LA CARITÀ COME MINISTERO ECCLESIALE
a cura della Caritas Diocesana Vicentina
Come affermazione preliminare diciamo subito
che nessuna azione di Dio può incidere nella storia se non diventa
libera azione della creatura. In concreto Dio suscita l’amore degli uomini, non li sostituisce.
Ora in forza del Battesimo, l’amore di Dio è stato effuso nei nostri
cuori (= è lo Spirito Santo), per cui il nostro agire umano, le nostre
relazioni, le nostre scelte diventano il luogo in cui la carità di Dio
(l’amore effuso su di noi) si fa visibile ed efficace nella storia.
E’ vero però che la manifestazione storica
della carità di Dio non si esaurisce nella testimonianza dei singoli
credenti, ma trova la sua forma più completa ed efficace nella comunità
cristiana entro cui il singolo credente vive la sua fedeltà al Vangelo.
Non è casuale che il cammino della Chiesa
italiana in questi anni del dopo Concilio risulti un continuo invito
alle chiese affinché progettino la loro azione pastorale alla luce di
quell’obiettivo primario che punta a comunità che “annuncino”, “celebrino” e “testimonino il Vangelo della carità”.
Sta di fatto però che, nonostante la progettualità ecclesiale e il
cammino ufficiale fin qui portato avanti, delle tre funzioni che
articolano l’azione pastorale, quella che maggiormente rischia ancora di
essere trascurata ed emarginata nell’ambito della vita parrocchiale è
proprio la “testimonianza della carità”. E’ necessario pertanto
interrogarsi anzitutto sulla natura e l’identità della carità cristiana,
nonché sulle conseguenze in ordine alla natura e alla missione delle
singole comunità. Noi cercheremo di dare una risposta a queste due
esigenze.
I. LA FONTE CRISTOLOGICO-TRINITARIA DELL’AMORE/AGAPE
E’ vero però che l’uso inflazionato del termine
“carità” e del suo corrispettivo “amore”, ci obbliga a precisarne il
significato. Quando parliamo della carità, che cosa intendiamo, a che
cosa ci riferiamo? Diciamo subito che la “carità cristiana”
(l’agape) prima di avere una connotazione antropologica (= elemosina)
ed ecclesiologica ha una decisa e specifica connotazione
cristologico-trinitaria.
-
Il carattere cristologico-trinitario
Dall’analisi dell’Antico e del
Nuovo Testamento risulta chiaro che il punto di partenza per ogni
discorso sulla carità è Gesù, il Crocifisso-risorto. Gesù si pone come
il “luogo teologico” per eccellenza in cui la Chiesa impara a conoscere
che cos’è la “carità” (agape). Il termine “carità/agape” infatti si
offre come termine sintetico per descrivere e per annunciare la totalità
dell’evento/Cristo. Basta ricordare la 1Gv 3, 16: “Da questo abbiamo conosciuto l’agape: Egli ha dato la sua vita per noi”.
L’amore, la carità è il Cristo in quanto comunicazione salvifica di
Dio/Padre alla libertà dell’uomo, animata dallo Spirito Santo. Gesù
Cristo è la descrizione più completa, la Parola insuperabile dell’amore
di Dio. Tutta la sua vita è contrassegnata dall’amore, dall’amore “più grande“.
Egli è la parabola dell’amore di Dio, è colui che narra l’amore di Dio
per gli uomini. Ne è anche l’interprete più completo e più autorevole.
S. Giovanni lo chiama “l’esegeta di Dio”: “Dio nessuno l’ha mai visto, proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato (=exeghesato)”.
Ora due sono i tratti che qualificano la vita di Cristo: il suo “essere-per-il-Padre” e il suo “essere-per-gli-uomini”.
- Il suo“essere-per-il-Padre” in una reciprocità assoluta d’amore, emerge soprattutto nella prassi della sua preghiera.
Essa rivela una intimità filiale con Dio che non ha precedenti nella
storia religiosa d’Israele e che trova espressione nel termine “Abba”
con il quale si rivolge a Dio. Concretamente questo
“essere-per-il-Padre”, sulla Croce in particolare si manifesta come una
volontà totale di dedizione e unità di intenti.
- L’essere-per-gli-uomini.
Questa seconda dimensione della sua carità coincide con la libera e
storica dedizione di sé per gli uomini. Essa però non è altro che
l’espressione storica dell’amore di Dio/Padre verso gli uomini. E’ per
amore del Padre che egli si offre agli uomini e si dona fino
all’annientamento di sé.
-
La Pasqua rivelazione della carità/agape.
Il momento più alto in cui Gesù manifesta e realizza questo suo amore nei confronti degli uomini è la sua Pasqua di morte e di risurrezione.
- Che cosa avviene nella Croce?
Non è soltanto la conseguenza del tradimento di Giuda e delle
responsabilità delle autorità religiose e politiche del tempo, ma
attraverso quelle vicende umane avviene una misteriosa consegna che Gesù fa di se stesso al Padre: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23, 45) , “e chinato il capo consegnò il suo spirito” (Gv 19, 30). Si tratta di una consegna che ha il sapore di una dolorosa offerta per amore nostro e al nostro posto.
- Ma il quella offerta che Gesù fa di se stesso c’è anche l’offerta più misteriosa che il Padre fa del suo Figlio per noi. Ce lo dice S. Giovanni nella sua prima lettera: “In
questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha
amato noi per primo ed a noi ha mandato il suo Figlio come vittima di
espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4, 10). La croce dunque rivela anche l’amore di Dio Padre.
- Diciamo che anche lo Spirito Santo
è operante nella Croce. C’è un’espressione molto significativa di S.
Giovanni a proposito della morte di Gesù. Egli dice che Gesù “chinato il capo consegnò lo Spirito”
(Gv 19, 30), cioè consegna la sua vita, se è vero che Gesù è il frutto
dell’azione dello Spirito. Lo consegna al Padre, come espressione del
suo amore e il Padre glielo ridà in pienezza nella risurrezione perché
lo riversi su di noi. Ecco il senso della Pentecoste che per noi
coincide con il Battesimo. Là siamo stati investiti dell’amore di Dio
Padre a Pentecoste che per noi coincide con il nostro battesimo. Nel battesimo infatti, l’amore di Dio é stato “riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo” (Rom 5, 5)”
Ecco che cos’è la croce. Essa è la piena e
totale manifestazione dell’agape di Dio in Cristo per l’umanità intera.
E’ la storia dell’amore di Dio Padre, del Figlio suo Gesù Cristo e dello
Spirito Santo. Sulla croce questo amore è entrato nella storia del
peccato, del dolore e della povertà degli uomini, per cui Dio non è
dunque un oscuro spettatore del dolore e della povertà umana, ma è
entrato in una solidarietà d’amore con la sofferenza umana.
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Rapporto tra la carità ecclesiale e la carità che è Dio (=Dio è carità)
Se questa è l’origine e la forma trinitaria di
quella carità che è Dio stesso e che viene riversata nei nostri cuori
per mezzo dello Spirito non è difficile intravedere quale sia il
rapporto tra la vita della chiesa, in particolare delle nostre comunità
parrocchiali e il mistero dell’amore/agape di Dio.
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Essa si presenta anzitutto come l’icona della carità di Dio. Infatti, essa è la comunità di coloro che sono attratti dal Crocifisso: che guardano a Colui “che è stato trafitto” (Gv 19, 37) e in lui contemplano lo spettacolo della carità del Padre e del Figlio, accolgono il loro dono che è lo Spirito e liberamente decidono di seguire Cristo facendosi essi stessi promotori e trasmettitori del suo evento di carità nelle trame variegate della storia degli uomini. “Configurata alla Croce – dicono i Vescovi, in ETC – la Chiesa è il grande sacramento della carità di Dio nella storia degli uomini” (ETC 24). Come il Cristo è la narrazione dell’amore del Padre nella forza dello Spirito, così la comunità ecclesiale nella forza del medesimo Spirito “racconta l’evento/carità che è Cristo per farlo diventare in pienezza storia degli uomini”. “Nelle molteplici forme del suo servizio, essa deve rivelare il volto di Dio e non se stessa” (RTC , 21).
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Ma la carità di Dio eccede ed è inesauribile rispetto alla carità della Chiesa. La Chiesa, consapevole che mai è in grado di tradurre in pienezza e in totalità la carità che è Dio stesso, sa di dover continuamente attingere a questa sorgente dell’amore di Dio. Ecco perché essa continuamente accoglie e proclama la parola di Dio, celebra l’Eucarestia, i luoghi non unici in cui attinge a questa carità
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La carità della Chiesa è realizzazione parziale e anticipata del Regno di Dio. “Ogni autentico gesto di carità – dicono ancora i Vescovi – rappresenta nella storia degli uomini una realizzazione anticipata del Regno di Dio (ETC n 18).
II. LA CARITA’ E LA VITA DELLA COMUNITA’ CRISTIANA
Dalla caratterizzazione trinitaria della carità di Dio nella storia degli uomini scaturiscono alcuni tratti fondamentali della
carità come legge di vita della Chiesa. Diciamo subito che la forma
storica continuatrice dell’amore di Dio manifestatosi in Cristo Gesù non
sono tanto i singoli credenti, ma la comunità cristiana, intesa come
luogo umano entro cui nasce, vive e si esprime il singolo credente.
Tutto ciò chiede che la Chiesa sia pensata e attivata nel segno della
carità.
- Lo ricordava lo stesso Giovanni Paolo II in un suo Discorso ai partecipanti al Convegno: “Carità come ermeneutica teologica e metodologia pastorale” (Roma 1987): “Tutto
dev’essere pensato e attivato nel segno della carità per recare…la
buona novella dell’amore di Dio in Cristo Gesù per mezzo della Chiesa”.
E’ la Chiesa dunque il primo soggetto che dev’essere pensato e attivato
nel segno della carità. Non basta alla comunità cristiana che i singoli
facciano gesti di carità, è necessario che la stessa comunità ne dia
testimonianza, esprimendosi in termini di carità.
- Dicono i Vescovi italiani in ETC ( n. 26) che bisogna rifare con l’amore il tessuto cristiano della comunità ecclesiale: “L
‘evangelizzazione e la testimonianza della carità esigono come primo
passo da compiere, la carità di una comunità che manifesti in se stessa,
con la vita e con le opere il vangelo della Carità”. E poco sopra, al n. 24 dello stesso documento, affermano che: “Configurata alla Croce, la Chiesa è il grande sacramento della carità di Dio nella storia degli uomini”.
Dire che la Chiesa è “sacramento” vuol dire
sostanzialmente, secondo la definizione catechistica tradizionale di
sacramento, che essa è “segno e strumento” della carità di Dio.
Volendo usare due termini equivalenti, più esistenziali, possiamo dire
che la comunità cristiana deve costruirsi prima come “koinonia”, cioè come “comunione di amore” perché il suo servizio, cioè la sua “diakonia” di carità sia credibile.
1. La Chiesa come “Koinonia”
La prima conseguenza dell’affermazione della carità come “forma” della Chiesa è che la Chiesa deve costruirsi come “koinonia”, cioè come comunione solidale e fraterna. Vuol dire che all’interno della Chiesa non solo le relazioni interpersonali debbono essere permeate il più possibile dalla “forma caritatis”, ma anche le istituzioni ecclesiali,
così come le ha volute Gesù Cristo (Sacramenti, annuncio, ecc.) e come
storicamente la Chiesa le ha evolute, devono essere testimonianza viva e
trasparenza dell’agape divina.
E’ vero che questa preoccupazione di essere una
“comunione” non è mai venuta meno nel corso della storia, però è anche
vero che la Chiesa si è preoccupata di costruirla a partire dall’unità
della fede, dei sacramenti e soprattutto a partire dall’unità
gerarchica; molto meno a partire dal principio divino dell’agape.
Forse è a partire da questa carenza che si può
spiegare, sia pure parzialmente, la conturbante storia dell’intolleranza
cristiana. La preoccupazione di salvaguardare il “dogma” cristiano ha
totalmente impregnato di sé tutta la cultura e civiltà, così da
ingenerare dolorosi conflitti, senza che il“principio-carità” sia
riuscito a determinare una cultura di tolleranza, di pace e di amore.
Se ci chiediamo che cosa comporta per la Chiesa
pensarsi e costruirsi secondo il principio dell’amore, mi sembra che
emergano questi dinamismi:
- Anzitutto essa deve rendersi accogliente dell’amore di Dio, dell’agape, della “charis
“. Sono tutti termini che dicono che la Chiesa è fatta da Dio, dalla
sua azione, che poi coincide con il dono dello Spirito Santo. Lo Spirito
Santo infatti è il nome proprio della carità di Dio. Si tratta di una
Chiesa che si costruisce in obbedienza allo Spirito.
- Il secondo dinamismo coincide con lo sforzo di far sì che le “relazioni” tra i credenti si costruiscano secondo il principio della carità. Dicono i Vescovi italiani: “Ciascuno,
secondo il proprio ministero e il dono dello Spirito ricevuto, deve
sentirsi impegnato in prima persona a edificare la comunità nell’amore” (ETC n. 26). Non sono pertanto solo quelle che sono chiamate le “relazioni corte” (immediate) a dover essere espressione della carità, ma anche le cosiddette “relazioni lunghe” o mediate e istituzionali.
La “koinonia” pertanto come realizzazione
storica dell’agape si deve tradurre a livello istituzionale: a) nel
rapporto di collegialità e di primato tra il Vescovo di Roma e i singoli
vescovi; b) nel rapporto tra i vescovi e i presbiteri all’interno del
presbiterio diocesano; c) nel rapporto tra laici, vescovi e presbiteri;
per non dire dei religiosi e delle religiose che sono appunto chiamati a
rendere presente nel tessuto vivo della Chiesa e del mondo, attraverso
l’amore reciproco, la carità di Dio.
Con molto realismo il documento dei vescovi (ETC) parla della comunione ecclesiale in termini di “riconciliazione”: “La
Chiesa che nasce dalla carità di Dio, è chiamata ad essere carità nella
concretezza quotidiana della vita e dei rapporti recipiroci fra tutti i
suoi membri” (n. 27)
* Ora nella comunità cristiana ci sono delle riconciliazioni che devono partire dall’esigenza di “verità “;
sì perché una carità senza verità è ambigua, come è anche vero che una
verità senza carità, non è la verità di Dio. I Vescovi ricordano tre
situazioni di “non-verità” che hanno bisogno di essere riconciliate:
- superare le situazioni di cristiani che hanno
una appartenenza solo parziale con la Chiesa ( es. cristiani
divorziati, risposati, ecc.);
- la situazione di cristiani che vivono un
pratico distacco o un esplicito dissenso dal suo insegnamento morale o
dottrinale (es. aborto, divorzio, ecc.);
- la situazione di diffidenza, sfiducia, sospetto gli uni verso gli altri (es. movimenti, gruppi associazioni, ecc.).
* Ci sono poi delle riconciliazione che devono partire dalla carità.
Qui il documento dei Vescovi non precisa nulla, ma è ovvio che andando
agli orientamenti di questi anni la riconciliazione va nella linea della
scelta preferenziale dei poveri. Non bisogna dimenticare l’invito
ribadito più volte di “ripartire dagli ultimi”, una delle
espressioni più forti e più impegnative che siano mai state dette e
scritte. L’invito dei vescovi poi va anche nella linea delle “nuove povertà”, nella linea di “chi sbaglia”, dell’abbattimento delle barriere fisiche e linguistico-razziali.
Solo dunque una Chiesa che vive al suo interno la carità può soddisfare alla sua missione di essere “segno”
credibile di quella carità che predica. Una Chiesa matrigna nei
confronti dei suoi figli non può vantare credito quando annuncia l’amore
di Dio. E’ in questo contesto che potrebbe essere opportuno una
chiarificazione della dialettica “Fede-Carità”
Nb. La dialettica Fede-Carità:
Ovviamente le nostre osservazioni non
riguardano l’analisi dell’atto di fede e di carità nei loro dinamismi
intrinseci, ma si pongono là dove la carità e la fede passano nei segni,
negli strumenti della comunicazione interpersonale, diventando così
costitutivi di una comunione nella quale i singoli convergono per una
riunione storica comune.
Quanto alla fede si è sempre sostenuto, e a
ragione, che essa è il principio di aggregazione nella Chiesa, e questo
in continuità con l’esperienza storica di Gesù e della Chiesa primitiva.
Proprio per questo è chiaro che il criterio della carità e del!’amore
non può sostituire quello della professione di fede come principio della
esistenza della Chiesa e della sua comunione anche con il mondo.
E dobbiamo anche dire che la consapevolezza di
questa priorità non è mai venuta meno nella coscienza della Chiesa. La
purezza della fede, l’ortodossia ha sempre costituito un punto primario e
decisivo nella vita e nella storia della Chiesa.
Il problema è di vedere se la ‘professione della fede” possa e debba intrecciarsi con la “professione della carità” in modo da costituire un unico principio dal quale scaturisca la Chiesa e il suo impegno.
Ora se noi analizziamo a fondo la natura della fede ci accorgiamo che essa non si esaurisce in un atto intellettuale ( la ‘fides fiducialis’
di ascendenza protestante) di adesione a delle verità astratte; essa è
fondamentalmente accoglienza e traduzione storica dell’amore di Dio
manifestatosi in Gesù Cristo.
La fede biblica è accoglienza di Cristo che, come dice Gv., è certamente verità, ma questa verità è ‘amore’ (cfr. I Gv. 4,7-8: “Carissimi,
amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio e chiunque ama è
nato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio
è amore”). Pertanto a definire il cristiano, anche nella sua fede, è
la sua capacità di amare. E’ la carità che genera la verità nei
riguardi di Dio.
Se è la carità il criterio per definire
l’autenticità della fede, si possono allora ipotizzare diversi casi nei
quali la fede non è autentica:
- Chi, per es., riduce la fede a semplice “credenza”(= ritenere per vere le affermazioni rivelate) si illude di essere giusto.
- Come anche l’atteggiamento di chi, pur comportandosi onestamente, non è animato dalla “carità di Cristo”,
non può essere considerato ‘giusto’. Non bastano i buoni comportamenti
per avere la vita in pienezza. S. Paolo infatti ricorda che anche chi
dona i propri beni, e la vita stessa per i fratelli, ma non è animato
dalla “carità di Cristo” (= agape) agisce invano (1 Cor c. 13).
Solo la fede intesa come accoglienza e manifestazione dell’amore di Dio,
che in Gesù è diventato carne, introduce nel Regno. Alla luce di queste
considerazioni appare chiaro che il principio che identifica il
credente è costituito da un duplice movimento: a) dall’accoglienza
dell’amore di Dio manifestato in Gesù Cristo; b) dalla manifestazione di
questo stesso amore. Il Vangelo riassume bene il tutto dicendo: “fare la verità”: “Chi fa la verità viene alla luce”(Gv 3,21).
Le ricadute ecclesiologiche sono abbastanza ovvie. La Chiesa non può essere definita compiutamente con la espressione: “comunità dei credenti”,
ma comunità di credenti che in nome di Dio amano. La Chiesa non è
compiutamente costituita soltanto da chi ha una retta dottrina, ma da
chi, oltre alla retta dottrina, manifesta l’amore di Dio agli uomini in
modo efficace e storico.
Portando al paradosso la provocazione si
potrebbe dire: Se nella Chiesa non vi fossero santi capaci di amare, ma
vi fossero solo dottori dotati di profonde conoscenze, la Chiesa non
sussisterebbe. Una comunità di credenti in cui non circola “la carità di Cristo”
finisce per non essere “sacramento di salvezza” e non costituisce
perciò la Chiesa di Cristo. Carità e Fede dunque non sono due realtà
opposte, né due poli lontani, ma si richiamano vicendevolmente per una
reciproca pienezza.
2. La Chiesa come “Diakonia”
La Chiesa però non si esaurisce nell’essere
“segno” della carità di Dio; essa si realizza pienamente solo quando se
ne fa anche “strumento “, quando cioè si fa “diakonia”, servizio di carità. La Chiesa cioè si deve far ministra di carità, riconoscendosi nella figura dell’apostolo Paolo che dice: “Dio ci ha resi ministri (= “diaconoi “) della Nuova Alleanza”( 2Cor 3, 6). La Chiesa tutta è dunque questo “ministero della Nuova Alleanza”.
a. Diakonia ed evangelizzazione
Questa prospettiva ci colloca di fronte al
problema del rapporto tra “agape” e il compito pastorale della Chiesa,
che il Papa Giovanni Paolo II evoca con il termine di “nuova evangelizzazione” e che, a suo dire, ha proprio nell’agape il suo cuore e il suo centro propulsore. Questa “nuova evangelizzazione”,
rivolta non solo alle singole persone, ma anche a intere popolazioni
nelle loro varie situazioni, ambienti e culture, è destinata alla
formazione di “comunità ecclesiali mature”, nelle quali cioè la
fede sprigioni e realizzi tutto il suo originario significato di
adesione alla persona di Gesù Cristo e al suo vangelo, di incontro
sacramentale con Lui e di esistenza vissuta nella carità e nel servizio.
In questa prospettiva la cosa più urgente è di superare alcune false “alternative” che, in forma più o meno consapevole, ostacolano l’azione evangelizzatrice. Si tratta di superare l’alternativa tra “promozione umana” e “salvezza integrale”; tra “testimonianza” e “annuncio”; tra “identità” e “dialogo”.
La “carità” si offre come quell’elemento capace
di instaurare quella “circolarità ermeneutica e operativa” che permette
di superare l’alternativa. Infatti, se da un lato non è possibile
annunciare il vangelo della carità se non testimoniandolo e
incarnandolo; dall’altro ogni testimonianza e incarnazione del vangelo
della carità deve recare in sé la “linfa” teologale (trinitaria)
dell’autentica e integrale agape cristiana “narrata” nell’annuncio e
celebrata nei sacramenti.
b. Diakonia come azione ecclesiale
Questa diaconia della carità verso il
bisognoso, non è affare solo di singoli, ma è un ministero soprattutto
della comunità ecclesiale nella sua interezza ( non certo in polemica o
in antitesi con le istituzioni pubbliche).
E’ evidente che una tale osservazione chiama in
causa la qualità della vita delle comunità cristiane parrocchiali. In
questa prospettiva il problema da discutere è quello di cercare le forme
più efficaci che mediano l’azione caritativa.
Dire che il ministero della carità è un
ministero di tutta la Chiesa non vuol dire misconoscere nella Chiesa
l’esistenza di responsabilità diversificate. A questo proposito si
pongono due problemi concreti, tra loro strettamente collegati:
- Ci si chiede se per esercitare la carità sono necessari riconoscimenti ufficiali (ministeri riconosciuti);
- Se quindi la carità è delegabile a persone, gruppi, istituzioni nella Chiesa.
Circa i “ministeri”.
Nella comunità cristiana, in corrispondenza con le differenti funzioni
nella Chiesa, si danno “ministeri” diversi. Infatti, in una visione
ordinata, non è pensabile che nella comunità cristiana tutti facciano
tutto. Pertanto, in ordine al ministero della carità si può ritenere,
che se anche ci sono delle specifiche responsabilità, non si deve
dimenticare che, poiché esse si radicano tutte nella comune
responsabilità della Chiesa, non è necessaria alcun riconoscimento
ufficiale. La comune Eucarestia, nella quale si radicano tutti i servizi
della carità, impegna ciascuno a vivere la carità.
Quanto alla “delega“,
è un fatto che possiamo ritrovare lungo tutta la storia della Chiesa.
Basti pensare a tutte le diverse istituzioni caritative. Di fatto si
osserva che ad un certo punto si attua una ripartizione di ruoli, che
assume addirittura i tratti della separazione, per cui alcuni, a nome di
tutti, nella Chiesa, sono delegati in ordine alle opere di carità. La
cosa non è così condannabile se si pensa che l’intervento riabilitativo a
cui tende l’opera caritativa, richiede una certa dedizione, una certa
qual professionalità, almeno a certi livelli.
Da evitare è che l’affinamento professionale
faccia perdere il senso della responsabilità ecclesiale. Certamente
l’impegno caritativo è da differenziare, anche se la responsabilità
rimane in ogni caso della comunità nella sua globalità. Solo che, a
fronte della eventuale e legittima pluralità di servizi in campo
caritativo si fa evidente la necessità dell’animazione e del
coordinamento. Qui emerge il ruolo della “caritas” parrocchiale
3. Modalità per una carità evangelizzante
Si potrebbe, a questo proposito, fare un lungo
discorso, ma è preferibile riandare alla figura del Buon Samaritano, che
più di ogni discorso si offre come illustrazione persuasiva della
carità cristiana. La parabola, oltretutto, è una allegoria di Gesù
stesso e della sua misericordiosa azione salvifica verso gli uomini.
Nel Buon Samaritano Gesù dipinge se stesso nel
suo rapporto di amore verso l’umanità. Gli elementi importanti da
segnalare sono tre: a) Il “farsi prossimo” di quel Samaritano ad uno
straniero; b) La “gratuità” assoluta; e) Il prendersi cura
dell’effettivo bisogno.
- La prossimità: Certamente
fu il bisogno di quel poveretto a muovere a compassione il Samaritano,
ma la prima cosa che la parabola sottolinea è il suo approssimarsi a
quel disgraziato: “lo vide, ne ebbe compassione, gli si fece vicino”
(Lc 10, 34-35). L’importanza di questo “avvicinarsi” emerge ancor più
evidente dalla precisazione, certamente polemica, nei confronti dei
primi due passanti, un sacerdote e un levita,. Questi due “passarono
oltre”, cioè presero le distanze, togliendo ogni prossimità. La
“prossimità” infatti contraddistingue l’azione di Gesù nei confronti
degli uomini. I poveri, i malati, coloro che erano disprezzati e ai
margini non sono soltanto oggetto della sua compassione e beneficenza,
il suo comportamento non si esaurisce in un atto di “elemosina”. Nei poveri, i malati, i peccatori egli riconosce anzitutto il volto di un fratello. Ce lo ricorderà al giudizio finale: “ Qualunque cosa avrete fatto ad uno di questi miei fratelli..”. E’
proprio questo riconoscimento dell’altro come fratello che fonda
l’esigenza della prossimità. Nel regno di Dio e quindi anche nella
comunità i poveri, prima di essere degli indigenti, sono dei soggetti e
non tanto ggetti della nostra compassione. Prima di ogni aiuto viene la
solidarietà ed è proprio il riconoscimento della fraternità che è in
grado di prefigurare la “vita nuova” di cui la comunità cristiana
dev’essere come un anticipo.
Il riconoscerli come fratelli è la condizione perché essi a loro volta ci riconoscano come fratelli e non solo come dei benefattori. E’ il comandamento nuovo del Cristo: “Amatevi l’un l’altro come Io ho amato voi” (Gv 15, 12). La carità ha, per natura sua, una struttura di reciprocità
Se la comunità cristiana, e in essa i
cristiani, si limitano semplicemente ad alleviare le sofferenze, a
curare le ferite, a favorire compensazioni sociali, la loro carità perde
la connotazione cristiana e diventa parte dei servizi dello Stato
sociale.. Ora, il limite cui va incontro ogni sistema sociale è quello
di non riuscire ad esprimere nessuna prossimità di fronte alla malattia,
alla vecchiaia, alla morte.
Essere prossimi infatti, non vuol dire solo
garantire degli interventi sociali, ma vuol dire riconoscere la
condizione del povero come qualcosa che ci riguarda, qualcosa che ha un
significato. E’ inutile che io sano incoraggi il fratello malato,
handicappato, magari dicendogli che l’handicap è cosa di poco conto, che
in fondo può fare molte cose che i sani possono fare, quando io poi di
fatto ho il terrore dell’handicap e non ne voglio sentire parlare e
quando mi capita lo considero solo una disgrazia. La vera carità è
quella che riesce a dire una parola di “senso” là dove la società si
chiude in un imbarazzante silenzio.
E’ solo una comunione di vita tra “emarginati e
non”, tra sani e malati, tra giovani e vecchi, tra uomini e donne, per
cui le persone sono accostate, certo a partire anche dai loro bisogni,
ma perché fratelli, figli di Dio, che si riesce a
prefigurare il “mondo nuovo” dove sarà asciugata ogni lacrima. Bisogna
in sostanza prefigurare un nuovo tipo di società se si vuole colpire il
male alla radice, altrimenti il rischio è quello di omologarsi a questo
tipo di società che in nome del benessere comune lascia ai margini chi
non sta al ritmo, la quale distribuisce gratificazioni a quanti si
fermano ai lati della strada per raccogliere i feriti e le vittime che
essa produce inevitabilmente, ma che non intende cambiare assolutamente
la qualità delle relazioni.
- La gratuità assoluta.
E’ significativo che a farsi prossimo al malcapitato della parabola sia
uno straniero, un Samaritano appunto. Ci si aspetterebbe che fosse il
sacerdote o il levita a fermarsi, in forza dei legami razziali e
religiosi (=era un ebreo), e invece è uno straniero che in assoluta
libertà e gratuità, mosso a compassione, si fa prossimo e si prende cura
di quell’uomo. La gratuità è uno dei tratti più significativi della
carità cristiana. Essa implica anzitutto la presa di distanza da quella
che sociologi e psicologi chiamano la “sindrome del soccorritore”,
una tentazione sempre in agguato per il credente e la stessa comunità
cristiana. Parlando più chiaramente, l’agire caritativo, inteso come un
“farsi prossimo”, non cerca gratificazioni personali e neppure gratificazioni per l’istituzione ecclesiastica (parrocchia o diocesi) e neppure si propone come veicolo del messaggio cristiano Si
tratta del superamento dell’autoreferenzialità. La carità cristiana
vale per se stessa e non tanto per i frutti che essa produce, vale per
quel potenziale d’amore che si sviluppa nel viverla (cfr. l’elemosina).
- Il prendersi cura dell’effettivo bisogno.
Rimane che l’iniziativa caritativa ha pure come proprio obiettivo la
“riabilitazione” della persona. Essa mira a restituire al soggetto il
proprio equilibrio di vita, fare in modo che essa si riappropri delle
sue capacità fisiche, psichiche e spirituali e si possa sentire bene.
Per questo l’azione caritativa deve passare attraverso l’intelligenza e
la programmazione. Occorre che essa individui l’oggetto reale al quale
dirigere il suo intervento caritativo, altrimenti si finisce per
muoversi, magari con tanta generosità, ma con il rischio di fare cose
inutili, quando non si finisce per aggravare la situazione. Il
Samaritano della parabole è un uomo che ragiona e programma. Vede un
uomo pestato dai ladroni ai lati della strada e pone chiaramente gli
interventi in relazione alla situazione: lo media, lo carica sulla sua
cavalcatura, lo porta alla locanda, lascia dei soldi perché lo si curi, e
si propone di far ritorno per saldare i conti. Dunque non si accontenta
di compiere un gesto, ma programma il suo intervento.
E nel caso di situazioni irreversibili? Nel
caso di condizioni di disagio e di sofferenza irrimediabilmente
compromesse sul piano fisico, quale dev’essere la direzione dell’azione
caritativa? Si deve rinunciare ad essere efficaci? Ed eventualmente di
che tipo di efficacia si può parlare in questi casi? Pensiamo a chi si
trova a vivere situazioni di handicap irreversibile o addirittura di
fronte alla prospettiva della morte. Io credo che neppure di fronte a
situazioni di questo genere la carità cristiana si ritira sconfitta. E
potremmo pensare al confronto con questo tipo di disagio in termini di
“resistenza” e “resa”: a) “resistenza” nel senso di una protesta operosa contro la sofferenza , valorizzando anche le ultime gocce di vita; b) “resa”
nel senso che la prossimità, l’accompagnamento aiutano il fratello a
scoprire e a consegnarsi a quel “di più” che anche in queste situazioni è
presente. Ancora una volta è la “prossimità” che diventa decisiva.
4. Esercizio della carità e identità della comunità cristiana
L’intima connessione tra comunità e solidarietà
fraterna è uno dei tratti caratteristici della prassi cristiana fin dai
suoi inizi, al punto che un S. Ignazio di Antiochia usava i termini
ecclesìa e agape come sinonimi. La divaricazione che, nel corso dei
secoli, si è a più riprese venuta producendo, la distanza cioè tra
attenzione agli ultimi, delegata ad alcune categorie specifiche, e la
prassi corrente è una delle contraddizioni pastorali più evidenti.
Ora un vero rinnovamento è impensabile senza
una modificazione, non solo periferica, ma che vada a toccare il cuore
medesimo della concezione orale della comunità cristiana. E’ necessario,
al di là della retorica sulla “communio”, riattivare la diakonia nella
comunità cristiana.
Ora perché questo avvenga, vorrei segnalare
un’altra questione che condiziona un tal proposito: Non ogni modello di
comunità si mostra idoneo alla realizzazione concreta e corretta della
prassi cristiana di solidarietà. Se è vero che l’azione caritativa
trasforma il volto della comunità e l’agire pastorale complessivo, è
anche vero che l’azione caritativa ecclesiale si configura in
corrispondenza dei lineamenti della comunità.
a) In un modello solo amministrativo di parrocchia,
in cui la conduzione è decisamente accentrata, la partecipazione
laicale sconosciuta, o ammessa nella forma di collaborazione solo
esecutiva, è evidente che la prassi caritativa finisce per essere libera
iniziativa dei singoli e una sua forma organizzata finisce per assumere
il carattere di delega di tipo esecutivo.
b) In un modello di parrocchia fortemente organizzata e attiva,
fioriscono certamente molteplici e articolate iniziative, la
collaborazione laicale è ampiamente sollecitata e diffusa, ma la
generalità dei cristiani rimane in posizione di ammirazione ricettiva.
Pur non essendo piramidale, la strutturazione delle varie iniziative
ruota attorno alla figura del presbitero. La comunicazione
interpersonale sul vissuto ecclesiale, il discernimento critico e la
stessa progettazione finiscono per essere deboli e poco approfondito lo
stesso riferimento di fede, che rimane nello sfondo. Il rischio è quello
di un impegno ben organizzato e generoso ma esposto a omologarsi ai
criteri della società civile, perdendo la capacità critica nei confronti
delle sue distorsioni.
c. Il modello comunionale.
Il modello in grado di sviluppare una prassi caritativa corretta è il
modello “comunionale”, là dove le diverse funzioni (carismi e ministeri)
e gli apporti dei singoli tendono alla costruzione di rapporti fraterni
tra le persone. In tale comunità la prassi di solidarietà è sentita
come componente inscindibile dell’esistenza stessa della comunità. Essa
trova il proprio luogo significativo eminente nella celebrazione
dell’eucarestia in cui la comunità si costruisce e la solidarietà nasce e
si esprime compiutamente. In questo tipo di comunità si realizza una
proficua interazione tra i diversi momenti che fanno della parrocchia
una comunità.
Conclusione
Momento dell’agire pastorale complessivo la
cura per il povero ne condivide le sorti. Risente dell’appannarsi delle
sorti e prende forza dalla ripresa di iniziativa. Ma è anche capace di
un suo influsso sull’immagine pastorale globale, alimentando la vivacità
della fede o distraendo su percorsi soltanto umani l’impegno cristiano.
La sua potenzialità ma anche la sua ambivalenza chiedono un vigile
discernimento.
Ciò che conta è, dal punto di vista operativo,
porsi nella prospettiva giusta, adottare un modello di pastorale
generale e di comunità parrocchiale pertinente, sul quale verificare con
coraggio le singole decisioni di una azione ecclesiale di carità che si
coestenda alla realtà ecclesiale
IL VANGELO DELLA CARITA’ NELLA CHIESA
Premessa:
Io vorrei soffermarmi sulle forme attuali
dell’azione caritativa evidenziandone i tratti più significativi, ben
consapevole che esse sono il frutto maturo di un’esperienza millenaria,
lunga quanto la storia della Chiesa, se è vero che, come dice Giovanni
Paolo Il, “la carità è il cuore della Chiesa; senza la carità la Chiesa
non è la Chiesa di Gesù Cristo”. Se le cose stanno così, la storia della
Chiesa è ancora tutta da riscrivere, perché l’abbiamo ricostruita a
partire quasi esclusivamente dalla sua missione di custode della
ortodossia della fede (la storia dei dogmi, delle eresie, ecc.).
La ricostruzione dei tratti significativi
dell’azione caritativa ha il pregio di conferire concretezza al discorso
sulla carità. Infatti sulla base di una sua conoscenza, si può meglio
procedere ad una ulteriore esplorazione della sua natura e delle
problematiche che essa comporta.
Le forme attuali dell’esperienza caritativa
Se noi ci confrontiamo con l’opera caritativa attuale della Chiesa, osserviamo che essa si confronta con le molte forme del bisogno.
Essa cioè sviluppa il suo intervento in tutte quelle aree dell’umano in
cui il desiderio di una vita vissuta in pienezza e responsabilità corre
il rischio di essere frustrato. Se osserviamo più in dettaglio
rileviamo che le attenzioni più pressanti sono rivolte ai minori e ai giovani a rischio da
un lato e agli anziani dall’altro. Sono privilegiati in concreto i due
estremi dell’arco della vita. Ma è notevole pure l’impegno a favore dei portatori di handicap di natura fisica e psichica; è pure notevole l’investimento di energie sul fronte della tossicodipendenza. Il fenomeno immigratorio, e connesso con questo quello della aumentata prostituzione,
sta a sua volta sollecitando interventi ancora più massicci. Non
mancano iniziative di supporto per i nomadi e per quanti sono senza
fissa dimora (i barboni,).
L’attenzione è rivolta anche alle famiglie
che per le loro disastrate condizioni economiche o esistenziali non
sono in grado o stentano a far fronte ai compiti umani ed educativi
propri della famiglia. Pure la realtà del carcere è motivo
di interessamento per l’azione caritativa, sia per una sua
umanizzazione sia per dare effettivamente corso all’intenzione
abilitativa della pena e al reinserimento sociale dell’ex detenuto.
Altro ambito che stimola l’azione caritativa è la malattia,
specie quando lo stato di salute si fa problematico e mette a dura
prova l’equilibrio umano della persona impone carichi di assistenza non
indifferenti alla famiglia.
Praticamente si deve dire che tutte le aree del bisogno,
così come affiorano nella nostra società, sono frequentate dall’azione
caritativa. Se le vecchie povertà hanno suscitato forme di impegno
caritativo ormai consolidate e che necessitano eventualmente di essere
“riviste”, l’impatto delle nuove povertà, indicatrici delle carenze
umane ed esistenziali emergenti, spinge in continuità l’azione
caritativa a riformulare le proprie impostazioni e a ristrutturare le
iniziative. Emerge così un dato tipico dell’attuale esperienza
caritativa: cioè la capacità di attivare contestualmente “attività”
ricevute dal passato e interventi innovativi, la qual cosa permette
all’esperienza caritativa di mantenere una posizione di rilievo nel
campo dell’attività sociale.
Lo stile di intervento
E’ prevalentemente di tipo assistenziale, teso a dare risposte immediate ai bisogni e impegnato a gestire situazioni difficili o problematiche. Tuttavia non mancano atteggiamenti più innovativi, guidati da obiettivi di prevenzione e che perseguono intenti di reinserimento e di integrazione sociale, nello spazio di promozione delle condizioni di vita delle persone interessate.
Ad essere più precisi dovremmo dire che:
a) mentre gli
interventi curativi e di assistenza caratterizzano per lo più le
istituzioni caritative con una storia più lunga alle spalle, cioè le
istituzioni classiche;
b) i “servizi emergenti” che fronteggiano le nuove povertà sono maggiormente mossi da intenzioni di ascolto e di accoglienza.
Protagonista rilevante dell’azione caritativa è il “volontariato
‘ In prima approssimazione esso si caratterizza per la gratuità della
prestazione, la consapevolezza delle intenzioni e l’elevato grado di
motivazioni. Al momento attuale, la sua estensione ne fa una risorsa
insostituibile per l’azione caritativa. Sena le prestazioni del
volontariato difficilmentte l’opera caritativa potrebbe mantenersi ai
livelli raggiunti.
Con la sua presenza inoltre, il volontariato
innesca obiettivamente una tensione benefica tra l’assunzione
consapevole della carità come dimensione della vita cristiana e
l’esigenza di una professionalità in certo modo rigorosa nell’intervento
sociale.
Motivazioni vocazionali e capacità
professionali si incontrano nella figura del volontario, configurando le
componenti dell’agire dell’agire caritativo. Al punto che si può dire
che la rigenerazione stessa dell’esperienza caritativa conosce un punto
di non ritorno nella promozione del volontariato e nello sforzo di una
sua continua qualificazione.
Dal punto di vista delle strutture e delle iniziative.
Le “opere di carità esprimono una tipologia differenziata:
Ci sono istituzioni “pesanti”, che hanno a loro vantaggio un alto indice di strutturazione e di stabilità.
Queste convivono con iniziative più
“flessibili”, che per la loro maggiore dinamicità di impostazione
permettono di raggiungere con tempestività e in modo ravvicinato le
situazioni inedite di disagio.
Nel suo insieme l’agire caritativo configura
un’esperienza sufficientemente articolata ed elastica, in grado di
proporsi in ultima analisi come interlocutore affidabile nei confronti
delle situazioni di povertà materiale e sociale presenti nel territorio.
Le diverse tipologie
Vista sotto il profilo del “sociale”, l’azione caritativa si colloca in corrispondenza dell’area socio-assistenziale.
Essa infatti si caratterizza per l’intenzione di soccorso all’indigente
nel suo disagio esistenziale. Proprio questo rilievo permette di
introdurre una differenziazione a proposito dell’attività caritativa.
Nel campo multiforme delle opere di carità si muovono insieme: il socio-assitenziale, il socio-sanitario, l’educativo.
Li accomuna l’unica passione per l’incremento delle possibilità di
pienezza di vita per i soggetti. ovviamente si differenziano per le
differenti condizioni in cui si trova l’interlocutore: mentre il “povero” chiama in causa l’azione caritativa nella sua valenza socio.assitenziale; il “malato”
sollecita l’intervento socio-sanitario, l’educativo invece non si
confronta anzitutto con situazioni critiche di vita, ma intende
sostenere il soggetto in quel processo di crescita che è connaturale
all’uomo. Si interessa perciò dei processi di inculturazione dei
soggetti.
Le prevedibili interferenze fra i tre ambiti
non devono rimuovere le differenze. Se in altre epoche e in altri
contesti (es. Missioni) le condizioni culturali e ambientali davano
luogo a scambi assai stretti fino a configurare una circolarità fra questi diversi momenti, nell’attuale e nostra situazione di vita la distinzione è quanto mai opportuna.
Già a livello di linguaggio il “caritativo” si
dice diversamente a seconda degli ambiti in cui si esprime. In ogni caso
l’articolazione distinta dei diversi profili della carità permette di
coglierne la ricchezza significativa sotto i diversi punti di vista
determinati, evitando un appello confuso e indiscriminato alla carità.
Rapporto con la Chiesa
Merita di essere sottolineato un altro aspetto e
cioè il rapporto con la Chiesa. Il vissuto caritativo che noi andiamo
indagando trae la propria origine dalla carità cristiana, di cui è una
peculiare espressione. Perciò il rapporto con la Chiesa gli è connaturale; ispirazione cristiana e appartenenza ecclesiale qualificano in linea di principio l’azione caritativa.
Il riferimento alla chiesa è peraltro molto diversificato.
- Esistono opere che promanano dalla istituzione ecclesiastica o collegate con questa a livello giuridico.
- Si danno pure iniziative che sono espressione della fede dei cristiani
e dunque caratterizzate da un rapporto di fatto con la Chiesa, anche se
meno istituzionalizzato. A volte ci possono essere aspetti di
problematicità, se non addirittura di conflittualità più o meno latente,
nel rapporto di queste opere con l’istituzione ecclesiastica.
In ogni caso la dimensione cristiana si riconosce nelle intenzioni di costruire relazioni di “prossimità” in una società dove sembrano prevalere rapporti di natura funzionale e burocratica.
Sempre in merito al riferimento ecclesiastico si deve segnalare un altro fatto. Il fatto che la “carità operosa” si colloca a cerniera tra vita cristiana e realtà sociale, introduce nella sua effettiva e concreta realizzazione degli elementi di precarietà:
a) per esempio la tentazione di estraniarsi
dal contesto della comunità locale, quasi a costituire un corpo a sé
che con la comunità locale mantiene solo rapporti estrinseci o
addirittura conflittuali. Una tal tentazione trova la sua
giustificazione o il suo alibi, nella reale tendenza alla delega, che ha
segnato per larghi tratti i rapporti di comunità locale e iniziativa
caritativa.
Cioè l’iniziativa caritativa non è assunta in
quanto tale dalla comunità, se non in casi eccezionali, mentre
normalmente è lasciata ad associazioni o gruppi esplicitamente dedicati
alle “opere di carità”.
b) Un altro elemento di precarietà è dato dalla tendenza, non sempre prontamente superata, dell’azione caritativa di omologarsi all’intervento dello “stato sociale”,
con il rischio della burocratizzazione, non solo, ma anche della
competitività che può diventare conflittualità o sovrapposizione.
Ovviamente si tratta di strade senza sbocco per l’azione caritativa. Per
evitarle, l’esperienza caritativa non può che riprendere le prospettive
di “competenza” e “responsabilità”, animazione e dedizione presenti
nell’esperienza del volontariato.
C’è ancora un rilievo da fare che riguarda l’aspetto comunitario che deve caratterizzare l’azione caritativa. Cioè l’azione caritativa è pervasa da una trama di “prossimità”, di “vicinanza” che mette insieme, attenzione al povero e vita della comunità e si traduce tendenzialmente nella sensibilizzazione della comunità
nel suo insieme. In questa maniera si creano le condizioni in cui si
può attivare un circolarità tra solidarietà primarie, immediate e
servizi organizzati, un circolo che vede una reciprocità tra soggetti e
comunità nel suo insieme. La valorizzazione strutturale di tutti i
soggetti, dà cpsi concretezza a quell’idea della “cultura del prendersi
cura” di cui l’opera caritativa è espressiva.
E’ chiaro che in questo scenario di rapporti sociali e civili, l’azione caritativa è obbiettivamente impegnata a ridefinire la propria immagine per salvaguardare la sua autenticità, il suo volto cristiano.
Presa nel gioco della domanda e della risposta, l’opera caritativa è impegnata:
a) in un discernimento attento ed esigente sia delle domande perché non sempre esse corrispondono al bisogno effettivo; sia delle risposte che spesso vanno nella linea non dell’effettivo bisogno, ma dell’utilizzo delle risorse disponibili;
b) Inoltre ad essa incombe l’esigenza di collegare tra di loro i rapporti tra iniziativa caritativa e territorio. Si tratta di ambientare il servizio nel territorio e di sensibilizzare il territorio ai servizi da prestare;
c) Siccome la cura cristiana del povero mira a dare senso al vivere dell’uomo, lo scambio comunicativo tra servizio e territorio rientra in questo sforzo, cioè dare senso.
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Fonte : CARITAS DIOCESANA VICENTINA
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