Commento alla Parola nella Domenica delle Palme /C
– 13 aprile 2025
di don Massimo Grilli
Il tema della Domenica
Tutti i vangeli leggono la passione, morte e risurrezione di Gesù come la tappa suprema del cammino, il compimento di un disegno d’amore divino sugli esseri umani e sul mondo. Ma ciascuno dei quattro evangelisti ha una sua prospettiva, che dipende in parte dalla personale visuale teologica e in parte dalla comunità a cui fanno riferimento. L’ottica di Luca non è quella del Vangelo di Giovanni e neppure quella degli altri due Sinottici: per Luca la via della passione e morte di Gesù è la via della solidarietà di Dio con l’uomo, con ogni uomo, fino al malvagio e al malfattore. È una costante lucana, che percorre tutto il suo Vangelo: l’amore di Dio è un amore che va verso il lontano, il diverso, l’immondo! Non è un amore che guarda verso l’alto, ma verso il basso. Ed è gratuito, perché abbraccia senza chiedere compensi o benemerenze. Su questo canovaccio concettuale è innestato il racconto della passione secondo Luca.
Prima lettura: Is 50,4-7
Il brano che la liturgia odierna presenta come prima lettura è il terzo dei quattro carmi del servitore di Jhwh che si trovano nel libro di Isaia. È il servitore che parla in prima persona e racconta la sua storia di dolore. Descrive la sua sofferenza immeritata: ha operato giustizia, ma in contraccambio ha ricevuto percosse, insulti e sputi… Avrebbe potuto vendicarsi, ma non lo ha fatto, nella consapevolezza che Qualcuno gli era vicino. La sofferenza è un mistero e nessuno mai saprà spiegare il dolore degli innocenti, ma se un innocente soffre e accanto a sé trova qualcuno pronto a portare insieme il dolore… allora la sofferenza vive di una luce nuova. Quando un amico, un’amica soffre con noi, la sofferenza non è più la stessa, e l’amico vero non è colui che ha una soluzione per tutto, non è colui che ha la risposta bella e pronta, ma è colui o colei che resta con noi anche quando non ci sono soluzioni. Questo è un discorso umano, è vero, ma è anche un discorso biblico, un discorso cristiano perché sulla strada del dolore – lo sappiamo o meno – troviamo il servo di Dio sofferente come compagno di viaggio. Dio rimane accanto: questa è la bella notizia della Parola odierna. Il Dio cristiano diventa impotente e cammina con noi anche quando ogni strada si chiude. Noi siamo abituati a cantare e a pregare l’onnipotenza di Dio, ma forse dovremmo convertirci e cantare l’onnipresenza di Dio: un Dio che ci accompagna e vive con noi la sconfitta, la solitudine, le lacrime e la morte. È un Dio presente, anche quando tace. Il servitore sofferente lo dice in modo chiaro: ecco, il Signore Dio è vicino a me, mi assiste: chi mi potrà accusare? Anche quando la vita ci accusa, anche quando la sofferenza sembrerebbe dichiararci che sì, è vero, l’abbiamo meritato, Dio viene a dirci che anche lì alberga un Amore! Lo esprime meravigliosamente il filosofo danese Sören Kierkegaard in questa bella preghiera: «Padre celeste! In molti modi tu parli ad un uomo…Tu parli anche quando taci; perché parla anche colui che tace, per provare l’amato… Padre celeste… quando tutto tace, quando un uomo se ne sta solo e abbandonato e più non sente la tua voce…, quando un uomo languisce nel deserto… fa’ che egli non dimentichi che tu parli anche quando taci. Donagli… la consolazione di capire che tu taci per amore, così come parli per amore; di modo che, sia che tu taccia o parli, sei sempre il medesimo Padre, sia che ci guidi con la tua voce o ci educhi col tuo silenzio».
Il Vangelo: Lc 22,14-23,56
Il servo sofferente viene presentato da Luca come l’innocente che si fa solidale con i dannati della terra. Il dolore di Gesù non è dovuto a una colpa. Persino Pilato dichiara di non trovare in lui «alcun motivo di condanna» (23,34) e uno dei malfattori lo riconosce come un uomo giusto, apostrofando il suo compagno: «Non hai proprio nessun timore di Dio, tu che stai subendo la stessa condanna? Noi giustamente, perché riceviamo la giusta pena per le nostre azioni, lui invece non ha fatto nulla di male». Il giusto sofferente è il tema fondamentale della passione secondo Luca.
La storia biblica è stracolma di storie di giusti umiliati e rigettati: Abele ucciso, Giuseppe venduto, Mosè rifiutato, i profeti perseguitati, i poveri dei salmi sottoposti a vessazioni e soprusi… Il sangue dei poveri non è prezioso a nessuno e la storia sta lì a dimostrarlo. Sembrerebbe che la storia si faccia beffe dei poveri, ma “il giusto crocifisso” apre una strada di redenzione in mezzo agli sberleffi della storia. Proprio grazie all’apparente silenzio di Dio, Gesù (e ogni giusto crocifisso con lui) impara chi è Dio e quale progetto d’amore si annida nelle profondità della terra. L’autore della lettera agli Ebrei scrive che, pur essendo Figlio, Gesù «imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (5,8). Il tirocinio della sofferenza ha condotto Gesù alla comprensione del progetto di Dio, che non passa sulle vie sacre dell’onnipotenza, ma dell’impotenza. Nel seme dei giusti, calpestato e sotterrato dai persecutori, si annida un disegno d’amore, che fa germogliare la terra, rendendola di nuovo feconda.
Alla radice della cultura occidentale, fino al suo estremo esito tecnologico odierno, si è imposto il concetto di Dio quale maximum, in tutti gli ambiti e sotto tutte le dimensioni: grandezza, forza, principio e fonte di ogni certezza e di ogni verità… Insomma il Cristo dominatore e conquistatore, ben noto alla teologia e all’arte… Ci potremmo chiedere, però, se quell’immagine di Cristo rifletta lo splendore e la potenza dei sovrani imperiali che si sono succeduti nei secoli oppure il Dio cristiano, incarnato e crocifisso… Per la metafisica è assurdo che Dio possa soffrire e morire, che possa essere impotente, debole e derelitto… Il pensare kenotico appartiene alla rivelazione cristiana e non è semplicemente alternativo o complementare alla theologia gloriae, ma è un modo tutto diverso di pensare Dio… L’inaccessibile alterità del “totalmente Altro” si manifesta paradossalmente nella debolezza. Nell’inno della lettera ai Filippesi (2,1-13), il parallelismo tra forma divina e forma di servo serve a stabilire il paradosso assoluto della kenosis del Trascendente, il quale prende forma di servitore e diviene, al pari degli uomini, una parola, un Volto, un corpo… Un passo del Talmud di Babilonia afferma: «…dove tu trovi esaltata la potenza del Santo – benedetto egli sia – tu troverai anche accanto, il suo auto-abbassamento. Ciò è scritto nella Torah, ripetuto nei Profeti e poi riportato una terza volta negli Scritti».
Per noi, credenti in Cristo, questa è la verità suprema: Gesù, innocente e giusto, abbraccia la maledizione della croce, per dire che non è l’onnipotenza che salva, ma l’impotenza che ama. Per Luca Gesù vince la triplice tentazione proveniente dai capi del popolo, dai soldati e da uno degli stessi malfattori, tentazione che si esprime sempre con lo stesso invito: «salvi se stesso / salva te stesso!» (Lc 23,35.37.39). Mentre nel Vangelo di Marco si constata l’impotenza di Gesù a salvarsi, in Luca si riconosce a Gesù la possibilità di farlo e lo si esorta a sfruttarla a proprio vantaggio. Gesù non accetta questo ricatto e resta solidale con l’uomo peccatore, fino in fondo. Suonano del tutto appropriate le parole di Bonhoeffer: «la morte di Gesù crocifisso come un delinquente mostra che l’amore divino trova la strada per arrivare fino alla morte del delinquente…». Per Luca, non è più Dio che giudica l’uomo, ma è Dio che si lascia giudicare dall’uomo, rispondendo alla violenza distruttiva con un nuovo inizio, segnato dal perdono. La prima parola di Gesù in croce, secondo Luca, è una richiesta di perdono per i carnefici: «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Non è trascurabile notare che l’offerta di perdono scaturisce proprio dalla posizione in mezzo ai malfattori (23,33). Questo significa che l’amore di Dio non abbandona l’uomo nemmeno là dove egli si pone contro Dio.
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano
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