POESIE E PENSIERI ESISTENZIALI
del Cav. Giuseppe Prete
Bussando la porta del paradiso
Sto bussando alla porta del paradiso.
Non con la pretesa di entrare, ma con la speranza che qualcuno risponda.
Che mi venga aperto, anche solo per uno sguardo, un sorriso, un cenno.
Per capire se ho fatto abbastanza, se ho amato abbastanza,
se il dolore che ho attraversato aveva un senso.
Non so quanto tempo mi rimane.
I medici non si esprimono, forse per cautela,
ma mi seguono con particolare attenzione.
Io lo capisco, e leggo nei loro occhi più di quanto dicano le parole.
Non è che avessi fretta di andare via,
ma non voglio nemmeno crearmi illusioni.
Mi sia consentito pensarla così: con rispetto, con amore,
con quella serenità amara di chi ha imparato a guardare in faccia la verità
senza più temerla, ma senza per questo smettere di lottare.
Bussare al paradiso non è fuggire dalla vita,
ma cercarne l’essenza oltre la sofferenza.
È un gesto umile, non disperato:
come chi, stanco ma dignitoso, chiede una tregua,
chiede di essere ascoltato, compreso, accolto.
Ogni battito di quella porta è un pensiero,
ogni attesa è un ricordo,
ogni silenzio è una preghiera.
E se non si apre,
continuerò a bussare piano,
perché non si bussa con forza al paradiso,
ma con rispetto, con fede… e con un cuore nudo.
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Il potere dell'amore che purifica l'anima
C’è un amore che non si arrende al dolore,
che cammina accanto a noi nei corridoi dell’ospedale,
tra le paure taciute, le attese silenziose,
e le notti in cui il corpo cede ma l’anima resiste.
È l’amore che ho incontrato
nel volto di chi mi cura,
nelle mani di chi mi sorregge,
negli occhi di chi crede ancora in me,
anche quando io stesso vacillo.
Un amore che non chiede forza,
ma verità.
Che non pretende risposte,
ma accoglie il silenzio,
la rabbia, la fragilità.
È questo amore che mi purifica,
che mi libera dai fardelli del passato,
dalle illusioni di potere,
dalla corsa verso ciò che non conta.
Mi ha ricordato che la battaglia non è solo per vivere,
ma per vivere bene,
con dignità, con senso, con pace.
E se oggi alzo lo sguardo al cielo
e sogno ancora la diplomazia, la giustizia, la speranza,
è perché questo amore mi ha reso intero,
nonostante la malattia, nonostante tutto.
Perché l’anima, quando è amata,
ritrova la sua luce.
E io, in quella luce,
cammino ancora.
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"Sax di Luna" : tra la Vita e la Notte.
La notte cala come un velo scuro,
tra i neon stanchi e i passi lenti,
il sax piange note di luna,
un lamento che si perde tra gli angoli bui.
La città respira, silenziosa e viva,
mentre io, fragile come fumo,
cerco tra le stelle una risposta,
un senso a questa inquietudine che non dorme.
(Ritornello:
"Tra la vita e la notte, resto a suonare,
tra il dolore e le stelle, non voglio mollare.
Un respiro, un passo, un’eco che sale,
finché il sax continua, io continuo a lottare.")
La malattia danza, ombra senza volto,
mi sfiora, mi abbraccia, mi sfida a resistere.
Ma il sax continua, testardo e dolce,
come una voce che non vuole spegnersi.
Forse c’è speranza in ogni nota che sale,
forse c'è pace nel suono che si spezza,
tra la vita e la notte,
tra il dolore e la musica,
resta solo il respiro, il mio, il loro,
e quel sax che canta ancora
"Sax di Luna": tra la Vita e la Notte.
Questa mia nuova canzone evoca un'atmosfera notturna e malinconica, con il sax come simbolo di resilienza. La notte, che scende come un "velo scuro," rappresenta il peso della mia incertezza e dell’inquietudine, un riflesso della lotta interiore che sto vivendo.
Il sax che "piange note di luna" sembra incarnare il mio desiderio di continuare, di non cedere alla malattia che "danza" come un’ombra senza volto, senza identità definita, ma con una presenza inesorabile. Anche se mi sfida, io rispondo, fragile ma determinato. La musica diventa quindi non solo un rifugio ma anche una metafora della mia voce che, come quella del sax, "non vuole spegnersi."
Le note, pur spezzate, suggeriscono un messaggio di speranza e pace: c’è qualcosa di vivo anche nella fragilità e nella lotta. In fondo, ciò che resta è un respiro condiviso, quello tra me, la città e la musica, come un legame che testimonia il mio viaggio.
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Nel silenzio del parco
Sono seduto su una panchina, nel piccolo parco dell’ospedale. Il sole filtra tra le foglie, si sentono voci lontane – pazienti, medici, infermieri. Una brezza leggera muove l’aria. Eppure, in questo luogo così quieto, non mi sento davvero solo. Solo e triste, sì. Ma non abbandonato.
Mi siedo e rifletto. Penso alla malattia, al futuro. Non alla durata, ma a ciò che verrà.
La gente intorno passa, vive, corre, spera. Io no. Io resto fermo.
E mi attraversano pensieri che non vorrei avere, ma che fanno parte di me. Pensieri oscuri, duri, ancorati alla realtà. Perché ciò che vivo non è un brutto sogno: è la mia quotidianità.
Eppure, nonostante tutto, riesco a rilassarmi qui. In questo ambiente nuovo, che è anche quello che cerca di salvarmi.
E rimango positivo.
La verità è che la malattia ti prende anche dentro, nei momenti come questo, in cui apparentemente non succede nulla, ma tu senti tutto. La fatica, il peso, il senso di impotenza.
Eppure, in questo silenzio amaro, sento che sto raccontando qualcosa che va oltre me.
Anche questa tristezza può servire. Può parlare a chi vive le stesse ombre, può far sentire meno soli.
Non c’è niente da nascondere: questa è la realtà. Non tutta, ma una parte importante.
E va detta, va scritta, va condivisa.
Perché anche nei momenti più bui, raccontare è resistere.
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Turismo sanitario – con visita guidata inclusa
Quindici mesi fa eravamo insieme a Berlino, in giro per la sua città come turisti: birra per lui, analcolica per me (già visionaria), risate, tramonti tedeschi. Oggi ricambio la cortesia con un tour tutto speciale: niente monumenti, ma reparti. Niente musei, ma medici. Niente souvenir, ma aghi, flebo e una bella dose di chemio fresca di giornata.
Appena mio figlio è arrivato da Berlino, l’ho portato a visitare il mio "quartiere generale": abbiamo iniziato dal reparto oncologia, e poi da altri reparti dove faccio spesso visita, poi una passeggiata tra i corridoi color pastello e via, tappa obbligata al maneggio dell’ospedale — sì, proprio coi cavalli veri, mica metaforici! — e, ciliegina sulla torta, il Palazzo della Psichiatria, dove vado a ricaricare le batterie emotive quando il corpo fa sciopero.
Si sarà divertito? Boh. Però c’era più gente lì dentro che al Duomo di Milano a Ferragosto, quindi magari un po’ di entusiasmo gliel’ho trasmesso anch’io.
In fondo, ogni viaggio è un’esperienza. Questo, a modo suo, lo è davvero. E l’importante è che l’abbiamo fatto insieme, ancora una volta.
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"La voce dei figli"
A volte, nel mezzo della tempesta, bastano poche parole di un figlio per riportarti alla realtà. Non per forza alla speranza, ma alla verità: che non sei solo, anche quando tutto fa male. Questo scambio con mio figlio Mattia è stato uno di quei momenti. Ironico, affettuoso, reale. Un frammento di vita che resta inciso, come un’àncora.
07 giugno, ore 18:36
Mattia:
Tieni duro.
Tanto non tira una bella aria qua fuori 😂
Io:
Mattia, ho fatto viaggi peggiori.
Fosse quello il problema, non mi ha mai spaventato niente, ma vivevo.
Oggi sono tutto “incollato”, intrappolato in un corpo malato, distrutto.
Sono 14 mesi che tengo duro, e chissà per quanto ancora.
C’è da impazzire…
Anche se la psicoterapeuta dice che sto sorprendendo tutti in ospedale perché non cedo.
Lo dice anche il capo equipe medica.
Però è dura."
Queste parole non sono solo un dialogo tra padre e figlio. Sono la testimonianza di come l'amore resti vivo, anche quando la vita sembra spegnersi. Di come una battuta, un messaggio, una voce dall’altra parte del telefono, riescano a tenere accesa la scintilla. In fondo, la voce dei figli è anche quella della speranza. E della forza, quella che a volte non sai più di avere, finché non te la ricordano loro.
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Stanco di avere il cancro… tre in totale.
Oggi è una di quelle giornate in cui l’umore affonda senza un perché preciso. Nessun dolore nuovo, nessuna notizia devastante. Solo quella stanchezza che arriva all’improvviso, senza bussare. Quella frase che mi ritrovo in testa, sussurrata o urlata, non so:
“Stanco di avere il cancro.”
Non è solo fatica. È un grido silenzioso. È dolore, solitudine, frustrazione. È la sensazione che tutto mi pesi addosso: le medicine, le attese, i controlli, il corpo che cambia, la vita che rallenta. Ma anche gli sguardi degli altri, le parole che mancano, il dover spiegare, giustificare, rassicurare. O fingere.
Mi sento così: “sei solo, vivo, anzi non vivi, male, non sai che fare, tutto comincia a pesarmi.”
Allora scrivo. Parlo con me stesso, se serve. Lo faccio per non perdere il filo, per non lasciare che la voce interiore si zittisca. Scrivere è la mia ancora. È un modo per dire: “esisto ancora, anche oggi, anche così”.
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Resisto
È un fardello pesante. A volte ti schiaccia. Altre volte ti lascia solo il tempo di riprendere fiato prima di tornare a premere su di te. È difficile da sopportare, anche quando ci metti tutto l’impegno possibile. Non è questione di forza di volontà: quella non manca. È il corpo, il corpo che cede un po’ alla volta, come una diga che perde gocce invisibili fino a crollare sotto la pressione.
Ogni giorno mi ripeto resisti, resisti, resisti. Lo faccio almeno cento volte. È diventato il mio mantra, la mia preghiera silenziosa, il ritmo del mio respiro. Eppure, anche ripeterlo non sempre basta. Ci sono giornate in cui la stanchezza vince, altre in cui mi sembra di rinascere. Ma la verità è che ogni giorno è una battaglia da affrontare senza sapere come andrà a finire.
Certe volte vorrei solo lasciare andare questo corpo affaticato, abbandonarlo un momento, come si lascia un vestito troppo stretto, e ripartire da capo, con le energie di una volta. Ma poi penso a quanto ho imparato. Alla strada fatta. Alla lezione ricevuta.
Sì, la lezione l’ho capita. Forse troppo tardi per evitarne il peso, ma non troppo tardi per raccontarla. E con i miei racconti voglio lasciare qualcosa. Voglio dire a chi legge: non aspettate di stare male per prendervi cura di voi. Fate un controllo, anche se state bene. Non abbiate paura dei risultati. La paura peggiore è quella dell’incertezza. Sapere, conoscere, affrontare: è questo che dà forza.
Una diagnosi precoce può salvare una vita, o almeno renderla più vivibile. Può fare in modo che la malattia venga affrontata quando è ancora un avversario piccolo, gestibile. E allora sì, le passeggiate in ospedale diventano meno angoscianti. Più brevi, più leggere. Non perché il dolore scompaia, ma perché lo si guarda in faccia sapendo di avere una possibilità in più.
Io resisto. Resisto con tutto me stesso. Ma non sono un eroe. Sono solo una persona che cerca di restare in piedi mentre il terreno trema. E lo dico senza vergogna: si diventa fragili. La malattia non toglie solo il sonno o la forza, ti mette a nudo. Ti costringe a vedere tutto: la paura, la solitudine, ma anche l’amore che ricevi, gli sguardi che ti sostengono, le parole che arrivano quando meno te le aspetti.
È nella fragilità che ho trovato la mia vera resistenza. Non nella negazione del dolore, ma nella sua accettazione. Non nell’illusione di essere invincibile, ma nella certezza che posso ancora lottare, anche se più lentamente, anche se con fatica.
E così vado avanti. Un passo alla volta. Un giorno alla volta. E continuo a ripetermi, con la stessa convinzione, come un sussurro che diventa voce: resisto, resisto, resisto.
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Quante volte nella vita ho posato lo sguardo sugli altri, quante mani ho stretto, quante lacrime ho asciugato senza mai chiedere nulla in cambio.
Ho pensato ai deboli, ai malati, ai feriti del cuore e del corpo, credendo che il mio compito fosse solo donare. E forse lo è stato davvero.
Ma oggi, oggi la vita mi chiama a un compito diverso, più difficile, più spaventoso: pensare a me stesso.
Non sono abituato a parlarmi, a guardarmi dentro con gentilezza, senza giudizio. Non sono abituato a mettere la mia vita al centro, a dire ad alta voce: "Io voglio vivere".
Eppure è così: voglio vivere.
Non voglio che il dolore, la malattia, la paura mi portino via tutto ciò che sono. Non voglio essere solo il campo di una battaglia, voglio essere il custode di una speranza.
Mi riconosco oggi il diritto di essere fragile, il diritto di aver paura, ma soprattutto il diritto di lottare per me stesso.
Non più solo per gli altri.
Oggi io sono la mia priorità.
E anche se è difficile, anche se la mia voce trema mentre me lo dico, io continuerò a ripetermelo:
"Voglio vivere. Merito di vivere. Posso vivere."
Non sarò solo, nemmeno ora che imparo ad amarmi.
Mi stringo la mano, mi guardo negli occhi, e con tutta la forza che ho seminato negli altri in tutti questi anni, oggi la regalo a me.
"Lettera a me stesso":
Ciao Giuseppe
oggi finalmente ti parlo.
Non è facile. Ho sempre avuto parole per gli altri, mai per me.
Per tutta la vita mi sono preso cura degli altri: di chi era fragile, di chi era solo, di chi soffriva. Ho dato tutto quello che avevo senza mai chiedermi quanto mi stavo consumando dentro.
Mi sembrava naturale: gli altri prima di me.
Ma adesso no.
Adesso è diverso.
Adesso sei tu quello che ha bisogno.
E io non voglio più voltarmi dall'altra parte.
Non voglio più farti sentire invisibile, nemmeno a te stesso.
Voglio che tu viva.
Con tutto il cuore, con tutta la forza che ti è rimasta.
Con ogni respiro, anche quelli stanchi.
Con ogni battito, anche quelli impauriti.
Perché tu meriti di vivere.
Non perché hai fatto tanto per gli altri, non come premio o ricompensa.
Ma semplicemente perché sei tu.
È difficile pensare a te come a qualcuno da proteggere, lo so.
Ma oggi imparo.
Oggi ti scelgo.
Anche se tremo, anche se fa male, anche se il futuro è una strada stretta e piena di curve.
Io ti prendo per mano e ti dico: "Vai avanti. Non mollare. Ci sei tu adesso. Ci sei tu, e vali."
Non importa quanto sarà dura.
Non importa se a volte ti sembrerà di non farcela.
Io ti starò accanto. Io sono qui. Sempre.
Con tutta la verità che hai dentro,
con tutta la dignità con cui hai vissuto ogni battaglia,
oggi ti guardo e ti dico:
Vivi. Per te.
Con amore e rispetto,
Giuseppe
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La quiete dopo la tempesta
Dopo tredici mesi vissuti nel dramma, oggi sento nascere dentro di me una nuova fiducia. Non è un entusiasmo ingenuo, né una dimenticanza di quello che è stato: è qualcosa di più profondo. È come se ogni esperienza, ogni paura, ogni speranza fossero state assorbite, trasformandosi in una nuova parte di me.
Non ho ancora una visione chiara del futuro. Il quadro clinico resta grave, e non mi illudo: so che la strada davanti a me è ancora incerta. Ma piccoli miglioramenti, lievi e preziosi, fanno capolino, come semi che chiedono pazienza e cura. Non più schiacciato dall'ansia o dalle domande senza risposta, oggi vivo il quotidiano con una nuova consapevolezza. Quel che verrà, lo accoglierò.
Intorno a me, la vita riprende il suo ritmo. Arriva il sole, le giornate si fanno più lunghe e più calde. Già in passato mi portavano allegria, ma ora sembrano parlarmi ancora più forte. Voglio vivere anche questa estate, assaporarla fino in fondo, senza pensieri pesanti. Con la gratitudine di chi ha imparato a guardare ogni giorno come un dono.
Così si chiude un ciclo di dolore, non con l’oblio, ma con una nuova apertura: più fragile forse, ma anche più vera.
Forse è proprio da questa ritrovata apertura che nasce il bisogno ancora più forte di tendere una mano agli altri. In fondo, è nella cura del prossimo, specialmente dei più fragili, che ritrovo ogni giorno la forza di credere nella vita.
Ed è così che si apre il cammino che mi ha portato a un incontro speciale, quello con Papa Francesco, e alla mia instancabile passione per i poveri e per i bambini, in ogni angolo del mondo.
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Prefazione del libro "Dentro quella porta" , di Giuseppe Prete
PREFAZIONE
Parlare di cancro, del proprio cancro che ti vive nel corpo, quello che contro la tua volontà si nutre di te e ti consuma e trasforma i ritmi della tua esistenza, non è solo un atto di forza e di resistenza ma è un superlativo inno alla dignità della vita, propria e altrui.
Alla ribellione cellulare che crescendo altera il vitale circuito biologico dell’esistenza, Giuseppe oppone una decisa, lucida, consapevole volontà di lotta.
Egli affronta e vive con umana consapevolezza e umane limitazioni tutte le emozioni che il cancro attiva: il disorientamento, lo spavento, la vulnerabilità, il vuoto, il senso di solitudine, il dolore, la fragilità.
Ma Giuseppe è anche uomo di azione e di relazioni e i suoi tumori hanno prostrato ma non abbattuto la sua prepotente vitalità e determinazione.
Anche in questa difficile fase egli rimane curioso e appassionato amante della vita e questa sua cifra distintiva emerge su tutte le limitazioni che il cancro ha causato.
Usando un’analisi intelligente, e spesso anche gli strumenti dell’ironia, Giuseppe ci descrive le emozioni delle sue giornate e le condivide con noi e con coloro che, come lui, cercano di resistere a questa subdola malattia.
Lo fa, certo, anche per anestetizzare la sofferenza, per esorcizzare incubi e paure, ma con la caparbietà responsabile e lucida di sostenere l’integrità della dignità umana anche se il corpo e le sue funzioni gradualmente si disgregano.
Giuseppe è un albero che sa piegarsi alla tempesta, ondeggia, mostra la sua umana vulnerabilità ma le radici sono salde nel terreno del suo vissuto. E ciò gli consente di sapersi adattare agli eventi più difficili senza rinunciare a sé stesso.
Il dolore lo ha trasformato ma non lo ha sradicato dai suoi propositi e dai suoi ideali.
Egli, Ambasciatore, uomo che tesse relazioni e avvia dialoghi costruttivi, riconosce persino al suo male un’identità, per meglio riconoscerlo e per meglio affrontarlo.
Avvia quasi un confronto/negoziato con i suoi tumori (i suoi tre ospiti inattesi), senza però mai scendere a patti.
L’uomo, abituato al confronto, ricerca e realizza, nonostante dolori e spossatezza, dinamiche di equilibrio, e ragionando con il suo male-ombra delinea un piano di azione.
L’obiettivo è non solo continuare a vivere ma vivere, pur soffrendo, conservando la dignità di una vita che, seppure limitata negli orizzonti e quasi sospesa nelle aspettative, pur sempre ancora si orienta verso un futuro migliore.
Per superare la vaghezza del tempo sospeso tra terapie ed esami, lo smarrimento e l’abbandono, egli sceglie di parlarsi e di parlarci, aprendo sé stesso, e noi lettori, a prospettive e a orizzonti nuovi.
Non si rifugia in sé stesso costruendo un recinto apparentemente difensivo perché sa, che al contrario, questo comportamento isola e esclude da un esame lucido della realtà.
Giuseppe è un uomo di ponti e di relazioni, aperto a costruire futuri migliori...
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Fonte: https://www.linkedin.com/in/cav-giuseppe-p-43371321/
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