martedì 21 dicembre 2021

Efrem Siro sul Natale, del Diac. Sebastiano Mangano

 

EFREM SIRO SUL NATALE 

del Diac. Sebastiano Mangano



Durante la celebrazione della solennità del Santo Natale mi sembra giusto fermare la nostra attenzione su passi scelti di alcuni Inni di Natale di Efrem Siro, che è considerato il più grande padre della Chiesa siriana del IV sec. Efrem, proclamato dottore della Chiesa da Benedetto XV il 5 ottobre 1920, nacque a Nisibi, città del nord della Mesopotamia, circa nel 306 dove fu ordinato diacono dal vescovo Giacomo (303-338); si trasferì a Emessa – oggi città turca di Urla – nel 363, quando Nisibi fu consegnata ai Persiani, nelle mani del re Sapore II.
Organizzò qui, la scuola di Edessa da cui si diffusero la lingua e la letteratura siriache. Scrisse molti trattati di cristologia, mariologia, ecc1esiologia, commenti alle Sacre Scritture, inni e omelie. La sua fama si diffuse rapidamente in Occidente nel mondo di lingua greca; san Girolamo (347 – 420) – che conobbe l’opera di Efrem sullo Spirito Santo – scrisse che Efrem, il diacono della Chiesa di Edessa raggiunse un tale prestigio che in certe chiese, dopo la lettura della Bibbia, si leggevano pubblicamente le sue opere (De vir. ill. CXL).
Alcuni studiosi affermano che Efrem abbia superato i padri greci nella eleganza dello stile e la profondità del pensiero. Negli anni trascorsi a Edessa Efrem continuò il suo ufficio di esegeta delle Scritture e di polemista antiariano, come già aveva fatto a Nisibi. In questa città il diacono di Nisibi esprime le sue convinzioni teologiche attraverso gli inni, la cui esecuzione affida a cori femminili.
La sua poesia è orientata all’espressione della realtà della fede cristiana, che però consente di guardare alle vicende coeve della Chiesa e della storia. Negli Inni di Natale Efrem illustra in maniera immediata ed esplicita il suo atteggiamento contemplativo dinanzi al mistero del Figlio di Dio che si fa uomo nella povertà della grotta di Betlemme in quella notte dolcissima di pace e di amore: "Questa è notte di riconciliazione, non vi sia chi è adirato o rabbuiato. In questa notte, che tutto acquieta, non vi sia chi minaccia o strepita. Questa è la notte del Mite, non vi sia amaro o duro. In questa notte dell’Umile non vi sia altezzoso o borioso" (Nat., I, 88-89).
Il diacono di Nisibi in quest’inno esalta lo splendore e la limpidezza della notte di Natale che deve illuminare il cuore di ogni creatura umana: "State svegli come luci, in questa notte di luce, poiché anche se nero è il suo colore [esteriore], essa risplende per la sua forza [interiore]. Colui che, come se risplendesse, vigila e prega nella tenebra, in quella tenebra visibile è avvolto da una luce invisibile. Chi non veglia in purezza, la sua veglia è sonno. E chi non veglia in castità, anche il suo vegliare è contro di lui. Limpida fu la notte nella quale si levò il limpido venuto a rendere i limpidi. Non introduciamo nella nostra veglia nulla che possa intorbidarla. Il sentiero dell’orecchio diventi limpido, la vista dell’occhio pura, il pensiero del cuore santo e l’eloquio della bocca sia passato al filtro" (Nat., I, 73-74.77.82-83).
Efrem non si ferma a cantare solo lo splendore della notte santa ma ricorda che in quel giorno di gioia si compirono le profezie veterotestamentarie: "Questo giorno ha fatto gioire, Signore, i re, i sacerdoti e i profeti, poiché in esso si compirono le loro parole, avvennero proprio tutte. Gloria a te, figlio del nostro Creatore. La vergine infatti ha oggi partorito l’Emmanuele a Betlemme. La parola proferita da Isaia è divenuta oggi realtà. Gloria a te, figlio del nostro creatore. Oggi è nato un bimbo, il suo nome è Meraviglia. È proprio una meraviglia di Dio che si sia manifestato come un infante. Gloria a te, figlio del nostro Creatore. Chi saprebbe glorificare il Figlio di verità che si levò per noi, lui che i giusti bramavano vedere nelle loro generazioni? Gloria a te, figlio del nostro Creatore" (Nat., I, 1-2.9.40).
Efrem in quest’inno fa un atto di fede e un rendimento di grazie per la venuta al mondo del Figlio di Dio: "Il giorno della tua nascita ti assomiglia, perché è desiderabile e amabile come te. Noi, che non abbiamo visto la tua nascita, l’amiamo come se le fossimo contemporanei. Nel tuo giorno noi vediamo te: e un bimbo come te, coccolato da tutti. Ecco, di esso esultano le Chiese! Il tuo giorno ha ornato e si è ornato. Benedetto il tuo giorno, che fu fatto per noi! Il tuo giorno ci ha dato un dono, quale il Padre non ne ha altro uguale. Non ci mandò dei serafini, e neppure dei cherubini scesero presso di noi. Non vennero vigilanti ministranti ma il primogenito, che è servito. Chi potrebbe essere all’altezza di rendere grazie per il fatto che la grandezza incommensurabile giacque in una disprezzabile mangiatoia? Benedetto colui che ci ha dato tutto ciò che possedeva! La tua nascita fece gioire quella generazione, ma la nostra l’ha fatta gioire il tuo giorno. Doppia era stata la beatitudine della generazione, poiché aveva visto sia la tua nascita che il tuo giorno; più piccola la beatitudine degli ultimi, che vedono soltanto il tuo giorno. Ma poiché coloro che erano vicini dubitarono, si è moltiplicata la beatitudine degli ultimi, i quali, senza averti visto, hanno creduto in te. Benedetta la tua beatitudine che si è incrementata per noi!" (Nat., XXIII, 7-9).
Efrem Siro nei suoi Inni canta le dimensioni divine e umane del mistero della nostra redenzione fondandosi sulla Sacra Scrittura e anticipando in modo poetico lo sfondo teologico e, in qualche modo, il linguaggio delle grandi definizioni cristologiche dei Concili del V secolo. Egli, che è onorato dalla tradizione cristiana con il titolo di «cetra dello Spirito Santo», soprattutto per i meriti acquisiti nei Carmina nisibena, restò diacono della sua Chiesa per tutta la vita. La sua fu una scelta libera, decisiva ed emblematica: egli fu diacono, cioè servitore, sia nel ministero liturgico, sia, più radicalmente, nell’amore a Cristo servo, da lui cantato in modo ineguagliabile, sia, infine, nella carità, organizzando gli aiuti umanitari resi indispensabili dalla grave carestia che aveva colpito la zona di Edessa: la sua equanimità fu garanzia di una giusta distribuzione dei viveri e dei soccorsi alle popolazioni colpite, che introdusse con rara maestria nella conoscenza della divina Rivelazione. Morì a Edessa il 9 giugno 373, vittima del contagio contratto mentre curava gli ammalati di peste.



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