lunedì 23 giugno 2025

Poesie e pensieri esistenziali, Cav. Giuseppe Prete


POESIE E PENSIERI ESISTENZIALI

del Cav. Giuseppe Prete




Bussando la porta del paradiso


Sto bussando alla porta del paradiso.
Non con la pretesa di entrare, ma con la speranza che qualcuno risponda.
Che mi venga aperto, anche solo per uno sguardo, un sorriso, un cenno.
Per capire se ho fatto abbastanza, se ho amato abbastanza,
se il dolore che ho attraversato aveva un senso.

Non so quanto tempo mi rimane.
I medici non si esprimono, forse per cautela,
ma mi seguono con particolare attenzione.
Io lo capisco, e leggo nei loro occhi più di quanto dicano le parole.

Non è che avessi fretta di andare via,
ma non voglio nemmeno crearmi illusioni.
Mi sia consentito pensarla così: con rispetto, con amore,
con quella serenità amara di chi ha imparato a guardare in faccia la verità
senza più temerla, ma senza per questo smettere di lottare.

Bussare al paradiso non è fuggire dalla vita,
ma cercarne l’essenza oltre la sofferenza.
È un gesto umile, non disperato:
come chi, stanco ma dignitoso, chiede una tregua,
chiede di essere ascoltato, compreso, accolto.

Ogni battito di quella porta è un pensiero,
ogni attesa è un ricordo,
ogni silenzio è una preghiera.

E se non si apre,
continuerò a bussare piano,
perché non si bussa con forza al paradiso,
ma con rispetto, con fede… e con un cuore nudo.



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Il potere dell'amore che purifica l'anima

C’è un amore che non si arrende al dolore,
che cammina accanto a noi nei corridoi dell’ospedale,
tra le paure taciute, le attese silenziose,
e le notti in cui il corpo cede ma l’anima resiste.

È l’amore che ho incontrato
nel volto di chi mi cura,
nelle mani di chi mi sorregge,
negli occhi di chi crede ancora in me,
anche quando io stesso vacillo.

Un amore che non chiede forza,
ma verità.
Che non pretende risposte,
ma accoglie il silenzio,
la rabbia, la fragilità.

È questo amore che mi purifica,
che mi libera dai fardelli del passato,
dalle illusioni di potere,
dalla corsa verso ciò che non conta.

Mi ha ricordato che la battaglia non è solo per vivere,
ma per vivere bene,
con dignità, con senso, con pace.

E se oggi alzo lo sguardo al cielo
e sogno ancora la diplomazia, la giustizia, la speranza,
è perché questo amore mi ha reso intero,
nonostante la malattia, nonostante tutto.

Perché l’anima, quando è amata,
ritrova la sua luce.
E io, in quella luce,
cammino ancora.


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Lasciatemi sognare il paradiso

Lasciatemi, vi prego, sognare il paradiso.
Non perché io voglia fuggire dalla vita,
ma perché ogni tanto il cuore ha bisogno di una carezza,
di un orizzonte che non finisca con il dolore.

Lasciatemi chiudere gli occhi
e immaginare un luogo dove la pace è vera,
dove non c’è più la paura del domani,
dove il corpo non tradisce e la mente riposa.

Lasciatemi sognare che in quel paradiso
ci siano le voci di chi ho amato,
i sorrisi che ho perso per strada,
gli abbracci che il tempo o la sorte mi hanno negato.

Lasciatemi pensare che ogni battaglia
abbia un senso, anche se ora non lo vedo.
Che ogni ferita sarà medicata
da una luce più grande del nostro dolore.

Non svegliatemi da questo sogno
se sto piangendo:
sono lacrime che lavano l’anima
e le preparano alla speranza.

Lasciatemi sognare il paradiso.
È lì che ritrovo la forza
per affrontare l’inferno quotidiano
con un filo di sorriso,
con la schiena dritta
e l’anima in cammino.


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"Sax di Luna" : tra la Vita e la Notte. 

La notte cala come un velo scuro,
tra i neon stanchi e i passi lenti,
il sax piange note di luna,
un lamento che si perde tra gli angoli bui.

La città respira, silenziosa e viva,
mentre io, fragile come fumo,
cerco tra le stelle una risposta,
un senso a questa inquietudine che non dorme.

(Ritornello:
"Tra la vita e la notte, resto a suonare,
tra il dolore e le stelle, non voglio mollare.
Un respiro, un passo, un’eco che sale,
finché il sax continua, io continuo a lottare.")

La malattia danza, ombra senza volto,
mi sfiora, mi abbraccia, mi sfida a resistere.
Ma il sax continua, testardo e dolce,
come una voce che non vuole spegnersi.

Forse c’è speranza in ogni nota che sale,
forse c'è pace nel suono che si spezza,
tra la vita e la notte,
tra il dolore e la musica,
resta solo il respiro, il mio, il loro,
e quel sax che canta ancora 

"Sax di Luna": tra la Vita e la Notte. 


Questa mia nuova canzone evoca un'atmosfera notturna e malinconica, con il sax come simbolo di resilienza. La notte, che scende come un "velo scuro," rappresenta il peso della mia incertezza e dell’inquietudine, un riflesso della lotta interiore che sto vivendo.

Il sax che "piange note di luna" sembra incarnare il mio desiderio di continuare, di non cedere alla malattia che "danza" come un’ombra senza volto, senza identità definita, ma con una presenza inesorabile. Anche se mi sfida, io rispondo, fragile ma determinato. La musica diventa quindi non solo un rifugio ma anche una metafora della mia voce che, come quella del sax, "non vuole spegnersi."

Le note, pur spezzate, suggeriscono un messaggio di speranza e pace: c’è qualcosa di vivo anche nella fragilità e nella lotta. In fondo, ciò che resta è un respiro condiviso, quello tra me, la città e la musica, come un legame che testimonia il mio viaggio.




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Nel silenzio del parco

Sono seduto su una panchina, nel piccolo parco dell’ospedale. Il sole filtra tra le foglie, si sentono voci lontane – pazienti, medici, infermieri. Una brezza leggera muove l’aria. Eppure, in questo luogo così quieto, non mi sento davvero solo. Solo e triste, sì. Ma non abbandonato.

Mi siedo e rifletto. Penso alla malattia, al futuro. Non alla durata, ma a ciò che verrà.
La gente intorno passa, vive, corre, spera. Io no. Io resto fermo.
E mi attraversano pensieri che non vorrei avere, ma che fanno parte di me. Pensieri oscuri, duri, ancorati alla realtà. Perché ciò che vivo non è un brutto sogno: è la mia quotidianità.

Eppure, nonostante tutto, riesco a rilassarmi qui. In questo ambiente nuovo, che è anche quello che cerca di salvarmi.
E rimango positivo.

La verità è che la malattia ti prende anche dentro, nei momenti come questo, in cui apparentemente non succede nulla, ma tu senti tutto. La fatica, il peso, il senso di impotenza.
Eppure, in questo silenzio amaro, sento che sto raccontando qualcosa che va oltre me.
Anche questa tristezza può servire. Può parlare a chi vive le stesse ombre, può far sentire meno soli.

Non c’è niente da nascondere: questa è la realtà. Non tutta, ma una parte importante.
E va detta, va scritta, va condivisa.
Perché anche nei momenti più bui, raccontare è resistere.



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Turismo sanitario – con visita guidata inclusa


Quindici mesi fa eravamo insieme a Berlino, in giro per la sua città come turisti: birra per lui, analcolica per me (già visionaria), risate, tramonti tedeschi. Oggi ricambio la cortesia con un tour tutto speciale: niente monumenti, ma reparti. Niente musei, ma medici. Niente souvenir, ma aghi, flebo e una bella dose di chemio fresca di giornata.

Appena mio figlio è arrivato da Berlino, l’ho portato a visitare il mio "quartiere generale": abbiamo iniziato dal reparto oncologia, e poi da altri reparti dove faccio spesso visita, poi una passeggiata tra i corridoi color pastello e via, tappa obbligata al maneggio dell’ospedale — sì, proprio coi cavalli veri, mica metaforici! — e, ciliegina sulla torta, il Palazzo della Psichiatria, dove vado a ricaricare le batterie emotive quando il corpo fa sciopero.

Si sarà divertito? Boh. Però c’era più gente lì dentro che al Duomo di Milano a Ferragosto, quindi magari un po’ di entusiasmo gliel’ho trasmesso anch’io.

In fondo, ogni viaggio è un’esperienza. Questo, a modo suo, lo è davvero. E l’importante è che l’abbiamo fatto insieme, ancora una volta.



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"La voce dei figli"


A volte, nel mezzo della tempesta, bastano poche parole di un figlio per riportarti alla realtà. Non per forza alla speranza, ma alla verità: che non sei solo, anche quando tutto fa male. Questo scambio con mio figlio Mattia è stato uno di quei momenti. Ironico, affettuoso, reale. Un frammento di vita che resta inciso, come un’àncora.

07 giugno, ore 18:36

Mattia:
Tieni duro.
Tanto non tira una bella aria qua fuori 😂

Io:
Mattia, ho fatto viaggi peggiori.
Fosse quello il problema, non mi ha mai spaventato niente, ma vivevo.
Oggi sono tutto “incollato”, intrappolato in un corpo malato, distrutto.
Sono 14 mesi che tengo duro, e chissà per quanto ancora.
C’è da impazzire…
Anche se la psicoterapeuta dice che sto sorprendendo tutti in ospedale perché non cedo.
Lo dice anche il capo equipe medica.
Però è dura."

Queste parole non sono solo un dialogo tra padre e figlio. Sono la testimonianza di come l'amore resti vivo, anche quando la vita sembra spegnersi. Di come una battuta, un messaggio, una voce dall’altra parte del telefono, riescano a tenere accesa la scintilla. In fondo, la voce dei figli è anche quella della speranza. E della forza, quella che a volte non sai più di avere, finché non te la ricordano loro.


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Stanco di avere il cancro… tre in totale. 

Oggi è una di quelle giornate in cui l’umore affonda senza un perché preciso. Nessun dolore nuovo, nessuna notizia devastante. Solo quella stanchezza che arriva all’improvviso, senza bussare. Quella frase che mi ritrovo in testa, sussurrata o urlata, non so:
“Stanco di avere il cancro.”

Non è solo fatica. È un grido silenzioso. È dolore, solitudine, frustrazione. È la sensazione che tutto mi pesi addosso: le medicine, le attese, i controlli, il corpo che cambia, la vita che rallenta. Ma anche gli sguardi degli altri, le parole che mancano, il dover spiegare, giustificare, rassicurare. O fingere.

Mi sento così: “sei solo, vivo, anzi non vivi, male, non sai che fare, tutto comincia a pesarmi.”

Allora scrivo. Parlo con me stesso, se serve. Lo faccio per non perdere il filo, per non lasciare che la voce interiore si zittisca. Scrivere è la mia ancora. È un modo per dire: “esisto ancora, anche oggi, anche così”.



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Resisto

È un fardello pesante. A volte ti schiaccia. Altre volte ti lascia solo il tempo di riprendere fiato prima di tornare a premere su di te. È difficile da sopportare, anche quando ci metti tutto l’impegno possibile. Non è questione di forza di volontà: quella non manca. È il corpo, il corpo che cede un po’ alla volta, come una diga che perde gocce invisibili fino a crollare sotto la pressione.

Ogni giorno mi ripeto resisti, resisti, resisti. Lo faccio almeno cento volte. È diventato il mio mantra, la mia preghiera silenziosa, il ritmo del mio respiro. Eppure, anche ripeterlo non sempre basta. Ci sono giornate in cui la stanchezza vince, altre in cui mi sembra di rinascere. Ma la verità è che ogni giorno è una battaglia da affrontare senza sapere come andrà a finire.

Certe volte vorrei solo lasciare andare questo corpo affaticato, abbandonarlo un momento, come si lascia un vestito troppo stretto, e ripartire da capo, con le energie di una volta. Ma poi penso a quanto ho imparato. Alla strada fatta. Alla lezione ricevuta.

Sì, la lezione l’ho capita. Forse troppo tardi per evitarne il peso, ma non troppo tardi per raccontarla. E con i miei racconti voglio lasciare qualcosa. Voglio dire a chi legge: non aspettate di stare male per prendervi cura di voi. Fate un controllo, anche se state bene. Non abbiate paura dei risultati. La paura peggiore è quella dell’incertezza. Sapere, conoscere, affrontare: è questo che dà forza.

Una diagnosi precoce può salvare una vita, o almeno renderla più vivibile. Può fare in modo che la malattia venga affrontata quando è ancora un avversario piccolo, gestibile. E allora sì, le passeggiate in ospedale diventano meno angoscianti. Più brevi, più leggere. Non perché il dolore scompaia, ma perché lo si guarda in faccia sapendo di avere una possibilità in più.

Io resisto. Resisto con tutto me stesso. Ma non sono un eroe. Sono solo una persona che cerca di restare in piedi mentre il terreno trema. E lo dico senza vergogna: si diventa fragili. La malattia non toglie solo il sonno o la forza, ti mette a nudo. Ti costringe a vedere tutto: la paura, la solitudine, ma anche l’amore che ricevi, gli sguardi che ti sostengono, le parole che arrivano quando meno te le aspetti.

È nella fragilità che ho trovato la mia vera resistenza. Non nella negazione del dolore, ma nella sua accettazione. Non nell’illusione di essere invincibile, ma nella certezza che posso ancora lottare, anche se più lentamente, anche se con fatica.

E così vado avanti. Un passo alla volta. Un giorno alla volta. E continuo a ripetermi, con la stessa convinzione, come un sussurro che diventa voce: resisto, resisto, resisto.



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Quante volte nella vita ho posato lo sguardo sugli altri, quante mani ho stretto, quante lacrime ho asciugato senza mai chiedere nulla in cambio.
Ho pensato ai deboli, ai malati, ai feriti del cuore e del corpo, credendo che il mio compito fosse solo donare. E forse lo è stato davvero.
Ma oggi, oggi la vita mi chiama a un compito diverso, più difficile, più spaventoso: pensare a me stesso.
Non sono abituato a parlarmi, a guardarmi dentro con gentilezza, senza giudizio. Non sono abituato a mettere la mia vita al centro, a dire ad alta voce: "Io voglio vivere".
Eppure è così: voglio vivere.
Non voglio che il dolore, la malattia, la paura mi portino via tutto ciò che sono. Non voglio essere solo il campo di una battaglia, voglio essere il custode di una speranza.
Mi riconosco oggi il diritto di essere fragile, il diritto di aver paura, ma soprattutto il diritto di lottare per me stesso.
Non più solo per gli altri.
Oggi io sono la mia priorità.
E anche se è difficile, anche se la mia voce trema mentre me lo dico, io continuerò a ripetermelo:
"Voglio vivere. Merito di vivere. Posso vivere."
Non sarò solo, nemmeno ora che imparo ad amarmi.
Mi stringo la mano, mi guardo negli occhi, e con tutta la forza che ho seminato negli altri in tutti questi anni, oggi la regalo a me.


"Lettera a me stesso":

Ciao Giuseppe 

oggi finalmente ti parlo.
Non è facile. Ho sempre avuto parole per gli altri, mai per me.
Per tutta la vita mi sono preso cura degli altri: di chi era fragile, di chi era solo, di chi soffriva. Ho dato tutto quello che avevo senza mai chiedermi quanto mi stavo consumando dentro.
Mi sembrava naturale: gli altri prima di me.

Ma adesso no.
Adesso è diverso.
Adesso sei tu quello che ha bisogno.
E io non voglio più voltarmi dall'altra parte.
Non voglio più farti sentire invisibile, nemmeno a te stesso.

Voglio che tu viva.
Con tutto il cuore, con tutta la forza che ti è rimasta.
Con ogni respiro, anche quelli stanchi.
Con ogni battito, anche quelli impauriti.
Perché tu meriti di vivere.
Non perché hai fatto tanto per gli altri, non come premio o ricompensa.
Ma semplicemente perché sei tu.

È difficile pensare a te come a qualcuno da proteggere, lo so.
Ma oggi imparo.
Oggi ti scelgo.
Anche se tremo, anche se fa male, anche se il futuro è una strada stretta e piena di curve.
Io ti prendo per mano e ti dico: "Vai avanti. Non mollare. Ci sei tu adesso. Ci sei tu, e vali."

Non importa quanto sarà dura.
Non importa se a volte ti sembrerà di non farcela.
Io ti starò accanto. Io sono qui. Sempre.

Con tutta la verità che hai dentro,
con tutta la dignità con cui hai vissuto ogni battaglia,
oggi ti guardo e ti dico:
Vivi. Per te.

Con amore e rispetto,
Giuseppe


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La quiete dopo la tempesta

Dopo tredici mesi vissuti nel dramma, oggi sento nascere dentro di me una nuova fiducia. Non è un entusiasmo ingenuo, né una dimenticanza di quello che è stato: è qualcosa di più profondo. È come se ogni esperienza, ogni paura, ogni speranza fossero state assorbite, trasformandosi in una nuova parte di me.

Non ho ancora una visione chiara del futuro. Il quadro clinico resta grave, e non mi illudo: so che la strada davanti a me è ancora incerta. Ma piccoli miglioramenti, lievi e preziosi, fanno capolino, come semi che chiedono pazienza e cura. Non più schiacciato dall'ansia o dalle domande senza risposta, oggi vivo il quotidiano con una nuova consapevolezza. Quel che verrà, lo accoglierò.

Intorno a me, la vita riprende il suo ritmo. Arriva il sole, le giornate si fanno più lunghe e più calde. Già in passato mi portavano allegria, ma ora sembrano parlarmi ancora più forte. Voglio vivere anche questa estate, assaporarla fino in fondo, senza pensieri pesanti. Con la gratitudine di chi ha imparato a guardare ogni giorno come un dono.

Così si chiude un ciclo di dolore, non con l’oblio, ma con una nuova apertura: più fragile forse, ma anche più vera.

Forse è proprio da questa ritrovata apertura che nasce il bisogno ancora più forte di tendere una mano agli altri. In fondo, è nella cura del prossimo, specialmente dei più fragili, che ritrovo ogni giorno la forza di credere nella vita.
Ed è così che si apre il cammino che mi ha portato a un incontro speciale, quello con Papa Francesco, e alla mia instancabile passione per i poveri e per i bambini, in ogni angolo del mondo.



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Prefazione del libro "Dentro quella porta" , di Giuseppe Prete


PREFAZIONE 
 
Parlare di cancro, del proprio cancro che ti vive nel corpo, quello che contro la tua volontà si nutre di te e ti consuma e trasforma i ritmi della tua esistenza, non è solo un atto di forza e di resistenza ma è un superlativo inno alla dignità della vita, propria e altrui. 
Alla ribellione cellulare che crescendo altera il vitale circuito biologico dell’esistenza, Giuseppe oppone una decisa, lucida, consapevole volontà di lotta. 
Egli affronta e vive con umana consapevolezza e umane limitazioni tutte le emozioni che il cancro attiva: il disorientamento, lo spavento, la vulnerabilità, il vuoto, il senso di solitudine, il dolore, la fragilità. 
Ma Giuseppe è anche uomo di azione e di relazioni e i suoi tumori hanno prostrato ma non abbattuto la sua prepotente vitalità e determinazione. 
Anche in questa difficile fase egli rimane curioso e appassionato amante della vita e questa sua cifra distintiva emerge su tutte le limitazioni che il cancro ha causato. 
Usando un’analisi intelligente, e spesso anche gli strumenti dell’ironia, Giuseppe ci descrive le emozioni delle sue giornate e le condivide con noi e con coloro che, come lui, cercano di resistere a questa subdola malattia. 
Lo fa, certo, anche per anestetizzare la sofferenza, per esorcizzare incubi e paure, ma con la caparbietà responsabile e lucida di sostenere l’integrità della dignità umana anche se il corpo e le sue funzioni gradualmente si disgregano. 
Giuseppe è un albero che sa piegarsi alla tempesta, ondeggia, mostra la sua umana vulnerabilità ma le radici sono salde nel terreno del suo vissuto. E ciò gli consente di sapersi adattare agli eventi più difficili senza rinunciare a sé stesso. 
Il dolore lo ha trasformato ma non lo ha sradicato dai suoi propositi e dai suoi ideali. 
Egli, Ambasciatore, uomo che tesse relazioni e avvia dialoghi costruttivi, riconosce persino al suo male un’identità, per meglio riconoscerlo e per meglio affrontarlo. 
Avvia quasi un confronto/negoziato con i suoi tumori (i suoi tre ospiti inattesi), senza però mai scendere a patti. 
L’uomo, abituato al confronto, ricerca e realizza, nonostante dolori e spossatezza, dinamiche di equilibrio, e ragionando con il suo male-ombra delinea un piano di azione. 
L’obiettivo è non solo continuare a vivere ma vivere, pur soffrendo, conservando la dignità di una vita che, seppure limitata negli orizzonti e quasi sospesa nelle aspettative, pur sempre ancora si orienta verso un futuro migliore. 
Per superare la vaghezza del tempo sospeso tra terapie ed esami, lo smarrimento e l’abbandono, egli sceglie di parlarsi e di parlarci, aprendo sé stesso, e noi lettori, a prospettive e a orizzonti nuovi. 
Non si rifugia in sé stesso costruendo un recinto apparentemente difensivo perché sa, che al contrario, questo comportamento isola e esclude da un esame lucido della realtà. 
Giuseppe è un uomo di ponti e di relazioni, aperto a costruire futuri migliori...





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Fonte: https://www.linkedin.com/in/cav-giuseppe-p-43371321/

sabato 21 giugno 2025

CORPUS DOMINI Festa del Corpo del Signore e dell'Eucaristia, p. Giovanni Lauriola ofm


CORPUS DOMINI
Festa del Corpo e Sangue di Cristo
e Festa dell'Eucaristia

p. Giovanni Lauriola ofm




La festa del Corpus Domini è la festa del Corpo del Signore, è la festa dell’Eucaristia. Per la presenza reale di Cristo, l’Eucaristia richiama direttamente alla memoria il mistero dell’Incarnazione, che costituisce l’asse portante e centrale della sua stessa realtà sia nella concezione teologica che pastorale. Poiché con il mistero dell’Incarnazione, l’uomo è stato come “divinizzato”, Cristo per assicurare nel tempo questa delicata e speciale identità all’uomo, si è costituito “pane” per alimentarlo spiritualmente lungo l’arco del tempo. L’Eucaristia, pertanto, è fundamentum et forma o fons et culmen della Chiesa, che, così, diventa la “continuazione storica dell’Incarnazione”, con il compito specifico di amministrare tutti i beni della Redenzione, operata liberamente dallo stesso Cristo, e consegnato specialmente nel settenario sacramentale.
Pensiero magistralmente espresso e confermato modernamente dal concilio Vaticano II in diversi documenti. I principali. Attraverso questo settenario, i credenti “si uniscono in modo arcano e reale a Cristo sofferente e glorioso… [E specialmente] nella frazione del pane eucaristico, partecipando noi realmente nel Corpo del Signore, siamo elevati alla comunione con Lui e tra di noi… Così noi tutti diventiamo membri di quel Corpo… [di cui] il capo è Cristo… l’immagine dell’invisibile Dio, e in Lui tutto è stato creato” (LG 7). L’“Eucaristia, come centro vertice della storia della salvezza, rende presente quel Cristo, che della salvezza è l’autore” (AG 9). “Nell’Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo…che, mediante la sua Carne… dà vita agli uomini”, confermando “nel suo Sangue la Nuova Alleanza” (PO 5. 4). Per mezzo dell’Eucaristia “i fedeli hanno accesso al Padre per il Figlio, Verbo Incarnato, che ha sofferto ed è stato glorificato, nell’effusione dello Spirito santo, ed arrivano alla comunione con la santissima Trinità” (UR 15); “con il sacramento del pane eucaristico viene rappresentata e realizzata l’unità dei fedeli che costituiscono un solo corpo in Cristo” (LG 3).


Storia

L’origine storica della festa del Corpus Domini risale al 1247, in Belgio, per contrastare le conseguenze della tesi di vescovo Berengario di Tours, che, nel 1047, aveva affermato essere la presenza di Cristo nell’Eucaristia solo simbolica e non reale. La questione, però, rivela un diverso modo di considerare l’Eucaristia. Difatti, prima del XI secolo, l’attenzione era rivolta non tanto sul fatto dell’Eucaristia in sé stessa, quanto di essere offerta per nutrire e santificare l’uomo. Si riconosceva il fine dell’Eucaristia, ossia la presenza reale del Corpo e del Sangue di Cristo, solo indirettamente attraverso gli effetti santificanti nell’uomo che si comunicava. A partire dal XI secolo, invece, l’attenzione si concentra principalmente sul realismo eucaristico, per cui la presenza reale di Cristo diviene il fine principale.
A questa diversa visione di considerare l’Eucaristia, si accompagnò anche una diversa manifestazione della devozione, imperniata direttamente sull’Ostia, per adorarla. Spesso, questo modo devozionale ha portato anche a delle esagerazioni: i fedeli, a volte, andavano da una chiesa all’altra per contemplare l’Ostia, e il sacerdote doveva tenerla in ostensione più del solito, per favorire la devozione; e la stessa contemplazione sostituì, a dirittura, la stessa Comunione eucaristica, tanto da indurre la Chiesa a porre l’obbligo al fedele a ricevere l’Eucaristia almeno una volta all’anno. Precetto valido ancora oggi (Codice di Diritto Canonico, can. 920). Urgeva, quindi, una presa di posizione ufficiale dell’autorità della Chiesa.
Due le occasioni che favorirono l’intervento del Papa. Una, di carattere teologico, venne dalla tesi di Berengario, che, negando la possibilità di separare gli accidenti visibili dalla sostanza, senza negare la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, rifiutava la tesi della conversione di sostanza del pane e del vino nel corpo e sangue del Cristo. Dopo varie condanne contro Berengario (concilio di Parigi 1051, di Tours 1055, di Roma 1059, Poitiers 1075, di Saint Maixeut 1076 e nuovamente a Roma nel 1078), dove, in un concilio convocato in Laterano (1079) dall'amico Ildebrando, diventato nel frattempo Papa Gregorio VII, Berengario firmò un atto di fede, in cui ritrattava completamente le sue concezioni e affermava di credere alla presenza reale di Cristo nell’Eucaristia. Verità definita, poi, nel 1215, dal concilio Laterano IV, come dogma di fede.
L’altra occasione, di carattere devozionale, è dovuta alle visioni di suora benedettina Giuliana di Cornillon (1191-1258), che, tra gli anni 1207-1227, raccontò di avere visto una luna splendente, simbolo della Chiesa, turbata da una macchia opaca. Il segno venne interpretato, dagli esperti dell’epoca, come una richiesta di istituzione di una festa liturgica in onore dell’Eucaristia. E, il vescovo di Liegi, Roberto di Thourotte, nel 1246 istituì la festa del Corpus Domini nella sua diocesi; il suo esempio fu imitato da altri vescovi nelle rispettive diocesi.
A questo movimento devozionale, è da aggiungere anche il miracolo di Bolsena nel 1263. Urbano IV, che si trovava a Orvieto, mandò sul luogo il Vescovo di Orvieto, Giacomo, per verificare il fatto. Questi, in compagnia dei teologi Tommaso d’Aquino e di Bonaventura da Bagnoregio, oltre a constatare il miracolo, portò le stesse reliquie al Papa, che le espose in cattedrale alla venerazione del popolo di Orvieto. E così, Urbano IV, l’11 agosto 1264, estese la festa del Corpus Domini alla Chiesa universale con la bolla Transiturus de hoc mundo: (“Quando stava per passare da questo mondo”), in cui dava anche la motivazione: “Sebbene l’Eucaristia ogni giorno venga solennemente celebrata riteniamo giusto che, almeno una volta l’anno, se ne faccia più onorata e solenne memoria. Le altre cose, infatti, di cui facciamo memoria, noi le afferriamo con lo spirito e con la mente, ma non otteniamo per questo la loro reale presenza. Invece, in questa sacramentale commemorazione del Cristo, anche se sotto altra forma, Gesù Cristo è presente con noi nella propria sostanza. Mentre stava, infatti, per ascendere al cielo disse: ‘Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo’“ (Mt 28, 20).


Significato teologico

Il valore teologico della festa del Corpus Domini, in onore dell’Eucaristia, può considerarsi sia come sintesi dell’intero anno liturgico che come mistero di tutta la storia della salvezza, “le cui origini sono dall’antichità” (Mi 5,1) e la sua realtà perdura fino “alla fine del mondo” (Mt 28, 20), perché Cristo è “l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine” (Ap 22, 13).


Eucaristia come mistero

Il documento sulla Liturgia del concilio Vaticano II, il Sacrosanctum Concilium, recependo l’insegnamento liturgico di Pio XII nella Mediator Dei (20 novembre 1947), chiama per antonomasia l’Eucaristia fons et culmen (SC 10), cioè principio e fine, base e vertice, somma e centro della Liturgia e della stessa religione cristiana. Questi e altri titoli cristologici vogliono dire semplicemente che l’Eucaristia vive dello stesso mistero dell’Incarnazione, perché l’Eucaristia non è altro che il prolungamento storico della stessa Incarnazione. E questo perché Eucaristia e Cristo sono la stessa cosa, la medesima realtà, l’identico mistero.
Condizione indispensabile per avvicinarci all’Eucaristia dev’essere la convinzione che è un “mistero”, cioè una realtà che, con tutti gli sforzi teologici possibili e immaginabili, non può minimamente essere compresa, ma unicamente accettata con fede e contemplata con amore. Soltanto così si concretizza l’espressione giovannea “chi crede in me… crede nel Padre che mi ha mandato [e] chi vede me, vede il Padre” (Gv 12, 44-45).
Tutto quest’alone di mistero è lo stesso alone che circonda la personalità di Cristo integrale e totale, il Christus totus, che la Scrittura rivela e presenta, specialmente in Giovanni e in Paolo. Tra i titoli cristocentrici più utilizzabile nel mistero eucaristico, piace ricordare quello della regalità o primato di Cristo, Re dell’universo. L’Eucaristia, pertanto, costituisce il cuore e il centro della Chiesa, per continuare, fino alla consumazione del tempo, la gloria del Padre e la salvezza dell’uomo, come cibo e bevanda del suo cammino esistenziale verso la patria celeste.


Eucaristia come sacrificio

L’Eucaristia realizza alla perfezione la finalità propria dell’Incarnazione, cioè la gloria di Dio e la libera redenzione degli uomini, e questo perché il Cristo si presenta come Sommo Pontefice, Eterno Sacerdote, Vittima Santa, che realizza tutta la storia della salvezza preparata e annunciata fin dall’antichità. Solenni sono, pertanto, le espressioni dell’ultima cena, l’unico grande gesto sacerdotale compiuto da Gesù, che sono entrate nella formula della consacrazione eucaristica: “Questo è il mio corpo… Questo è il mio sangue... Fate questo in memoria di me” (Mt 26,26-28; Mc 14,22-24 Lc 22,19-20; Gv 6,53-58; 1Cor 11,23-29), che suonano come un eterno ritornello d’amore eterno e aiutano a interpretare tutte le più belle parole pronunciate da Cristo nella sua avventura umana.
Cristo, nella Liturgia (V Prefazio del Tempo di Pasqua), è presentato come “Vittima Altare e Sacerdote”. Termini che traducono plasticamente le parole del memoriale: “Questo è il mio corpo” (Mt 26, 26; Mc 14, 22); “Questo è il mio sangue sparso per voi” (Mt 26, 28; Mc 14, 24); “Fate questo in memoria di me” (Lc 22, 19; 1Cor 11, 24. 25). Cui si possono aggiungere le meravigliose e sublimi parole: “Io sono la vite e voi i tralci. Chi rimane in me, porterà molto frutto… senza di me non potete far nulla” (Gv 15, 1-8); “Io me ne vado” (Gv 16, 7), “ma non vi lascerò orfani” (Gv 14, 18); “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20); “Chi mangia di me e beve il mio sangue, avrà la vita eterna, e Io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6, 54); “Chi vede me, vede anche il Padre” (Gv 14, 9); “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14, 6).
L’Eucarestia è nello stesso tempo un “segno” “rimemorativo” del passato, “significativo” della grazia presente, e “glorificativo” della gloria futura. Come “memoria di Cristo”, l’Eucaristia ricorda il passato preistorico e storico del Cristo, attualizzandolo nel vivo del presente e proiettandolo nel futuro radioso e grandioso della realizzazione del tempo. Difatti, Paolo afferma: “Voi annunciate la morte del Signore fino a che egli venga ogni qualvolta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice” (1Cor 11, 26).
L’Eucaristia come “sacrificio”, ricorda tutta la storia della salvezza, dalle antichissime origini fino alla consumazione del tempo, in cui si realizza ugualmente tutta la storia umana, che solo in Cristo riceve la sua giusta spiegazione: tutto e in funzione dell’uomo, l’uomo è in funzione di Cristo e Cristo è in funzione di Dio: “tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1Cor 3, 23).
In altre parole, l’Eucaristia è memoria della salvezza operata da Cristo e come tale è efficace e attualizzante, nel senso che l’efficace dell’attualizzazione ora dipende dalla fede con cui si fa memoria e si crede allo Spirito che attualizza il mistero, e l’ingresso nel mistero eucaristico esplode nella lode e nella glorificazione delle meraviglie operate da Dio in Cristo, il suo Capolavoro. E si ritorna così sempre alla lode a Dio per la sua autorivelazione in Cristo. È sempre la centralità del Cristo - o dell’Eucaristia - il perno della storia sacra passata presente e futura: tutto è in funzione dell’Eucaristia, il Cristo totale: predestinato morto risuscitato e glorificato.


Eucaristia come sacramento

L’Eucaristia, fondamentalmente, è il dono di Cristo agli uomini per salire a Dio con Lui. L’Eucaristia è “sacramento” in modo del tutto speciale, perché è sacramento da sempre, cioè dal quando avviene la transustanziazione, come a dire che sacrificio e sacramento, pur distinguendosi nel termine e nel significato, sono ed esprimono la medesima realtà, il Cristo integrale. Per questa sua singolarità, bisogna prima precisare la causalità dei sacramenti e poi analizzare l’Eucaristia sotto tre diversi aspetti principali: culmine e vertice dell’economia sacramentaria, nutrimento perfetto dell’anima, e fonte e cuore d’ogni culto nella Chiesa.


L’Eucaristia come fons et culmen dei sacramenti

La particolarità dell’Eucaristia nasce fin dal momento della sua costituzione: mentre gli altri sacramenti donano la grazia che significano nei loro specifici segni, l’Eucaristia è la stessa grazia, è lo stesso autore della grazia, è lo stesso Cristo, è lo stesso Verbo Incarnato, è lo stesso Capolavoro di Dio, è la stessa imago Dei.
Questa specificità dell’Eucaristia nei rapporti con gli altri sacramenti si può anche sintetizzare così: l’Eucaristia, in quanto è lo stesso Cristo - ieri oggi sempre - è il sacramento che continuamente dura, finché sussistono le “specie”; gli altri sacramenti, invece, sussistono solo nell’atto della loro costituzione o confezione. Nell’Eucaristia confezione del sacramento (o sacrificio) e sacramento coincidono, perché è lo stesso Cristo che perennemente si auto-dà, gli altri sacramenti danno la grazia e poi non sono più. Il sacramento dell’Eucaristia, invece, è, rimane e perdura dall’atto della sua confezione fino al perdurare delle specie.
In altre parole: l’Eucaristia è sacramento sia sull’altare dopo la consacrazione, sia nel tabernacolo quando viene conservata per l’adorazione e per essere portata gli ammalati. Questa è la presenza continuativa di Cristo tra gli uomini: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla del mondo” (Mt 28, 20), cioè il Cristo dell’Eucaristia è lo stesso Cristo com’è nei cieli.


L’Eucaristia come nutrimento spirituale

L’Eucaristia è il cibo spirituale e soprannaturale per eccellenza, perché è lo stesso Cristo Gesù autore della grazia: chi mangia il mio Corpo, vive di me. La comunione di Gesù Eucaristico può essere fatta in due modi: durante il sacrificio e fuori del sacrificio. La comunione durante il sacrificio abbraccia il significato di riconciliazione, come naturalmente significa il banchetto, cioè segno di comunione, di riconciliazione, di amicizia, di amore, di perdono... Tutti questi e altri segni del banchetto sono realmente presenti nella comunione ricevuta durante il sacrificio eucaristico. L’Eucaristia è veramente il cibo che riconcilia, che perdona, che apre alla vita e all’amore.
Anche se, per giusta causa e diversa situazione, si riceve il Corpo di Cristo fuori del sacrificio, l’Eucarestia conserva, benché in modo meno evidente, le stesse caratteristiche della comunione durante il sacrificio, di cui ne è il coronamento o il complemento.
Alla luce eucaristica, la parabola del “figliuol prodigo” acquista certamente una luce nuova e più penetrante, da arricchirne il significato. Tutto il “nuovo”, che il Padre ordina per celebrare il ritorno del figlio perduto, può indicarsi nell’Eucaristia, vero banchetto di festa... Anche la considerazione del “contatto” corporeo con il Corpo dell’Agnello Immacolato, rende più splendido e più forte il nostro essere, come ha reso per sempre virgineo e sublime il cuore della Madre Immacolata.
In proposito, simpatiche e veritiere sono le indicazioni di carattere mistico-spirituale che produce l’Eucaristia, pur senza trattare ex professo l’argomento. Quando si riceve con le dovute disposizioni, l’Eucaristia - dice Duns Scoto - produce due grazie specifiche: quella accidentale o santificante o abituale, indicata dal gesto della stessa manducazione delle specie eucaristiche, e quella essenziale o sussistente, che è il Cristo stesso, presente in modo permanente sotto le specie. E questa seconda grazia costituisce il significato autentico dello stesso sacramento.
E, utilizzando un pensiero caro ad Agostino, che parla in genere di Cristo: “Io sono il nutrimento degli adulti. Cresci, e mi mangerai, senza per questo trasformarmi in te, come il nutrimento della tua carne; ma tu ti trasformerai in me” (Confessioni, VII, c.10, n. 16), Duns Scoto, applicandolo direttamente all’Eucaristia, scrive: “Credi e mi mangerai, ma non sarai tu a trasformare me in te, ma tu ti trasformerai in me” (Ordinatio, IV, 8, 3, 2), così si gettano le basi di quella crescita spirituale in Cristo fino alla completa maturità dell’uomo perfetto. E ancora scrive: “Se non ci fosse il Corpo di Cristo nell’Eucaristia, tutti altri sacramenti perderebbero di importanza, e sparirebbe ogni devozione nella Chiesa, né sarebbe possibile offrire il culto di adorazione o latria a Dio” (Reportata Parisiensia, IV, 8, 1, 3); dal momento che “all’Eucaristia è dovuto il culto di latria come a Dio” (Ibidem, IV, 11, 3, 8). Parafrasando questo pensiero, si può anche dire che senza Eucaristia, le chiese sarebbero un luogo freddo e gelido, un ammasso di pietre, cioè come un corpo senz’anima, senza cuore e senza sangue


L’Eucaristia come fons del culto a Dio

L’Eucaristia è il sacramento per eccellenza, perché contiene ciò che realmente significa, il Verbo Incarnato, il Cristo, il Christus totus. Mentre gli altri sacramenti significano la grazia accidentale conferita a colui che li riceve; l’Eucaristia, invece, significa e realmente contiene la grazia essenziale, cioè lo stesso Cristo, che è la fonte d’ogni grazia, “caput omnis gratiae”.
Poiché Cristo ha voluto restare tra noi in modo permanente, ha scelto anche il segno sacramentale di permanenza nell’Eucaristia. La sua presenza reale aiuta molto il credente a sviluppare la giusta devozione verso di Lui e amarlo in modo degno. Tanto è vero che ogni azione di culto nella Chiesa ha fondamento e perfezione solo in relazione all’Eucaristia. Lo si nota specialmente sia nel sacerdote che celebra con più diligenza i sacramenti, e sia il popolo che assiste con più devozione alla santa Messa.
Si potrebbe anche pensare, per assurdo, se nell’Eucaristia non ci fosse la presenza reale di Cristo, tutti altri sacramenti perderebbero di importanza, e sparirebbe, forse, ogni devozione nella Chiesa, e non si potrebbe offrire il culto di adorazione o latria a Dio; dal momento che solo all’Eucaristia è dovuto il culto di latria come a Dio. Le stesse chiese non sarebbero che un luogo freddo e gelido, come un corpo senz’anima, senza cuore e senza sangue, un semplice ammasso ordinato di pietre.


L’Eucaristia e la Chiesa

Il rapporto tra Eucaristia e Chiesa è molto stretto e intenso. E questo specialmente in ordine al sacramento dell’Ordine che produce l’Eucaristia, e l’Eucarestia a sua volta realizza e alimenta la Chiesa, intesa principalmente come Corpo Mistico di Cristo. Scopo preminente del Corpo Mistico di Cristo è l’unità più profonda di tutto il genere umano nella carità più perfetta e nella consumazione dell’unità.
Per quanto riguarda la struttura sacramentaria della Chiesa, fondata dallo stesso Cristo per stimolare e sviluppare la crescita spirituale della stessa realtà ecclesiale del Corpo Mistico, un posto privilegiato occupa certamente il “sacerdozio”. Onde la grande cura con cui bisogna trattare l’ordine sacerdotale, che attraverso il suo ministero unisce i fedeli allo stesso capo, che è Cristo. La dignità e la grandezza del sacerdote proviene direttamente dalla sua relazione con l’Eucaristia, nella cui offerta egli agisce sempre in nome di tutta la Chiesa. Per questo si può chiamare coi nomi più belli e di grande spessore teologico: “mediatore tra Dio e la Chiesa”, “ambasciatore della sposa allo sposo”, “vicario di Cristo”.


Culto

L’Eucaristia, come il continuo “presente” storico di Cristo, costituisce veramente il cuore della Chiesa, il culmine e il vertice del culto latreutico a Dio, come Cristo stesso dice: “Che siano tutti una cosa sola, come tu sei in me, o Padre, ed io in te; che essi siano una cosa sola in noi, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu mi desti, io l’ho data loro, perché siano una cosa sola, come noi siamo una cosa sola, io in essi e tu in me, affinché siano perfetti nell’unità” (Gv 17, 21-23).
La festa del Corpus Domini, essendo una delle più popolari della cristianità, viene festeggiata con imponenti processioni. A Roma, la processione è presieduta dallo stesso Papa. L’uso della processione nella festa del Corpus Domini è stata introdotta da Giovanni XXII, nel 1316.
Normalmente la celebrazione del Corpus Domini si festeggia sessanta giorni dopo la Pasqua, ossia il giovedì dopo la festa della SS. Trinità, nei paesi dove è festa di precetto; dove, invece, non è festa di precetto, si posticipa alla domenica successiva, come in Italia dal 1977.




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venerdì 20 giugno 2025

Il Soggetto della Liturgia, di don Enrico Finotti


IL SOGGETTO DELLA LITURGIA

don Enrico Finotti




Vi è una questione fondamentale che deve essere necessariamente chiarita per impostare nel modo dovuto il discorso sulla Liturgia: è la questione del Soggetto.

Chi agisce nell’atto liturgico? Chi opera nei riti e nelle preci? Con quale autorità si esercitano le azioni liturgiche?

Queste domande sono di importanza così essenziale, quale lo è la ‘chiave di volta’ di un grandioso portale: rimossa la ‘chiave di volta’ tutto l’arcata crolla e con essa l’intero edificio. Oggi non si insiste abbastanza su questo problema e per questo è facile inoltrarsi in una grande confusione nel trattare del valore, dell’identità e dell’efficacia della liturgia, compromettendo gli stessi criteri di base nella sua concreta attuazione.

Il Soggetto della Liturgia è Cristo Gesù, indissolubilmente unito alla Chiesa, sua Sposa. Due Soggetti distinti, ma indissolubili, in modo da formare quasi un Soggetto unico, che agisce sempre in totale sintonia, senza la minima confusione della diversa loro natura e azione.

Infatti potremo dire che:

– nella liturgia di istituzione divina (il Sacrificio e i Sacramenti) è l’azione di Cristo-Capo che domina sovrana sia nel movimento ascendente del sacrificio che sale al Padre, portando con sé la Chiesa, sia nel movimento discendente che santifica la Chiesa sua Sposa, che ne riceve la vita della grazia;

– nella liturgia di istituzione ecclesiastica è l’azione della Chiesa-Sposa che opera in primo luogo, ma sempre in indissolubile unione col suo Sposo divino, che sempre assume e fa propria l’azione della sua Chiesa, sia nel movimento ascendente dell’adorazione, come in quello discendente della santificazione.

In tal modo ben si comprende che mai Cristo opera senza la sua Chiesa e mai la Chiesa opera senza il suo Capo. In verità se il Capo operasse senza il suo Corpo sarebbe negata l’Incarnazione e se il Corpo agisse senza il suo Capo cesserebbe nel momento stesso di essere Chiesa.

Ecco allora che ogni volta che si attuano nel tempo e nello spazio i riti liturgici in modo valido e legittimo ci si incontra con l’intervento soprannaturale del Signore Risorto e della Chiesa, che operano affinché tutto il popolo cristiano e ciascuno dei suoi membri possano essere assunti nell’azione sacra, sacrificale e santificante, e diventare con Loro un sacrificio puro gradito al Padre.

La confusione dottrinale e i conseguenti abusi nella celebrazione liturgica sono dovuti anche ad un concetto errato del termine ‘Assemblea celebrante’.

L’espressione in quanto tale è corretta: infatti è vero che nella liturgia l’intera Assemblea della Chiesa – Capo e Corpo – è il Soggetto agente di ogni azione liturgica. In tal senso ogni membro della Chiesa, per diritto battesimale e crismale, è chiamato ad un’operazione consapevole, attiva e fruttuosa ogni volta che interviene nella santa Assemblea. Tuttavia occorre precisare come si configuri l’Assemblea celebrante e quale siano le sue dimensioni costitutive e i lineamenti della sua vera e piena realizzazione. Per questo è necessario distinguere bene le sue componenti interne e con i loro diversi ruoli.

1) Non vi è ‘Assemblea celebrante’ senza Cristo-Capo. È necessario non passare sotto silenzio questa presenza assolutamente necessaria, primaria e sovrana. Anzi tutta la Chiesa è in Lui e da Lui fluisce. Al contempo vi sono atti propriamente suoi, in quanto Capo, e che la Chiesa riceve per diventare sempre più il suo Corpo. È Lui infatti che genera continuamente la Chiesa e che la mantiene permanentemente nella sua più profonda identità di assemblea santa, sposa incontaminata, popolo sacerdotale, sacrificio vivente.

2) Questa ‘Assemblea’ è certamente convocata qui ed ora in un preciso spazio e tempo: è l’Assemblea liturgica locale, che si delinea nelle caratteristiche proprie dei vari luoghi dove il popolo di Dio vive e cammina nel tempo, con tutta la più vasta gamma dei connotati culturali e ambientali, storici e sociali nel flusso del tempo presente che scorre verso l’eternità. È questa la Chiesa che il Concilio chiama ‘locale’ o ‘particolare’.

3) Questa medesima ‘Assemblea’ tuttavia non è chiusa, isolata nella sua località e oppressa dall’orizzonte ristretto della sua visione sociologica, ma è intimamente aperta e in comunione reale con tutte le ‘Assemblee’ liturgiche del mondo: quelle diffuse nello spazio su tutta la terra e quelle successive nel tempo, che ebbero luogo nello scorrere secolare dei millenni cristiani. È insomma una Assemblea cattolica, ossia universale nel senso che abbraccia le due coordinate essenziali della vita umana, il tempo e lo spazio. In questo sta il senso vivo della Tradizione liturgica della Chiesa che mai viene interrotta, ma che ci tiene in salda continuità con tutti quelli che ci precedettero nella fede. E così pure il senso della comunione e dello scambio reciproco tra tutte le Chiese a noi contemporanee, verso le quali abbiamo un debito e un impegno di comunicazione che deve poter essere sempre verificato, espresso e garantito. Nessuna assembla locale è totalmente libera di agire con una creatività svincolata dalla tradizione dei secoli e dalla comunione oggettiva con i fratelli di fede sparsi in tutto il mondo.

4) Infine – ed è cosa di primissimo ordine – l’ ‘Assemblea celebrante’ porta nella sua più profonda realtà l’immensa Assemblea celeste, la ‘maggioranza dei Santi’, lo stuolo delle miriadi di Angeli, la presenza materna della SS. Vergine. Non basta l’occhio del corpo per vedere il mistero che è sotteso all’ Assemblea’ liturgica, per quanto piccola e povera che si raduna qui sulla terra.

Occorre lo sguardo soprannaturale della fede, col quale si percepisce quella sterminata Assemblea che può essere ospitata soltanto nei cieli, ma che è geneticamente connessa ed intima con quel piccolo ‘noi’ qui radunati e col nostro flebile gemito di viatori nell’oscurità di quaggiù e nella debole luce della lucerna della fede che ci conduce nella notte. I Santi ci precedono in questo sguardo penetrante e il loro modo di celebrare ce ne svela il mirabile panorama di luce superna.

Ecco le componenti essenziali e mai dissociabili dell’‘Assemblea celebrante’. Se esse vengono adeguatamente tenute insieme, spiegate e vissute nella celebrazione, la nozione di ‘Assemblea celebrante’ non può che dichiarare senza timore la sua adeguatezza come Soggetto della liturgia.

Ma è a causa della riduzione o del silenzio di una o l’altra di queste coordinate fondamentali che si è diffusa l’incrinatura dottrinale e la pratica abusiva nel concreto modo sia di celebrare, come anche di impostare la formazione liturgica.

Si assiste oggi, infatti, ad una riduzione solo sociologica dell’Assemblea liturgica, ossia, si considera soltanto il piccolo o grande gruppo che si vede e che si raduna in un certo luogo, ma si dimentica tutto il resto: la sua invisibile dimensione universale e soprannaturale.

Soprattutto non ci si rende conto a sufficienza della presenza e dell’azione del Capo del Corpo, senza il quale tutto svanisce ed è travolto dal flusso inesorabile del tempo senza lasciare l’impronta di una salvezza eterna e definitiva.

Una ‘pastorale dimezzata’, attenta esclusivamente ai dati sociologici, ha ridotto la liturgia all’azione creativa del gruppo che gestisce di volta in volta il rito, senza più garantire a sufficienza l’azione del Signore, la comunione con i Santi, la Tradizione dei secoli e la sintonia con l’universalità della Chiesa.

In tal modo la liturgia diventa l’espressione del ‘noi qui convocati’ e della nostra cronaca quotidiana. Svanisce il respiro dei secoli, si chiude l’orizzonte della Chiesa diffusa su tutta la terra, si oscura la comunione dei Santi nel cielo e Cristo stesso rischia di essere un ospite di riguardo invitato ad assistere ad una nostra sempre mutevole creatività e a condividere quello che piace fare a noi. Il nostro protagonismo rischia così di sostituirsi all’adorazione e il politicamente corretto soppianta l’obbedienza alla Sua Parola di verità.

Come allora superare la crisi e aver garanzia di celebrare la liturgia vera, quella che ha per Soggetto Cristo e la Chiesa? Ubbidendo al Magistero della Chiesa. Solo, infatti, la liturgia come è stabilita dall’autorità della Chiesa garantisce la composizione equilibrata di tutti gli ‘ingredienti’ necessari alla natura di un vero atto liturgico. Chi segue con fedeltà l’Edizione typica dei libri liturgici, osservandone con precisione le rubriche e pronunziando con fede le preci stabilite, assicura in ogni sua parte il complesso rituale: – gli atti di Cristo-Capo sono rispettati nella loro validità; – quelli della Chiesa sono celebrati con tutte le loro dimensioni costitutive: la comunione nel tempo (Tradizione) e nello spazio (universalità) si compone con l’attenzione all’ambiente concreto in cui la liturgia si attua (località).

In tal modo sarà possibile celebrare una liturgia valida e lecita e quindi riconosciuta da Dio ed efficace in ordine alla nostra santificazione. Una liturgia, invece, che esulasse dal Magistero della Chiesa perderebbe immediatamente il suo vero Soggetto soprannaturale e decadrebbe irrimediabilmente in un atto di culto privato.

Si comprende allora le cause degli abusi liturgici attuali:

– la non percezione della presenza e dell’azione diretta del Signore, che provoca la caduta del senso del sacro; – un concetto errato o insufficiente di ecclesiologia, ridotta a sociologia localista;

– il conseguente concetto errato o ridotto di pastorale, rivolta eccessivamente all’uomo e al suo ambiente, senza vigilare adeguatamente sull’integrità del Mistero che deve trasmettere per la sua redenzione.

Con la caduta del Soggetto vero della liturgia oggi non si distingue più la liturgia dai pii esercizi, osservando che l’unico soggetto che opera sempre in ogni azione cultuale è l’ Assemblea celebrante’ nella sua visibilità più immediata. Oggi, infatti, non è raro ritenere che ogni espressione di preghiera fatta da chiunque e in qualsiasi forma sia liturgia e così pure la si denomina.

In realtà la differenza essenziale la fa il diverso soggetto: la liturgia ha un soggetto soprannaturale Cristo e la Chiesa in quanto tale, mentre ogni altro atto di culto pubblico o individuale ha come soggetto la persona o il gruppo che lo crea e lo celebra.

È allora necessario distinguere anche ritualmente la liturgia dai pii esercizi: – evitando l’intreccio interno con le azioni liturgiche:

– ovviando all’unione organica di un pio esercizio che, senza soluzioni di continuità, precede o segue un rito liturgico;

– resistendo precisamente dalla tentazione facile di sostituire atti liturgici preferendo superficialmente al loro posto pii esercizi e rallentando in tal modo di elevare il popolo alla liturgia. Forse potrebbe essere presa in considerazione anche l’opportunità di riservare gli abiti liturgici alle sole azioni liturgiche e indossare, invece, l’abito corale per presiedere ai pii esercizi del popolo cristiano.

Come si vede la normativa della Chiesa precede la prassi e davanti a noi vi è ancora molta strada da percorrere sia nella formazione liturgica, come nella conseguente celebrazione.





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giovedì 19 giugno 2025

La Liturgia, il mezzo più efficace con il quale possiamo sperimentare la potente presenza di Dio nella nostra vita, del card. Antonio Canizares


La Liturgia, il mezzo più efficace con il quale possiamo sperimentare la potente presenza di Dio nella nostra vita

del card. Antonio Canizares



Saluto con profonda amicizia, ammirazione e gratitudine il caro Fratello Vescovo Malcom Ranjith, Arcivescovo di questa Arcidiocesi di Colombo, ed estendo i miei cordiali e fraterni saluti a tutti i miei confratelli sacerdoti qui presenti insieme a tutti coloro che partecipano a questo Congresso. Esprimo la mia profonda gioia per questo incontro con voi e con la Chiesa pellegrina in Colombo, con le sue profonde radici cristiane e la sua grande vitalità di fede. Ringrazio Dio per avermi condotto qui a prendere parte all’inizio dell’Anno Eucaristico, vero dono di Dio per questa Chiesa. Vi ringrazio per avermi invitato, è grande onore e gioia per me, non potevo rifiutare.


1. Introduzione

Con la mia riflessione desidero unirmi alla vostra consapevolezza sulla centralità della Sacra Liturgia, cuore della vita della Chiesa; e che, mantenendo la propria natura, diventi sempre più “fonte e culmine della vita cristiana”, come definita dal Concilio Vaticano II. Come è indicato nel titolo di questa riflessione, la Sacra Liturgia costituisce “il mezzo più efficace mediante il quale possiamo sperimentare la presenza di Dio nella vita umana”, poiché è “un affacciarsi del cielo sulla terra”. Per questo desidero condividere con voi questo fatto: che ora e sempre ciò deve essere la prima e principale sollecitudine di tutta la Chiesa, come lo è per papa Benedetto XVI e lo fu, in qualche modo, per il Concilio Vaticano II, “ravvivare il vero senso della Liturgia”. Tale impegno, con le parole del Beato Giovanni Paolo II, “è urgente e impellente”.


2. Promuovere e ravvivare incessantemente la liturgia e il suo autentico senso: l’insistenza di Benedetto XVI

In effetti, è urgente che la Chiesa ravvivi il senso della liturgia. E’ imperativo comprendere che la liturgia è al centro stesso della vita della Chiesa, perché è uno strumento di santificazione e di celebrazione della fede della Chiesa ed è un mezzo di trasmissione. Insieme alle Sacre Scritture e agli insegnamenti dei Padri della Chiesa, essa è sorgente viva di una genuina e solida spiritualità. Come sottolinea anche la tradizione delle venerabili Chiese orientali, con essa i fedeli entrano in comunione con la SS.ma Trinità, sperimentando la loro partecipazione alla stessa natura di Dio come dono di grazia. In questo modo, la liturgia diviene un’anticipazione della beatitudine finale e partecipazione alla celeste gloria di Dio.

Si nota in maniera sempre crescente che, in questo particolare momento storico,in un mondo che soffre di una profonda crisi di fede in Dio, soprattutto nell’occidente, e di una forte secolarizzazione interna della Chiesa, almeno nei Paesi europei e in quelli di antica cristianità, quanto urgente e impellente sia ravvivare e rafforzare il senso e il significato originale della Sacra Liturgia nella coscienza generale e nella vita della Chiesa. Tale urgenza, sentita realmente come seconda a nessun’altra, è la missione e l’opzione di priorità della Chiesa. La Chiesa, le comunità e i fedeli cristiani acquisteranno vigore e vitalità, vivranno santamente, diventeranno coraggiosi testimoni e messaggeri gioiosi e infaticabili del Vangelo, se si vive la liturgia, se torna a essere il fondamento vivificante, affinché possiamo vivere di Dio stesso, della sua grazia, che è radice di santificazione e di evangelizzazione. Il futuro dell’uomo è Dio: il cambiamento definitivo del mondo è Dio, adorare Dio. E questa è la liturgia.

La liturgia ci riferisce a Dio, il soggetto della liturgia è Dio Padre, è Cristo, il Figlio del Dio vivente, è lo Spirito Santo che ci conduce dentro al mistero di Dio e ci santifica, la Santa e Indivisa Trinità, il soggetto non siamo noi. La liturgia, prima di ogni altra cosa, significa parlare di Dio, della Sua presenza ed azione; riconoscere Dio al centro di tutto, dal quale viene ogni cosa buona; glorificare Dio, lasciare che Dio agisca e operi la nostra salvezza e ci santifichi. La Costituzione sulla Sacra Liturgia del Vaticano II insegna che lo scopo finale di una celebrazione liturgica è la gloria di Dio e la salvezza e santificazione degli uomini. Nella liturgia, “viene resa a Dio una gloria perfetta e gli uomini vengono santificati” (Sacrosanctum Concilium, 7); e mai dobbiamo dimenticare il fatto che sono i santi, quelli santificati da Lui, che sono i veri adoratori di Dio e di conseguenza autori di una profondo rinnovamento del mondo.

L’allora Cardinale J. Ratzinger affermava che, anche se visto a posteriori, la Costituzione Sacrosanctum Concilium essendo stato il primo documento del Concilio, attesta che prima di tutto ci deve essere l’adorazione e Dio stesso. Questo principio corrisponde alle parole della Regola benedettina: "Operi Dei nihil praeponatur – Nulla deve essere anteposto all’opera di Dio”. La Chiesa, per sua stessa natura, nasce dalla sua missione di glorificare Dio e perciò è irrevocabilmente legata alla liturgia, la cui sostanza è la venerazione e l’adorazione di Dio, il Dio che è presente e attivo nella Chiesa.

Una certa crisi, che ha potuto incidere in modo decisivo sulla Liturgia e la Chiesa stessa, dalla fine del Concilio fino ad oggi, è potuta accadere per il grave errore di porre al centro l’uomo e le sue azioni, invece che Dio. “Nella storia post-conciliare, la Costituzione sulla Liturgia non era certamente compresa come qualcosa che sgorgasse dal fondamentale primato di Dio e dell’adorazione, ma come un elenco di prescrizioni che si devono seguire in materia di liturgia. Senza alcun dubbio, qualunque cosa si faccia per se stessi, diventa non solo meno attraente, ma tutti penseranno che le cose essenziali siano già perdute” (J. Ratzinger). Per questo, le comunità dei fedeli sentono una certa noia, un senso di debolezza e di angoscia. In verità, se vogliamo una Chiesa presente nel mondo, che lo rinnovi e lo trasformi secondo la volontà di Dio, come la Gaudium et Spes desiderava vedere, ha da essere una Chiesa che vive secondo le indicazioni del Sacrosanctum Concilium.

Per questo, considerando la situazione odierna, ciò che è sicuramente più urgente, è promuovere e dare nuovo impulso liturgico per realizzare la vera eredità del Concilio e il grande movimento liturgico del XIX secolo e della prima metà del XX, che formò le menti di tutti coloro che guidarono e arricchirono la Chiesa al Vaticano II. Riteniamo che tale nuovo impulso sia assolutamente indispensabile. Provvidenzialmente, un uomo del nostro tempo, impegnato a inaugurare una nuova umanità di nuovi esseri umani, una nuova cultura e una nuova dignità per l’uomo, ha avvertito tutto questo come una vera necessità; ancora di più, egli è un testimone di grande speranza, Papa Benedetto XVI, il quale nel suo pontificato, sta facendo della liturgia, come ben notiamo, un punto di riferimento di grande valore e di buona speranza per l’umanità.

Il Papa, ancor prima di venire eletto, aveva parlato di un grande processo educativo che avrebbe condotto tutta la Chiesa alla “logikè latrèia”, alla “rationabilis oblatio”, al sacrificio gradito a Dio (Rom. 12,1). “Volgerci verso uno spirito di rinnovamento liturgico è urgente: non occorrono nuove rubriche per giungere a tale rinnovamento, ogni volta sempre più orientate alle esteriorità, ma occorrono formazione e riflessione, quell’approfondimento mentale senza il quale ogni celebrazione corre il rischio di una rapida degenerazione verso un orientamento puramente esteriore” (J. Ratzinger).

L’opera del Papa attuale segue questa via, lo stesso processo educativo che egli intende far arrivare allo spirito della liturgia, superando perciò la tendenza a un puro esteriorismo, che sembra aver dominato alcuni riformatori liturgici e che fu denunciato da Papa Pio XII nella sua enciclica Mediator Dei: “Non hanno una esatta nozione della sacra Liturgia coloro i quali la ritengono come una parte soltanto esterna e sensibile del culto divino o come un cerimoniale decorativo; né sbagliano meno coloro i quali la considerano come una mera somma di leggi e di precetti con i quali la Gerarchia ecclesiastica ordina il compimento dei riti” (Mediator Dei, 25).

Molti passi importanti sono stati fatti recentemente per conservare la Tradizione vivente, soprattutto negli ultimi anni dei Papi precedenti: per Papa Giovanni Paolo II, ricordiamo ad esempio l’Anno Eucaristico, l’enciclica Ecclesia de Eucharistia, l’istruzione “Mane nobiscum, Domine” e, da parte di Benedetto XVI il Sinodo sull’Eucaristia e la successiva Esortazione Apostolica “Sacramentum Caritatis”, oltre a molti altri segni ed interventi che ci fanno capire come il rinnovamento liturgico sia al cuore del suo pontificato. E’ chiaro quanto fosse necessario approfondire e rinnovare la liturgia.

Ma un’opera perfettamente ordinata in questo senso non è mai veramente iniziata. Buona parte della Costituzione Sacrosanctum Concilium non sembra che sia mai entrata nel cuore dei cristiani. Vi sono stati cambiamenti di forme, ma probabilmente non abbastanza profondi e comunque non è stato il vero rinnovamento richiesto dai Padri conciliari e sospinto dalla Spirito di Verità che nutre la Chiesa. Talvolta si è proceduto a un cambiamento semplicemente per modificare un passato che si percepiva come totalmente negativo e superato, concependo la riforma come rottura e non organico sviluppo della Tradizione.

Si è letto il Vaticano II stesso in una chiave diversa da quella di un’autentica ermeneutica, che non poteva essere altro che un’ermeneutica di continuità, come ben detto da Papa Benedetto XVI. Tale situazione creò reazioni e resistenze fin dall’inizio che in alcuni casi si cristallizzarono in posizioni e atteggiamenti che portarono a soluzioni estreme, comprese azioni specifiche fino alle pene canoniche. E’ urgente però distinguere il problema disciplinare riscontrato negli atteggiamenti di alcuni gruppi di disobbedienti dai problemi dottrinali e liturgici, e aprire i tesori della liturgia a tutti i fedeli, in modo che scoprano i tesori del patrimonio liturgico della Chiesa.

Il Papa esorta, ancor prima di essere stato elevato al soglio di Pietro, quando era teologo, vescovo e prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, a un profondo rinnovamento della liturgia nella Chiesa, secondo il Vaticano II, assistito dallo Spirito Santo. E’ necessario dunque seguire i suoi insegnamenti di Papa, ovviamente, ma anche di professore, pastore, Arcivescovo e Prefetto che ha trattato molte volte e per differenti motivi di Liturgia. Il punto di vista teologico è il primo nei suoi insegnamenti ed è quello di maggior interesse, perché senza un fondamento teologico, senza un fondamento di buona teologia liturgica, inseparabile dalla cristologia e dall’ecclesiologia, non si arriverà alla tanto desiderata rivitalizzazione della liturgia nella vita del popolo di Dio. Egli va alla radice della questione liturgica e dice e pone per iscritto ciò che considera essere l’essenza della liturgia, ciò, vale a dire, che non può andare perduto, a cui non si può rinunciare, e si preoccupa di presentare sempre di nuovo quale centralità ha la liturgia per la Chiesa e l’umanità.

Allo stesso tempo, mentre dimostra come sia nel campo liturgico che si vede più chiaramente la continuità della grande Tradizione, è preoccupato di notare come avvenga qui anche la sua rottura. Ciò è fondamentale ai nostri giorni, quando la massima urgenza per la Chiesa è la trasmissione della fede, perché il mondo si salvi e abbia un futuro. D’altra parte, considera anche qual è stato lo sviluppo pratico della liturgia e il fatto che delle azioni liturgiche in molte occasioni abbiano sfigurato la verità della liturgia.

Tuttavia, egli riconosce e confessa nella sua autobiografia: “Così come ho imparato a capire il Nuovo Testamento come l’anima della teologia, ho compreso la liturgia come fondamento della vita, senza la quale alla fine inaridisco. Così pensai, all’inizio del Concilio, che la bozza preparatoria della Costituzione sulla Liturgia che conteneva tutti i risultati raggiunti dal movimento liturgico, fosse un grande punto di partenza per quella assemblea della Chiesa. Non potevo immaginare come gli aspetti negativi del movimento liturgico sarebbero emersi in modo così violento, col serio rischio di portare direttamente a un’autodistruzione della liturgia” (J. Ratzinger).

Nell’autobiografia, il Papa ci dà la chiave per capire come la liturgia, fin dalla sua infanzia, sia stata una ricca e profonda esperienza umana. Scrive: “La realtà inesauribile della liturgia cattolica mi ha accompagnato lungo tutte le fasi della mia vita, e per questo, non posso fare a meno di parlarne continuamente” (J. Ratzinger). Come ho detto prima, Benedetto XVI è l’uomo della Provvidenza, e per questo dobbiamo permeare del suo pensiero e delle sue direttive l’ambito della liturgia e della teologia liturgica per un nuovo slancio nel movimento liturgico per molte impellenti ragioni. Conoscere e far conoscere, studiare e applicare i suoi insegnamenti, il suo pensiero, i suoi orientamenti, tutto ciò è uno dei compiti e delle possibilità che la Provvidenza divina ci offre e ci presenta in questo tempo, bisognoso com’è di Dio, prima di ogni altra cosa, perché l’uomo non si perda.


3. Alcuni aspetti da considerare per la promozione e rivitalizzazione del vero significato della Liturgia

La promozione e rivitalizzazione del vero significato della liturgia non può essere frutto del volontarismo o semplicemente di una serie di provvedimenti amministrativi, disciplinari e pastorali. Innanzitutto, è un’opera interiore di educazione che ci conduce a scoprire e vivere la verità della liturgia, dell’autentico culto divino nella Chiesa. Ciò comporta e richiede, senza dubbio, molte cose, come andare al centro della liturgia, sperimentarla “dal di dentro”: la sua natura, la sua intima struttura, il suo posto e significato nella vita della Chiesa e dei fedeli.

E’ necessaria una cristologia e un’ecclesiologia che affermino e riconoscano il “Christus praesens in Ecclesia”. Parte dell’alienazione dei cristiani dalla liturgia e del suo fraintendimento, è stata una visione riduttiva di Gesù Cristo e della Chiesa che si è diffusa a vari livelli. Cristo è presente nella Chiesa e nel mondo come Signore ed unico Mediatore. Questo insegnamento deve avere il profilo e il significato che merita. Il necessario rinnovamento liturgico del Vaticano II e la sua realizzazione, in non piccola misura è stata portata avanti insieme a una teologia che sostiene “la secolarizzazione o la morte di Dio”, interamente incompatibile con la liturgia.

Una teologia simile rende impossibile capire, accettare e vivere la liturgia, la verità e lo spirito della liturgia. In un mondo di pluralismo religioso accettato acriticamente, e di un relativismo epistemologico dominante, cristologia ed ecclesiologia vengono ridimensionate e la liturgia viene distorta, insieme alla disaffezione a alla critica generale della Chiesa. Dalla confluenza di una cristologia che riduce, ad esempio, Gesù a una figura del passato, con un atteggiamento costantemente critico della Chiesa per decenni interi, ne deriva una mentalità religiosa che separa due realtà che sono sempre state inseparabili nella tradizione cattolica: Cristo e la Chiesa. Tale visione riduttiva ha diluito la presenza di Cristo nella Chiesa e nel mondo. E’ una separazione che non solo colpisce l’apprezzamento e l’amore per la Chiesa, ma la sostanza della fede in Gesù Cristo e la vita cristiana e il discepolato che, se realizzato separato dalla Chiesa, cade in un passato confuso con tutte le sue incertezze. Non sarebbe il Signore e il Vivente che salva, né colui che ha operato in modo definitivo nella storia, e anche nel nostro tempo. Perfino la sua unica e universale mediazione salvifica, sarebbe alterata alla radice. Separata da Cristo e opposta a Lui, la Chiesa, da parte sua, sarebbe ridotta a gruppo umano, ad associazione religiosa incaricata, nel caso migliore, del compito di prolungare la sua “causa”. Tali deficienze non solo svuotano l’immagine di Cristo, ma anche l’immagine e la percezione del vero essere della Chiesa e della sua salvifica mediazione, specialmente la mediazione della liturgia.

Di conseguenza, la Chiesa cesserebbe di essere sacramento di Cristo nel mondo,un segno efficace della sua presenza e mediazione salvifica, che esiste unicamente in Cristo e che Egli ci offre, ci dona, che è presente e ci raggiunge oggi, per cui il cristianesimo non diventa un’ideologia religiosa o una religione tra le altre, poiché tale posizione indebolirebbe la comprensione della Chiesa quale mezzo di azione salvifica del suo Signore che è presente in lei e attraverso di lei (cfr. Sacrosanctum Concilium, 7). Secondo questa visione distorta, i sacramenti e la divina liturgia verrebbero spogliati della loro profonda realtà, e il ministero apostolico o sacerdotale perderebbe la sua realtà sacramentale e diventerebbe qualcosa di funzionale, di non necessario per l’opera di salvezza. La visione di “Christus praesens in Ecclesia”, che corrisponde alla verità del “Cristo totale” e dell’unico mediatore, indica che la Chiesa non può essere separata da Cristo.

Il Vaticano II ha invocato un’estensione del ruolo della Chiesa per la salvezza dell’umanità, di cui ella è la prima beneficiaria (cfr. Redemptoris Missio, 9), e ciò avviene nei sacramenti, nella liturgia e primariamente nella Eucaristia. Infatti, il Concilio ha presentato la Chiesa come mistero di comunione e “il sacramento in Cristo dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen Gentium, 1 e 48; Sacrosanctum Concilium, 5; Gaudium et Spes, 43). “Dal costato di Cristo dormiente sulla croce”, insegna il Concilio, “è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa” (Sacrosanctum Concilium, 5). Cristo usa la Chiesa per la salvezza degli uomini, vive in essa, è la sua sposa, la fa crescere, attraverso di lei compie la sua missione di salvezza e divinizzazione degli uomini (Redemptoris Missio, 9). Per realizzare questo obiettivo, “Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle sue azioni liturgiche” (Sacrosanctum Concilium, 7), la usa come strumento di redenzione universale (cfr. Lumen Gentium, 9).

Cristo insegna attraverso la sua Chiesa, che in lei e per lei comunica la vita divina e la santità. Cristo agisce nel Battesimo e nell’Eucaristia, in tutti i sacramenti, nell’assemblea dei cristiani, nel ministero apostolico, nella testimonianza di carità, nel servizio dei poveri, nell’apostolato e nell’opera di evangelizzazione. La Chiesa come Corpo e sacramento della presenza di Cristo è necessariamente collegata all’Eucaristia ed è inseparabile da essa. Ma l’Eucaristia è comunione e partecipazione al Corpo di Cristo, cioè al glorioso corpo del Crocifisso, che perpetua il dono del Padre agli uomini di Gesù Cristo. L’Eucaristia, a sua volta, fa un corpo solo di quanti partecipano ad essa, vincola gli uomini tra loro e con Cristo, facendo la Chiesa, che si offre con Lui al Padre, il sacrificio e il culto divino a Lui gradito. Ciò che qui esponiamo, ha un grande impatto sulla vita della Chiesa. E’ questa visione del “Christus praesens in Ecclesia”, questa presenza, infine, del Cristo nella Chiesa che permette di renderci conto della verità e della grandezza della liturgia. Tutto il valore della liturgia dipende esattamente dalla presenza del mistero di Cristo, il Mistero Pasquale di Cristo nella celebrazione rituale o liturgica. “Giustamente perciò la liturgia è considerata come l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo. In essa, la santificazione dell’uomo è significata per mezzo di segni sensibili e realizzata in modo proprio a ciascuno di essi; in essa il culto pubblico integrale è esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra” (Sacrosanctum Concilium, 5).

La manifestazione e la comunicazione rituale del Mistero Pasquale di Cristo sono importanti dimensioni della liturgia, ma sempre subordinate alla presenza di Cristo. L’unione di tale presenza e la realtà dei segni sensibili, dei simboli e dei rituali,intrecciati in ogni celebrazione sacramentale, ci permette di affermare che “l’intera celebrazione sacramentale è una riunione dei figli di Dio con il Padre in Cristo e lo spirito Santo; l’incontro prende la forma di dialogo, attraverso azioni e parole” (Giovanni Paolo II, Vicesimus Quintus Annus, 7). Perciò, la liturgia “è il luogo d’incontro privilegiato dei cristiani con Dio e con Colui che ha inviato, Gesù Cristo” (ibid). L’incontro avviene mediante i segni visibili della sacra liturgia scelti da Cristo o dalla Chiesa e significano divine realtà invisibili (cfr. Sacrosanctum Concilium, 33).

La presenza di Cristo e i segni rituali nell’azione liturgica e sacramentale sono inseparabili. Entrambi gli aspetti significano da una parte che vi è una priorità del mistero di Cristo in rapporto all’azione liturgica, che ci permette di entrare in comunione con Lui. Perciò, come indicato nel Catechismo, la catechesi della liturgia comporta in primo luogo la comprensione dell’economia sacramentale, poiché la sua luce rivela la novità della sua conclusione. Inoltre, la fenomenologia del rituale non è, di per sé, capace di fornire una comprensione d’insieme della realtà conosciuta dalla Chiesa sotto il nome di culto. Un’ermeneutica basata esclusivamente su categorie di culto, rimane sempre alla periferia di quanto accade nella celebrazione cultuale. Richiamo qui, come segnalato da L. Bouyer, un principio del Sacrosanctum Concilium: la liturgia deve essere comunicativa. “Tra l’altro, tratta di cose che si possono realizzare, i segni sacramentali. Segni con i quali il Verbo si è fatto carne e vuole comunicare i doni che ha promesso e ci dona la grazia di adempiere tutto il piano di Dio. Tali segni nella loro sostanza essenziale – e non nei dettagli pratici della sua concreta realizzazione – sono dati alla Chiesa dal suo Capo e non devono essere alterati. Il modo in cui li ha ricevuti e ce li trasmette, è un esempio di quanto si può definire 'Tradizione viva'.

Il dovere di restaurare ed incorporare il vero significato di Tradizione ecclesiale e la Liturgia, particolarmente dell’Eucaristia, come atto principale della viva Tradizione. La liturgia come espressione e compimento, come atto della viva Tradizione della Chiesa, è un altro aspetto che occorre riprendere e incorporare per ravvivare il vero significato della liturgia. Lo costatiamo nei rappresentanti più autorevoli del movimento liturgico che ha condotto al Vaticano II, quali R. Guardini, H. Rahner, J. Jungmann, L. Bouyer, e certamente J. Ratzinger. La Tradizione è la vita della divina verità nella Chiesa, e nella liturgia essa trae la sua sorgente e la pienezza della sua forza, si trasmette, è essa stessa 'Tradizione viva e vivificante'. Nella liturgia la Tradizione trova il suo naturale contesto e lo stesso avviene con la proclamazione della parola di Dio.

La liturgia è la vita che la Bibbia riflette nelle sue pagine, rese specificamente cultuali nell’azione: il testo liturgico, infatti, è più o meno il compimento del testo biblico. Perciò, la liturgia manifesta le caratteristiche della Tradizione cattolica nella forma più solenne, essendo il cuore della Tradizione cattolica, poiché incarna la rivelazione della Parola eterna di Dio al suo popolo, l’atto di redenzione e della nuova creazione operata dalla stessa Parola. In tal senso, il culto non è solo parte integrante del patrimonio della Chiesa di Cristo, ma la stessa forma di tradizione ecclesiale del mistero di salvezza: la trasmissione, consegna, e attualizzazione oggi per gli uomini di quanto ci è stato donato, il manifestarsi del dono di Dio: Gesù Cristo e la sua salvezza. E’ chiaro che l’affermazione secondo cui il cristianesimo vive di tradizione, non vuol dire una tradizione di formule morte o di pratiche meccaniche: piuttosto, vive di ciò che ha ricevuto, come dice san Paolo, e che a sua volta trasmette agli uomini oggi e sempre. E’ tradizione di una persona, tradizione di vita, vita che cresce organicamente in una continua incarnazione. La Tradizione cattolica del passato non è fissata una volta per tutte secondo un modello che non si sviluppa. Né è qualcosa che arbitrariamente un qualsiasi individuo o autorità può cambiare; se lo facessero, si isolerebbero e sarebbero irresponsabili. Opporsi alla tradizione e al rinnovamento, all’autorità e alla libertà significa aver perduto il senso cristiano di questi concetti.

Parlare di tradizione significa parlare di dono, di ciò che abbiamo ricevuto e che ci è stato dato, da trasmettere e da far crescere organicamente e sviluppare per suo stesso dinamismo. La liturgia come atto centrale della viva Tradizione, il dono di Dio alla Chiesa, in lei e all’uomo, non è morto. Il cristianesimo stesso ha il suo senso nella liturgia, perché è un dono, dono ricevuto da Dio, dato una volta per tutte e irrevocabilmente mediante Cristo e gli apostoli e trasmessi fedelmente nella Chiesa, nella sua storia, nell’unità di quella storia sincronicamente e diacronicalmente considerata: la Tradizione è unità e comunione, continuità e non rottura, crescita organica non cambiamenti saltuari. La Tradizione viva della Chiesa è un dono di incomparabile ricchezza che deve dar frutto e non può rimaner sterile. La liturgia è parte del dono di Dio, la trasmissione di questo dono di Dio.

La liturgia è nel cuore di questa santa e viva Tradizione, come suo elemento costitutivo. Nulla perciò è più alieno da questa concezione della liturgia come dono di Dio e della sua trasmissione, che comprenderlo come puro e semplice prodotto artificiale, qualcosa di costruito. “Quando, riflettendo sulla liturgia, ci chiediamo come renderla attraente, interessante e bella, noi siamo già perduti. La liturgia è opera di Dio, Opus Dei, con Dio come suo specifico soggetto, altrimenti non è liturgia” (Benedetto XVI). “Per la vita della Chiesa, è fondamentale un rinnovamento del concetto di liturgia, una liturgia di riconciliazione che riconosca l’unità della storia della liturgia e interpreti il Vaticano II non come rottura ma come momento di sviluppo” (Benedetto XVI), perché è trasmissione di vita, non di morte.

La Chiesa è viva, soprattutto nella liturgia. Essa è fondamentale perché parte della Tradizione della Chiesa. Nella storia della Chiesa, c’è una stretta relazione tra “lex credendi” e “lex orandi”, cioè la forma di preghiera esprime la fede e la fede della Chiesa fa la preghiera della Chiesa. Perciò, la celebrazione liturgica e, di conseguenza, la riforma liturgica devono essere ben attente all’intima connessione tra “legge di fede” e “legge di preghiera”, in modo che l’integrità e la purezza della fede della Chiesa sia conservata nelle preghiere liturgiche e nei riti. Occorre che vi sia un collegamento visibile tra la fede della Chiesa e la sua vita liturgica e sacramentale, nella quale la Chiesa realizza la sua fede e contemporaneamente sperimenta di esser confermata nell’azione di salvezza di Dio. La mancanza di chiarezza nel rapporto tra la sfera dogmatica e quella liturgica è, a mio parere, un problema centrale della riforma liturgica post-conciliare e nella sua specifica applicazione in particolare oggi, quando alcuni dall’esterno e dall’interno tendono a ridurla solo a una questione di forme. Ciò spiega buona parte dei problemi che affrontiamo con l’assimilazione e l’applicazione del Concilio ai nostri giorni. Notiamo come spesso vi sia disaccordo tra l’essenza della celebrazione liturgica, la sua origine, i suoi ministri e la sua forma completa.

E’ in effetti una questione dell’identità e della fondamentale struttura della liturgia che incide sulla sostanza della fede. La vita liturgica della Chiesa deve essere considerata come l’atto più efficace della Tradizione, nei suoi aspetti attivi e di preghiera. Prospero di Aquitania ha espresso l’intima connessione di liturgia e fede, che fluisce da qui, con le parole “lex statuat supplicandi credendi legem”. “Dietro i modi diversi di concepire la liturgia, vi sono, come al solito, modi diversi di concepire la Chiesa e perciò Dio e il rapporto dell’uomo con Lui. Il tema della liturgia non è per nulla marginale; è stato proprio il Concilio che ci ha ricordato che qui tocchiamo il cuore della fede cristiana” (J. Ratzinger).

La liturgia è vera relazione dell’uomo con Dio, che è nostro Creatore, il datore di ogni bene, dal quale proviene ogni buon dono, che ha l’iniziativa dell’opera della creazione e della salvezza. Il culto cristiano non è proprietà dell’uomo, ma dono di Dio alla Chiesa, che vive di esso e cresce con esso. Più precisamente, “la forma del culto cristiano è determinata dalla fede biblica come dono di Dio per noi e non uno sforzo umano o impresa umana”. Dinanzi alla liturgia, dobbiamo assumere la stessa posizione che san Benedetto pone all’inizio della sua regola: “Ascolta, figlio”. Si tratta di ascolto, accoglienza, obbedienza, semplicemente perché Dio ha voluto offrire una liturgia, un modo particolare di essere a Lui graditi e divenire suoi adoratori.

La liturgia dà luce al primato di Dio, la priorità della realtà di Dio, ed è fondamentale non dimenticarlo mai per non tradire la verità della liturgia, poiché sarebbe come tradire Dio e l’uomo. Occorre riconoscere che “la liturgia è il diritto di Dio alla risposta dell’uomo. E’ la forma corretta di comportamento di Dio. La liturgia, l’adorazione, forme di esistenza umana in rapporto col mondo procederanno verso il traguardo e il pieno compimento della promessa senza cadere nell’idolatria, sovvertendo la relazione di Dio e la sua creazione” (E. Romero).

Uno dei più seri problemi dell’uomo della modernità, come ben sappiamo, è di credersi e vivere in modo autonomo e indipendente da Dio, stravolgendo il suo vero posto dinanzi a Dio e la verità del suo rapporto con Lui. Alla fine, non permette a Dio di essere Dio. Al contrario, è proprio quello che viviamo e impariamo soprattutto nella liturgia, permettere a Dio di essere Dio. Abbiamo bisogno di una nuova consapevolezza liturgica che riporti l’uomo ad adorare, a rendere grazie e lodare Dio, a lasciare che Dio sia Dio. “Si è arrivati al punto che gruppi liturgici si sono auto-fabbricati il culto domenicale da soli. Ma ciò non porta ad incontrare l’alterità assoluta, con la sua sacralità, che mi è data come dono” (J. Ratzinger).

Lo spirito del fare dell’uomo di oggi, come mostrano certe tendenze, ha portato a una concezione della liturgia come meccanismo che può essere montato e smontato arbitrariamente, il che è del tutto incompatibile con l’essenza della liturgia, in nessun modo proprietà dell’uomo ma dono di Dio. C’è un tipo di creatività che non rispetta il carattere della liturgia, essa non può essere manipolata, è dono di Dio e appartiene a tutta la Chiesa peregrinante nel tempo. Non si deve rischiare perciò di rompere con questo dono, con il passato che ci è stato tramandato.

Dobbiamo pertanto trovare un equilibrio fra tradizione e riforma, quella promossa dal Vaticano II, che dovremmo rileggere nei suoi testi e nel suo spirito, senza distorcerlo arbitrariamente. E’ necessario dunque promuovere il senso del mistero nelle celebrazioni liturgiche, celebrarle come una vera epifania del mistero, che esprimano chiaramente la natura del culto divino, e riflettano il vero significato della Chiesa che prega e celebra i divini misteri, e promuovano il vero senso della santificazione del nome di Dio per educare i fedeli ai sentimenti religiosi e aprirli alla trascendenza. E’ questo un fattore essenziale per rianimare la vita liturgica della Chiesa, senza la quale non c’è né vita né futuro, non c’è partecipazione al dono di Dio, il Dio che apre le porte del Cielo e ci dona la vita e la salvezza.

Ricordiamo sempre che nella liturgia i fedeli entrano in comunione con la SS.ma Trinità, e sperimentano la loro partecipazione alla divina natura come dono di grazia. Significa vivere la sacra liturgia come azione della Trinità. La liturgia diventa l’anticipazione della finale beatitudine e partecipazione alla gloria celeste, fine ultimo della nostra speranza. Non ci può essere rinnovamento della Chiesa e dell’umanità senza entrare nel mistero della vita di Dio, la SS.ma Trinità. Recuperare il senso del mistero è una delle sfide principali dell’umanità contemporanea. Il peggior danno che si possa fare all’uomo è quello di eliminare la dimensione della trascendenza e del mistero. La conseguenza, come sappiamo, è tendere a sostituire la verità con l’opinione, la fiducia con l’incertezza. La tendenza a presentare il bene morale come conformità sociale, considerare un eroe chi si pone contro i valori, ed esaltare il dubbio e il relativismo come vero criterio dell’esistenza umana.

E’ nel mistero della SS.ma Trinità che le profondità ultime della realtà si rivelano, il mistero dell’esistenza. Costituisce il principio e l’origine della creazione e redenzione, e d’altra parte tutto alla fine conduce al mistero di lode e adorazione. Inoltre, in ultima analisi, è la SS.ma Trinità a dare ad ogni cosa proporzione e consistenza. Tutto viene da Lei e tende verso di Lei. Dobbiamo difendere l’uomo da tutte le ideologie che minimizzano la sua triplice relazione con il mondo, con gli altri e con Dio. Chi non si aprisse a Dio, sarebbe menomato nell’essenza del suo essere, sotto il dominio delle potenze che lo soggiogano e lo rendono schiavo. Il cristiano deve affermare con la vita, le parole e i pensieri, la sua fede e la sua speranza nel mistero di Dio. Ciò è richiesto da ogni momento storico, perché la storia è storia di salvezza ad opera di Dio. Ma in modo speciale il mondo lo richiede oggi, perché vuole conoscere, toccare e sentire nella vita, la parola e i pensieri dei cristiani che la vita eterna cioè, come ha detto il Signore Gesù, è “che conoscano Te, l’unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Giovanni 17,3), rivelatore del mistero di Dio e dell’uomo e della grandezza della sua sublime vocazione. Ciò rende possibile la liturgia che è presenza e azione del mistero di Dio, il riconoscimento e l’adorazione del mistero di Dio. Lo avevano capito molto bene i primi cristiani quando non abbandonavano l’Eucaristia per nessun motivo nel giorno di domenica, il Dies dominicus, e lo avevano capito bene gli imperatori, perseguitando le celebrazioni della liturgia!

Dobbiamo rianimare il senso del mistero, in modo che la liturgia sia un momento di comunione con il grande e santo mistero della Trinità per gustare la presenza di Dio nella vita umana. Celebrando le azioni sacre della liturgia come rapporto con Dio e i suoi doni – espressione di autentica vita spirituale – la Chiesa può nutrire e dare vera speranza a coloro che l’hanno perduta, con più forza e vigore, e fare esperienza della presenza di Dio nella vita, anticipando la presenza definitiva di Dio fra noi, quando Egli sarà tutto in tutti.

Nelle celebrazioni, occorre mettere al centro Gesù, che illumini, guidi e nutra tutti noi. La liturgia della Chiesa non è intesa per calmare le paure e i desideri dell’uomo, ma per ascoltare e accogliere il Gesù vivo, per onorare e lodare il Padre, che ci dona Gesù nostro Signore, presente e attivo fra di noi, soprattutto nell’Eucaristia, sacrificio unico della Croce che Cristo offre al Padre e si dona a noi come pane di vita e bevanda spirituale. L’Eucaristia attualizza la comunione di Gesù con il Padre per l’umanità, e ci fa partecipare al suo Corpo e Sangue, la vera adorazione.

Nella liturgia gustiamo la presenza di Dio nella vita. Nella liturgia la Chiesa, come popolo radunato da Dio alla sua presenza per ascoltare, mostrare la disponibilità ad obbedire e servire, gusta la sua presenza e offre gesti di adorazione. Parlare di liturgia è parlare di Dio, riconoscere che al principio c’è l’adorazione di Dio. La liturgia non è una riunione spontanea di gente che celebra Dio a proprio modo; né il Concilio né la Costituzione Sacrosanctum Comcilium hanno cercato di organizzare la liturgia in modo diverso ... In tale contesto, la Chiesa nasce dall’adorazione, dalla missione di glorificare Dio. L’ecclesiologia ha a che fare intrinsecamente con la liturgia. Nella storia del tempo post-conciliare, la liturgia non è stata intesa come primato di adorazione, e per questo ha perso la sua ragione sessenziale.

In molti luoghi, la riforma liturgica è consistita prevalentemente in opere di uomini, con la loro creativa organizzazione della celebrazione, e la comunità riunita. Il rimedio, di conseguenza, deve venire dall’adorazione perché Dio occupa il primo posto e la comunità è riunita dalla Parola di Dio per glorificare il Suo nome. In che cosa consiste la vera adorazione? Qual è il sacrificio che Dio desidera? L’Eucaristia è un rendimento di grazie a Dio, è benedire Dio ed essere da Lui benedetti, è sottomissione al Dio tre volte santo, è ricevere il Suo amore misericordioso. La Costituzione sulla sacra Liturgia del Vaticano II insegna che lo scopo della celebrazione è la gloria di Dio e la salvezza degli uomini. Nella liturgia Dio è perfettamente glorificato e gli uomini sono santificati. E nel canone romano il sacerdote riconosce di essere un ministro di Dio, di essere stato immeritatamente ammesso alla Sua presenza per servire: “Noi tuoi ministri e il tuo popolo santo”.

Il centro della liturgia è la vera adorazione di Dio, la vita dell’uomo e la rivelazione della sua dignità. Quando l’uomo riconosce Dio, purifica il suo cuore, riorienta la sua vita, si affranca dallo stato di cattività e si rende conto di essere stato creato a immagine e somiglianza di Dio per amore, e che l’amore è il senso più vero della sua vita. Se l’uomo costruisce la sua vita personale e sociale lontano da Dio, si costruisce contro se stesso, perché Dio è la sua origine, via e fine. Dio non è in competizione con l’uomo, ne è anzi il miglior amico. “Il culto considerato in tutta la sua larghezza e profondità, va al di là dell’azione liturgica. Comprende l’ordine ultimo della vita umana secondo le parole di sant’Ireneo, che la gloria di Dio è l’uomo vivente… Il culto si perverte quando diventa celebrazione della comunità stessa e auto-conferma. Il culto di Dio diventa volgersi su di sé: mangiare, bere, divertirsi. La danza attorno al vitello d’oro è l’immagine di un culto che cerca solo se stesso, un genere di inutile auto-stima” (J. Ratzinger).


Una questione fondamentale e primaria

E’ nella liturgia che avviene primariamente l’adorazione, e in modo peculiare l’Eucaristia è adorazione. Occorre vivere l’Eucaristia come adorazione, prolungamento dell’Eucaristia, adorazione del SS.mo Sacramento. Sempre dobbiamo ricordare quanto dice il papa nel Sacramentum Caritatis: “Nell’Eucaristia il Figlio di Dio ci viene incontro e vuole unirci a lui, l’adorazione eucaristica è semplicemente l’ovvia continuazione della celebrazione eucaristica, che in sé è l’atto più grande di culto della Chiesa. Ricevere l’Eucaristia significa adorare colui che riceviamo. Soltanto così diventiamo uno con Lui, e in certo senso pregustiamo la bellezza della liturgia celeste.

L’adorazione al di fuori della Santa Messa prolunga e intensifica quello che avviene nella celebrazione liturgica stessa. Anzi, solo nell’adorazione può maturare una profonda e autentica ricezione della santa Comunione. E proprio in questo incontro personale col Signore matura la missione sociale contenuta nell’Eucaristia, che cerca di abbattere le barriere non soltanto tra il Signore e noi, ma anche e soprattutto le barriere che ci separano gli uni dagli altri… Ecco perché è altamente raccomandabile praticare l’adorazione eucaristica, sia personale che comunitaria.

Vivere vicini al mistero divino di Cristo che è morto e risorto e ci offre il suo amore misericordioso, rigenera i fedeli e la comunità. Celebrare l’Eucaristia è servizio prezioso all’umanità in ogni angolo del mondo, perché è glorificazione di Dio e fonte d’amore per gli uomini e di evangelizzazione. La liturgia, per tutte queste ragioni, è il mezzo più efficace col quale possiamo gustare la presenza di Dio, il suo amore, la sua salvezza nel mondo. Perciò la liturgia è intrinsecamente connessa alla bellezza.

“Non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell’amore ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore… La vera bellezza è l’amore di Dio che si è definitivamente a noi rivelato nel Mistero pasquale. La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce in certo senso un affacciarsi del Cielo sulla terra. Il memoriale del sacrificio redentore porta in se stesso i tratti di quella bellezza di Gesù di cui Pietro, Giacomo e Giovanni ci hanno dato testimonianza, quando il Maestro, in cammino verso Gerusalemme, volle trasfigurarsi davanti a loro (cfr. Marco 9,2). La bellezza, pertanto, non è un fattore decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l’azione liturgica risplenda secondo la sua natura propria” (Sacramentum Caritatis, 35), per rendere presente Dio come lo strumento più efficace e per sperimentare la sua presenza nel mondo.





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Card. Antonio Canizares Llovera
Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti
Conferenza tenuta dal Card. Canizares alla Liturgy Convention dell'arcidiocesi di Colombo (Sri Lanka) il 01 settembre 2010 (trad. it. a cura di d. Giorgio Rizzieri)

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