oggi parliamo molto sulla necessità di ‘restare umani’, di mettere l’umanità al centro e di agire ‘nel nome dell’umanità’…. Noi come discepoli di Gesù abbiamo la nostra carta d’identità come segno distintivo, non la partecipazione esterna di religiosità, ma semplicemente e soprattutto l’amore fraterno. “Da questo sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri”.
Se vogliamo cambiare qualcosa, prima dobbiamo cambiare noi. Per ritrovare Ninive, il cielo nuovo e la terra nuova, si deve convertire Giona… Convertiamoci quindi noi all’accoglienza del diverso, alla solidarietà, alla fraternità per trovare la civiltà dell’amore.




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sabato 14 giugno 2025

Cosa significa lodare e rendere grazie a Dio, di padre Giuseppe Ferri


COSA SIGNIFICA LODARE E RENDERE GRAZIE A DIO

di padre Giuseppe Ferri - fondatore Opera di Maria Vergine e Madre





In Apocalisse 5,13, san Giovanni ascolta l’inno di benedizione che “tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare” innalzano “a Colui che siede sul trono e all’Agnello” : “ lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli”. La lode è rivolta a Dio e all’Agnello, perché questi porta con Sé la nostra umanità che Dio, purissimo Spirito, ha assunto in Cristo rendendosi visibile. Gli stessi onore, lode, gloria, potenza e ricchezza vanno alla Divinità come alla santissima Umanità, divina ormai, di Nostro Signore Gesù Cristo. Onorare il Corpo, il Sangue, il Cuore di Gesù significa onorare Dio: chi onora il Figlio onora anche il Padre, chi onora il Padre onora il Figlio, affinché tutti onorino il Figlio così come onorano il Padre.
Ma cosa se ne fa Dio dell’onore, della ricchezza, della potenza e della gloria? Dio ha bisogno di queste cose? Cosa possiamo dare a Dio, che Egli non abbia già?

L’unica azione che possiamo compiere è riconoscere che Dio è degno di gloria e di onore e che la necessità è della creatura, non è del Creatore! Dio è necessitato a Sé stesso e non ha bisogno di vedere che noi Lo preghiamo, che noi Lo onoriamo e Lo glorifichiamo. È un Amore diffusivo, che si riflette nella creazione e nel compiacimento verso il Figlio suo, Alfa e Omega, Principio e Fine di tutte le cose. Dio crea per Amore. E un riflesso di questo amore ritorna a Lui, perché Dio si compiace della Sua creatura: Dio vide che ciò che aveva creato era buono e la bontà di Dio si riflette ormai nella creazione! Ecco perché Egli fece l’uomo a Sua immagine e a Sua somiglianza: perché si specchia nel Figlio suo, ma si specchia pure nella Creazione. Il riflesso, il riverbero della Sua onnipotenza creatrice è ciò che ritorna a Lui, perché è proprietà Sua! Per cui la creatura deve esclamare: “o Dio, cosa posso donare a Te, che Tu non me l’abbia già donato”? E allora, l’unica azione di lode che può compiere l’uomo è far ritornare il riflesso della bontà e della onnipotenza di Dio a Dio stesso.

Ma la libertà dell’uomo può in un certo qual modo, a causa del peccato, impedire che la gloria di Dio in lui (perché “ la gloria di Dio è l’uomo vivente”, come diceva sant’Ireneo) ritorni al Creatore.

Ma se anche Satana per un verso ostacola questo rendimento di grazia, il riflesso della gloria umana torna a Dio comunque secondo giustizia perché, come dice il Libro della Sapienza, la giustizia regna sovrana. Al di là, dunque, del mancato riflesso della bontà, della gloria, della potenza, della misericordia, il riverbero della gloria umana torna a Lui secondo giustizia. E allora, quando si dice: a Te la gloria, l’onore, la potenza, non si fa altro che manifestare questo ritorno, questo contemplarsi di Dio nel Figlio suo, attraverso il quale tutte le cose sono state create e tutte, ricreate nella Sua morte e risurrezione, fanno ritorno al Padre. E la formula in cui si riassume il dono che noi possiamo fare di noi stessi e della creazione a Dio è l’azione di ringraziamento per eccellenza, ossia l’Eucaristia, la cui etimologia rimanda al verbo greco eucharizein, che vuol dire appunto “rendere grazie”. E allora l’azione della Santa Messa, che intorno all’Eucaristia ruota, si configura come un “ritorno a Dio” della lode, dell’onore, della gloria e della potenza di cui parla l’Apocalisse. Quindi la vera gloria di Dio sta nel comportarci da figli di Dio, nell’innalzare a Lui la nostra mente, secondo quel percorso che San Bonaventura chiama “itinerario della mente a Dio” e che ci conduce a vedere tutte le cose che Dio ha fatte nella creazione con gli occhi stessi di Dio, fino a far trasparire in noi e nelle nostre azioni la gloria che il Signore ha riversato nel Suo creato. In questo modo possiamo capire che unico è il motivo per cui Dio ci ha creati: per conoscerLo, amarLo e servirLo, per darGli gloria su questa terra.
Da Lui veniamo e a Lui dobbiamo ritornare, risalendo un percorso discendente al cui vertice si colloca l’amore verso Dio, in cui consiste non a caso il primo dei Comandamenti. Infine, essere strumenti della gloria di Dio all’interno di una comunità religiosa, di un istituto secolare, significa riconsacrare la realtà e manifestarla nel suo significato divino, come opera di Dio: la scienza, le arti, quello che facciamo e quello che diciamo va ridimensionato con la Grazia e fatto risplendere dell’opera del Creatore e della Sua gloria, per restituire a Dio quello che è di Dio.
Viviamo dunque questa vocazione, unica nel suo genere, a riportare le cose al loro principio. E siccome in principio era il Verbo, riportiamo la realtà al Verbo di Dio, riportiamo a Dio l’universo, fino a far risplendere la gloria di Dio che è l’uomo vivente! Sforziamoci, allora, di recuperare in noi la originaria dignità dei figli di Dio, senza lasciarci tentare dagli allettamenti umani e dalle frivolezze mondane che ci distolgono dai veri beni spirituali, gli unici che ci arricchiscono e ci rivestono di virtù profondamente radicate nell’equilibrio interiore. E’ questa la meta alla quale dobbiamo tendere con ogni impegno. Allora non arrendiamoci, non lasciamoci cadere le braccia, non deleghiamo ad altre occasioni o ad altre persone quello che spetta a ciascuno di noi nel quadro di un’assidua, quotidiana preghiera non solo orante, ma anche praticante, perché quando noi pratichiamo ciò che preghiamo, allora sì che si dà veramente compimento all’opera di Dio!




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Fonte: https://mariaverginemadre.it/padre120.htm


 

OPERA DI MARIA VERGINE E MADRE (pia unione)
Nel cuore del fondatore padre Giuseppe Ferri, di Taranto, già c’erano i semi di questo futuro gruppo. Il suo desiderio di accogliere bambini e mamme abbandonate (nata dalla  visione del film “Marcellino pane e vino” e di un bassorilievo di una madre che eleva al cielo un bambino), si rinforzava di giorno in giorno. Durante gli studi teologici a Roma, il suo desiderio di evangelizzare la famiglia diventa più chiaro. Nel suo primo ministero pastorale a Gioia del Colle(Ba) comincerà a realizzare questo suo desiderio, finchè nel 1987 raccoglie intorno a sé un nucleo di ragazze a cui propone la consacrazione al servizio dell’evangelizzazione delle famiglie. Nel 1988 sarà accolto a Salerno, poi a Napoli e a Roma. L’Opera è composta di due rami: le consacrate/i (Apostoline del S. Rosario, consacrate laiche; gli Operai del Vangelo, consacrati laici e i Missionari della Famiglia, sacerdoti) e il secondo è formato da famiglie consacrate al Cuore Immacolato di Maria, che vivono la spiritualità dell’Opera. Il Carisma si vive : nella visita quotidiana alle famiglie per l’evangelizzazione, accoglienza medico-giuridica della maternità(infanzia, persone abbandonate e perseguitate),nel far scoprire l’indirizzo vocazionale ai giovani e nel riconciliare le famiglie in via di separazione. Naturalmente alla base, vi è la spiritualità mariana della Visitazione. Praticamente, le attività sono tante. Dalla visita quotidiana alle famiglie con preghiera e catechesi biblica alla formazione di famiglie evangelizzatrici, passando per una catena di solidarietà in cui ciascuno mette a disposizione i propri talenti. Da non dimenticare l’informazione sui metodi naturali per una procreazione responsabile. Poi il coltivare rispetto e carità con le famiglie in difficoltà. Potenziare in tutti i modi la cultura della vita e infine un giornalino di collegamento, radio, libri e lavori di artigianato (per autofinanziamento).  Sono presenti a Napoli, Salerno (città, Oliveto Citra e Battipaglia). In Diocesi di Salerno: sono attive nella visita alle famiglie, incontri con le Scuole sul tema della vita, convegni che riguardano la famiglia, giornate di sensibilizzazione nelle parrocchie e accoglienza di mamme e bambini in difficoltà. Tra i progetti futuri, vi è la costruzione del santuario di Maria Vergine e Madre e della Casa “Nozze di Cana” per riscoperta e consolidamento del sacramento nuziale.
Ogni informazione a :
sorella Elisabetta Bitetto (Moderatrice)  tel.0828995185
oppure a sorella Domenica – via Leucosia,113 – SALERNO  tel: 089335254
email: opera@mariaverginemadre.it

venerdì 13 giugno 2025

Come si può trovare il cielo sulla terra, di Santa Elisabetta della Trinità


Santa Elisabetta della Trinità

Come si può trovare il cielo sulla terra

Ritiro spirituale (luglio 1906)


Il breve scritto è strutturato come un ritiro di 10 giorni, con 2 orazioni (meditazioni) al giorno. Elisabetta lo scrisse per la sorella Margherita.
Consigliamo di seguire passo passo il testo non leggendolo d'un fiato ma rispettando la scansione in esso prevista. Il pensiero s'incentra sull'unione di Dio Trinità con l'anima, che tende a diventare sempre più intima e totale.



Primo Giorno

Prima orazione

«Padre, voglio che dove sono Io, siano con Me anche quelli che Tu mi hai dato, affinché contemplino la gloria che Tu mi hai dato, perché mi hai amato prima della creazione del mondo» (Gv 17,24). Tale è l’ultima volontà di Gesù, la sua preghiera suprema, prima di ritornare al Padre suo. Egli vuole che là dov’è Lui, siamo anche noi, non solo nell’eternità, ma già nel tempo che è l’eternità incominciata e sempre in progresso. Importa perciò sapere dove dobbiamo vivere con Lui per realizzare il suo sogno divino. «Il luogo dov’è nascosto il Figlio di Dio è il seno del Padre, l’essenza divina, invisibile ad ogni sguardo mortale, inaccessibile ad ogni intelligenza umana. È ciò che faceva dire ad Isaia: “Voi siete veramente un Dio nascosto» (Is 45,15)” (S. Giovanni della Croce, Cantico “B”, str. 1, 3). E tuttavia la sua volontà è che noi siamo fissi in Lui, che dimoriamo dove Egli dimora, nell’unità dell’amore, che siamo per così dire come l’ombra di Lui stesso. Per il battesimo – dice S. Paolo – «noi siamo stati innestati in Cristo» (Rm 6,5). E ancora: «Dio ci ha fatto assidere nei cieli in Cristo per mostrare ai secoli futuri le ricchezze della sua grazia» (Ef 2,6-7). E più avanti: «Non siete più degli ospiti o degli stranieri, ma siete della città dei santi e della casa di Dio» (Ef 2,19).
La Trinità, ecco la nostra dimora, la nostra casa, la casa paterna dalla quale non dobbiamo uscire più. Il Signore l’ha detto un giorno: «Lo schiavo non dimora sempre nella casa, ma il figlio vi dimora sempre» (Gv 8,35).

Seconda orazione

«Dimorate in Me» (Gv 15,4). È il Verbo di Dio che dà quest’ordine, che esprime questa volontà. Dimorate in Me non per qualche istante, qualche ora che deve passare, ma «dimorate» in modo permanente, abituale. Dimorate in Me per essere presenti ad ogni persona e ad ogni cosa. Penetrate sempre di più in questa profondità. Questa è veramente la solitudine dove Dio vuole attirare l’anima per parlarle, come cantava il profeta (Os 2,14).
Ma per intendere questa parola piena di mistero, non bisogna fermarsi, per così dire, alla superficie, bisogna entrare sempre più nell’Essere divino mediante il raccoglimento. «Continuo la mia corsa», esclamava S. Paolo (Fil 3,14). Così noi dobbiamo discendere ogni giorno questo sentiero dell’abisso che è Dio. Abbandoniamoci giù per questa china con una fiducia piena d’amore. «Abisso chiama abisso» (Sal 41,8). È laggiù, in quelle profondità, che avverrà l’urto divino, che l’abisso del nostro nulla, della nostra miseria, urterà contro l’abisso della misericordia, dell’immensità, del tutto di Dio. È laggiù che troveremo la forza di morire a noi stessi e che, perdendo le nostre tracce, saremo cambiati in amore. «Benedetti coloro che muoiono nel Signore» (Ap 14,13).


Secondo Giorno

Prima orazione

«Il Regno dei cieli è dentro di voi» (Lc 17,21). Poco fa Gesù ci invitava a dimorare in Lui, nella sua eredità di gloria, ed ora ci rivela che non dobbiamo uscire da noi stessi per trovarlo. «Il regno dei cieli è al di dentro!…». S. Giovanni della Croce dice che «è nella sostanza dell’anima dove non possono arrivare né il demonio né il mondo, che Dio si dà a lei. Allora tutti i suoi movimenti diventano divini e, sebbene siano di Dio, son pure egualmente suoi perché N. Signore li produce in lei e con lei» (S. Giovanni della Croce, Fiamma “B”, str. 1, 9). Il medesimo Santo dice che Dio è il centro dell’anima (Fiamma “B”, str. 1, 10-14). Quando l’anima conoscerà Dio perfettamente, nella misura di tutte le sue energie, l’amerà e ne godrà interamente, allora sarà arrivata al centro più profondo che possa attingere in Lui. Prima di essere arrivata fin là, l’anima è già in Dio, che è il suo centro «più profondo», potendo andare più oltre.
Poiché è l’amore che unisce l’anima a Dio, più intenso è l’amore, più essa entra profondamente in Dio e si concentra in Lui. Quando possiede un solo grado di amore, è già nel suo centro, ma quando quest’amore avrà raggiunto la sua perfezione, l’anima sarà penetrata nel suo centro «più profondo».
È là che sarà trasformata a tal punto da divenire somigliantissima a Dio (Fiamma “B”, str. 1, 12-13). A quest’anima che vive «al di dentro» possono essere rivolte le parole del P. Lacordaire a S. Maddalena: «Non chiedete più del maestro a nessuno sulla terra, a nessuno nel cielo, perché Lui è la vostra anima e la vostra anima è Lui».

Seconda orazione

«Affrettati a discendere perché bisogna che oggi mi fermi nella tua casa» (Lc 19,5). «Il Maestro ridice incessantemente alla nostra anima queste parole che rivolgeva un giorno a Zaccheo. «Affrettati a discendere». Che cosa è mai questa discesa che esige da noi, se non il penetrare più a fondo nel nostro abisso interiore?» (cf Beato Giovanni Ruysbroeck, Lo specchio dell’eterna salvezza, XII). Quest’atto «non è una separazione esterna dalla cose esteriori, ma una solitudine dello spirito» (cf Ibid), un liberarsi da tutto ciò che non è Dio. Finché la nostra anima ha dei capricci estranei all’unione divina, delle fantasie di sì e no, restiamo allo stato d’infanzia, non camminiamo a passi da giganti nell’amore, perché il fuoco non ha ancora bruciato tutta la scoria, l’oro non è puro, siamo ancora cercatori di noi stessi, Dio non ha consumato tutta la nostra ostilità a Lui. Ma quando il ribollimento della caldaia ha consumato ogni amore vizioso, ogni dolore vizioso, ogni viziosa paura, allora l’amore è perfetto e l’anello d’oro della nostra alleanza è più largo del cielo e della terra. Ecco la cella segreta dove l’amore colloca i suoi eletti. «Quell’amore ci conduce attraverso tutti i membri e i sentieri che lui solo conosce. Ci conduce senza ritorno e non faremo più la via percorsa (cf Mt 2,12)» (Beato Giovanni Ruysbroeck a cura di Ernest Hello, 157-159).


Terzo Giorno

Prima orazione

«Se qualcuno mi ama osserverà la mia parola e mio Padre l’amerà e verremo a lui e porremo in lui la nostra dimora» (Gv 14,23). Ecco il Maestro che ci manifesta ancora il suo desiderio di abitare in noi. «Se uno mi ama!». L’amore, ecco ciò che attira, che trascina Dio alla sua creatura. Non un amore di sensibilità, ma quell’amore «forte come la morte e che le grandi acque non possono estinguere» (Ct 8,6-7). «Perché amo il Padre, faccio sempre ciò che a Lui piace» (Gv 14,31). Così parlava il Maestro santo ed ogni anima che vuol vivere a contatto con Lui, deve vivere anch’essa questa massima, il beneplacito divino dev’essere il suo nutrimento, il suo pane quotidiano, deve lasciarsi immolare da tutte le volontà di Dio ad immagine del suo Cristo adorato. Ogni circostanza, ogni avvenimento, ogni sofferenza come ogni gioia, è un sacramento che le dà Dio. Così essa non fa più differenza tra le cose, le scavalca. Le oltrepassa per riposarsi, al di sopra di tutto, nel suo Maestro stesso. Lo innalza ben alto sulla montagna del suo cuore. Sì, più in alto dei suoi doni, delle sue consolazioni, più in alto delle dolcezze che piovono da Lui. La caratteristica dell’amore è di non ricercare mai se stesso, di non riservarsi nulla, ma di dare tutto a colui che si ama. Beata l’anima che ama nella verità. Il Signore è divenuto suo prigioniero d’amore!

Seconda orazione

«Voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3). Ecco S. Paolo che viene a darci una luce per rischiarare il sentiero dell’abisso. Siete morti! Che altro significa questo, se non che l’anima che aspira a vivere a contatto con Dio nella fortezza inespugnabile del santo raccoglimento, dev’essere separata, spogliata, allontanata da tutte le cose (quanto allo spirito)? Quest’anima trova in se stessa una semplice inclinazione d’amore che va verso Dio. Sebbene passino le creature, è invincibile rispetto alle cose che passano, perché resta al di sopra di esse, vivendo per Iddio. «Quotidie morior». (1Cor 15,31). Muoio ogni giorno. Diminuisco, rinunzio ogni giorno di più a me stessa perché Gesù cresca e sia esaltato in me. Rimango piccola piccola in fondo alla mia povertà. Vedo il mio nulla, la mia miseria, la mia impotenza. Mi riconosco incapace di progresso, di perseveranza. Scorgo la moltitudine delle mie negligenze, dei miei difetti, mi guardo nello specchio della mia indigenza. Mi prostro nella mia miseria e, riconoscendola apertamente, la espongo davanti alla misericordia del mio Maestro. «Quotidie morior». Ripongo la gioia della mia anima (quanto alla volontà, non quanto alla sensibilità) in tutto ciò che può immolarmi, distruggermi, abbassarmi, perché voglio far posto al mio Maestro. «Non sono più io che vivo, ma è Lui che vive in me» (Gal 2,20). Non voglio più vivere della mia propria vita, ma essere trasformata in Gesù Cristo, affinché la mia vita sia più divina che umana e il Padre, chinandosi su di me, possa riconoscere l’immagine del «Figlio diletto nel quale ha posto tutte le sue compiacenze» (Mt 3,17).


Quarto Giorno

Prima orazione

«Deus ignis consumens». Il nostro Dio – scriveva S. Paolo – è un fuoco divoratore (Eb 12,29; Dt 4,24), cioè un fuoco d’amore che distrugge e trasforma in se stesso tutto ciò che tocca «le delizie di quest’incendio divino si rinnovano nel nostro intimo attraverso un’attività che non si ferma mai, è l’incendio dell’amore in mutuo eterno abbandono. È un rinnovamento che si compie ad ogni istante nel nodo dell’amore» (Beato Giovanni Ruysbroeck, Lo splendore delle nozze spirituali, III, 5). Certe anime hanno scelto quest’asilo per riposarvisi eternamente. Ecco il silenzio nel quale si sono in qualche modo perdute, liberate della loro prigione. «Navigano nell’oceano della Divinità senza che alcuna creatura sia loro d’ostacolo o di tormento» (… Hello, 74). Per queste anime la morte mistica, di cui ci parlava S. Paolo ieri, diviene così semplice, così soave! Pensano molto meno al lavoro di distruzione e di spogliamento che resta ancora da compiere, che a gettarsi nel focolare dell’amore che arde in loro, cioè lo Spirito Santo, quello stesso amore che nella Trinità costituisce il legame tra il Padre e il suo Verbo.
Entrano in Lui attraverso la fede viva e là, semplici e quiete, si lasciano da Lui trasportare al di sopra delle cose, dei gusti sensibili, nella «tenebra santa» (cf Beato Giovanni Ruysbroeck, Lo splendore delle nozze spirituali, III, 2). Trasformate nell’immagine divina, vivono – secondo l’espressione di S. Giovanni – «in società» (1Gv 1,3) con le «Tre» adorabili Persone, in comunione di vita. Questa è la vita contemplativa. Contemplazione che conduce al possesso. «Questo possesso semplice è la vita eterna gustata nell’abisso senza fondo. È là che ci aspetta al di sopra della ragione, la tranquillità profonda dell’immutabilità divina» (cf Beato Giovanni Ruysbroeck, Lo splendore delle nozze spirituali, III, 2; Lo specchio dell’eterna salvezza, XXIII).

Seconda orazione

«Sono venuto ad accendere il fuoco sulla terra e che altro desidero se non di vederlo divampare?» (Lc 12,49). È lo stesso divino Maestro che ci manifesta il suo desiderio di veder ardere il fuoco d’amore. In realtà tutte le nostre opere, tutti i nostri lavori non sono nulla davanti a Lui. Noi non possiamo dargli nulla né soddisfare il suo unico desiderio che è quello di riscattare la dignità della nostra anima. Nulla gli è tanto gradito quanto il vederla crescere e divenire grande. Ora nulla può elevarla tanto quanto il divenire in qualche modo uguale a Dio. Ecco perché esige da lei il tributo del suo amore. Infatti la proprietà dell’amore è quella di rendere uguale, per quanto è possibile, colui che ama a colui che è amato. L’anima in possesso di quest’amore appare su un piano di uguaglianza con Gesù dal momento che la reciproca affezione rende tutto comune tra di loro.
«Vi ho chiamati amici» perché ho manifestato a voi tutto quello che ho udito dal Padre mio (Gv 15,15). Ma per arrivare a questo amore, l’anima dev’essersi prima completamente liberata. La sua volontà dev’essere dolcemente perduta in quella di Dio in modo che le sue inclinazioni, le sue facoltà non si muovano più che in quest’amore e per quest’amore. Faccio tutto per amore, soffro tutto con amore. Tale è il senso di ciò che cantava David: «A te serberò tutta la mai forza» (Sal 58,10). Allora l’amore la riempie talmente e l’assorbe e la protegge così bene che essa trova dovunque il segreto di crescere nell’amore. Perfino attraverso le relazioni che con il mondo, in mezzo alle sollecitudini della vita, ha il diritto di dire: «unica mia occupazione è l’amore» (S. Giovanni della Croce, Cantico”B”, str. 28, 8-9).


Quinto Giorno

Prima orazione

«Ecco, io sono alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre, entrerò da lui e mangerò presso di lui, e lui con Me» (Ap 3,20). Beate le orecchie dell’anima abbastanza sveglie, abbastanza raccolte per udire questa voce del Verbo di Dio. Beati altresì gli occhi di quell’anima che alla luce della fede viva e profonda possono assistere all’arrivo del Maestro nel suo intimo santuario. Ma che cos’è dunque quest’arrivo? «È una generazione, una nuova illuminazione, che non s’interrompe mai. Il suolo dal quale zampilla lo splendore e che è lo stesso splendore, è pieno di vita e di fecondità. Perciò la rivelazione della luce eterna si rinnova incessantemente nelle intime profondità dello spirito. Ecco, qui bisogna che cessino tutte le azioni della creatura e tutti gli esercizi di virtù, perché qui Dio genera se stesso nella parte più nobile dello spirito e qui non c’è altro che perpetua e intensa contemplazione di questa luce, a mezzo della stessa luce e dentro di essa. E l’arrivo dello Sposo è così veloce e repentino che, in realtà, Egli viene sempre e sta sempre dentro, e per di più con immense ricchezze; sta sempre venendo di nuovo personalmente, incessantemente, e con tale novità di splendore, come se non ci fosse mai stato prima. Il suo arrivo è un eterno Eccomi, fuori del tempo, e viene accolto con desiderio sempre nuovo e nuova gioia. La delizia e la gioia che lo Sposo porta con Sé quando viene, sono decisamente immense e infinite, perché sono Lui stesso. E per questo motivo, gli occhi con i quali lo spirito fissa e contempla lo Sposo sono sempre aperti e spalancati e non si chiudono mai. La contemplazione intensa, con la quale lo spirito fissa la misteriosa rivelazione di Dio, rimane fissa, e la capacità dello spirito verso lo Sposo che arriva, cresce tanto ch’esso ha la sensazione di essersi trasformato nella stessa vastità che sta contemplando. In questo modo Dio viene visto e compreso attraverso Dio, nel quale sta tutta la nostra salvezza e gioia» (Beato Giovanni Ruysbroeck, Lo splendore delle nozze spirituali, III, 3).

Seconda orazione

«Colui che mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in Me ed Io in lui» (Gv 6,56). «Il primo segno dell’amore è che Gesù ha donato alla nostra anima la sua carne in cibo e il suo sangue in bevanda. Una tale meraviglia d’amore non era mai stata capita prima. Ma è la natura dell’amore di donare e ricevere sempre, d’amare e di essere amato, e queste due cose si riscontrano in chiunque ama.
Così l’amore del Cristo è avido e liberale: se lui ci dona tutto quello che ha e tutto quello che è, in cambio prende in noi tutto quello che noi abbiamo e tutto quello che noi siamo; e lui richiede da noi più di quello che noi siamo capaci di donare. La sua fame è smisuratamente grande; ci consuma per intero fino alla fine, talmente la sua avidità è immensa e il suo desiderio insaziabile: lui divora fino al midollo delle nostra ossa. Tuttavia noi ci concediamo volentieri a Lui, e più noi Gli concediamo, più Lui gusta le nostre attrattive. Ed anche se Lui ci consuma, non può mai essere sazio, poiché Lui è insaziabile e la sua fame è senza misura; noi siamo poveri, Lui lo sa: ma non ne ha cura, non esige di meno.
Per prima cosa prepara i suoi pasti e consuma nell’amore tutti i nostri peccati e i nostri difetti. Poi, dopo che siamo purificati attraverso il fuoco dell’amore, Lui piomba su di noi come l’avvoltoio sulla propria preda. Poiché Lui vuole trasformare e consumare la nostra vita piena di peccato nella sua vita tutta piena di grazia e di gloria, che è sempre pronto a donarci, purché noi consentiamo a rinunciare a noi stessi e ad abbandonare il peccato. Se noi potessimo vedere l’ardente desiderio che ha il Cristo della nostra salvezza, noi non saremmo capaci di trattenerci e ci avvicineremmo noi stessi a Lui. Sebbene le mie parole siano strane, quelli che amano mi capiscono bene.
L’amore di Gesù è di natura così nobile che, consumando tutto, vuole nutrire. Se Lui ci assorbe interamente in Lui, di risposta lui ci dona Lui stesso. Bisogna che nascano in noi la fame e la sete dello spirito, che devono farceLo gustare con un godimento eterno, e a questa fame spirituale così come all’amore del nostro cuore dona l’alimento del suo Corpo. E di questo Corpo sacro, se noi lo prendiamo e consumiamo in noi con un’intima devozione, fluisce in tutto il nostro essere e nelle nostre vene anche il suo Sangue glorioso e pieno d’ardore. Noi siamo infiammati per Lui d’amore e di carità di cuore; corpo e anima, siamo impregnati di godimento e di gusto spirituale.
È così che Lui ci dona la sua vita piena di saggezza, di verità e di insegnamenti, affinché noi Lo imitiamo in tutte le virtù; e allora Lui vive in noi e noi in Lui. Lui ci dona anche la sua anima con la pienezza delle grazie che possiede, affinché, stabilmente, noi possiamo sempre restare con Lui, in comunione d’amore, di virtù e di lodi di suo Padre. Infine, quello che oltrepassa tutto, ci offre e ci promette la sua divinità, per un giorno eterno. Ci si può sbalordire del fatto che esultano coloro che gustano ed sperimentano queste cose?
Dal momento che la regina d’Oriente può contemplare la ricchezza, la maestà e la gloria del re Salomone, si sente svenire davanti a tale meraviglia, e completamente fuori di sé perde i sensi. Ma voi potete comprendere quanto tutta la ricchezza e la maestà di Salomone erano poca cosa in confronto alla ricchezza e alla gloria che è il Cristo stesso che Lui ci ha preparato nel santo Sacramento. Poiché se ci è possibile di ricevere tutto quello che appartiene alla sua umanità e quello che risiede tuttavia nel possesso di noi stessi, dal momento che veniamo a contemplare la sua divinità presente davanti a noi nel Sacramento, è un soggetto di tale ammirazione che noi dobbiamo elevarci nello spirito fino ad un amore superessenziale, poiché lo stupore e il trasporto ci farà svenire davanti alla mensa di Nostro Signore.
Ma è con devozione e amore di cuore che prendiamo nel cibo e che consumiamo l’umanità di Nostro Signore in noi stessi, perché l’amore attira a Lui tutto quello che ama, e con un amore tutto simile Nostro Signore ci attira e ci consuma in Lui, e ci riempie della sua grazia. Allora noi cresciamo, ci eleviamo al di sopra della ragione fino ad un amore divino che ci fa prendere e consumare spiritualmente il cibo celeste, e tendere d’amore puro verso la divinità. È allora che si incontra lo spirito, cioè l’amore senza misura, che consuma e trasforma il nostro spirito con tutte le sue opere, ci intrattiene con Lui verso l’unità, dove si gustano il riposo e la beatitudine.
Così dunque, divorare sempre e essere divorati, salire e scendere con l’amore, è la nostra vita nell’eternità. Ecco quello che pensava il Cristo quando diceva ai suoi discepoli: “Ho desiderato molto di consumare questa Pasqua con voi prima di soffrire” (Lc 22,15)» (Beato Giovanni Ruysbroeck, Lo specchio della divina salvezza, 7).


Sesto Giorno

Prima orazione

«Per avvicinarsi a Dio occorre credere» (Eb 11,6). È S. Paolo che parla così. Egli dice ancora: «La fede è la sostanza delle cose che si devono sperare e la dimostrazione di quelle che non si vedono» (Eb 11,1). La fede cioè ci rende talmente certi e presenti i beni futuri che per mezzo di lei prendono consistenza nella nostra anima e vi sussistono prima che ne godiamo. S. Giovanni della Croce dice che essa ci serve di base per andare a Dio e che rappresenta il possesso allo stato d’oscurità, che essa sola ci può dare dei veri lumi su Colui che amiamo e che dobbiamo accoglierla come il mezzo per arrivare all’unione beata. La fede riversa nella nostra anima tutti i beni spirituali (S. Giovanni della Croce, Salitai, II, passim.). Gesù Cristo, parlando alla Samaritana, indicava la fede, quando prometteva a tutti coloro che avrebbero creduto in Lui, di dar loro «una sorgente di acqua viva zampillante per la vita eterna» (Gv 4,16). Così dunque la fede ci dà Dio fin da questa vita, certamente coperto di quel velo di cui essa lo copre, ma sempre Dio stesso.
«Quando verrà ciò che è perfetto», cioè la chiara visione, «ciò che è imperfetto», vale a dire la conoscenza data dalla fede, «riceverà tutta la perfezione» (cf 1Cor 13,10). «Noi abbiamo conosciuto l’amore che Dio ha per noi, e noi vi abbiamo creduto» (1Gv 4,16). Qui sta il gran atto della nostra fede. È il mezzo per rendere al nostro Dio, amore per amore. È il «segreto nascosto nel cuore del Padre» (Col 1,26), di cui parla S. Paolo. Noi lo penetriamo finalmente e tutta la nostra anima trasale. Allorché essa sa credere a «questo troppo grande amore che è su di lei» (cf Ef 2,4), si può dire quello che è detto di Mosè: «Era incrollabile nelal sua fede come se avesse visto l’invisibile» (Eb 11,27).
Non si ferma più ai gusti ed ai sentimenti, poco le importa di sentire Dio o di non sentirlo, poco le importa che le dia la gioia o la sofferenza. Essa crede al suo amore. più è provata, più la sua fede cresce perché sa andare al di là di tutti gli ostacoli per riposarsi nel seno dell’amore infinito che non può fare che opere d’amore. Così a quest’anima tutta vigilante nella sua fede, la voce del Maestro può dire nell’intimo quella parola che Egli rivolgeva un giorno a Maria Maddalena: «Va’ in pace, la tua fede di ti ha salvata» (Lc 7,50).

Seconda orazione

«Se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso»(Mt 6,22). Che cos’è quest’occhio semplice di cui parla il Maestro se non quella «semplicità d’intenzione che raccoglie in unità tutte le forze disperse dell’anima e unisce a Dio lo spirito stesso? È la semplicità che dà a Dio onore e lode, che presenta ed offre a lui le virtù. Poi, penetrando e attraverso se stessa, attraversando e penetrando tutte le creature, trova Dio nella sua profondità. Essa è il principio e il termine delle virtù, il loro splendore e la loro gloria. Chiamo intenzione semplice quella che non mira che a Dio, a lui riferendo tutte le cose. È lei che colloca l’uomo alla presenza di Dio, è lei che gli dà forza e coraggio, che lo rende vuoto e libero da ogni timore, oggi e nel giorno del giudizio. È lo slancio interiore, il fondamento di tutta la vita spirituale, che mette sotto i piedi la cattiva natura, dona la pace e impone silenzio ai vani rumori che si fanno in noi» (Beato Giovanni Ruysbroeck, … Hello, 33-34). È lei che aumenta d’ora in ora la nostra divina rassomiglianza e poi, al di là di ogni intermediario, è ancora lei che ci trasporterà nelle profondità in cui abita Dio e ci darà il riposo dell’abisso.
L’eredità beata che l’eternità ci ha preparato, sarà il dono della semplicità. Tutta la vita degli spiriti, tutta la loro virtù, consiste, insieme con la divina rassomiglianza, nella semplicità e il loro riposo supremo attinge il vertice della gloria nella semplicità. Così, nella misura del proprio amore, ogni spirito possiede una ricerca di Dio più o meno profonda, nella sua stessa profondità. «L’anima semplice, elevandosi in virtù del suo sguardo interiore, rientra in se stessa e contempla il proprio abisso, il santuario dove è sfiorata dal tocco della Trinità santa. Penetra così nella sua profondità fino a toccare il fondo che è la porta della vita eterna» (Beato Giovanni Ruysbroeck, … Hello, 36-37).


Settimo Giorno

Prima orazione

«Dio ci ha eletti in Lui prima della creazione del mondo perché siamo immacolati e santi al suo cospetto, nell’amore» (Ef 1,4).
La Santa Trinità ci ha creato a sua immagine, secondo l’esemplare divino di noi stessi che portava nel suo seno prima che il mondo fosse, in quel principio senza principio di cui parla Bossuet dopo S. Giovanni: «In principio erat Verbum» (Gv 1,1), al principio era il Verbo. Si può aggiungere, al principio era il nulla, perché Dio nella sua eterna solitudine ci portava nel suo pensiero. «Il Padre contempla se stesso nell’abisso della sua fecondità e in virtù di questo atto stesso del comprendersi, genera un’altra Persona, il Figlio, il suo Verbo eterno. In Lui si trovava dall’eternità il prototipo di tutte le creature non ancora uscite dal nulla e Dio le vedeva e le contemplava, ciascuna nel suo proprio esemplare, in se stesso. Questa esistenza eterna che i nostri prototipi possiedono senza di noi in Dio, è la causa della creazione. La nostra essenza creata mira a raggiungere il suo principio. Il Verbo, lo splendore del Padre, è l’esemplare eterno sul quale sono modellate le creature nel giorno della loro creazione. Ecco perché Dio vuole che noi, liberandoci da noi stessi, tendiamo le braccia verso il nostro esemplare e arriviamo a possederlo, salendo verso di Lui al di sopra di tutte le cose. Questa contemplazione apre all’anima orizzonti insospettati e le consente di possedere, in certo modo, la corono a cui aspira» (… Hello, 67-69). Le ricchezze immense che Dio ha per natura, noi le possediamo mediante l’amore che fa vivere Dio in noi e noi in Dio. È in virtù di quest’amore immenso che siamo attratti dal fondo del santuario interiore dove Dio imprime in noi una certa immagine della sua maestà. È dunque grazie all’amore e in virtù dell’amore che possiamo essere immacolati e santi al cospetto di Dio, come dice l’Apostolo, e cantare con David: «Sarò senza macchia e mi guarderò dal fondo d’iniquità che è in me» (Sal 18,14).

Seconda orazione

«Siate santi perché Io sono santo» (Lv 19,2). È il Signore che parla così. «Qualunque sia il nostro genere di vita o l’abito che ci copra, ciascuno di noi dev’essere il santo di Dio» (… Hello, 113). Chi è il più santo? «È colui che ama di più, che guarda maggiormente a Dio e soddisfa pienamente il suo sguardo» (… Hello, 157). Come soddisfare le esigenze dello sguardo divino se non restando semplicemente e amorosamente volti verso di Lui perché possa riflettere in noi la sua immagine, come il sole riflette attraverso un limpido cristallo? «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1,26). Tale fu il grande volere del Cuore di Dio. «Senza la rassomiglianza che viene dalla grazia, ci aspetta la dannazione eterna. Dal momento che Dio ci vede atti a ricevere la grazia, la sua libera bontà è pronta a farci il dono che imprime in noi la sua rassomiglianza. La nostra attitudine a ricevere la grazia dipende dalla pienezza interiore con la quale ci muoviamo verso di Lui. Dio allora, portandoci i suoi doni, può donarci se stesso ed imprimere in noi la sua rassomiglianza spezzando le nostre catene e facendoci liberi» (… Hello, 48). La più alta perfezione in questa vita, dice un pio autore, consiste nel restare talmente uniti a Dio che l’anima con le sue facoltà e potenze sia tutta raccolta in Lui e tutte le sue affezioni, unificate nella gioia dell’amore, non trovino riposo che nel possesso del Creatore (Ibid). L’immagine di Dio impressa nell’anima è in realtà costituita dalla ragione, la memoria e la volontà. Finché queste facoltà non portano l’immagine perfetta di Dio non rassomigliano ancora a Lui, come nel giorno della creazione.
La forma dell’anima è Dio che deve imprimersi in lei, come il sigillo sulla cera, come la marca sul proprio oggetto. Ora questo non si realizza in pieno se la ragione non è completamente illuminata dalla conoscenza di Dio, se la volontà non è tutta incatenata all’amore del Bene sovrano, se la memoria non è totalmente assorbita nella contemplazione e il godimento della felicità eterna. Allo stesso modo che la gloria dei Beati non è altro che il possesso perfetto di questo stato, così è chiaro che il possesso incipiente di questi beni costituisce la perfezione in questa vita. Per realizzare quest’ideale, occorre tenersi raccolti dentro di sé, stare in silenzio alla presenza di Dio, mentre l’anima s’inabissa, si dilata, s’infiamma e si fonde in Lui con una pienezza senza limiti.


Ottavo Giorno

Prima orazione

«Quelli che Dio da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?… Chi ci separerà dalla carità di Gesù Cristo?» (Rm 8,29-31.35). Tale appariva allo sguardo illuminato dell’Apostolo il mistero della predestinazione, il mistero dell’elezione divina. «Quelli che ha conosciuto». Non siamo anche noi di questo numero? Non può dire Dio alla nostra anima quello che diceva un tempo per bocca del profeta: «Passai vicino a voi e vi considerai. Ho visto che era arrivato per voi il tempo di essere amati; ho steso sopra di voi la mia veste e ho giurato di proteggervi, ho fatto alleanza con voi, e siete diventati miei» (cf Ez 16,8)? Sì, siamo diventati suoi mediante il battesimo. È ciò che vuol dire S. Paolo con quelle parole: «Li hai chiamati». Sì, chiamati a ricevere il sigillo della S. Trinità. nel medesimo tempo in cui, secondo le parole di S. Pietro, «siamo stati fatti partecipi della divina natura» (2Pt 1,4), abbiamo ricevuto «un principio del suo essere» (Eb 3,14).
… Poi ci ha giustificati per mezzo dei suoi sacramenti, col tocco diretto del suo Spirito nel raccoglimento intimo dell’anima. Ci ha pure giustificati per la fede (Rm 5,1) e nella misura della nostra fede, nella Redenzione operata da Gesù Cristo.
Infine, vuole glorificarci e per questo, dice S. Paolo, «ci ha resi degni di partecipare all’eredità dei santi nella luce» (Col 1,12). Ma saremo glorificati nella misura in cui saremo conformati all’immagine del Figlio suo divino. Contempliamo perciò quest’Immagine adorata, teniamoci senza posa sotto la luce che da lei emana affinché s’imprima in noi. Poi andiamo a tutte le cose con quell’atteggiamento dell’anima col quale vi andava il nostro Maestro santo. Realizzeremo allora la grande volontà per la quale Dio ha deciso «in se stesso» di «restaurare tutte le cose in Gesù Cristo» (Ef 1,9-10).

Seconda orazione

«Mi sembra che tutto sia una perdita dal momento che so quanto sia trascendente la conoscenza del Cristo Gesù, mio Signore. Per il suo amore ho tutto perduto stimando tutte le cose come letame per guadagnare Cristo. Ecco ciò che voglio: conoscere Lui, aver parte alle sue sofferenze ed essere conforme alla sua morte. Proseguo la mia corsa sforzandomi di arrivare là dove mi ha destinato quando mi ha preso. Di questo solo mi preoccupo, di dimenticare quello che è dietro di me, di tendere costantemente a ciò che mi sta davanti. Corro dritto allo scopo, alla vocazione alla quale Dio mi ha chiamato nel Cristo Gesù» (cf Fil 3,8-14), cioè non voglio più altro che identificarmi con Lui. «Mihi vivere Christus est – la mia vita è Cristo» (Fil 1,21).
Tutta l’anima ardente di S. Paolo passa attraverso queste righe.
Durante questo ritiro il cui scopo è quello di renderci più conformi al nostro Maestro adorato, meglio ancora, di fonderci così ben con Lui da poter dire: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me e quello che ho di vita in questo corpo di morte mi viene dalla fede nel Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20), studiamo questo divino modello.
La sua conoscenza – dice l’Apostolo – «è così trascendente!» (Fil 3,8). Quali sono state le sue prime parole entrando in questo mondo? «Gli olocausti non vi sono più graditi, per questo ho preso un corpo. Eccomi, o Padre, per fare la vostra volontà» (Eb 10,5). Durante i suoi 33 anni, questa volontà fu talmente il suo pane quotidiano che al momento di riconsegnare la sua anima nelle mani del Padre, poteva dirgli: «Tutto è consumato» (Gv 19,30).
«Sì, tutte le vostre volontà sono state compiute». «Per questo vi ho glorificato sulla terra» (Gv 17,4). In realtà Gesù Cristo, parlando ai suoi apostoli di questo nutrimento che essi non conoscevano (cf Gv 4,32), diceva loro: «Io non sono mai solo» (Gv 8,16). «Colui che mi ha mandato è sempre con Me perché faccio sempre quello che a Lui piace» (Gv 8,29).
Mangiamo con amore questo pane della volontà di Dio. Se talvolta queste volontà sono più crocifiggenti, possiamo dire senza dubbio col nostro Maestro: «Padre, se possibile, che questo calice s’allontani da Me», ma subito aggiungeremo: «Non come voglio io, ma come volete voi» (Mt 26,39).
Con calma e forza, insieme col divino Crocifisso, saliremo poi anche noi il Calvario cantando nel profondo delle nostre anime e facendo salire verso il Padre un inno di ringraziamento perché quelli che camminano per questa via dolorosa sono proprio coloro ch’Egli «ha conosciuto e predestinato per essere conformi all’immagine del Figlio suo divino» (Rm 8,29), il Crocifisso per amore!


Nono Giorno

Prima orazione

«Dio ci ha predestinato all’adozione dei figli per mezzo di Gesù Cristo e in unione con Lui, secondo il decreto della sua volontà, per far risplendere la gloria della sua grazia per la quale ci ha giustificati nel suo Figlio diletto nel quale abbiamo la redenzione per il suo Sangue, la remissione dei peccati, secondo le ricchezze della sua grazia che ha sovrabbondato in noi, in ogni sapienza e prudenza» (Ef 1,5-8). L’anima, divenuta realmente figlia di Dio, secondo la parola dell’Apostolo, è mossa dallo Spirito Sano stesso. «Tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio, quelli sono figli di Dio» (Rm 8,14). E ancora: «non abbiamo ricevuto uno spirito di servitù per lasciarci ancora condurre dal timore, ma lo spirito d’adozione dei figli nel quale gridiamo: ‘Abba, Padre!’. In realtà lo Spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito che siamo figli di Dio. Ma se siamo figli siamo anche eredi, dico eredi di Dio e coeredi di Gesù Cristo, se però soffriamo con Lui per essere con Lui glorificati» (Rm8,15-17).
È per farci pervenire a quest’abisso di gloria che Dio ci ha creati a sua immagine e somiglianza. «Guardate di quale carità ci ha gratificati il Padre concedendoci di essere chiamati figli di Dio, e di esserlo veramente!… Fin d’ora siamo figli di Dio e non si è ancora visto quello che saremo. Sappiamo che quando Egli si manifesterà, saremo simili a Lui perché lo vedremo così com’è, e chiunque ha questa speranza in Lui, si santifica come Lui stesso è santo» (1Gv 3,1-3). Ecco la misura della santità dei figli di Dio, essere santo come Dio, essere santo della santità di Dio.
E questo vivendo a contatto con Lui in fondo all’abisso senza fondo. «Al di dentro». L’anima allora sembra avere una certa somiglianza con Dio che, pur trovando la sua delizia in tutte le cose, non ne trova mai tanta quanta in se stesso. Infatti Egli possiede in sé un bene sovreminente davanti al quale tutti gli altri spariscono. Così tutte le gioie che l’anima incontra, sono per lei altrettanti avvertimenti che la invitano ad assaporare il bene di cui è in possesso ed al quale nessun altro può essere paragonato… «Il Padre che è nei cieli» (Mt 6,9)si trova in questo piccolo cielo che si è fatto al centro della nostra anima. è qui che lo dobbiamo cercare e soprattutto è qui che dobbiamo dimorare. Il Cristo diceva un giorno alla Samaritana che «il Padre cerca dei veri adoratori ‘in spirito e verità’» (Gv 4,23). Per dare gioia al suo cuore, siamo noi quei grandi adoratori.
Adoriamo «in spirito» cioè, teniamo il cuore e il pensiero fissi in Lui, lo spirito pieno della sua conoscenza mediane il lume della fede.
Adoriamolo «in verità», cioè, con le nostre opere, perché è soprattutto attraverso le nostre azioni che siamo veri. Ciò equivale a far sempre quello che piace al Padre di cui siamo figli. Infine, adoriamolo «in spirito e verità», vale a dire per mezzo di Gesù Cristo e con Gesù Cristo, perché Egli solo è il vero adoratore «in spirito e verità». Allora, saremo i figli di Dio e conosceremo di scienza sperimentale quelle parole di Isaia: «Sarete portati al seno e vi accarezzerà sulla ginocchia» (Is 66,12). In realtà, tutta l’occupazione di Dio sembra essere quella di colmare l’anima di carezze e di segni d’affetto, come una mamma che solleva il suo bambino e lo nutre del suo latte. Oh! rendiamoci attenti alla voce del Padre nostro: «Figlio mio – Egli dice – dammi il tuo cuore» (cf Pr 7,1-3).

Seconda orazione

«Dio che è ricco in misericordia, spinto dal suo eccessivo amore, quando eravamo morti per i nostri peccati, ci ha reso la vita in Gesù Cristo… Poiché tutti hanno peccato e hanno bisogno della gloria di Dio, vengono giustificati dalla sua grazia attraverso la redenzione che è nel Cristo Gesù, che Dio ha prestabilito propiziazione per i peccati, mostrando al tempo stesso che Egli è giusto e giustifica colui che ha fede in Lui» (Rm 3,23-26)
«Il peccato è un male talmente spaventoso che non è mai lecito commetterlo né per cercare un bene qualsiasi, né per evitare qualsiasi male. Ora noi abbiamo commesso un grande numero di peccati. Come possiamo non cader in adorazione quando ci gettiamo nell’abisso della misericordia divina e gli occhi della nostra anima si fermano su questo fatto che Dio ha eliminato i nostri peccati?» (… Hello, 169). Egli lo ha detto: «Cancellerò tutte le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati» (Ger 31,34). «Il Signore, nella sua clemenza, ha voluto che il peccato si risolvesse in danno del peccato stesso ed ha trovato il mezzo di renderlo utile per noi, convertendolo nelle nostre mani in uno strumento di salvezza. Ciò non deve diminuire in nessun modo il nostro terrore del peccato, né il dolore d’aver peccato, ma i nostri peccati sono divenuti per noi una sorgente di umiltà» (… Hello, 170).
Quando l’anima, «nell’intimo di se stessa, considera con occhi brucianti d’amore l’immensità di Dio, la sua felicità, e le sue prove d’amore, tutti i suoi benefizi che nulla possono aggiungere alla sua felicità, e poi torna a guardare se stessa, vede le sue ribellioni contro questo Signore d’immensa potenza e prova orrore e disprezzo di sé. Non sa più come fare per detestare come vorrebbe le sue colpe. Allora non le resta che piangere davanti a Dio, suo amico, lamentandosi con Lui che la violenza del disprezzo da cui è trascinata, non la umili tanto quanto sarebbe necessario. Si rassegnacosì alla volontà di Dio e trova la sua pace in questa abnegazione interiore, quella pace invincibile e perfetta che nulla turberà. Si è infatti precipitata in tale abisso che nessuno potrà ricercarla fin là» (… Hello, 97-98). Se «qualcuno mi dicesse di aver toccato il fondo e perciò di essere del tutto immerso nell’umiltà, non lo contraddirei e mi sembra inoltre che essere gettato nell’umiltà sia lo stesso che essere gettato in Dio, perché Dio è il fondo dell’abisso. È per questo che l’umiltà, come la carità, è sempre capace di crescere» (… Hello, 99). Infatti «questo fondo pieno di umiltà è il vaso che occorre, il vaso capace della grazia, il vaso dove Dio la vuole versare» (… Hello, 99). Mai l’umile collocherà Dio troppo in alto o se stesso troppo in basso. «Ma ecco la meraviglia: la sua impotenza si cambierà in saggezza e l’imperfezione dei suoi atti, sempre insufficienti ai suoi occhi, si riempie del più grande sapore della vita. chiunque possiede un fondo di umiltà non ha bisogno di molte parole per istruirsi. Dio gli dice più cose di quelle che potrebbero essergli insegnate. I discepoli di Dio sono in questa posizione» (… Hel., 102).


Decimo Giorno

Prima orazione

«Si scires donum Dei! – Se tu sapessi il dono di Dio!» (Gv 4,10) diceva una sera (sic) il Cristo alla samaritana. Ma che cos’è questo dono di Dio, se non Lui stesso? Il discepolo prediletto ci dice che «Egli è venuto nella sua casa e i suoi non l’hanno ricevuto» (Gv 1,11). S. Giovanni Battista potrebbe ancora dire a tante anime: «In mezzo a voi – in voi – c’è uno che non conoscete» (Gv 1,26). «Se tu sapessi il dono di Dio!»…
Vi è una creatura che conobbe questo dono di Dio, una creatura che non perdette neppure una goccia, una creatura che fu tanto pura e luminosa da sembrare la luce stessa. «Specul iustitiæ»: una creatura la cui vita fu così semplice e perduta in Dio che è quasi impossibile parlarne. «Virgo fidelis»: è la Vergine fedele: «colei che custodiva tutte le cose nel suo cuore» (Lc 2,51). Si manteneva così piccola e raccolta alla presenza di Dio, nel segreto del tempio, che attirava su di sé le compiacenze della Trinità santa. «Poiché il Signore si è degnato di rivolgere lo sguardo alla pochezza della sua serva, tutte le generazioni mi chiameranno beata!» (Lc 1, 48). Il Padre, chinandosi sopra questa creatura così bella, così ignara della sua bellezza, ha voluto che fosse nel tempo la Madre di Colui di cui Egli è il Padre nell’eternità. Allora intervenne lo Spirito d’amore che presiede a tutte le operazioni di Dio e la Vergine disse il suo Fiat: «Ecco l’ancella del Signore, si faccia di me secondo la tua parola» (Lc 1,38). Si compì allora il più grande dei misteri e, per la discesa del Verbo, Maria fu sempre la preda di Dio. Mi sembra che l’atteggiamento della Vergine, durante i mesi che trascorsero dall’Annunciazione alla Natività, sia il modello delle anime interiori, delle creature che Dio ha scelto per vivere al di dentro, nel fondo dell’abisso senza fondo. Con quale pace, con quale raccoglimento Maria si avvicinava ad ogni cosa, faceva ogni cosa! Come anche le cose più banali erano da lei divinizzate! In tutto e per tutto la Vergine restava in adorazione del dono di Dio. e questo non le impediva di prodigarsi al di fuori, quando si trattava di esercitare la carità.
Il Vangelo ci dice che Maria percorse in fretta le montagne della Giudea per recarsi dalla sua cugina Elisabetta (Lc 1,39-40). La visione ineffabile che contemplava in se stessa non diminuì mai la sua carità esterna. Questo perché – come dice un pio autore – «se la contemplazione va verso la lode e verso l’eternità del suo Signore, essa possiede l’unità e non potrà perderla. Viene un ordine del cielo, ed essa si rivolge verso gli uomini, ha compassione di tutte le loro necessità, si china su tutte le loro miserie, bisogna che pianga e fecondi. Essa illumina come il fuoco, arde come la fiamma, assorbe e divora sollevando verso il cielo ciò che ha divorato. Quando ha compiuto la sua azione in basso, si eleva e riprende, ardendo del suo fuoco, la via verso l’alto!» (… Hello, 224).

Seconda orazione

«Noi siamo stati predestinati da un decreto di colui che opera tutte le cose secondo il consiglio della sua volontà perché siamo la lode della sua gloria» (Ef 1,11). È S. Paolo che parla così. S. Paolo istruisce per mezzo di Dio stesso. Come realizzare questo grande sogno di Dio, questo suo volere immutabile rispetto alle nostre anime? Come rispondere, in altre parole, alla nostra vocazione e diventare perfette Lodi di gloria della SS.ma Trinità? Nel cielo ogni anima è una lode di gloria al Padre, al Verbo, allo Spirito Santo, perché ogni anima è stabilita nel puro amore e non vive più della sua propria vita, ma della vita di Dio. Allora essa lo conosce – come dice S. Paolo – allo stesso modo che è da Lui conosciuta (cf 1Cor 13,12). In altri termini, il suo pensiero è il pensiero di Dio, la sua volontà è la volontà di Dio, il suo amore l’amore stesso di Dio. In realtà è lo Spirito d’amore e di forza che trasforma l’anima. È Lui che opera questa gloriosa trasformazione dell’anima, essendo stato inviato a noi per supplire alle nostre deficienze, come s’esprime ancora S. Paolo (Rm 8,26). Afferma S. Giovanni della Croce che l’anima abbandonata all’amore, per la virtù dello Spirito Santo, è quasi sul punto di elevarsi, fin da ora, a quel grado di perfezione di cui abbiamo parlato (cf S. Giovanni della Croce, Cantico “B”, str. 38, 2-3). Ecco ciò che chiamo una perfetta Lode di gloria.
Una Lode di gloria è un’anima che dimora in Dio, che lo ama d’un amore puro e disinteressato, senza ricercare se stessa nella dolcezza di quest’amore, che lo ama al di sopra di tutti i suoi doni come se nulla avesse ricevuto, fino a desiderare il bene dell’oggetto così amato. Ora, come desiderare e volere effettivamente il bene di Dio, se non adempiendo la sua volontà? Quella volontà che ordina tutte le cose per la sua maggior gloria? L’anima di cui parlo deve perciò dedicarvisi pienamente e perdutamente, fino a non poter volere altro che ciò che vuole Dio.
Una Lode di gloria è un’anima di silenzio che si tiene come una lira sotto il tocco dello Spirito Santo per farne uscire delle armonie divine. Essa sa che la sofferenza è una corda che produce dei suoni più belli ancora ed ama farsene il suo strumento per commuovere più deliziosamente il cuore di Dio.
Una Lode di gloria è un’anima che fissa Dio nella fede e nella semplicità, è uno specchio che lo riflette in tutto ciò che Egli è, è come un abisso senza fondo in cui Egli può fluire ed espandersi. Ancora, è come un cristallo attraverso il quale Egli può riflettere e contemplare tutte le sue perfezioni e il suo proprio splendore. Un’anima che permette così all’Essere divino di appagare in lei il suo bisogno di comunicare tutto ciò che è, tutto ciò che ha, è in realtà la Lode di gloria di tutti i suoi doni.
Infine, una Lode di gloria è sempre occupata nel rendimento di grazie. Ognuno dei suoi atti, dei suoi movimenti, ogni suo pensiero e aspirazione, nel tempo stesso che la radicano più profondamente nell’amore, sono come un’ecco del Sanctus eterno. Nel cielo della gloria dei Beati non cessano mai giorno e notte di ripetere: «Santo, Santo, Santo il Signore onnipotente, e si prostrano e adorano Colui che vive nei secoli dei secoli» (Ap 4,8). Nel cielo della sua anima, la Lode di gloria comincia già il suo ufficio dell’eternità. Il suo cantico è ininterrotto perché essa è sotto l’azione dello Spirito Santo che opera tutto in lei. Sebbene non ne abbia sempre coscienza perché la debolezza della natura non le permette di essere fissa in Dio senza distrazioni, canta sempre, adora sempre, è come passata tutta, per così dire, nella lode e nell’amore, nella passione della gloria del suo Dio.

Siamo anche noi, nel cielo della nostra anima, Lodi di gloria della SS.ma Trinità, lodi d’amore della nostra Madre Immacolata. Un giorno il velo cadrà, saremo introdotti nei vestiboli eterni e lassù canteremo nel seno dell’amore infinito. Dio ci darà allora «il nome nuovo promesso ai vincitori» (Ap 2,17). Quale sarà? 
Laudem gloriæ.





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Note biografiche S. Elisabetta della Trinità (1880-1906): www.santiebeati.it/dettaglio/76725

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