Paola Mancinelli,
Via aesthetica. La messa in opera della verità
La nostra parola si chiama bellezza.
La bellezza è l'ultima parola che l'intelletto
Pensante può osare di pronunciare, perché
Essa non fa altro che incoronare quale aureola
di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero
e del bene e del loro indissolubile rapporto.
H.U. von Balthasar, Gloria. Un'estetica teologica 1. La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1971.
Pensare la bellezza è la finalità che la filosofia non può eludere se, juxta propria natura,
si occupa dell'inizio, se il suo aprire cammini nell'esserci è una
chiave di decifrazione di un senso che non si esaurisce qui ed ora, e
che, addirittura non si esaurisce nella possibilità di affermazione
verbale, ma rinvia ad un silenzio, non già dell'indistinto ma della
premeva forma dell'essere che, secondo la classica dottrina dei
trascendentali procede per bellezza e verità e, in ultima analisi,
riposa ipostaticamente sul Bonum.
Questo tentativo vuol recuperare altrimenti la protologia, ravvisando
nella Bellezza l'origine, ma anche l'ultimità del mondo, quella luce
della redenzione, secondo i Minima Moralia di Adorno sotto cui
solo il mondo può apparire. Da questo punto di vista, la Bellezza è
legittimamente una delle parole della filosofia, e forse proprio
quest'ultima la salva dalla deriva di un commercium che ne fa la
forma esangue e presto consunta di una hybris oggettivante, riportandola
alla prima sua vocazione di compiutezza ma anche di armonia, così come
di grazia, di grazia originale, e proprio perché originale ultima,
escatologica.
Se nel carattere routinario dell'esserci la bellezza è passibile,
paradossalmente, di una deformazione nella maschera della parvenza, non
così è per la filosofia. Qui la bellezza è lo splendor formae,
l'identità gratuitamente ricevuta dell'esistenza che attiene alla sua
possibilità più propria. Essa è testimone dell'invisibile, non tradito
per i sensi, come afferma Massimo Cacciari,1 o, meglio, dell'invisibile che rende pregnante di mistero il sensibile, che non lo contraddice, ma ne esprime l'al di dentro.
Assolutamente non necessaria, in quanto prima e autentica espressione
di grazia, la bellezza è paradossalmente quanto di più essenziale
all'uomo vi possa essere:
Truth is Beauty and Beauty is Truth. That's all you know on earth and that's all you need to know2
scrive John Keats nella bellissima lirica Ode on a Grecian Urn
sottolineando il bisogno umano, ma anche tutta la pienezza di questa
sapienza. Quasi a dire che la bellezza detiene un'istanza gnoseologica,
il che non sembra molto lontano dall'istanza platonica della
contemplazione dell'eidos del mondo sensibile secondo l'imago intellectualis,
o da quella che ravvisa nelle forme simboliche la tensione verso
l'invisibile, così che la conoscenza è la capacità di partecipazione al
suo evento, la co-nascita (per tradurre il senso letterale del termine
francese co-naissance).
Così la bellezza assume un contrassegno ontologico del quale vogliamo servirci per tentare di ripensare la Stimmung
fondamentale della filosofia e anche il suo compito etico. Un'esigenza
che si fa più cogente soprattutto ora, nel secolo che ha vissuto e vive
il dramma dell'estremo, della possibile capacità di distruzione che
forse dovremo meglio definire antigenesi. Forse la bellezza è un altro
modo dato alla filosofia per fare memoria e per pensare una leggerezza
che non è evasione quanto possibilità effettiva di elaborazione,
trasfigurazione e promessa di un novum che è origine in quanto capacità rigenerante ma anche capacità di essere rigenerati, riedificata creaturalità.
Accanto ad una teologia della bellezza, così preziosa teoreticamente,
tentiamo un'ontologia della bellezza che tenga insieme la severa
lezione heideggeriana e, ad un tempo, quella luminosa e leggera di
un'ermeneutica che ravvisa nell'essere l'incontro con la Bellezza
vivente, che è Verità.
1. Ripensare la Bellezza
La Bellezza ha il potere di attrarre e chiamare all'altrove, evoca il
pensiero così che la domanda originaria, quella di origine metafisica
che si chiede dell'essere, del perché dell'essere rispetto al nulla,
trova nella pienezza eccedente della manifestazione della Bellezza la
possibile e sempre nuova risposta di un rivelarsi che è pura generosità
di essere, in-fondato inizio perché esplicato nella libertà originaria
di una de-cisione. In tal senso la Bellezza è un grembo sempre fecondo,
immagine della compiutezza originale verso cui la ricerca si snoda.
Tuttavia, il pensiero filosofico non può che intenzionarla e
anticiparla simbolicamente nell'idea di un intero che non può risolversi
nella totalità del reale, l'omnitudo realitatis del mondo a
portata di mano, ma che dice invece di un senso capace di tenere insieme
ogni esperienza, di rinviare continuamente in simboli questa Unità
oltre la sostanza che, in quanto inizio è capace di darsi come relazione
di pulchrum-verum-bonum nel diversum. Riprendiamo, qui,
la dottrina classica dei trascendentali dell'essere per evidenziare una
possibile metafisica da riformulare nella bellezza, dopo il dibattito
circa il lungo addio della metafisica, che, è pur sempre, secondo la
suggestiva interpretazione di Heidegger, un destino.
Non si può, da questo punto di vista superare la metafisica, o per
meglio dire si deve ripensarla con una grammatica differente che non la
coniughi più nella semplice presenza, ma nell'ambito di un desiderio
possibile, di un etero-topos, più che di un a-topo, e
forse la categoria della bellezza può venire in soccorso, perché già
presente ma altrimenti, già coglibile ma non nella determinazione
oggettuale, quanto invece in un evento che sposta il senso del mondo al
di là del dicibile. Nella bellezza il carattere di grande metafora della
metafisica si coniuga a quello di una dia-ferenza, nel senso di uno
spostare altrove un senso già dato nella gratuità. Ed è forse questo il
ruolo del mito, la verità filosofica che quest'ultimo afferma all'alba
del pensiero stesso: non è possibile che il pensiero possa
accontentarsi, che non voglia e debba spingersi oltre insonnemente e
vegliare in lotta con l'indicibile.
Illuminante questa pagina kantiana:
Platone vide molto bene che la nostra capacità conoscitiva sente un bisogno assai più alto che, che semplicemente di compitare apparenze secondo un'unità sintetica, per poterle leggere come esperienza; e notò benissimo che la nostra ragione si innalza per propria natura verso conoscenze, le quali procedono troppo oltre, perché sia mai possibile ad un qualsiasi oggetto, che possa essere dato dall'esperienza, di corrispondere ad esse, e le quali nondimeno hanno una loro realtà e non sono affatto semplici chimere.3
L'idea di una conoscenza fruitiva, che possa essere diversamente coniugata attraversa come un fil rouge
tutta la tradizione filosofica; questo implica per altro una diversa
modalità di incontro con la verità che si lega ad un'esperienza di
interezza e pienezza non definibile categorialmente (e, in effetti,
anche nel pensiero kantiano l'uso puro delle categorie è riservato al
mondo noumenico) ma non per questo meno reale. La bellezza può, allora,
offrire questo paradigma altro in quanto articolata su metafore e
simboli, nonché sempre pronta a tradurre in una cifra di invisibile la
realtà che si offre. Essa dona, a nostro avviso, un radicamento
metafisico alla fenomenologia, in quanto rinvia ad un senso più alto la
stessa esperienza, rendendole manifesto che non può esaurirsi nel
disponibile e manipolabile.
Ci si deve chiedere, dunque, quanto l'arte sia capace di continuare a
svelare alla filosofia il suo compito euristico ed ermeneutico. Quello
euristico sta nell'individuare nella bellezza la possibilità di leggere
il mondo sub specie libertatis, mentre quello ermeneutico
permette di ravvisare nell'epifania del bello la condizione di
un'esistenza liberata e riconciliata, così che l'esperienza del bello
diviene la condizione di possibilità di dialogo con la verità, nello
stupore di afferrare il gioco gratuito della creazione. Da questo punto
di vista il suo valore teoretico si esplica nella discontinuità del
mondo che essa rivela in rapporto con l'omnitudo realitatis disponibile nella presenza. Donde l'idea di una radice divina della bellezza, o forse di Dio come fonte della bellezza.
Tuttavia, come sottolinea Kant, si tratta di una conoscenza che
procede troppo oltre, ragione per la quale la bellezza sancisce il
nostro carattere anceps, dove la finitudine ci riporta al qui ed
ora dell'esserci, ma l'infinito che scandisce questo oltre
nell'inquietudine della nostra ricerca rivela che altro ed altrove è il
nostro dimorare la terra. Per questo come scrive Hölderlin, poeticamente ma pieno di merito abita l'uomo.
Tale abitare poetico non è forse ciò che permette di donare ciò che
resta, non certo come avanzo ma in quanto essenziale, l'essenziale
dell'eccedenza che permette la percezione dell'essere come grazia.
Qui, tuttavia, abbiamo compiuto un passo che si dovrà meglio esplicitare, operando una connessione fra bellezza e poesis e l'esplicitazione può avvenire sulla base del fatto che l'evento creativo del chiamare in vita attiene alla radice di kalos,
bello e di questo compito infinito partecipa la parola poetica, capace,
appunto di istituire/donare quanto resta, ovvero quanto eccede il
pensiero e lo richiama a una conversione che è, al contempo, attenzione
verso l'inedito ed immemoriale. La parola poetica dunque può dire il
mistero ontologico della bellezza.
Il nesso ontologia-poesia è prezioso per dire l'altrettanto ineludibile connessione fra esse e pulchritudo, che pure può essere hic et nunc intenzionato in virtù della natura ancipite del nostro pensare.
Ciò che occorre, a nostro avviso, sottolineare è l'istanza gnoseologica della bellezza e, di conseguenza, della poesis
che di questa pulchritudine è la forma più raffinata. La questione
fondamentale è l'accezione che dovrebbe, in ultima analisi, assumere il
termine conoscenza. Se la si vuole considerare secondo l'istanza
epistemologica, fondativi, sulla base della necessità, certamente non la
si può ordinare alla bellezza; se -- al contrario -- vi si voglia
ravvisare un'istanza partecipativa e fruitiva, allora non si può
escludere la radice conoscitiva. La distinzione fatta dalla filosofia
medievale circa la conoscenza per connaturalità affettiva sembra
assolutamente riecheggiare questa idea. Non si tratta, certo, di una
gnoseologia epistemica, e pur tuttavia, partecipando all'evento
dell'essere, essa in-stituisce un altro modo di lettura del mondo, una
sorta di metaforologia, di cui la bellezza è principio euristico.
Asserire questo implica per altro, assumere la bellezza come
principio ontologico e come possibilità di rivelazione della verità.
Essa è, in tal senso, istanza fenomenologica, ben radicata nell'evento
di donazione, in modo tale da non poter ridursi a parvenza (Schein), ma da ostendersi come portata intenzionale dell'essere che è sempre manifestazione.
Una digressione merita, tuttavia, anche il termine estetica, che si
attribuisce, solitamente, a tutto ciò che attiene alla bellezza in
quanto oggetto di indagine filosofica. L'etimo di estetica, aisthesis
è sostanzialmente legato alla percezione, in quanto traduce sentire, e
non è un caso che la metafisica settecentesca di Baumgarten abbia
denominato estetica la dottrina della percezione. A nostro avviso ciò
non costituisce affatto una diminuzione, o anche un tentativo di
relegare la bellezza all'infimo gradino della filosofia, quasi una sorta
di matrice doxastica delle cose dove la verità a malapena lumeggia;
infatti se ne può dare una lettura fenomenologica che recupererebbe
diversamente la sua intentio metafisica.
Se, infatti, pensiamo la percezione (percipi) come il
sentimento fondamentale dell'essere, assumendo il paradigma rosminiano,
possiamo facilmente arguire che la percezione (aisthesis) non si
dà senza una radice ontologica. Tuttavia, ci sembra necessario
sottolineare che, in tal caso, l'idea dell'essere come origine attuale
di ogni altra idea, non si esplica in quanto universale astratto, povero
di determinazioni perché ipostasi di ricezione di ogni determinazione;
essa si dà bensì in una condizione di ek-sistenza incarnata, in modo
tale che la sua trasparenza si sostanzia nella vita4
. Se così stanno le cose, risulta chiara la connessione fra l'essere e
la vita. Questo implica, perciò, che l'essere assuma una connotazione
affettiva, sia per l'appunto, sentimento fondamentale.
E, tuttavia, come vi entra la bellezza? Essa ha un ruolo importante in quanto la Grundstimmung apre all'esistente un orizzonte di trascendenza che lo rende consapevole della non risolvibilità nell'hic et nunc ma lo rinvia a una pienezza intuita nella quale la verità raggiunge il climax della sua epifania, facendosi incontro e vocazione. Tale evento in cui si esplica il kairós
della trasparenza della vita al sé, ha la forma della bellezza, così
che essa non può che avere un carattere definitivo, escatologico,
potremmo dire pur nella finitudine dell'ek-sistente.
Possiamo parlare di un'esperienza fruitiva in cui il mondo e il sé si
manifestano fuori dalla catena della necessità, nella loro finalità di
grazia, facendo si che si giunga a una sintesi nell'istante rivelativo
in cui il mondo, il sé, la vita, Dio stesso si rinviano l'un l'altro in
un gioco di verità e bellezza. Non si deve, tuttavia, pensare che questa
esperienza, possa e voglia escludere la speculazione filosofica a
favore di una confusa sofisticheria mistica. Anzi essa è pregna
di filosofia, rinviando allo stupore dell'inizio, all'iniziazione stessa
al pensiero nella meraviglia che custodisce la domanda dell'essere,
alla passione per la verità che si traduce in un commercium fra sophia ed eros come insegna Platone.
Nel Simposio si trova una sezione dedicata al dialogo fra
Socrate e la sacerdotessa Diotima di Mantinea, nella quale si evidenzia
la connessione fra eros, bellezza e filosofia. Vale la pena riportare il
testo:
[...] La sapienza è una delle cose più belle ed Eros è amore per il bello. Perciò è necessario che Eros sia filosofo, e, in quanto filosofo, che sia intermedio fra il sapiente e l'ignorante. E causa di questo è la sua nascita: infatti, ha il padre sapiente pieno di risorse e la madre non sapiente priva di risorse.5
Secondo le mirabili espressioni della sacerdotessa Diotima la
bellezza conduce alla sapienza mediante eros, che assurge qui a
principio divino di iniziazione al pensiero. Cogliendo la metafora,
possiamo assolutamente arguire come la genesi della filosofia è
implicata con l'idea fondamentale che la radice stessa dell'essere sia
bellezza e amore, forse anche per questo la sua dimora nel mondo
traguarda sempre verso l'oltre, e la sua sosta è mendicanza e
sovrabbondanza, se, nel tempo della povertà può annunciare l'evento
della bellezza come mediazione dell'invisibile.6
D'altro canto la connessione fra l'eros come origine divina e la
bellezza permette di identificare nella seconda un plesso ontologico che
depone a favore della dottrina classica dei trascendentali ma che, a
nostro avviso, la supera in quanto, da questo punto di vista, la
bellezza non è solo una proprietà predicabile ma è la stessa condizione
del darsi dell'esse in quanto ne fa risplendere l'aletheia.
Se si ripensa in questo modo la concezione metafisica classica, si
evince chiaramente che non sarebbe mai comunque possibile smarrire
l'essere nell'ente manipolabile o obliarlo nella presentificazione dell'adequatio logica.
In altri termini si può dire che il positum dell'essere nella sua istanza tetica è propriamente la bellezza ed essa la si può intendere come e-videnza in sé prima. Per questo motivo la sua in-seitas è il telos
dell'ek-sistere, inteso come aver da essere, così che essa assume una
portata contemplativa di valore quasi religioso. Vorremmo, ora fissare
l'attenzione sull'aver da essere, il quale non si coniuga sic et simpliciter in senso di una praxis,
quanto proprio come istanza di filosofia prima che renda ragione della
propria verità patica. L'aver da essere ricondotto alla soggettività
umana sottolinea la tonalità emotiva con la quale si percepisce la
propria esistenza come relazione ontologica fondamentale, che non può se
non darsi nella bellezza, tenendo presente la sua semantica di essere
chiamati. Da questo punto di vista è certamente possibile una metafisica
esistenziale secondo la bellezza. Tale metafisica si coniuga, tuttavia,
ad un'istanza fenomenologica che può essere ravvisata nel dato
originario della bellezza che si offre come intuizione d'altrove (ta physika)
a partire dall'ineludibilità dell'esser-ci quale finitudine e
corporeità. Queste due ultime istanze, poi, contrassegnano la condizione
privilegiata del metaphorein, così che la stessa esistenza
ancorata al presupposto ontologico della bellezza diviene metafora
stessa di questo evento epifanico.
Non si prescinde da una via analogica che traduce in simboli questa
partecipazione alla bellezza coniugata secondo il paradigma della vocazione ontologica ancor prima che etica,
in modo tale che la verità che si dà nella bellezza suscita una
corrispondenza che è, al contempo, apertura all'essere. Possiamo in tal
senso dare nome a quella Lichtung dell'essere di cui già parlava Heidegger e definirla attraverso la bellezza.
Illuminanti da questo punto di vista le riflessioni del fenomenologo
Jean Louis Chretien che vede nella bellezza un'esperienza dell'origine,
afferrata ex post, nell'afferrarsi come soggetto convocato e
cor-rispondente al suo appello, testimone della manifestazione originale
che, proprio in virtù di questo fatto, può essere significata per
simboli, decifrata ed interpretata come misterioso commercium con
l'altrove.
Recuperare la bellezza al pensiero filosofico, come si sta tentando
di fare, implica, da un lato ritornare alle sue fonti originali per
recuperarne la fecondità, ma dall'altro farne il principio euristico di
una metafisica, di cui troppo spesso si è abusato, riducendo la sua
riflessione sull'essere alla sistematica oggettivante delle sue
determinazioni, e rendendola immobile ed indifferente alla storicità. Al
contrario essa necessita di trovare una nuova koiné per poter
nuovamente articolare le parole dell'origine in un orizzonte di senso
che renda ragione della finitudine nonché del suo radicamento nel
mistero che ne sostiene il cammino del qui ed ora.
2. Ridonare il linguaggio
Sembra dunque che la notizia più propria dell'Essere
debba infine dispiegarsi appunto nello spazio espressivo
della trasgressione, in quella sporgenza del dire che-almeno
in apparenza e connettendo i lontani- trapassa dal proprio all'improprio.
V. Melchiorre, La via analogica, Vita e Pensiero, Milano 1996, p. 46.
Se è vero che la Bellezza è il climax di quanto l'intelletto
può concepire e ad un tempo la parola più appropriata per nominare
l'essere, è necessario che il linguaggio che la dice riveli la sua
portata assoluta, pur articolandola nelle sue povere forme. Il passo
citato di Melchiorre ci sembra pregnante perché sottolinea quanto
quell'antica e sempre nuova connessione di essere e linguaggio debba
passare per il rischio dell'apofasi, esserne segnata e ferita, in modo
tale da tentare una tras-gressione, un passaggio verso l'altrove per cui
la dicotomia fra l'impossibilità e la necessità del dire muti in una
fecondità dell'espressione simbolica.
Dunque la metafora di cui si diceva è sua necessitate trasgressiva,
non si accontenta dell'esprimere, ma vuole significare rinviando, vuole
contenere la bellezza d'origine pur scoprendola assolutamente
incontenibile. La povertà del linguaggio si radica nella sua capacità di
eccedere e tale eccedenza implica la capacità di riattingere la fonte
della bellezza come fonte generativa e sapienziale.
Forse per questo è essenziale il ricorso alla catacresi,7
per dire l'impossibile possibilità, insita nello stesso statuto del
linguaggio di accennare e rivelare. Ma come negare che il contenuto
stesso di tale rivelazione sia la bellezza come richiamo dell'origine
sottesa al non-ancora?
Il linguaggio implica, da questo punto di vista, un esser parlati
dalla bellezza originaria per cui solo è possibile dare consistenza
espressiva e significativa alla parola.
La bellezza significata nella possibilità della parola si esplica
come approssimazione tras-grediente, assurgendo ad unica indicazione di
cui abbiamo bisogno.8
Essa configura il reale in stretta affinità con lo spirituale e,
metaforicamente, significata ed accennata nel linguaggio essa dice
altrimenti il reale, articolandolo nella nostalgia di una mancanza,
quella mancanza per cui si intuisce quasi affettivamente l'esistenza
dell'Assoluto.
Paradigma ineludibile della bellezza è, in tal modo, la leggerezza
che vuole liberare ab intrinseco la stessa parola dalla funzione
strumentale; in essa si anima l'inquietudine dell'Assoluto, così che
essa diviene ethos, dimorare nella prossimità di quel primo
chiamare dell'essere per cui il mondo viene in-stituito nella luce
invisibile di quel richiamo presso cui ci si raccoglie,
heideggerianamente. Se il linguaggio è Haus des Seins, se nel
linguaggio l'essere si eventualizza nella differenza originaria, tutto
questo è possibile in virtù della sua capacità evocatrice, che pure si
sviluppa solo come ascolto di quel primo appellare.
Ci sembra altresì notevole questo mutamento di codice che si esplica
sulla tensione fra visibile ed udibile. È pur vero che nella
contemplazione del bello come eidos, la presa dello sguardo non assume
la forma di una cattura oggettivante, essendo la bellezza lo stesso terminus in quo
la propria ek-sistenza si origina, e tuttavia, assumere il paradigma
acroamatico significa obbedire al compito di trovare una lingua che dica
questa misteriosa convocazione. Forse per questo motivo la poesia
detiene una preziosa e imprescindibile radice ontologica.
Su questa ontologia poetica si gioca per altro una radice
gnoseologica che fa apparire il mondo, come sostiene Adorno nella luce
della redenzione9 perché essa lo salva a partire da quella Geheimnis Wort, quella parola segreta che pronuncia nella bellezza il mistero stesso del mondo. Così afferma Novalis:
La misteriosa potenza del Canto ci viene a salutare
quaggiù in innumerevoli metamorfosi.10
Quale potenza misteriosa può possedere il canto se non quella di una
pregnanza ontologica, quella di contenere il pensiero germinale, il
pensiero dell'inizio nel meriggio dell'essere che viene totalmente alla
luce dal suo primo nascondimento. Il canto è latenza ed epifania
dell'essere, così che non può che dirlo in infinite forme, innumerevoli
metamorfosi. Esso dice l'essere nella bellezza.
Il riposo della creazione non è che la bellezza totalmente manifesta
nel suo primo sorgere. Dio vide che ogni cosa era bella, ogni cosa
vivente per la Sua Parola.
I poeti ci insegnano i sentieri non tracciati e le radure da dove il
linguaggio trae la propria energheia, ci mostrano il luogo rivelativo
della poesis, ed infine ad attendere ubi albescit veritas. Il
loro tempo è quello dell'erranza, quello della povertà, ma da questo
tempo si origina una grande ricchezza, quella della familiarità con il
divino infinitamente significato nei simboli. Una perfetta euristica.
Un'euristica così pregnante, tanto che Heidegger ritiene che la fonte
della filosofia possa proprio ravvisarsi nella poesia. In essa, si può
comprendere come non si sfugga al destino della metafisica, ma anche
come sia possibile ripensare la metafisica accentuando il suffisso meta
. Il linguaggio poetico è evocativo, ma proprio per questo è proteso
all'altrove della bellezza come interezza di senso, rappresentando, ad
un tempo, anche l'ipotesi di una mediazione per cui, come scrive
Heidegger terrestri e celesti si corrispondono in una topologia
dell'essere, in una vera e propria poetica dello spazio.
Nell'immortale saggio heideggeriano, Wozu Dichter, Perché i poeti contenuto in Sentieri Interrotti, l'insigne filosofo di Marburg asserisce in merito alla poesia di Hölderlin:
Il poeta pensa nella regione delimitata da quella illuminazione dell'essere che, in quanto dominio della metafisica occidentale autocompientesi, è giunta alla sua configurazione conclusiva. La poesia pensante (denkende Dichtung) di Hölderlin ha contribuito a determinare questo dominio del pensare poetante (dichtendes Denken) . Il suo poetare abita questa regione più familiarmente di qualsiasi altra poesia del suo tempo. La regione in cui Hölderlin è giunto è una rivelazione (Offenbarkeit) dell'essere che rientra nella struttura (Geschick) dell'essere stesso e che, in base a questa, è assegnata al poeta.11
La prima connessione importante è quella fra poesis e pensiero che, a
nostro avviso dice altrimenti l'antichissima relazione fra logos e ed essere. Vi è, tuttavia, una differenza di fondo: la poesia pensa nell'apertura rivelativa del logos ed è essa stessa re-velatio. Dunque il suo darsi come habitus
dell'uomo rinvia ad un'illuminazione, quella dell'essere che delinea
una regione, un topos nel quale si compie la sua manifestazione. In ogni
caso, essa si esplica in un rinvio storico, affidato al poeta. Tuttavia
non è forse il carattere pensante della poesia da ravvisarsi nella
bellezza. Di conseguenza, non è dunque la bellezza uno di quei predicati
per cui risuona ancora immortale l'affermazione di Aristotele to on pollachos leghetai?
Dove, secondo Heidegger, ricompie il dominio della metafisica
occidentale è possibile che si possa ancora recuperare un diverso inizio
per cui la metafisica è certamente un destino, Geschick 12direbbe
Heidegger, ma il termine indica la modalità di un inviare storico, che
attiene al Da-sein, al suo abitare poetico nella capacità di in-stituire
ciò che resta. Ma che cosa resta davvero? Saremmo tentati di dire
l'impensato, ciò che la metafisica sostanzialista ed oggettivante non
può catturare senza commettere il più fondamentale oblio. Questo
impensato, però, ha il carattere dell'evento del linguaggio, che non può
non sentirsi con-vocato verso la regione di questa illuminazione. Se,
tuttavia, si assume la bellezza nel significato dell'appello originario,
essa non può che restare come compito nella poesia, un compito affidato
ed assunto dal poeta. Così la bellezza può divenire ancora paradigma di
una ontologia fondamentale.
Non è un caso che la koiné ermeneutica abbia assunto la teoria
estetica come modello per ripensare l'altra vitale connessione, quella
fra esse et verum, ravvisando nell'opera d'arte una messa
in opera della verità esplicatesi nell'infinito gioco dell'essere, e
forse dando un nuovo linguaggio alla bellezza. In ogni caso questo
linguaggio nuovo affonda le proprie radici nella tradizione del pensiero
che ci caratterizza in quanto dialogo vivente.
Questo è possibile per il fatto che la bellezza si pone come il
poetare del pensiero, in questo senso come esperienza fondamentale del
pensare. Se così stanno le cose, risulta del tutto chiaro il motivo per
cui abbiamo ravvisato nella via aesthetica una vera e propria euristica.
Fondamentale in questo senso la riflessione pareysoniana contenuta in Estetica. Teoria della formatività:
L'estetica non è una parte della filosofia, ma la filosofia intera concentrata sui problemi della bellezza e dell'arte, e in secondo luogo le questioni concrete dell'estetica per il fatto di essere particolari non cessano affatto di essere filosofiche, e non la cedono in nulla, quanto a difficoltà, alle questioni più generali, impegnate come sono in una immediata e perentoria verificabilità delle soluzioni proposte. Piuttosto si può dire che l'estetica è un felice esempio del punto di incontro delle due vie della riflessione filosofica: la via all'insù che trae risultati universali dalla meditazione sull'esperienza concreta, e la via all'ingiù, che si serve di questi risultati per interpretare l'esperienza e risolverne i problemi.13
La convergenza delle due vie di cui Pareyson parla evidenzia che la
filosofia in quanto theorein abita il mondo, ma essa è al contempo una
sorta di segnavia che traguarda sulla condizione stessa di questo
abitare e figurare il kosmos, per l'appunto l'estetica. Di
conseguenza, l'estetica diviene un paradigma privilegiato per pensare la
bellezza, per darle una configurazione filosofica. D'altra parte, poi,
la filosofia si origina come senso di una riflessione sull'esperienza
della vita tout court ed in tal modo la bellezza è una modalità per dare
alla vita la forma filosofica. In tal senso, del tutto
appropriatamente, Pareyson ritiene l'estetica una teoria della
formatività.
In ogni caso la koiné della bellezza nell'ambito filosofico
merita alcune precisazioni. L'ipotesi di lavoro da cui siamo partiti è
senza dubbio quella della via classica ed ancor prima antiqua, che
attiene alla bellezza in quanto trascendentale dell'essere. Non si può
dimenticare però, quanto anche in epoca romantica prima, e,
conseguentemente, in quel passaggio fra Otto e Novecento sancito da
Nietzsche la bellezza sia stata assolutamente radicata nella filosofia.
Questo implica un'ulteriore riflessione, da condurre proprio dialogando
con Nietzsche, convogliando, di conseguenza, il nodo della bellezza in
ambito ermeneutico. Il tragico e maestoso pensatore tedesco che più di
ogni altro ha incarnato il dramma dell'incipiente secolo, recupera il
tema della bellezza nell'ambito del tragico. Non la bellezza apollinea,
dalle splendide forme che sono di per sé una correzione del tragico con
il filosofico, rappresenta per Nietzsche una forma filosofica, quanto
quella dionisiaca, capace di non dimenticare il tragico dell'esistenza,
ma anzi di giustificare l'esistenza ed il mondo solo come fenomeni estetici,14
La bellezza è una modalità filosofica di non allontanare il dolore
della vita ma di riscattarlo nelle sue forme, di riportare il soggetto
ferito e smarrito (poiché il cogito non è che un diverso paradigma
dell'affabulazione metafisica che corregge il tragico con il principio
dell'evidenza) alla fonte della sua ek-sistenza che è progettualità e
con-vocazione da parte della verità di cui ci si deve continuare a
chiedere quanta misura possiamo sopportare. Essa stessa è attraversata
dal dolore e ciò che contribuisce ulteriormente ad accentuare la
tragedia è che la bellezza stessa ferisce e soggioga pur mentre libera.
Essa non risolve la natura anceps dell'esistenza, ne fa esplodere invece
tutto il grido facendola sostare sul crocevia fra la scelta
dell'assunzione della sua vocazione e la disperazione della desolante
chiusura. Nietzsche stesso, travolto dalla tragedia della morte di Dio e
straziato dalla luce sinistra che promana da questo evento puntuale
quanto pregno di orrore, non ha visto, pur anelandola fino al
parossismo, la dolorosa bellezza del Crocifisso, segno incontrovertibile
dell'ombra e della kenosis nella stessa Bellezza divina, per cui
il tutto buono-bello della Genesi non si dà se non in quell'atto
estremo della consegna di Dio.
Ma il pensiero di Nietzsche è prezioso ad una riflessione filosofica
che voglia porsi come ermeneutica dell'esperienza religiosa a partire
dalla bellezza; ci insegna a comprenderne tutta la pregnanza drammatica,
ma anche a guardare la fenomenalità della terra sotto la luce della
redenzione, invitandoci a traguardare, in quanto filosofi, sugli
orizzonti della letteratura e della musica, a ritrovare enormi masse di
vita filosofica nel pre- od extra- filosofico, così che essa cerchi
ancora un linguaggio per dire il senso, il suo rapporto con la
differenza, la sua attesa di Dio.
Così la nuova aurora del pensiero, così come il culminare del suo
meriggio è intrisa di poesia; non si tratta di una teoresi acerba, che
impiega la poetica perché ancora ai primi passi. Trattasi, bensì di un
logos poetico giunto al suo culmine nel radicamento dentro il Mistero e
quindi capace di stare nella vita per darle la forma, certo di un
commercio con il mondo, ma pur sempre di un commercium che è via verso
l'originaria bellezza, forse rinvio ad essa in virtù della viva metafora
che ogni ek-sistenza è.
Da questo punto di vista, allora, non l'astrazione che immobilizza
ogni conoscere, o almeno non solo essa è la lingua filosofica della
bellezza che salva perché rinvia alla fonte invisibile dello spirito,
quanto la poesia, capace di esprimere l'intrinseco trascendere e
trascendersi del pensiero, di salvare le cose senza tradirle nella
parvenza dei sensi, ma dando ai sensi il compito epifanico di
manifestare la bellezza. Se la filosofia è definibile con Platone
un'erotica e se il desiderio di sapienza è connaturale a quello di
bellezza, allora la poetica che declina la bellezza nelle forme della
creazione è sua natura ontologica, partecipa dell'essere evocandolo nella percezione della forma, che, in tal modo è rivelativa.
Illuminanti come conclusione questi versi di Paul Claudel tratti dalla terza delle sue grandi odi dal titolo Magnificat
Cos'è infatti il possesso e la gioia e la proprietà e l'ordinamento
Dinanzi all'intelligenza del poeta che di molte cose insieme
Fa una sola cosa con se stesso,
Perché comprendere è come rifare
La cosa che si è presa con sé.15
3. Figurare la soglia
Sintetizzare una filosofia della bellezza, tenendo presente la
semantica del termine e la sua derivazione etimologica che implica un
ricondurre all'origine, è possibile ricorrendo ad una configurazione
imperniata su due parole: limite e mistero. Questi due termini ci sono
preziosi in quanto configurano anche una topologia del pensiero che
contribuisca a conferire alla teoresi una sorta di corporeità o forse di
carnalità capaci di ripensare la sua episteme stessa.
Il limite, inteso qui nel senso di prossimità all'ulteriore, kantianamente nel senso di Grenze, configura la condizione esistenziale dell'uomo, la sua natura di viator
la sua simbolicità. Non è un caso che nel pensiero ebraico, implicato
con l'esegesi delle Scritture, specie quelle del Primo Testamento, il valde bonum
del Genesi è ravvisato proprio nella finitezza della creazione,
condizione privilegiata e spazio per l'accesso dialogico di e con Dio.16
In questo senso possiamo ricorrere al termine soglia, ancor
più pregnante perché sottolinea, da un lato la discontinuità, forse la
cesura; dall'altro la possibilità che un altro la abiti, un altro che
enfatizza la cesura perché fa saltare la calcolabilità, con cui la
ragione pretende di ricondurre tutto alla sua presa giustificatrice, ma,
in ogni caso rivela anche l'origine e l'orientamento per cui i fenomeni
appaiono originari e irriducibili, realmente meta-fisici e meta-etici.17
D'altro canto, con il termine mistero non si vuole tanto connotare
religiosamente il pensare (anche se, almeno nella sua semantica, il
termine dice di un legame con l'origine) quanto evidenziare che
l'esercizio filosofico, come pratica spirituale non può che iniziare se
non con la coscienza d'essere afferrati, feriti dalla nostalgia di
un'origine mai tanto pregna ontologicamente quanto nel momento in cui si
presenta con la connotazione di una rivelazione.
Non ha forse la bellezza questa connotazione misteriosa che invita
allo stupore ed al silenzio per dar meglio forma alla parola filosofica?
In questo senso, inoltre, la filosofia non può recuperare alla ragione un'altra dimensione che la sottragga da quel suo conatus calcolante per restituirla alla sua dimensione di domanda, di sosta e di invocazione dell'indicibile?
Indubbiamente si tratta di una razionalità non paga di sé. Nel suo
primo sorgere, essa sa già di non essere in patria, di abitare una terra
altra; paradossalmente in questa alterità si dà la sua salus,
nella consapevolezza di essere sostenuta da un fondo abissale e luminoso
che la orienta con una gratuità generosa e indisponibile verso il
futuro, pur mantenendo sempre in essa la memoria della sua provenienza.
Tuttavia, il più sorprendente dei paradossi sta nel fatto che essa è
come in patria dinanzi al manifestarsi della bellezza. Quasi la bellezza
sia una cifra immemoriale che attesta la natura trascendente dell'uomo,
il suo sentire che oltre il qui e l'ora c'è un'eccedenza di senso che
custodisce la meraviglia e l'indicibile.
Da questo punto di vista possiamo, per un verso, accogliere quanto
diceva Wittgenstein circa il fatto che il senso del mondo, del suo che,
non del suo come è il mistico, tanto che l'indicibile e il non detto è
l'importante; per un altro verso, tuttavia, la natura per così dire
terapeutica della filosofia non sta tanto nel fatto che i limiti del
linguaggio sono i limiti del mondo, così che il linguaggio filosofico
debba strettamente perseguire un'emendazione da tutti quei
fraintendimenti metafisici; essa consisterebbe, a nostro avviso, nella
capacità della filosofia di stare dinanzi al Mistero, di custodirlo,
(Wittgenstein stesso, in fondo, sosteneva che pregare implica pensare al
senso della vita). Il Mistero è la tras-gressione della soglia, ma ad
un tempo, anche ciò che meglio la configura come transito. Esso è lo
spazio del non-dove, ma anche ciò che conferma la possibilità di
irruzione della bellezza sull'al di qua, perché essa possa essere
intravista sulla soglia. Il Mistero è l'unum necessarium del pensiero.
Se le cose stanno così, il compito infinito del pensiero è quello di
figurare questa soglia come una tras-gressione che si giochi nei termini
di un trascendere. In realta', lo insegnava Bloch, l'eminente filosofo
del Prinzip Hoffnung, denken heiât überschreiten18.
Pensare è superarsi, perché filosofare è essere nell'inquietudine.19
Tuttavia, figurare la soglia, evidenzia, altresì, che questa figura non
può che essere scolpita nel Mistero; questo implica la necessità di un
pensiero poetante di heideggeriana memoria, capace di evocare e chiamare
all'esistenza il già da sempre eppure mai oggettivabile e consumabile.
Ecco il suo tempo della povertà, ma anche il tempo dell'attesa e della
coscienza di un'irruzione della bellezza, kairos capace di circondare e illuminare l'intero esser-ci.
La soglia ha un valore spazio-temporale in quanto dice di una terra
che non ha dove, a cui ogni dove tende, in quanto destinazione della
teoresi, ma anche di un'anteriorità escatologica, in un fecondo ossimoro
che rinvia all'u-topia che il pensiero può intenzionare ed anticipare,
ma solo in cenno.
Il carattere di questo pensiero tras-gressivo è ravvisabile nella
figura biblica della terra promessa che Mosè intravede da lontano senza
farvi ingresso; per altro le scritture bibliche sono piene di
riferimenti a questo sostare e sporgersi pur restando nel qui ed ora, a
questo figurare per astenersi poi da farsi immagini, così come si può
vedere nelle narrazioni delle teofanie, dove Dio non appare che di
spalle, non è udibile che in voce di sottile silenzio.
La soglia è mundus imaginalis o geografia dell'anima, tanto
necessaria alla filosofia quanto le forme simboliche entro cui pensa la
bellezza che la pro-voca al suo compito inesauribile di dialogo con la
verità. Non è un caso che il pensiero utopico blochiano in cui la
speranza è chiave euristica per un'ontologia del non-ancora si avvalga
di una riflessione sulla bellezza e sull'arte. Siamo nell'ambito di
un'estetica che recupera alla filosofia, attraverso l'immagine, l'ordine
del desiderio, ed in esso il senso del suo tras-gredire. In altri
termini, figurare la soglia è possibile in virtù di una luce interiore e
proveniente d'altrove. Forse la teoresi può convergere su un'immagine
in particolare, l'icona. Ancor prima di soffermarci su questo, tuttavia,
ci sembra pregnante questo passaggio tratto dalla monumentale opera
blochiano che così commenta la struttura del Paradiso di Dante
Alighieri:
Mentre la geografia dantesca lascia penetrare nel Paradiso figure e forme concise del mondo reale-obiettivo solo come metafore e in ultima analisi come simboli di una lontanissima utopia spaziale. Di conseguenza la Divina Commedia trasforma la sua stessa architettura dei sette cieli della sfera delle stelle fisse nel mistero di desiderio di uno spazio dotato di profondità tanto interiore quanto ultramondana.20
Indubbiamente la Divina Commedia dantesca è strutturata secondo la
tradizione metafisica simbolica tipica della teologia medievale tanto
cristiana quanto arabeggiante, in tal senso essa va letta secondo
l'ermeneutica simbolica ed allegorica. Questo tipo di struttura che
consente alla poetica di Dante un'allure filosofica si può facilmente
ricondurre ad una metafisica della luce la cui spazialità corrisponde in
realtà al topos del desiderio che imprime nell'anima la sua
forma di bellezza, confermandole la sua celeste origine. Tale profondità
dell'anima che coniuga sapere e desiderio è altrettanto la parte più
alta, l'apex mentis,21 soglia nella quale irrompe il mistero della grazia ed il kairos della creazione compiuta, dunque in essa si riflette un mistero di bellezza originale che è insieme mundus imaginalis nonché eternità già raggiunta, condizione di un dimorare nell'altrove, di cui la bellezza è manifestazione.
Si tratta di una filosofia del simbolo, la cui natura, ben lungi
dall'essere calcolante evoca e richiama. Ben lungi dal caratterizzare
l'infanzia del pensiero, essa ne denota, al contrario, la compiutezza
che paradossalmente è ravvisabile proprio nel riconoscere di non poter
essere in sé autosufficiente.
Certamente la rivisitazione blochiana della poetica dantesca dice di
un'istanza ineludibile che ha da sempre attraversato la filosofia
classica, quella secondo cui la poesia, cogliendo l'universale,
manifesta ponderose masse di pensiero, iscritte fra l'allegoria, la
metafora, i simboli. Tale pensiero poetante implica che non si può
filosofare se non avvolti da questa prima manifestazione di bellezza che
mette la stessa filosofia nell'attesa, del mistero e la pone sulla
soglia, nella fedeltà al suo compito di annunciare un evento. Per questo
motivo, oggi, essa è implicata con il linguaggio dell'arte, in quanto
immagine del compimento; anche in tal caso, però, non possiamo non
ricordare come l'idea di pulchritudo della filosofia classica sia caratterizzata dall'idea di integritas e consonantia, in ultima analisi dall'idea dell'armonia che richiama la compiutezza della forma bella.
Forse, allora, la via aesthetica assume, da un lato i tratti
di un'ascetica, dall'altro quella di un'etica, dato che l'integritas e
la consonantia disegnano anche il topos di una giustezza dell'anima che implica la giustizia di un sempre possibile ordo amoris nella civitas hominis. Anche per questo motivo la bellezza ha rappresentato la figura dell'ethos nel pensiero rinascimentale.
Se questo è vero, tuttavia, l'arte e la bellezza contribuiscono a plasmare un topos
teoretico in cui l'eccedenza di senso si dice, irrompendo, nel qui e
ora. Come afferma Remo Bodei nella bellissima introduzione all'edizione
italiana del Principio Speranza:
L'opera d'arte, infatti, ancor prima di venire eseguita presuppone l'indeterminatezza di un esperimento della perfezione fantastico e più esatto possibile. Una volta realizzata, poi, si irradia in lontananza da essa un'eccedenza di senso che appare come una festa di possibilità eseguite [...]. La musica specialmente dà voce all'enigma. Attraverso il suono, nel suo «non ancora» spazialmente insituabile, l'incognito dell'esistenza si lascia si lascia oscuramente intuire e l'inaudito si fa udibile. Per suo tramite si avverte appunto che qualcosa manca e almeno questa mancanza il suono la esprime chiaramente.22
Interessante è l'espressione esperimento della perfezione, che per altro non è affatto sconosciuta Bloch, considerando il titolo di un'altra celebre opera Experimentum mundi. Tuttavia crediamo si possa interpretare il termine experimentum
anche nel senso di ciò che si esperisce, di cui si fa esperienza, che
mette in gioco la propria intuizione e comprensione nel continuo commercium con la verità. Da questo punto di vista la stessa arte orientata al telos della bellezza è un leghein, un porre raccogliente23 di quanto si esperisce nell'intuizione, in un apax
rivelativo dell'essere. Se così stanno le cose, l'arte è altresì figura
di quell'eccedenza per cui la filosofia deve abitare la soglia, ma ad
un tempo, essa, pur nel frammento figura quella libertà dall'oppressione
e dalla morte che rappresenta il climax della creaturalità, il mistero
del desiderio. Per questo motivo l'opera d'arte assume sempre una
valenza di tipo religioso, sia pur implicito.24
Forse non è del tutto illegittimo assimilare a questo experimentum
della perfezione la stessa arte dell'icona, essa stessa soglia e
custodia del Mistero, essa stessa manifesta in effusione di luce che
rinvia sempre ad un'epifania del divino. Le icone che campeggiano nelle izsbe
russe, testimoni silenti della divina bellezza sono un'indicazione
della Presenza d'altrove, della discesa della bellezza nel mondo per
salvarlo, come scrive Dostoevskji.
L'icona dice altresì di una pneumatizzazione della creazione la quale
avviene attraverso la Bellezza e viene nella Bellezza percepita.
Così afferma Pàvel Evdokimov:
Dostoevskij l'ha compreso bene: «Lo Spirito Santo -- dice -- è la percezione diretta della Bellezza», egli comunica lo splendore della Santita.25
Da questo punto di vista l'icona è approssimazione al Mistero
trinitario, come attesta la bellissima opera di Rublev, nonché la
finestra da cui l'eterno fa irruzione, una porta regale. Essa è quasi
una sorta di sineddoche, in quanto la sua contemplazione rende
immediatamente manifesta la bellezza e la sua verità. Anche per l'icona
vale, in ogni caso, una chiave di lettura metaforica che, tuttavia,
necessita anche di essere portata fino alla catacresi in virtù
dell'eccedenza che figura. In questo senso riportiamo le puntuali e
preziose riflessioni di Pavel Florenskij nel suo saggio sull'icona dal
titolo Le porte regali:
L'icona è identica alla visione celeste e non lo è, è la linea che contorna la visione. La visione non è l'icona: essa è reale in se stessa; l'icona, che coincide nel contorno con l'immagine spirituale, è per la nostra coscienza questa immagine e fuori dell'immagine, senza di essa, a parte essa, in se stessa non è né immagine né icona, bensì una tavola. Così una finestra è una finestra in quanto attraverso ad essa si diffonde il dominio della luce e allora la stessa finestra che ci dà luce è luce, non è somigliante alla luce, non è collegata per un'associazione soggettiva a una nozione di luce soggettivamente escogitata, ma è la luce stessa nella sua identità ontologica [...]. Perciò la finestra è luce o è legno o vetro, ma non sarà mai semplicemente una finestra. Così anche le icone -- «visibili rappresentazioni di spettacoli misteriosi» secondo la formula di San Dionigi l'Areopagita. E l'icona è sempre più grande di se stessa, quando è una visione celeste o meno di se stessa se essa non apre a una coscienza il mondo soprannaturale.26
È del tutto evidente cogliere, qui, l'idea di uno spazio-tempo che
configura una corrispondenza fra divino ed umano, un nesso ontologico
ineludibile, che, tuttavia, non ricalca le orme della classica
metafisica dell'essere. L'essere della bellezza, o meglio l'essere come
bellezza che l'icona rap-presenta si esplica proprio come assolutamente
altro, serbando la sua differenza ontologica, nonostante questo la sua
bellezza interrompe la semplice presenza delle determinazioni
ontologiche rivelando un'altra natura, il mistero silenzioso delle cose
nella loro fenomenalità trasparente di questa prima ed originaria
donazione ontologica.
Ed ecco figurata la soglia dove il desiderio si riconosce capace del
Mistero, ma anche ove il Mistero necessita di questo orizzonte di senso
per darsi in un'interrogazione/invocazione infinita, quasi che la
bellezza apra una nuova istanza del bios theroetikos.
4. Simbolizzare l'invisibile
La poesia raduna tutto per una celeste partenza verso il cielo,
possiamo dire, parafrasando Raissa Maritain, e questo implica la sua
capacità di mediazione fra la soglia ed il mistero, ed in quanto
portatrice di bellezza, essa si intuisce come una vera e propria metaxù
che rende percettibile nel mondo l'invisibile intuito in un istante di
rivelazione. All'origine dello stesso stupore pensante dell'uomo essa è
vero e proprio sym-ballein . Non è un caso che, nella tradizione simbolista, ben incarnata da Arthur Rimbaud il poeta venga definito voyant, il veggente. La poesia è capace di vedere l'invisibile essenziale.
In ogni caso questa azione del vedere richiama la radice di eidos,
idea platonica, così che ci riconduce ad un'attività teoretica,
contemplativa, quasi che la poesia (e questo non è affatto raro nel
Novecento) rientri nell'ambito di una facoltà intellettuale, già
evocata, per altro, dalla tradizione classica che definiva l'arte, con
Tommaso d'Aquino, recta ratio factibilium.
Questo non può darsi, tuttavia, se non attraverso un'intuizione
creativa che penetra una zona preconscia dello spirito, per l'appunto un
preconscio spirituale, sul quale -- dice William Blake -- nella sua
introduzione alla sua opera Jerusalem, the eternal eye is opened, l'occhio eterno si apre.
Tale preconscio è super-razionale ed è caratterizzato da una
universalità che necessita della forma per rivelarsi, pur mentendosi,
attraverso di essa, invisibile. Proprio questo fa pensare ai romantici,
specie tedeschi che il canto dell'anima sia triste perché percorso dalla
nostalgia del reale che manca.
Potremmo forse affermare che nella poesia è possibile dare una forma
al noumeno delle cose solo pensabili, per dirla con Kant. Non è neppure
un caso che O. Gardet e L. Lacombe parlino di una funzione cognitiva della poesia
riproponendo la possibilità di una co-naissance, là dove le categorie
della determinazione intellettuale non riescono nel loro intento,
restando sulla soglia di un'indicibile anelito. Questa funzione è
particolarmente vera nell'opera di Hopkins, poeta metafisico inglese
che, nel 1866, convertito al cattolicesimo entro a far parte della
comunità dei gesuiti, della cui poetica i due autori affermano:
È la realtà nascosta di ogni singolo esistente, realtà che penetra la soggettività del poeta, che essa si dedica senza tregua a svelare [...]. È il «Sé» nascosto di ogni cosa quello di cui il poeta, [...] attende la rivelazione.27
Tuttavia, questo sé delle cose che implica l'individua ed invisibile
essenza è contrassegnato da Hopkins con il termine, che fu già di Duns
Scoto, di hecceitas, termine che contrassegna l'irripetibile singolarità di ogni cosa nella sua comunione con l'invisibile. Questo self, o ipse
rinvia ad un'istanza invisibile che caratterizza la stessa intrinsecità
delle cose e che pure le fa partecipare di un mistero universale in
virtù della comunione con l'assoluto Self che è quello di Cristo; infatti, proprio perché le cose sono aperte sull'incontro con il Cristo si possono rivelare nella forma/figura della loro interiorità.28
Da questo punto di vista l'intuizione poetica sembra esibire alcuni
punti di contatto con l'esperienza mistica. Non è questo il luogo per
addentrarci in una, pur pregnante, riflessione che, però, ci farebbe di
gran lunga sconfinare, rispetto al nostro argomento; in ogni caso ci
sembra importante richiamare questa confluenza in virtù del ruolo del
simbolo ravvisabile in entrambi, così che, potremmo concludere, in
conformità con le teorie estetiche, che nel caso dell'intuizione poetica
non si è molto lontani da un'esperienza di tipo religioso.29
Il ruolo del simbolo non è accessorio, anzi l'intenzionalità poetica è simbolica juxta propriam naturam
in quanto il simbolo è il cuore stesso dell'opera che si radica nel
cuore del mistero. Nel simbolo, poeticamente, si consuma la tangenza con
il mistero custodito nel preconscio spirituale. Esso, necessariamente,
si esplica come attività di creazione, esprimendosi in tutta la sua
positività; pur tuttavia la sua esplicazione custodisce anche una sorta
di negatività che rinvia a un carattere necessariamente ossimorica, e
questo non è vero solo dell'esperienza mistica, si pensi per esempio a
Giovanni della Croce, quanto anche dell'esperienza poetica, esprimendo
esso la coscienza di un'assenza.
Pregnante, da questo punto di vista, la riflessione che compie George
Morel a proposito della simbolicità in Giovanni della Croce:
Il simbolo si offre alla Presenza, la Presenza lo coglie, lo annienta e lo trasfigura, e alla fine di questa operazione, la Presenza stessa che si manifesta in un movimento incessante di creazione e decreazione, di vuoto e plenitudine. Se così stanno le cose è chiaro che non ogni tipo di poesia, certo, ma la poesia di un Rimbaud e un Hölderlin, nella sua ricerca di realizzazione di identità, sarebbe mistica proprio in quanto poesia.30
Se ci soffermassimo sulla decreazione e sul vuoto, non potremmo
leggere tali categorie se non dialetticamente, ponendole accanto
all'eccedenza e alla pienezza. Quindi le prime non dovrebbero essere
interpretate in modo sic et simpliciter negativo, quanto proprio come
una via negationis che lascia figurare la Presenza. Dunque il simbolo è
cifra di un cammino verso l'interiore in cui si dà una relazione di tipo
sinestesico tra la visione e l'ascolto dell'invisibile, d'altro canto è
organon di una percezione spirituale che non potrebbe essere
altrimenti detta. Consumato dalla Presenza, esso non scompare ma si
compie nella sua funzione simbolica. Potremmo quasi dire che il simbolo
sia di natura psicopompo; non possiede nel senso di una presa oggettiva
ciò che significa, lo lascia essere nella sua forma come se si trattasse
di una translucida oscurità. Il simbolo è dunque il risultato
dell'interazione fra intelletto e preconscio spirituale che si effonde
in creatività ponendosi come istanza conoscitiva del reale mancante e
già intuito.
Tuttavia, per dire la bellezza intuita in un istante di rivelazione, è
necessaria una parola segreta, assolutamente extra-ordinaria, la quale
deve passare attraverso il buio, la nudità, la povertà e la notte di
tutte le parole per l'ascolto dell'invisibile, e per la sua pronuncia,
che resta necessità e grazia. Come osserva Massimo Cacciari a commento
dell sermone eckhartiano Ave gratia plena
Vi è la parola che si parla, la parola che esce da noi e si irrigidisce nella rappresentazione, che diviene proprietà di ciò che designa, che si deposita nel designatum. Ma vi è la parola che permane in chi la pronuncia come le immagini delle creature permangono nel Padre che pure è Logos.31
La parola poetica, per sua natura simbolica resta in interiore homine
ma non in una chiusura autosufficiente e inospitale, quanto in una
custodia insonne delle cose e del loro mistero nel seno dell'ineffabile.
Essa, dunque, si rivela come un altro modo del Logos, se pur anch'essa
esercita l'atto del leghein, di raccogliere insieme visibile ed invisibile, facendosi fulcro della loro tangenza misteriosa.
Essa evoca l'invisibile facendolo emergere dal silenzio colmo del suo ascolto interiore, in un richiamarsi insonne di logos endiathekos e logos prophorikos.
Se il simbolo è epifania d'invisibile, se evoca la lacerante coscienza
di una mancanza, se la sua natura racchiude in sé anche il momento della
decreazione è perché, giunto alla parola, greve di spazio e suono, esso
porta con sé la memoria indicibile della bellezza che ferisce. Per
questo lo sforzo della creazione proprio della parola è segnato
dall'impotenza dell'attingimento pieno della bellezza e dall'intrinseco
anelito di sempre approssimarvisi. Esso è preso fra l'artiglio
dell'apofasi e la potenza del dire. Questa povertà, a un tempo
ricchezza, è custodia di uno stupore che deve sempre salvare il pensiero
dalla sua tentazione totalitaria ma che deve, altresì, proiettarlo
verso un dialogo con la poesia e con l'arte in quanto sede di quella
verità sinfonica sempre pronta a donarsi nella sua inesauribilità. Di
certo siamo dinanzi ad una pregnanza ontologica attraverso cui è forse
possibile riproporre un nuovo inizio del discorso metafisico, proprio a
partire da quel suffisso meta, già ravvisato come possibile topos
di un desiderio che orienta il sapere, ne dice la sua necessità per
l'umano, la libertà e lo stupore di un'indagine che resta un cercare ed
attendere, un lascia essere il vero nella sua forma di bellezza,
facendone, altresì un criterio etico.
5. La messa in opera della verità
La luminosità del bello non è l'apparire di un essere statico,
ma l'imporsi nella presenza del vivente ben proporzionato e adatto a vivere.
G. Vattimo, Poesia e ontologia, Mursia, Milano 1985, p. 143.
Nell'analizzare le istanze ontologiche del bello e la bellezza
presenti nella tradizione filosofica classica, Gianni Vattimo coniuga
con esse un'istanza fondamentale della tradizione ermeneutica, ovvero
quella secondo la quale il bello che viene rap-presentato nell'opera
d'arte ha un valore esistenziale e antropologico, capace di orientare
l'esserci nel mondo. Questa posizione dell'ermeneutica si sviluppa
ulteriormente con l'idea di messa in opera della verità, ben evidenziata
nel pensiero gadameriano. Entrambe, in ogni caso, possono essere messe
in relazione a partire dall'idea di un'esperienza di verità, di una sua
fruizione che si dà nell'arte. Il pensiero classico la ravvisa nell'ordo e nella proportio richiamando l'attenzione alla dynamis
del suo manifestarsi tanto nella forma della bellezza, quanto
nell'esistenza del fruitore, capace di assumersi il compito di vivere
secondo la veritas, facendo così del riconoscimento della bellezza
contemplata un criterio di tipo etico. In area ermeneutica si può
trovare un'affermazione che va nello stesso senso, laddove si afferma
che l'esperienza artistica, interrogando e destando la comprensione del
fruitore, in quanto posa in opera della verità, modifica profondamente
il suo stesso esser-ci, incidendo sulla sua Bildung. Ciò implica
che l'opera d'arte nella sua manifestazione di bellezza è connessa a
un'idea di verità il cui carattere è dialogico e acroamatico, così che
essa non può che provocare l'istanza esistenziale anche nel senso di una
partecipazione e condivisione di senso. Si può certamente concludere
che l'esperienza estetica è un'esperienza di verità di indubbia
rilevanza filosofica. Il passo successivo ci deve condurre a riflettere
sul carattere di tale verità. Si diceva sopra di una partecipazione e
condivisione di senso; un'istanza particolarmente sentita dalla
tradizione classica, dato che tale partecipare aveva una condizione
trascendentale, quella del logos. Se il logos sanciva la
possibilità di un mondo comune fra gli uomini, tale condizione era
assicurata dal fatto che esso esprimeva altresì la possibilità, propria
di ogni uomo, di rispondere ad un appello della verità. Ora, l'istanza
secondo cui il bello è, non solo trascendentale dell'essere, ma anche
ordo, mensura, proportio sancisce una modalità relazionale della vita
intersoggettiva, tanto da farci concludere che si dà un ethos
della bellezza. Questo giustifica anche, da un lato l'idea
dell'universalità del bello, derivante dall'universalità dell'idea
dell'essere,32 dall'altro l'idea di un ethos
ontologicamente orientato che recuperi, nell'universalità, l'istanza di
un riconoscimento della singolarità, in virtù di una dimensione
dinamica e acroamatica della verità, il cui dinamismo interrompe il
paradigma dell'adequatio. Se le cose stanno così, si può anche ben comprendere quella che lo stesso Vattimo chiama vocazione ontologica delle poetiche del Novecento33 nonché l'idea blochiano dell'opera d'arte come topos
esprimente un'ontologia del non-ancora. Quello che deve comunque far
riflettere è il fatto che il riferimento ontologico non è mai escluso,
anzi è il presupposto su cui pensare la connessione fra verità e
bellezza. Sembrerebbe quasi che non si esca da uno stesso pensiero, che
per altro è alla base di tutta la cultura occidentale, in entrambi i
versanti greco ed ebraico. Se, infatti, l'idea dell'essere è connotata
esteticamente nella tradizione filosofica greca, altrettanto la
Rivelazione biblica e le teofanie ricorrenti in entrambi i Testamenti
sono esteticamente caratterizzate, una per tutti la Trasfigurazione. Non
si esce, ad ogni modo, da un trinomio ermeneutico contrassegnato da
bellezza-verità-luce.
Dicevamo già sopra dell'istanza fondativa della bellezza in quanto
possibilità euristica del vero; questa idea risulta tanto più pregnante
nell'evento della Rivelazione nel quale si esperisce, altresì, la
santità di Colui che si rivela nell'opera della creazione, nonché la
verità della salvezza, di quella redenzione per cui il mondo appare
nella sua integritas. Da questo punto di vista, assumersi il
compito e la vocazione della bellezza, nell'arte, implica rispondere
all'appello del creatore, operando nella verità della facoltà creativa
ed in comunione con lui, quel mistero che già qui ed ora fa guardare il
mondo come creaturalità riuscita.
Recuperare questa idea significa, altresì, ripensare radicalmente
l'antropologia, l'etica e poter operare un'ermeneutica tanto filosofica
quanto teologica che getti le basi per una diversa e più pregnante
recezione della verità, la quale possa salvare -- da un lato l'unicità e
l'inesauribilità -- dall'altro lato la sua fenomenologia, la sua
storicità in modo tale che si eviti tanto la deriva dogmatica ed
irrigidita dell'immutabilità, ottenuta per altro secondo un criterio
oggettivante, quanto quella del relativismo che configura il pensiero in
senso rizomatico.34
Da questo punto di vista è opportuno dare voce a un celebre teologo,
di notevolissima rilevanza, che tanto ha riflettuto sulla bellezza
nell'ambito della nostra cultura contemporanea. Si tratta dello stesso
Von Balthasar, con il quale abbiamo aperto la nostra trattazione:
In un mondo senza bellezza -- anche se gli uomini non riescono a fare a meno di questa parola e l'hanno continuamente sulle labbra, equivocandone il senso -, in un mondo che non ne è forse privo, ma che non è più in grado di vederla, di fare i conti con essa, anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l'evidenza del suo dover-essere-adempiuto; e l'uomo resta perplesso di fronte ad esso e si chiede perché non deve piuttosto preferire il male [...]. In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti a favore della verità hanno estuario la loro forza di conclusione logica: i sillogismi, cioè, ruotano secondo il ritmo prefissato, coem delle macchine rotative o dei calcoli elettronici che devono sputare un determinato numero di dati al minuto, ma il processo che porta alla conclusione è un meccanismo che non inchioda più nessuno e la stessa conclusione non conclude più.35
Se la bellezza è lo splendore della verità, recidere tale legame
significa da un lato fare della prima una forma usurata, disponibile al
consumo ed al dominio in un mondo amministrato, delle seconda un'idea
funzionale, legata all'espressività del tempo, per dirla con Pareyson.
In ultima analisi significa svuotare di senso lo stesso stupore del
pensare. Si può, pertanto, avere una verifica sub contrario nel
momento in cui ogni esperienza fruitiva di bellezza fa anche presentire
il dover essere della giustizia, il desiderio di un mondo pacificato,
redento. D'altro canto in tutto questo si esperisce anche l'idea
imprescindibile della verità.
Ci sembra utile, da questo punto di vista, accostare alla voce
incomparabile di H. U. Von Balthasar, l'altrettanto autorevole voce del
filosofo Gianni Vattimo, che riflettendo sul rapporto fra arte ed
ermeneutica, giunge necessariamente a ripensare il nesso fra arte e
religione. Questa voce, infatti, fa da controcanto all'esigenza
balthasariana che la bellezza, coniugabile in ambito teologico possa
provocare il pensiero e la formulazione della verità che esso elabora,
inducendolo, in ultima analisi, a riflettere su se stesso. Vattimo,
d'altro canto, ritiene che proprio una riflessione sull'esperienza
estetica -- nella sua opera Oltre l'interpretazione egli dedica notevoli pagine alla sua esperienza avuta nella Chiesa di S. Ivo alla Sapienza a Roma36 -- possa provocare il pensiero teologico:
Si può immaginare che la consapevolezza del legame di derivazione tra arte e religione tocchi, anche in qualche senso, i modi dell'esperienza religiosa di oggi? Se l'arte può ritrovare la propria essenzialità divenendo consapevole del proprio statuto di religione secolarizzata, la religione potrebbe trovare in questo legame una ragione per pensarsi in termini «più estetici» [...].37
La sfida è, dunque, quella di riflettere sulla vocazione alla verità
che caratterizza entrambi i pensieri, ma, più radicalmente, di
evidenziare che imprescindibile per l'uomo è la stessa esigenza di
verità, da cui solo può procedere un'esperienza di senso. Se questo è
vero, non si dovrebbe forse riproporre -- com'è stato per la filosofia e
così com'è per la teologia -- un'estetica nell'etica, nella politica,
in ogni relazione, evitando di relegare l'idea di bellezza a forme di
consumo che risultano, in ultima analisi, alienanti, e riscattando
l'estetica stessa dai fraintendimenti tipici della società tecnica e
massificata?
È chiaro che occorrerà liberare la stessa estetica, nonché la
bellezza da una semantica riduttiva per ridare loro la dignità di una
via teoretica che sia davvero una messa in opera della verità e che
possa promuovere una forma più alta di ethos fra gli uomini. Emblematici
i versi di Hölderlin:
Molto ha esperito l'uomo
Molti celesti ha nominato
da quando siamo un colloquio
e possiamo ascoltarci l'un l'altro.
Forse la bellezza, nel suo carattere evocativo, non getta le basi per
un dialogo che attinga, anche fra i terrestri a quella stessa fonte e
non è forse il colloquio la possibile convergenza sulla verità in nome
di quel logos che a questo compito convoca gli uomini?38
Il recupero della più squisita tradizione filosofica che vede nella partecipazione al logos
come istanza di verità, la possibile istituzione di un mondo comune,
non solo è ripresa in senso ermeneutico, specie quanto alla tensione fra
appartenenza alla tradizione e dialogo, ma offre anche notevolissimi
spunti per riflettere sul ruolo dell'arte e della bellezza nel veicolare
una verità che garantisce il senso e l'orientamento dell'esistenza.
Molto pregnante è la riflessione che fa Hans Georg Gadamer sulla verità dell'arte, rivendicandone nel celeberrimo libro Verità e Metodo
la specificità rispetto a quella delle scienze oggettivanti. All'avviso
di Gadamer non si può caratterizzare l'esperienza estetica ad un effimero bagliore trasfigurante prestato alla realtà,39
né d'altro canto ridurla ad una modificazione dell'esperienza della
realtà una volta esperita. Se fosse così, infatti, non si uscirebbe
ancora dalle maglie del metodo gnoseologico oggettivante. L'ottica
fenomenologica con cui ci si pone nei riguardi dell'esperienza estetica,
implica, invece, che essa non pensa secondo la relazione reale ideale,
quanto invece esperisce in quanto vede la verità autentica.40
In tal senso ci sembra che emerga un valore epifanico, rivelativo
laddove l'opera d'arte che esperisce e mette in opera un'autentica
esperienza di verità attraverso la bellezza, apre anche un mondo che non
può non interpellare quello del fruitore/interprete in una sorta di
interiore con-sonanza, caratterizzando ulteriormente la verità come
evento e come dialogo. In ultima analisi la bellezza, correlato
dell'esperienza estetica contribuisce a dar forma a un pensiero
rivelativo per il quale la verità non può che darsi inesauribilmente,
pur rimanendo unica; d'altra parte, il concetto della sua unicità, ben
lungi dal legittimare pretese approprianti, salva, invece, una
differenza rispetto alla sua fenomenologia, che spinge sempre ad
ulteriore ricerca e ascolto del suo orizzonte.
Così possiamo anche comprendere la condizione di parola prima e
ultima della bellezza in quanto esperienza di senso e, se vogliamo,
riempimento di una intenzionalità ontologica propria dell'umano, che,
proprio in virtù di questo fatto informa ab intrinseco la sua storicità.
Copyright © 2007 Paola Mancinelli
Paola Mancinelli. «Via aesthetica. La messa in opera della verità». Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia
[in linea], anno 9 (2007) [inserito il 25 aprile 2007], disponibile su
World Wide Web: <https://mondodomani.org/dialegesthai/>, [89 KB], ISSN 1128-5478.
Note
- M. Cacciari, L'Angelo necessario Adelphi, Milano 1986.
- J. Keats, Ode on a Grecian Urn.
- I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, trad. it. di G. Colli, Critica della ragion pura, Adelphi, Milano 1976, p. 375.
- Sulla possibilità di una lettura fenomenologica dell'ontologismo rosminiano si veda, tra gli altri, R. De Monticelli, L'ordine del cuore, Garzanti, Milano 2003, in particolare p. 100.
- Simposio,204 A, 205 B, in Platone. Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1991, p512. Corsivi nostri.
- Sull'idea di Bellezza come mediazione si gioca tutto il recupero cristiano del platonismo, come si può arguire dalla Patrologia greca. Cristo, Sapienza di Dio per il quale l'universo sussiste è anche il più bello fra i Figli dell'uomo, secondo l'espressione biblica sulle cui labbra è effusa la Grazia. Un'implicazione, quella di grazia e bellezza, che oggi viene eminentemente recuperata nella riflessione teologica.
- Si dice catacresi, come già insegna Aristotele la traslazione, nel linguaggio comune, di un cocnetto per il quale non si dà una parola propria. Tutto questo depone a favore di un gioco linguistico ove il reale si dona in una serie di rimandi simbolici, salvati nell'invisibile della significazione stessa.
- V. Melchiorre, op. cit., p. 47.
- T. W. Adorno, Minima Moralia, Einaudi, Torino 2005.
- Novalis, Heinrich von Ofterdingen, cit in O. Gardet, L. Lacombe, L'expérience du soi. Etude de mystique comparée, trad. it. Di V. Possenti, L'esperienza del sé. Studio di mistica comparata, Massimo, Milano 1988, p. 239.
- M. Heidegger, Holzwege, trad. it. Di P. Chiodi, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 251. Sul carattere e-ventuale dell'essere annunciato dai poeti nel tempo della mancanza e della povertà si veda tutto il saggio contenuto nell'opera, da noi citato nel corpo del testo.
- Riteniamo importante specificare il significato della parola tedesca Geschick per rendere più chiaro il riferimento alla coppia invio-destino. La parola tedesca, infatti, contiene la radice di destino Schicksal ma anche la radice del termine storia Geschichte. Da questo punto di vista il destino si collega al rinvio alla storicità dell'esserci, che intenziona pur sempre la storia dell'essere, o meglio le epoche dell'essere. Notevole è il recupero heideggeriano, qui significato, della storia e del linguaggio come destino dell'essere. In ogni caso, ci sembra anche che si possa pensare alla possibilità di un nuovo paradigma metafisico che non trascuri il tempo e la storia. Ma questo è possibile in virtù di un richiamarsi di essere e rivelazione di cui la bellezza può fungere da mediazione per il fatto che esprime una trasmutazione in forma della stessa verità dell'essere. Dunque metafisica qua ontologia della bellezza? E' questa la sua radura illuminante.
- L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività. Bompiani, Milano 1988, p. 15.
- Si veda per questo la suggestiva e pregnante biografia filosofica di Nietzsche scritta da R. Safranski ,Nietzsche, trad. it. di S. Franchini, Nietzsche. Biografia di un pensiero, Tea, Milano 2004, p. 67.
- P. Claudel, Cinq grandes odes, trad. it. di L. Castiglione, Cinque grandi odi, Edizioni Logos, Roma 1991, p. 111.
- Su questo si veda un'opera emblematica per tutte, F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, Nijhoff, Den Haag 1976, trad. it. a cura di G. Bonola, La Stella della redenzione, Marietti, Casale Monferrato 1985. Ora anche Vita e Pensiero, Milano 2005, a cura di G. Botola.
- La terminologia di riferimento è quella mutuata da f. Rosenzweig, op. cit. e usata con la medesima intenzionalità dell'autore per indicare (con meta-fisico) che la fenomenicità della creazione in quanto attualità trascende ed eccede ogni istanza deduttiva della ragione, in quanto è eccedenza della vita che si manifesta come tale in virtù della Rivelazione; con meta-etico l'istanza secondo la quale la ragione dell'antico pensiero oggettivante è impotente dinanzi all'eccedenza del singolo ens creatum indisponibile alla sua capacità astrattiva-obiettivante che Rosenzweig definisce apoplessia filosofica.
- E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt 1959, trad. it. di E. DeAngelis e T. Cavallo, Il principio speranza, Garzanti, Milano 1994.
- In tedesco inquietante si dice unheimlich,in realtà la radice del termine; un privativo e heimlich significa letteralmente non essere in patria. Ci sembra importante fissare l'attenzione su tale etimo per toccare il punto nodale secondo cui il pensiero filosofico, nel suo superarsi, necessità di figurarsi una terra in cui dimorare, una terra che sostenga il suo cammino. Proprio in tal senso, ha bisogno di rivolgersi al linguaggio poetico ed alla sua capacità in-ventiva. Questo implica, ulteriormente, che la filosofia già qui ed ora abita una terra altra, la cui figura,non ancora divenuta è intreccio di soglia e mistero. Tuttavia questo altrove nel dove del suo abitare ha sempre il sembiante della bellezza, forma della patria compiuta e irruzione dello spirituale e dell'invisibile su cui l'essere si raccoglie manifestando il suo evento.
- E. Bloch, Das Prinzip...,trad. it. Cit., p. 949.
- Su questo si veda in particolare Meister Eckhart, specie uno dei suoi sermoni tedeschi dal titolo Predica Verbum... L'apex mentis è recuperato all'interno del pensiero utopico da Ernst Bloch in corrispondenza con la figura dell'apex terrae. Il filosofo tedesco vi legge una corrispondenza fra interiore ed esteriore che caratterizza questa spinta in avanti nell'altrove, capace di leggere il mondo nell'ottica di un impulso di luce interiore che si volge all'esterno. Si potrebbe facilmente conchiudere circa il carattere utopico della bellezza, a partire dalla quale viene configurato un ordine metafisico che, comunque, resta, una sapienza del desidero.
- R. Bodei, Introduzione a Il Principio Speranza, tra. It. cit.,p XXXI. I corsivi si riferiscono ad espressioni dello stesso Ernst Bloch.
- Intendiamo impiegare il termine secondo l'intentio heideggeriana che ravvisa il Dasein come il raccogliente rispetto all'essere; in tal modo cerchiamo di recuperare all'arte una dimensione teoretica nonché ontologica.
- Su questo si vedano in particolare gli Scritti filosofici di R. Guardini, ma anche la poesia di C. Baudelaire, Les phares contenuta nella raccolta Les Fleures du Mal, dove viene chiaramente evidenziato che ogni opera d'arte è come un singhiozzo che arriva sino all'eternità di Dio dove si consuma. In ogni caso resta, sulla terra, come testimone vivente,di quello stesso eterno cercato nella bellezza. D'altra parte Romano Guardini sottolinea che la funzione catartica dell'arte,la cui vocazione di creare nella bellezza, trasfigura anche il dramma, il dolore, le ferite, è tangenza al divino, anche quando scendesse negli anfratti più oscuri dell'umano.
- P. N. Evdokimov, L'art de l'iconê. Theologie de la beauté, Desclée De Brouwer, Paris 1972, trad. it di P. Giuseppe da Vetralla, Teologia della bellezza. L'arte dell'icona, Edizioni Paoline, Roma 1982, p. 31.
- P. Florenskij, ÈÊÎÍÎÑÒÀÑ, trad. it di E. Zolla, Le porte regali. Saggio sull'icona, Adelphi, Milano 1977, pp. 60-61.
- L. Gardet, O. Lacombe, L'experience... trad. it. cit, p. 275.
- Si veda, per un maggior approfondimento la bella appendice, dedicata da L. Gardet, O. Lacombe nell'opera citata, pp 274 e ss.
- Si veda G. Vattimo, Oltre l'interpretazione, Laterza, Roma-Bari 1997.
- G. Morel Le sens de l'existence selon Jean dela Croix in, L. Gardet, O. Lacombe, L'experience, trad. it cit., p. 251.
- M. Cacciari, L'angelo necessario, Adelphi, Milano 1987, p. 31.
- Questa universalità è per altro ben espressa da Aristotele attraverso la formulazione dell'idea dell'epaghoghé in cui parla di un esercito in marcia, i cui componenti, si fermano nello stesso punto e nello stesso tempo, seguendo la decisone del primo che ha sostato, proprio in virtù di un con-venire. Questo ribadisce a nostro avviso la vocazione dialogica della filosofia greca.
- G. Vattimo, Ontologia e poesia, Mursia, Milano 1985, pp. 33-68.
- Si veda ad esempio il pensiero filosofico di Felix Guattari.
- H. U Von Balthasar, Gloria.... cit, pp . 103-111.
- G. Vattimo, Oltre...cit, pp. 73-91.
- Ivi, p. 91. Il termine religione secolarizzata impiegato da Vattimo è di matrice hegeliana. L'attributo secolarizzata non è qui usato secondo una connotazione antireligiosa, anzi intende forse mostrare quanto l'opera d'arte nel senso di dare una forma di bellezza al vero sia legata, lo sappia o no, ad un' intenzionalità religiosa, già solo per il fatto di esplorare con la creatività il mistero ontologico nonché antropologico dell'esistenza, meditandone il senso, pur nella sua poieisis.
- L'esperienza dei volontari accorsi da ogni parte nella Firenze travolta dalle acque dell'inondazione dell'Arno per salvare preziosi documenti dell'umanità, spinti da un'esigenza di servire la verità della dignità umana ci sembra possa essere emblematica dell'ethos della bellezza come paradigma antropologico. Questo conduce altresì ad una riflessione sulla bellezza nell'ambito della praxis umana, come dimensione pro-gettante un senso più alto e altro del vivere comune e civile.
- H. G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Mohr, Tübingen 1965, trad. it. di G. Vattimo, Verità e Metodo, Bompiani, Milano 2000, p. 195.
- Ivi, p. 191.
https://mondodomani.org/dialegesthai/pm11.htm
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