SCIENZA E TEOLOGIA A CONFRONTO ALLE SOGLIE DEL DUEMILA
di
Alberto Strumia
1. Una premessa sul rapporto scienza–teologia
Il
rapido approssimarsi della scadenza storica dell’avvento del terzo
millennio cristiano sta suscitando numerose riflessioni sul tema del destino dell’universo e, quindi congiuntamente, anche sulla sua origine. Spesso si tratta di riflessioni dal tenore escatologico, quando non addirittura apocalittico, volte
a scoprire e a mettere in luce, insieme alle questioni riguardanti
l’universo, quelle riguardanti l’uomo, che dell’universo è elemento
intelligente e in certa misura responsabile. Domandarsi qual è il
destino dell’universo equivale, in larga parte, a chiedersi qual è il
destino dell’uomo e, analogamente, per quanto riguarda la domanda
sull’origine.
E oggi, a chi si possono rivolgere queste domande fondamentali se non alla scienza e insieme ad essa alla teologia?
— Alla scienza in quanto detentrice del potere di conoscere e manipolare proprio della modernità;
— alla teologia come privilegiato interlocutore che da sempre detiene il primato dell’indagine sul Mistero.
Ma
su quale base scienza e teologia possono e devono confrontarsi e
collaborare? Il semplice confronto — più o meno antagonisticamente
concepito — tra scienza e teologia, sui loro rispettivi e ben distinti
terreni, sembra poter, oggi, essere superato verso una vera e propria
collaborazione su un terreno di lavoro comune, atto ad offrire alcuni
fondamenti metodologici alla scienza come alla teologia sistematica.
1.1. Il concordismo
Tra
i diversi metodi del confronto tra la scienza e la teologia, che sono
ora di superare perché inadeguati, un primo modo — quello più ingenuo
che, pur essendo spesso criticato, ancora viene, di fatto, seguito come
fosse del tutto corretto, sia da coloro che si schierano a favore della
fede e della teologia che da quanti ne vogliono dimostrare
l’inconsistenza — è quello del concordismo. Il concordismo può
assumere diverse forme, più o meno sofisticate, ma nella sua sostanza
consiste nel tentativo di stabilire delle corrispondenze tra le
affermazioni di alcune teorie scientifiche e le affermazioni contenute
nella rivelazione biblica,[1] o in altre tradizioni,[2] o anche, all’opposto, nelle tesi ateistiche.[3] È ormai classico l’accostamento–identificazione tra il big–bang della cosmologia scientifica e il fiat lux biblico,
per citare solo un esempio. È certamente suggestivo, spontaneo, e in un
certo senso può essere anche legittimo tentare degli accostamenti di
questo tipo, ma non si può sostenere di averne dimostrato la
correttezza, se non altro perché non disponiamo di una meta–scienza sul terreno della quale condurre una tale dimostrazione.
Purtroppo,
oltre alle questioni di principio, si aggiungono spesso, anche
ulteriori complicazioni dovute ad una inadeguata non conoscenza delle
teorie scientifiche da parte di filosofi e teologi, da una parte, come
ad un uso assolutamente erroneo della terminologia teologica da parte di
taluni scienziati. Per fare solo un esempio si equivoca sul termine creazione intendendo,
meccanicisticamente, la creazione come un semplice avvio della macchina
dell’universo, pensando che se l’universo fosse ab aeterno non
occorrerebbe alcuna creazione e quindi sarebbe inutile l’azione di un
Dio. Inoltre si identifica spesso ciò che i fisici chiamo vuoto con ciò che filosofi e teologi chiamano nulla. Tutto
ciò ha portato anche scienziati di fama internazionale a sostenere la
tesi ridicola secondo cui se l’universo ha avuto origine da una
fluttuazione quantistica del vuoto esso è venuto dal nulla e quindi non
occorre un Creatore.[4]
Probabilmente
solo quando saremo nello stato della visione ultraterrena la
concordanza e l’integrazione tra le diverse forme di conoscenza sarà
totale e perfettamente chiarita, perché le diverse forme di conoscenza
saranno tutte vere e certe, mentre ora, molte delle nostre conoscenze,
comprese quelle scientifiche, sono solamente ipotesi, anche se talvolta
fortemente corroborate dal controllo sperimentale. In ogni caso, nel
corso della storia, questo tentativo concordista, di fatto, non ha mai
dato dei buoni risultati:
— anzitutto
perché è quasi sempre viziato metodologicamente, in quanto è guidato
troppo spesso da una pregiudiziale ideologica: quella di voler provare
una tesi teista o ateista già assunta aprioristicamente,strumentalizzando in qualche modo sia la scienza che il contenuto della rivelazione;
— secondariamente
perché sia le teorie scientifiche che i metodi dell’ermeneutica
scritturistica, essendo ipotetici, evolvono, lasciando le tesi
concordiste, quindi, sempre nella precarietà.
Sembra,
dunque, necessario un terreno più rigoroso per un confronto, che non
dia troppo spazio ai preconcetti, ma si fondi su di una razionalità
dimostrativa. Pare, a questo proposito, di poter rinvenire, in alcune
delle problematiche epistemologiche emergenti dalle ricerche
scientifiche più recenti, alcune linee sulla base delle quali scienza,
filosofia e teologia, più che cercare punti di accordo, possano e
debbano collaborare alla costruzione diun’epistemologia, di una logica, e di un’assiomatica ampliate, che sia scienza che teologia possano utilizzare come base per le loro dimostrazioni.
— Per quanto riguarda il mondo della scienza, anzitutto muovendosi sul terreno del problema dei fondamenti delle sue teorie;
— per
quanto riguarda il mondo della filosofia e della teologia, muovendosi
alla ricerca di una rinnovata sistematicità, basata su metodi
dimostrativi, per quanto possibile, oltre che descrittivi.
Una dilatazione della razionalità scientifica, dunque,
che superi in certo modo lo schema univoco delle matematiche e delle
scienze galileiane — senza ben inteso escludere queste ultime —
aprendosi a quell’approccioanalogico che per un’autentica
filosofia e una teologia sistematica è sempre stato fondamentale. Oggi
questo modo di procedere sembra meno remoto di qualche decina di anni
fa, soprattutto da parte di alcuni settori delle scienze che, mi pare,
stiano rivedendo profondamente il loro modo di procedere, spinte da
un’esigenza intrinseca di maturazione.
Ma riprenderemo questo argomento tra poco.
1.2. Il parallelismo
Abbiamo dunque accennato al concordismo come
ad una delle piste, che potremmo definire insidiose, sulle quali troppo
spesso si è avviato il confronto tra le scienze e la teologia.
Ora
vorrei spendere una parola su una seconda via, che del concordismo non è
che il rovescio della medaglia, e che è quella che istituisce un
assoluto parallelismo tra scienza e teologia, considerate come
due binari senza possibilità alcuna di incontro e quindi di accordo, o
di conflitto. È la scelta, in apparenza, più comoda per evitare il
ripetersi di spiacevoli incidenti che segnino ulteriormente la storia
dopo la questione galileiana. Si afferma che le discipline hanno metodi
diversi e tra loro incommensurabili, quindi le loro conclusioni non
devono essere raffrontate. È giusta, a mio parere, l’affermazione di
un’autonomia di metodo, ma non è forse eccessiva l’affermazione della
totale incommensurabilità? Non si rischia di appoggiarsi alla dottrina
della doppia verità e quindi di nessuna verità? La conseguenza è
necessariamente la negazione di ogni valore conoscitivo sia alla
conoscenza scientifica che a quella teologica, è lo strumentalismo[5] assoluto.
In questo caso il confronto è escluso a priori. Anche questo risulta essere un atteggiamento insufficiente e, alla fine, controproducente.
1.3. Un’epistemologia organica
Una breve nota storica che può essere utile, a questo punto, almeno per informazione, ma certamente non solo per informazione.
Nel quadro delle scienze pre–galileiane — delle quali alcune oggi non sono più considerate scienze, come la metafisica e la filosofia della natura, mentre altre lo sono tuttora come la logica e la matematica —
il problema del rapporto fra le diverse discipline veniva chiarito fin
dall’inizio, in quanto alcune di esse costituivano per altre, qualcosa
di simile a quelle che noi oggi chiamiamo meta–scienze in quanto ad esse fornivano i fondamenti e almeno alcune regole di metodo.[6]
Oggi
non è più così: le scienze galileiane e logico–matematiche non ricevono
i fondamenti dalle discipline filosofiche e tantomeno teologiche.
Tuttavia il problema dei fondamenti è rimasto ed è sempre più forte. La
novità che oggi — quando dico oggi mi riferisco principalmente a questi
ultimi trenta, quaranta anni di ricerca scientifica — appare con
maggiore evidenza, sembra risiedere nel fatto che le stesse scienze
logiche, matematiche, informatiche, fisiche e chimiche, per non parlare
di quelle biologiche — e ancor più le scienze umane, — sembrano
richiedere dei fondamenti più ampi, ma non per questo meno
rigorosi, per poter affrontare i loro stessi oggetti, via via più
complessi e strutturati. In particolare appare del tutto insufficiente
quell’epistemologia riduzionistica che, nella linea delle scienze
sperimentali, vuole la biologia ricondotta ultimamente alla chimica, la
chimica alla fisica. Nella linea delle scienze formali già con la
pubblicazione dei teoremi di Gödel[7] questa insufficienza era stata dimostrata in ordine al progetto di Russell e Whitehead di ridurre l’aritmetica alla logica.[8]
Forse proprio le ricerca dei fondamenti di teorie matematiche, fisico–chimiche e biologiche più ampie di quelle passate ci potrà portare verso una nuova epistemologia di tipo organico, per
certi aspetti simile a quella antica, oltre il rigido schema
riduzionistico, ma capace di ospitare le scienze più moderne e avanzate,
dotate ciascuna di un suo propium irriducibile, ed insieme di
ospitare una teologia scientifica che procede, secondo regole proprie,
ma dimostrativamente. Sembra allora che anche il confronto tra le
scienze, la filosofia e la teologia potrà avvalersi di tale
epistemologia e di tali scienze ampliate.
Il
problema principale, allora, non appare più essere tanto quello della
conquista di un predominio delle scienze sulla teologia, o viceversa, né
quello della difesa del proprio terreno, quanto quello
dell’identificazione di un terreno comune sul quale costruire insieme
una meta–scienza comune, fondante sia per le scienze che per la
teologia.
Il
rapido approssimarsi della scadenza storica dell’avvento del terzo
millennio cristiano sta suscitando numerose riflessioni sul tema del destino dell’universo e, quindi congiuntamente, anche sulla sua origine. Spesso si tratta di riflessioni dal tenore escatologico, quando non addirittura apocalittico, volte
a scoprire e a mettere in luce, insieme alle questioni riguardanti
l’universo, quelle riguardanti l’uomo, che dell’universo è elemento
intelligente e in certa misura responsabile. Domandarsi qual è il
destino dell’universo equivale, in larga parte, a chiedersi qual è il
destino dell’uomo e, analogamente, per quanto riguarda la domanda
sull’origine.
E oggi, a chi si possono rivolgere queste domande fondamentali se non alla scienza e insieme ad essa alla teologia?
— Alla scienza in quanto detentrice del potere di conoscere e manipolare proprio della modernità;
— alla teologia come privilegiato interlocutore che da sempre detiene il primato dell’indagine sul Mistero.
Ma
su quale base scienza e teologia possono e devono confrontarsi e
collaborare? Il semplice confronto — più o meno antagonisticamente
concepito — tra scienza e teologia, sui loro rispettivi e ben distinti
terreni, sembra poter, oggi, essere superato verso una vera e propria
collaborazione su un terreno di lavoro comune, atto ad offrire alcuni
fondamenti metodologici alla scienza come alla teologia sistematica.
1.1. Il concordismo
Tra
i diversi metodi del confronto tra la scienza e la teologia, che sono
ora di superare perché inadeguati, un primo modo — quello più ingenuo
che, pur essendo spesso criticato, ancora viene, di fatto, seguito come
fosse del tutto corretto, sia da coloro che si schierano a favore della
fede e della teologia che da quanti ne vogliono dimostrare
l’inconsistenza — è quello del concordismo. Il concordismo può
assumere diverse forme, più o meno sofisticate, ma nella sua sostanza
consiste nel tentativo di stabilire delle corrispondenze tra le
affermazioni di alcune teorie scientifiche e le affermazioni contenute
nella rivelazione biblica,[1] o in altre tradizioni,[2] o anche, all’opposto, nelle tesi ateistiche.[3] È ormai classico l’accostamento–identificazione tra il big–bang della cosmologia scientifica e il fiat lux biblico,
per citare solo un esempio. È certamente suggestivo, spontaneo, e in un
certo senso può essere anche legittimo tentare degli accostamenti di
questo tipo, ma non si può sostenere di averne dimostrato la
correttezza, se non altro perché non disponiamo di una meta–scienza sul terreno della quale condurre una tale dimostrazione.
Purtroppo,
oltre alle questioni di principio, si aggiungono spesso, anche
ulteriori complicazioni dovute ad una inadeguata non conoscenza delle
teorie scientifiche da parte di filosofi e teologi, da una parte, come
ad un uso assolutamente erroneo della terminologia teologica da parte di
taluni scienziati. Per fare solo un esempio si equivoca sul termine creazione intendendo,
meccanicisticamente, la creazione come un semplice avvio della macchina
dell’universo, pensando che se l’universo fosse ab aeterno non
occorrerebbe alcuna creazione e quindi sarebbe inutile l’azione di un
Dio. Inoltre si identifica spesso ciò che i fisici chiamo vuoto con ciò che filosofi e teologi chiamano nulla. Tutto
ciò ha portato anche scienziati di fama internazionale a sostenere la
tesi ridicola secondo cui se l’universo ha avuto origine da una
fluttuazione quantistica del vuoto esso è venuto dal nulla e quindi non
occorre un Creatore.[4]
Probabilmente
solo quando saremo nello stato della visione ultraterrena la
concordanza e l’integrazione tra le diverse forme di conoscenza sarà
totale e perfettamente chiarita, perché le diverse forme di conoscenza
saranno tutte vere e certe, mentre ora, molte delle nostre conoscenze,
comprese quelle scientifiche, sono solamente ipotesi, anche se talvolta
fortemente corroborate dal controllo sperimentale. In ogni caso, nel
corso della storia, questo tentativo concordista, di fatto, non ha mai
dato dei buoni risultati:
— anzitutto
perché è quasi sempre viziato metodologicamente, in quanto è guidato
troppo spesso da una pregiudiziale ideologica: quella di voler provare
una tesi teista o ateista già assunta aprioristicamente,strumentalizzando in qualche modo sia la scienza che il contenuto della rivelazione;
— secondariamente
perché sia le teorie scientifiche che i metodi dell’ermeneutica
scritturistica, essendo ipotetici, evolvono, lasciando le tesi
concordiste, quindi, sempre nella precarietà.
Sembra,
dunque, necessario un terreno più rigoroso per un confronto, che non
dia troppo spazio ai preconcetti, ma si fondi su di una razionalità
dimostrativa. Pare, a questo proposito, di poter rinvenire, in alcune
delle problematiche epistemologiche emergenti dalle ricerche
scientifiche più recenti, alcune linee sulla base delle quali scienza,
filosofia e teologia, più che cercare punti di accordo, possano e
debbano collaborare alla costruzione diun’epistemologia, di una logica, e di un’assiomatica ampliate, che sia scienza che teologia possano utilizzare come base per le loro dimostrazioni.
— Per quanto riguarda il mondo della scienza, anzitutto muovendosi sul terreno del problema dei fondamenti delle sue teorie;
— per
quanto riguarda il mondo della filosofia e della teologia, muovendosi
alla ricerca di una rinnovata sistematicità, basata su metodi
dimostrativi, per quanto possibile, oltre che descrittivi.
Una dilatazione della razionalità scientifica, dunque,
che superi in certo modo lo schema univoco delle matematiche e delle
scienze galileiane — senza ben inteso escludere queste ultime —
aprendosi a quell’approccioanalogico che per un’autentica
filosofia e una teologia sistematica è sempre stato fondamentale. Oggi
questo modo di procedere sembra meno remoto di qualche decina di anni
fa, soprattutto da parte di alcuni settori delle scienze che, mi pare,
stiano rivedendo profondamente il loro modo di procedere, spinte da
un’esigenza intrinseca di maturazione.
Ma riprenderemo questo argomento tra poco.
1.2. Il parallelismo
Abbiamo dunque accennato al concordismo come
ad una delle piste, che potremmo definire insidiose, sulle quali troppo
spesso si è avviato il confronto tra le scienze e la teologia.
Ora
vorrei spendere una parola su una seconda via, che del concordismo non è
che il rovescio della medaglia, e che è quella che istituisce un
assoluto parallelismo tra scienza e teologia, considerate come
due binari senza possibilità alcuna di incontro e quindi di accordo, o
di conflitto. È la scelta, in apparenza, più comoda per evitare il
ripetersi di spiacevoli incidenti che segnino ulteriormente la storia
dopo la questione galileiana. Si afferma che le discipline hanno metodi
diversi e tra loro incommensurabili, quindi le loro conclusioni non
devono essere raffrontate. È giusta, a mio parere, l’affermazione di
un’autonomia di metodo, ma non è forse eccessiva l’affermazione della
totale incommensurabilità? Non si rischia di appoggiarsi alla dottrina
della doppia verità e quindi di nessuna verità? La conseguenza è
necessariamente la negazione di ogni valore conoscitivo sia alla
conoscenza scientifica che a quella teologica, è lo strumentalismo[5] assoluto.
In questo caso il confronto è escluso a priori. Anche questo risulta essere un atteggiamento insufficiente e, alla fine, controproducente.
1.3. Un’epistemologia organica
Una breve nota storica che può essere utile, a questo punto, almeno per informazione, ma certamente non solo per informazione.
Nel quadro delle scienze pre–galileiane — delle quali alcune oggi non sono più considerate scienze, come la metafisica e la filosofia della natura, mentre altre lo sono tuttora come la logica e la matematica —
il problema del rapporto fra le diverse discipline veniva chiarito fin
dall’inizio, in quanto alcune di esse costituivano per altre, qualcosa
di simile a quelle che noi oggi chiamiamo meta–scienze in quanto ad esse fornivano i fondamenti e almeno alcune regole di metodo.[6]
Oggi
non è più così: le scienze galileiane e logico–matematiche non ricevono
i fondamenti dalle discipline filosofiche e tantomeno teologiche.
Tuttavia il problema dei fondamenti è rimasto ed è sempre più forte. La
novità che oggi — quando dico oggi mi riferisco principalmente a questi
ultimi trenta, quaranta anni di ricerca scientifica — appare con
maggiore evidenza, sembra risiedere nel fatto che le stesse scienze
logiche, matematiche, informatiche, fisiche e chimiche, per non parlare
di quelle biologiche — e ancor più le scienze umane, — sembrano
richiedere dei fondamenti più ampi, ma non per questo meno
rigorosi, per poter affrontare i loro stessi oggetti, via via più
complessi e strutturati. In particolare appare del tutto insufficiente
quell’epistemologia riduzionistica che, nella linea delle scienze
sperimentali, vuole la biologia ricondotta ultimamente alla chimica, la
chimica alla fisica. Nella linea delle scienze formali già con la
pubblicazione dei teoremi di Gödel[7] questa insufficienza era stata dimostrata in ordine al progetto di Russell e Whitehead di ridurre l’aritmetica alla logica.[8]
Forse proprio le ricerca dei fondamenti di teorie matematiche, fisico–chimiche e biologiche più ampie di quelle passate ci potrà portare verso una nuova epistemologia di tipo organico, per
certi aspetti simile a quella antica, oltre il rigido schema
riduzionistico, ma capace di ospitare le scienze più moderne e avanzate,
dotate ciascuna di un suo propium irriducibile, ed insieme di
ospitare una teologia scientifica che procede, secondo regole proprie,
ma dimostrativamente. Sembra allora che anche il confronto tra le
scienze, la filosofia e la teologia potrà avvalersi di tale
epistemologia e di tali scienze ampliate.
Il
problema principale, allora, non appare più essere tanto quello della
conquista di un predominio delle scienze sulla teologia, o viceversa, né
quello della difesa del proprio terreno, quanto quello
dell’identificazione di un terreno comune sul quale costruire insieme
una meta–scienza comune, fondante sia per le scienze che per la
teologia.
2. Origine e destino
2.1. L’approccio cosmologico
Ma
prima di accostare queste problematiche epistemologiche recenti — e che
sono molto interessanti anche per il filosofo della scienza e il
teologo, e sembrano poter fare parte del metodo stesso presupposto a un
serio dialogo tra scienza e teologia, così come tra scienza e
filosofia — vorrei evidenziare un altro versante che riguarda in maniera
diretta il problema dell’origine e del destino dell’universo e dell’uomo.
Entrambi
i problemi sono antichi quanto l’uomo, e si sono riproposti
regolarmente alla scienza e alla filosofia di tutte le epoche storiche.
Ciò che è interessante notare è il fatto che alcuni periodi della storia
del pensiero hanno visto privilegiare l’approccio cosmologico, mentre in altre epoche si è privilegiato quello antropologico, e questo in conseguenza delle alterne vicende della razionalità.
Tendenzialmente
l’approccio cosmologico ha avuto la sua maggiore fortuna in quelle
epoche della storia del pensiero in cui si è guardata con fiducia la conoscenza sperimentale, come
fonte primaria di informazione per l’uomo. In queste epoche si è
sostenuto che la conoscenza nasce primariamente dall’esterno dell’uomo e
viene alla mente umana attraverso i sensi. L’intelletto ne ricava, poi,
mediante astrazione, dei concetti universali ed elabora delle teorie
che possono essere anche molto lontane dalla primitiva esperienza.
Successivamente l’uomo riflette sulla propria esperienza e da tale
riflessione ricava una teoria sul suo stesso modo di pensare ed
elaborare le conoscenze, e infine su se stesso (è quella che oggi
chiameremmo una conoscenza di tipo esistenziale). Dunque un cammino che
va dal mondo verso l’uomo e verso Dio. È indicativo il fatto che tra le prove classiche dell’esistenza di Dio vi fossero le prove cosmologiche. Alcuni
storici della scienza, a cominciare da Alexandre Koyré — schematizzando
un po’ drasticamente, ma assai significativamente, la storia del
pensiero, — hanno qualificato come risalente alla tradizione aristotelica questo tipo di approccio fondato sull’esperienza sensibile, mentre hanno qualificato come platonico quello opposto, che è proprio del pensiero filosofico moderno.[9]
2.2. L’approccio antropologico
La
filosofia moderna — intendo con questo termine la storia del pensiero
che va all’incirca da Cartesio in poi — è connotata, al contrario, da
una progressiva perdita di fiducia nella conoscenza empirica, con un
forte accento sulla conoscenza interiore dell’io. Se la conoscenza dell’oggetto è possibile, essa deve essere fondata sulla conoscenza del soggetto. Si parte allora dall’uomo per
arrivare a dimostrare l’esistenza del mondo e di Dio. L’epoca
contemporanea ha visto poi sgretolarsi anche la possibilità di una
conoscenza intellettuale, lasciando aperta solo la strada della volontà,
degli imperativi, dei sentimenti per accostare quelle realtà che la
vita impone, in qualche modo, all’evidenza e non possono essere escluse
dalla riflessione, come se non esistessero. In questo senso, si deve
parlare di una protestantizzazione propria del pensiero moderno. E non a
caso il fideismo costituisce una tentazione sempre forte per lo
scienziato credente: la razionalità è solo quella della scienza
matematizzata, dicono alcuni, la fede è una questione di sentimento, di
volontà, non di intelligenza. La Chiesa cattolica, al contrario, ha
sempre difeso il valore della ragione, dell’intelligenza che giudica e
riconosce come atto ragionevole l’adesione della fede.
Se
la filosofia ha seguito questa strada che l’ha portata all’idealismo
prima e al nichilismo poi — e la teologia ne ha risentito di
conseguenza — le scienze, per loro fortuna, hanno camminato in maniera
abbastanza indipendente, a parte gli influssi idealisti della Scuola di
Copenaghen sull’interpretazione della meccanica quantistica, che oggi
comincia forse per la prima volta ad essere messa seriamente in
discussione.
Ecco
che con l’avvento della cosmologia scientifica, resa possibile dalla
relatività generale di Einstein, là dove la filosofia aveva abbandonato
da parecchio tempo la cosmologia, — intesa come teoria delle origini
dell’universo — è la scienza, oggi, a riproporla soprattutto in questi
ultimi anni, dopo la scoperta della radiazione cosmica di fondo da parte
di Penzias e Wilson negli anni sessanta. Il molitplicarsi dell’editoria
divulgativa e semi–divulgativa sull’argomento ne è una conferma.[10]
La
recentissima collaborazione, poi, tra cosmologia e teoria delle
particelle elementari, nell’intento di dare una descrizione dei “primi
istanti dell’universo”, segnata inevitabilmente da estrapolazioni e
ipotesi molto coraggiose, ha spinto verso interpretazioni dei modelli
cosmologici delle origini che sono interamente “metafisiche” e
“teologiche”. Le varie forme di concordismo con le più diverse
tradizioni religiose e gnostiche, sono sempre dietro l’angolo e si
fondano quasi sempre su equivoci anche nell’uso di termini come creazione, vuoto, nulla, ecc.
che nel contesto metafisico e teologico hanno un significato ben
preciso quasi mai rispettato nelle interpretazioni spontanee dei
divulgatori delle cosmologie scientifiche.
2.1. L’approccio cosmologico
Ma
prima di accostare queste problematiche epistemologiche recenti — e che
sono molto interessanti anche per il filosofo della scienza e il
teologo, e sembrano poter fare parte del metodo stesso presupposto a un
serio dialogo tra scienza e teologia, così come tra scienza e
filosofia — vorrei evidenziare un altro versante che riguarda in maniera
diretta il problema dell’origine e del destino dell’universo e dell’uomo.
Entrambi
i problemi sono antichi quanto l’uomo, e si sono riproposti
regolarmente alla scienza e alla filosofia di tutte le epoche storiche.
Ciò che è interessante notare è il fatto che alcuni periodi della storia
del pensiero hanno visto privilegiare l’approccio cosmologico, mentre in altre epoche si è privilegiato quello antropologico, e questo in conseguenza delle alterne vicende della razionalità.
Tendenzialmente
l’approccio cosmologico ha avuto la sua maggiore fortuna in quelle
epoche della storia del pensiero in cui si è guardata con fiducia la conoscenza sperimentale, come
fonte primaria di informazione per l’uomo. In queste epoche si è
sostenuto che la conoscenza nasce primariamente dall’esterno dell’uomo e
viene alla mente umana attraverso i sensi. L’intelletto ne ricava, poi,
mediante astrazione, dei concetti universali ed elabora delle teorie
che possono essere anche molto lontane dalla primitiva esperienza.
Successivamente l’uomo riflette sulla propria esperienza e da tale
riflessione ricava una teoria sul suo stesso modo di pensare ed
elaborare le conoscenze, e infine su se stesso (è quella che oggi
chiameremmo una conoscenza di tipo esistenziale). Dunque un cammino che
va dal mondo verso l’uomo e verso Dio. È indicativo il fatto che tra le prove classiche dell’esistenza di Dio vi fossero le prove cosmologiche. Alcuni
storici della scienza, a cominciare da Alexandre Koyré — schematizzando
un po’ drasticamente, ma assai significativamente, la storia del
pensiero, — hanno qualificato come risalente alla tradizione aristotelica questo tipo di approccio fondato sull’esperienza sensibile, mentre hanno qualificato come platonico quello opposto, che è proprio del pensiero filosofico moderno.[9]
2.2. L’approccio antropologico
La
filosofia moderna — intendo con questo termine la storia del pensiero
che va all’incirca da Cartesio in poi — è connotata, al contrario, da
una progressiva perdita di fiducia nella conoscenza empirica, con un
forte accento sulla conoscenza interiore dell’io. Se la conoscenza dell’oggetto è possibile, essa deve essere fondata sulla conoscenza del soggetto. Si parte allora dall’uomo per
arrivare a dimostrare l’esistenza del mondo e di Dio. L’epoca
contemporanea ha visto poi sgretolarsi anche la possibilità di una
conoscenza intellettuale, lasciando aperta solo la strada della volontà,
degli imperativi, dei sentimenti per accostare quelle realtà che la
vita impone, in qualche modo, all’evidenza e non possono essere escluse
dalla riflessione, come se non esistessero. In questo senso, si deve
parlare di una protestantizzazione propria del pensiero moderno. E non a
caso il fideismo costituisce una tentazione sempre forte per lo
scienziato credente: la razionalità è solo quella della scienza
matematizzata, dicono alcuni, la fede è una questione di sentimento, di
volontà, non di intelligenza. La Chiesa cattolica, al contrario, ha
sempre difeso il valore della ragione, dell’intelligenza che giudica e
riconosce come atto ragionevole l’adesione della fede.
Se
la filosofia ha seguito questa strada che l’ha portata all’idealismo
prima e al nichilismo poi — e la teologia ne ha risentito di
conseguenza — le scienze, per loro fortuna, hanno camminato in maniera
abbastanza indipendente, a parte gli influssi idealisti della Scuola di
Copenaghen sull’interpretazione della meccanica quantistica, che oggi
comincia forse per la prima volta ad essere messa seriamente in
discussione.
Ecco
che con l’avvento della cosmologia scientifica, resa possibile dalla
relatività generale di Einstein, là dove la filosofia aveva abbandonato
da parecchio tempo la cosmologia, — intesa come teoria delle origini
dell’universo — è la scienza, oggi, a riproporla soprattutto in questi
ultimi anni, dopo la scoperta della radiazione cosmica di fondo da parte
di Penzias e Wilson negli anni sessanta. Il molitplicarsi dell’editoria
divulgativa e semi–divulgativa sull’argomento ne è una conferma.[10]
La
recentissima collaborazione, poi, tra cosmologia e teoria delle
particelle elementari, nell’intento di dare una descrizione dei “primi
istanti dell’universo”, segnata inevitabilmente da estrapolazioni e
ipotesi molto coraggiose, ha spinto verso interpretazioni dei modelli
cosmologici delle origini che sono interamente “metafisiche” e
“teologiche”. Le varie forme di concordismo con le più diverse
tradizioni religiose e gnostiche, sono sempre dietro l’angolo e si
fondano quasi sempre su equivoci anche nell’uso di termini come creazione, vuoto, nulla, ecc.
che nel contesto metafisico e teologico hanno un significato ben
preciso quasi mai rispettato nelle interpretazioni spontanee dei
divulgatori delle cosmologie scientifiche.
3. Le nuove problematiche della scienza recente
Ma
che cosa c’è di veramente nuovo, dal punto di vista epistemologico,
nelle ricerche di questi ultimi venti o trent’anni e che colpisce anche
chi non è direttamente coinvolto nell’attività scientifica, ma osserva
attentamente, come filosofo e teologo, quanto sta avvenendo nel mondo
delle scienze?
La
prima cosa che colpisce consiste nel fatto che, proprio là dove la
filosofia sembra essersi spenta riguardo ad alcune questioni
fondamentali di logica e metafisica, sembra che siano proprio le scienze
a riproporre tali questioni, certamente con un linguaggio e una
formulazione diversa da quella antica, ma pur sempre ben riconoscibili.
Dunque non si tratta di questioni , o peggio ancora di raccomandazioni,
proposte dal filosofo, dal teologo e dal moralista allo scienziato
dall’esterno della scienza, come una sorta di “predica”, ma di domande
che nascono dall’interno, come condizione per sviluppare nuove teorie e nuove metodologie.
Mi
limiterò a prendere in considerazione i due filoni più emergenti di
queste grosse questioni: il filone che va sotto il nome generico di problema della complessità e quello riguardante il problema del finalismo nelle teorie scientifiche.
3.1. La complessità e la crisi dell’epistemologia riduzionista
Il termine complessità è
molto generico e non è ancora facilmente definibile: con esso si
intende, genericamente identificare quelle problematiche o quei
fenomeni, emergenti in qualunque ambito scientifico, che si presentano
come non riducibili, cioè non scomponibili in problemi o fenomeni più
elementari e già risolti. Per questo si afferma che la complessità ha
messo in crisi lo schema riduzionistico. Sembra che un po’ in tutte le
scienze si stia manifestando uno strano comportamento della natura che
rivela come dei livelli gerarchizzati differenziati di organizzazione.
Una sorta di stratificazione dell’essere secondo gradi differenziati.
Non
credo valga la pena, né è di mia competenza il farlo, entrare qui nel
dettaglio tecnico di questioni che agli specialisti sono bene note e ai
non addetti ai lavori risulterebbero comunque ostiche, quanto il mettere
in evidenza alcune questioni epistemologiche che sono di comune
interesse sia per lo scienziato che per il filosofo e il teologo e che
emergono da questo filone scientifico. E questo perché anche il filosofo
e il teologo riconoscono gradi differenziati e irriducibili tra loro
nella realtà delle cose. Ciò che è interessante è che questa ipotesi
dell’esistenza di livelli differenziati di organizzazione sembra
emergere proprio dalle scienze come necessaria per spiegare
scientificamente ciò che si osserva.
Mi limiterò qui a degli accenni.
— Le scienze biologiche, ad esempio, si
trovano da sempre di fronte al vivente che mostra delle proprietà che,
anche dal punto di vista chimico–fisico appaiono nuove rispetto a quelle
del non vivente. Il vivente, anche il più semplice, non è descrivibile
interamente mediante la sola analisi delle sue parti componenti.
Un’affermazione del genere, vista nell’ottica riduzionistica era
considerata, fino a non molto tempo fa, con sospetto e tacciata di
vitalismo perché sembrava introdurre un fattore animistico nella scienza
della vita, e forse in quel momento poteva essere così. Oggi si è
scoperto e riconosciuto che, nell’organizzazione stessa della materia,
una volta raggiunto un certo grado di strutturazione organica (complessità), la
materia stessa, se opportunamente sollecitata, tende a manifestare un
livello nuovo di ordine non presente, di per sé, nei componenti presi
separatamente[11]A
questo livello non basta più l’analisi delle parti componenti — che è
stata comunque utile e necessaria fino a tal punto — ma occorre
un’indagine del nuovo livello d’insieme, del nuovo tutto complesso.
— La chimica. Anche a per la chimica mi limito ad un accenno. Fino a quando sono stati solo i biologi ad avvertire il problema del tutto, che non è riducibile alla somma delle sue parti, non
solo le altre scienze naturali e matematiche non si sono sentite più di
tanto interpellate sulla questione, ma addirittura il problema ha
giocato a scapito della dignità scientifica della biologia stessa che
sembrava faticare a lasciarsi integrare nello schema chimico–fisico. Ma
ad un certo punto lo studio approfondito della molecola, più o meno
complessa, così come quello dei reticoli cristallini nei solidi, o del
ruolo delle impurezze ai fini delle proprietà elettriche di un intero
semiconduttore (per citare solo alcuni esempi) hanno messo in evidenza
come anche nella chimica del non vivente le proprietà d’insieme di una
struttura composta complessa non siano del tutto deducibili dalle
proprietà degli atomi componenti. L’esistenza di orbitali molecolari con
elettroni completamente condivisi non permette di pensare più ad
elettroni che appartengono ad un solo atomo. In un conduttore elettrico
gli elettroni di conduzione vengono condivisi addirittura tra tutti gli
atomi del reticolo. Esistono, dunque, anche a livello chimico delle proprietà d’insieme che il progredire delle ricerche rivela essere sempre più significative.
— La fisica. Nell’ambito
della fisica la questione della complessità ha certamente un aggancio
diretto con l’impiego di tecniche matematiche non lineari, a causa delle
quali si è affacciato prepotentemente all’orizzonte il problema del
cosiddetto caos deterministico, già scoperto da Henri Poincaré,[12] e
oggi ripreso finalmente in seria considerazione grazie anche
all’impiego del computer. Ma non mancano altri aspetti come quello della
non separabilità in meccanica quantistica.
— La matematica. Nell’ambito della matematica il problema della complessità, si presenta con molta chiarezza sotto almeno due aspetti.
primo aspetto. La non riducibilità del tutto alla “somma” delle sue parti. Per un fisico questo significa, di conseguenza, il venir meno del principio di sovrapposizione a causa della non linearità.
secondo aspetto. L’ndistinguibilità
delle parti dal tutto: il tutto si ritrova in ogni sua parte, in quanto
ogni parte ha lo stesso grado di complessità del tutto. Un esempio tipico di questo secondo aspetto ci è offerto dalla geometria frattale[13]
— La logica. Nell’ambito della logica il problema del rapporto tra il tutto e le parti si presenta principalmente quando il tutto è rinvenibile, in qualche modo, come parte di se stesso, come accade nelle collezioni di oggetti che contengono se stesse, o negli enunciati che parlano di se stessi (o autoreferenziali). Già
da qualche tempo si sta studiando la possibilità di costruire delle
assiomatiche che rendano possibile l’autoreferenzialità senza
contraddizione.[14] È
interessante rilevare come gli Scolastici medioevali — come del resto
già i Greci — conoscessero molto bene le nozioni che includono se stesse
in quanto includono le loro differenze, come ente, uno, vero, buono, i cosiddetti trascendentali, e avessero proprio su questa autoinclusività fondato la loro dottrina dell’analogia nel campo della logica e del linguaggio teologico, e della partecipazione nel
campo della metafisica e della teologia dogmatica e morale. Dottrina
che è stata basilare per tutta la loro teologia e, lo è ancora. È
veramente interessante il fatto che proprio la scienza, oggi, più che la
filosofia; sembri scoprire, con tecniche modernissime, risultati che
sembrano potersi raffrontare con conoscenze antiche, e che questi
risultati siano necessari alla scienza per accrescersi.
— Informatica. Sembra
essere stata proprio l’informatica a rendere attuali le ormai classiche
problematiche di logica matematica, come quelle legate ai teoremi di
Gödel sulla coerenza e la completezza dei sistemi assiomatici. Le
indagini sulla cosiddetta intelligenza artificiale hanno permesso di
comprendere che l’informazione si può annidare a vari livelli e che
esistono delle gerarchie di informazione: il livello inferiore risiede
nella struttura hardware della macchina, i livelli superiori nel
software; il linguaggio di programmazione, a sua volta, contiene
informazioni significative per il programmatore che ricadono in
istruzioni di livello inferiore eseguibili meccanicamente dai circuiti
senza percepirle come significative; il programma stesso nel suo insieme
contiene un’informazione di livello superiore legata allo scopo per cui
è stato scritto, che risiede nella mente del programmatore e in quella
dell’utente, e così via.
In tutte le scienze sembra comparire una struttura gerarchizzata di informazioni legate al grado di complessità e quindi di unitarietà della struttura chiamata in causa.
3.2. Il problema del finalismo nelle teorie scientifiche
L’altro
grande problema — accuratamente escluso dalla scienza moderna per
evitare contaminazioni teologiche — che si sta, invece riaffacciando
dall’interno della scienza stessa, è la questione del finalismo. Anche in questo caso, però, e questo è l’elemento nuovo e più importante, il problema nasce dall’interno della scienza e non come elemento teologico imposto
dall’esterno per ragioni ideologiche. In fondo anche la sua esclusione è
stata una scelta ideologica e quindi non scientifica. Comincia ad
affacciarsi l’idea che una corretta scientificità, dovendo tenere conto
di tutti i fattori in gioco nella natura, non possa escludere quel dato
osservativo che mostra un orientamento verso un fine di certi
comportamenti sia nel mondo vivente, come in quello non vivente e nel
cosmo intero. Ciò è particolarmente evidente in biologia, ma non mancano
anche nella fisica e nella chimica comportamenti finalizzati.
A dire il vero, un certo cripto–finalismo è stato sempre presente nelle scienze, anche se opportunamente occultato. Il meccanicismo ha preteso illusoriamente di spiegare il mondo fisico in termini di sole cause efficienti, mentre in realtà le scienze si servono, per esprimersi con il linguaggio antico, simultaneamente:
— della causalità materiale quando ricercano la spiegazione degli elementi costitutivi del mondo fisico;
— della causalità formale, e soprattutto di questa, quando utilizzano la matematica come strumento di spiegazione teorica e strumento deduttivo.
La causalità finale è
entrata in scena, nella fisica, già con la termodinamica che, essendo
una teoria macroscopica, formula le sue leggi in termini finalistici non
potendo offrire direttamente una descrizione dei “meccanismi” intimi
dei processi. I processi che la natura realizza sono quelli che
raggiungono due fini:
i) la conservazione dell’energia (primo principio)
ii) l’aumento di entropia (secondo principio).
Per
questo la termodinamica non piaceva ai meccanicisti che hanno cercato
una spiegazione in termini di cause efficienti, cioè meccaniche, alla
termodinamica attraverso la teoria cinetica e la meccanica statistica.
Ma anche nella meccanica stessa tutte le leggi di conservazione possono essere lette in chiave finalistica: il moto tende a mantenere costante una certa quantità (quantità di moto, energia meccanica, momento angolare, o altro).
Anche la formulazione matematicamente più potente delle leggi meccaniche e fisiche in genere, offerta dai principi variazionali, acquista
un sapore finalistico. I principi variazionali, infatti, affermano che
la natura si comporta in maniera tale da raggiungere lo scopo di rendere
minimo un certo integrale d’azione.
Nell’ambito della meccanica non lineare, poi,
sono spesso presenti delle soluzioni delle equazioni che governano il
sistema, che non dipendono dalle condizioni iniziali (cicli limite stabili), venendo raggiunte come approdo finale del sistema da qualunque stato esso parta.
Se
certe considerazioni sul finalismo cominciano ad essere prese in
considerazione anche dai fisici, non sembra più così scandaloso che i
biologi si stiano ponendo seriamente il problema di accogliere il
finalismo come prospettiva adeguata di spiegazione dell’evoluzione,
almeno a livello globale e macroscopico, in una maniera somigliante alle
leggi della termodinamica.
3.3. Il principio antropico
In questo contesto si sta facendo strada, da diversi anni, anche il cosiddetto principio antropico, [15] con le diverse varianti spesso denominate forma debole e forma forte. Si tratta di un principio finalistico vero e proprio che appare a molti troppo filosofico per poter essere considerato interno alla
scienza. Tuttavia, anch’esso coinvolge quantità fisicamente misurabili
come le costanti fondamentali della fisica e la stessa struttura delle
leggi fisiche. Esso è tanto più significativo quanto più l’evoluzione
dell’universo appare un fenomeno altamente sensibile ai valori di tali
costanti e alla struttura delle leggi.
Ma
che cosa c’è di veramente nuovo, dal punto di vista epistemologico,
nelle ricerche di questi ultimi venti o trent’anni e che colpisce anche
chi non è direttamente coinvolto nell’attività scientifica, ma osserva
attentamente, come filosofo e teologo, quanto sta avvenendo nel mondo
delle scienze?
La
prima cosa che colpisce consiste nel fatto che, proprio là dove la
filosofia sembra essersi spenta riguardo ad alcune questioni
fondamentali di logica e metafisica, sembra che siano proprio le scienze
a riproporre tali questioni, certamente con un linguaggio e una
formulazione diversa da quella antica, ma pur sempre ben riconoscibili.
Dunque non si tratta di questioni , o peggio ancora di raccomandazioni,
proposte dal filosofo, dal teologo e dal moralista allo scienziato
dall’esterno della scienza, come una sorta di “predica”, ma di domande
che nascono dall’interno, come condizione per sviluppare nuove teorie e nuove metodologie.
Mi
limiterò a prendere in considerazione i due filoni più emergenti di
queste grosse questioni: il filone che va sotto il nome generico di problema della complessità e quello riguardante il problema del finalismo nelle teorie scientifiche.
3.1. La complessità e la crisi dell’epistemologia riduzionista
Il termine complessità è
molto generico e non è ancora facilmente definibile: con esso si
intende, genericamente identificare quelle problematiche o quei
fenomeni, emergenti in qualunque ambito scientifico, che si presentano
come non riducibili, cioè non scomponibili in problemi o fenomeni più
elementari e già risolti. Per questo si afferma che la complessità ha
messo in crisi lo schema riduzionistico. Sembra che un po’ in tutte le
scienze si stia manifestando uno strano comportamento della natura che
rivela come dei livelli gerarchizzati differenziati di organizzazione.
Una sorta di stratificazione dell’essere secondo gradi differenziati.
Non
credo valga la pena, né è di mia competenza il farlo, entrare qui nel
dettaglio tecnico di questioni che agli specialisti sono bene note e ai
non addetti ai lavori risulterebbero comunque ostiche, quanto il mettere
in evidenza alcune questioni epistemologiche che sono di comune
interesse sia per lo scienziato che per il filosofo e il teologo e che
emergono da questo filone scientifico. E questo perché anche il filosofo
e il teologo riconoscono gradi differenziati e irriducibili tra loro
nella realtà delle cose. Ciò che è interessante è che questa ipotesi
dell’esistenza di livelli differenziati di organizzazione sembra
emergere proprio dalle scienze come necessaria per spiegare
scientificamente ciò che si osserva.
Mi limiterò qui a degli accenni.
— Le scienze biologiche, ad esempio, si
trovano da sempre di fronte al vivente che mostra delle proprietà che,
anche dal punto di vista chimico–fisico appaiono nuove rispetto a quelle
del non vivente. Il vivente, anche il più semplice, non è descrivibile
interamente mediante la sola analisi delle sue parti componenti.
Un’affermazione del genere, vista nell’ottica riduzionistica era
considerata, fino a non molto tempo fa, con sospetto e tacciata di
vitalismo perché sembrava introdurre un fattore animistico nella scienza
della vita, e forse in quel momento poteva essere così. Oggi si è
scoperto e riconosciuto che, nell’organizzazione stessa della materia,
una volta raggiunto un certo grado di strutturazione organica (complessità), la
materia stessa, se opportunamente sollecitata, tende a manifestare un
livello nuovo di ordine non presente, di per sé, nei componenti presi
separatamente[11]A
questo livello non basta più l’analisi delle parti componenti — che è
stata comunque utile e necessaria fino a tal punto — ma occorre
un’indagine del nuovo livello d’insieme, del nuovo tutto complesso.
— La chimica. Anche a per la chimica mi limito ad un accenno. Fino a quando sono stati solo i biologi ad avvertire il problema del tutto, che non è riducibile alla somma delle sue parti, non
solo le altre scienze naturali e matematiche non si sono sentite più di
tanto interpellate sulla questione, ma addirittura il problema ha
giocato a scapito della dignità scientifica della biologia stessa che
sembrava faticare a lasciarsi integrare nello schema chimico–fisico. Ma
ad un certo punto lo studio approfondito della molecola, più o meno
complessa, così come quello dei reticoli cristallini nei solidi, o del
ruolo delle impurezze ai fini delle proprietà elettriche di un intero
semiconduttore (per citare solo alcuni esempi) hanno messo in evidenza
come anche nella chimica del non vivente le proprietà d’insieme di una
struttura composta complessa non siano del tutto deducibili dalle
proprietà degli atomi componenti. L’esistenza di orbitali molecolari con
elettroni completamente condivisi non permette di pensare più ad
elettroni che appartengono ad un solo atomo. In un conduttore elettrico
gli elettroni di conduzione vengono condivisi addirittura tra tutti gli
atomi del reticolo. Esistono, dunque, anche a livello chimico delle proprietà d’insieme che il progredire delle ricerche rivela essere sempre più significative.
— La fisica. Nell’ambito
della fisica la questione della complessità ha certamente un aggancio
diretto con l’impiego di tecniche matematiche non lineari, a causa delle
quali si è affacciato prepotentemente all’orizzonte il problema del
cosiddetto caos deterministico, già scoperto da Henri Poincaré,[12] e
oggi ripreso finalmente in seria considerazione grazie anche
all’impiego del computer. Ma non mancano altri aspetti come quello della
non separabilità in meccanica quantistica.
— La matematica. Nell’ambito della matematica il problema della complessità, si presenta con molta chiarezza sotto almeno due aspetti.
primo aspetto. La non riducibilità del tutto alla “somma” delle sue parti. Per un fisico questo significa, di conseguenza, il venir meno del principio di sovrapposizione a causa della non linearità.
secondo aspetto. L’ndistinguibilità
delle parti dal tutto: il tutto si ritrova in ogni sua parte, in quanto
ogni parte ha lo stesso grado di complessità del tutto. Un esempio tipico di questo secondo aspetto ci è offerto dalla geometria frattale[13]
— La logica. Nell’ambito della logica il problema del rapporto tra il tutto e le parti si presenta principalmente quando il tutto è rinvenibile, in qualche modo, come parte di se stesso, come accade nelle collezioni di oggetti che contengono se stesse, o negli enunciati che parlano di se stessi (o autoreferenziali). Già
da qualche tempo si sta studiando la possibilità di costruire delle
assiomatiche che rendano possibile l’autoreferenzialità senza
contraddizione.[14] È
interessante rilevare come gli Scolastici medioevali — come del resto
già i Greci — conoscessero molto bene le nozioni che includono se stesse
in quanto includono le loro differenze, come ente, uno, vero, buono, i cosiddetti trascendentali, e avessero proprio su questa autoinclusività fondato la loro dottrina dell’analogia nel campo della logica e del linguaggio teologico, e della partecipazione nel
campo della metafisica e della teologia dogmatica e morale. Dottrina
che è stata basilare per tutta la loro teologia e, lo è ancora. È
veramente interessante il fatto che proprio la scienza, oggi, più che la
filosofia; sembri scoprire, con tecniche modernissime, risultati che
sembrano potersi raffrontare con conoscenze antiche, e che questi
risultati siano necessari alla scienza per accrescersi.
— Informatica. Sembra
essere stata proprio l’informatica a rendere attuali le ormai classiche
problematiche di logica matematica, come quelle legate ai teoremi di
Gödel sulla coerenza e la completezza dei sistemi assiomatici. Le
indagini sulla cosiddetta intelligenza artificiale hanno permesso di
comprendere che l’informazione si può annidare a vari livelli e che
esistono delle gerarchie di informazione: il livello inferiore risiede
nella struttura hardware della macchina, i livelli superiori nel
software; il linguaggio di programmazione, a sua volta, contiene
informazioni significative per il programmatore che ricadono in
istruzioni di livello inferiore eseguibili meccanicamente dai circuiti
senza percepirle come significative; il programma stesso nel suo insieme
contiene un’informazione di livello superiore legata allo scopo per cui
è stato scritto, che risiede nella mente del programmatore e in quella
dell’utente, e così via.
In tutte le scienze sembra comparire una struttura gerarchizzata di informazioni legate al grado di complessità e quindi di unitarietà della struttura chiamata in causa.
3.2. Il problema del finalismo nelle teorie scientifiche
L’altro
grande problema — accuratamente escluso dalla scienza moderna per
evitare contaminazioni teologiche — che si sta, invece riaffacciando
dall’interno della scienza stessa, è la questione del finalismo. Anche in questo caso, però, e questo è l’elemento nuovo e più importante, il problema nasce dall’interno della scienza e non come elemento teologico imposto
dall’esterno per ragioni ideologiche. In fondo anche la sua esclusione è
stata una scelta ideologica e quindi non scientifica. Comincia ad
affacciarsi l’idea che una corretta scientificità, dovendo tenere conto
di tutti i fattori in gioco nella natura, non possa escludere quel dato
osservativo che mostra un orientamento verso un fine di certi
comportamenti sia nel mondo vivente, come in quello non vivente e nel
cosmo intero. Ciò è particolarmente evidente in biologia, ma non mancano
anche nella fisica e nella chimica comportamenti finalizzati.
A dire il vero, un certo cripto–finalismo è stato sempre presente nelle scienze, anche se opportunamente occultato. Il meccanicismo ha preteso illusoriamente di spiegare il mondo fisico in termini di sole cause efficienti, mentre in realtà le scienze si servono, per esprimersi con il linguaggio antico, simultaneamente:
— della causalità materiale quando ricercano la spiegazione degli elementi costitutivi del mondo fisico;
— della causalità formale, e soprattutto di questa, quando utilizzano la matematica come strumento di spiegazione teorica e strumento deduttivo.
La causalità finale è
entrata in scena, nella fisica, già con la termodinamica che, essendo
una teoria macroscopica, formula le sue leggi in termini finalistici non
potendo offrire direttamente una descrizione dei “meccanismi” intimi
dei processi. I processi che la natura realizza sono quelli che
raggiungono due fini:
i) la conservazione dell’energia (primo principio)
ii) l’aumento di entropia (secondo principio).
Per
questo la termodinamica non piaceva ai meccanicisti che hanno cercato
una spiegazione in termini di cause efficienti, cioè meccaniche, alla
termodinamica attraverso la teoria cinetica e la meccanica statistica.
Ma anche nella meccanica stessa tutte le leggi di conservazione possono essere lette in chiave finalistica: il moto tende a mantenere costante una certa quantità (quantità di moto, energia meccanica, momento angolare, o altro).
Anche la formulazione matematicamente più potente delle leggi meccaniche e fisiche in genere, offerta dai principi variazionali, acquista
un sapore finalistico. I principi variazionali, infatti, affermano che
la natura si comporta in maniera tale da raggiungere lo scopo di rendere
minimo un certo integrale d’azione.
Nell’ambito della meccanica non lineare, poi,
sono spesso presenti delle soluzioni delle equazioni che governano il
sistema, che non dipendono dalle condizioni iniziali (cicli limite stabili), venendo raggiunte come approdo finale del sistema da qualunque stato esso parta.
Se
certe considerazioni sul finalismo cominciano ad essere prese in
considerazione anche dai fisici, non sembra più così scandaloso che i
biologi si stiano ponendo seriamente il problema di accogliere il
finalismo come prospettiva adeguata di spiegazione dell’evoluzione,
almeno a livello globale e macroscopico, in una maniera somigliante alle
leggi della termodinamica.
3.3. Il principio antropico
In questo contesto si sta facendo strada, da diversi anni, anche il cosiddetto principio antropico, [15] con le diverse varianti spesso denominate forma debole e forma forte. Si tratta di un principio finalistico vero e proprio che appare a molti troppo filosofico per poter essere considerato interno alla
scienza. Tuttavia, anch’esso coinvolge quantità fisicamente misurabili
come le costanti fondamentali della fisica e la stessa struttura delle
leggi fisiche. Esso è tanto più significativo quanto più l’evoluzione
dell’universo appare un fenomeno altamente sensibile ai valori di tali
costanti e alla struttura delle leggi.
4. Conclusioni
Tirando le somme di questa esposizione che cosa si deve dire, dunque?
Tenterei di fissare alcune conclusioni nei seguenti punti:
— l’antica inimicizia tra scienza e teologia è superata almeno per quanto riguarda i principi
— Esistono
aperture nello sviluppo delle teorie scientifiche a tutti i livelli,
dovute all’affronto della complessità, che richiedono la messa a punto
di un’epistemologia e di un’assiomatica ampliate oltre il riduzionismo;
— la
logica-matematica sta dilatandosi in modo da poter formulare in maniera
rigorosa una teoria dell’autoreferenzialità che sembra comprendere, in
qualche modo almeno alcuni aspetti dell’antica teoria dell’analogia.
Anche se, sul piano della metafisica, in ogni caso, l’analogia non può
essere che la descrizione della partecipazione e questo la scienza,
ovviamente, non lo dice;
— la comparsa di approcci di tipo finalistico avvicina ulteriormente l’impostazione scientifica e quella teologica;
— la teologia necessità però di un metodo più dimostrativo di quello che ha attualmente, prevalentemente descrittivo.
Il campo di ricerca è vasto, aperto ed entusiasmante.
Ma intanto che noi facciamo queste riflessioni che cosa ne sarà dell’universo? Avremo il tempo di portarle avanti?
Ciò
che la scienza dice sulle origini e il destino dell’universo è in
realtà molto di meno di quello che i divulgatori le fanno dire: in ogni
caso, allo stato attuale la teoria più accreditata è che l’universo
abbia avuto un’origine nel tempo e che il tempo sia nato con l’universo;
quanto al destino sembra che l’universo sia soggetto ad una espansione
continua e la sua energia si trovi al limite per salvarsi dalla ricaduta
per contrazione. Tutte le stime della curvatura dell’universo sembrano
garantire che la sua curvatura riemanniana è perfettamente nulla e
quindi è nulla la sua energia totale: un perfetto equilibrio tra energia
di espansione e di attrazione gravitazionale. Dunque niente cicli
cosmologici, ma origine nel tempo e morte termodinamica dell’universo.
Ma
fino a che punto le stime in cosmologia sono attendibili? E le
estrapolazioni non sono troppo grandi per essere vendute come certezze?
Comunque, accettando questi risultati, bisogna ammettere che anche il buon vecchio concordismo può dirsi soddisfatto.
[1] Si può vedere come esempio emblematico di concordismo radicale G.L. Schroeder, Genesi e big bang. Uno straordinario parallelo fra cosmologia moderna e Bibbia, tr.
it. Interni, Milano 1991. Si tratta di uno studio che si serve
addirittura della dilatazione del tempo einsteiniana per accordare la
creazione del mondo in sette giorni con i tempi cosmologici stimati
dalle cosmologie recenti.
[2] Oggi
non mancano forme di concordismo tra scienza e induismo o scienza e
buddismo. Esemplare in questo senso, e forse il più noto, è lo studio
ormai classico di F. Capra, Il Tao della fisica, tr. it.. Adelphi, Milano 1982.
[3] Considerazioni concordiste in senso atesita si trovano un po’ in tutto il diffusissimo libro di S. Hawking, Dal big bang ai buchi neri, Rizzoli, Milano, 1988.
[4] Un’analisi
più dettagliata di questi equivoci terminologici e interpretativi si
può trovare in A. Strumia, “Il problema della creazione e le cosmologie
scientifiche”, Divus Thomas 1 (1992), 94, relazione tenuta al Convegno Internazionale “Le origini dell’universo”, Venezia, 5 settembre 1994.
[5] Intendo qui parlare di strumentalismo nel senso in cui ne parla abitualmente K.R. Popper. Si può vedere a questo proposito K.R. Popper, Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, tr. it. Il Mulino, Bologna 1972, p.186 e sgg.
[6] Una presentazione di questo quadro epistemologico medioevale si può trovare in J. Maritain, Distinguere per unire. I gradi del sapere, tr. it. Morcelliana, Brescia 1974, capp.I, II.
[7] Una presentazione dei teoremi di Gödel con il relativo inquadramento storico e testi originali si può trovare in S.G. Shanker, Il teorema di Gödel. Una messa a fuoco, tr. it. Muzzio ed., Padova 1988. Una lettura notevolmente ponderosa, ma estremamente gustosa è offerta da D.R. Hofstadter, Gödel, Escher e Bach: un’eterna ghirlanda brillante, Adelphi, Milano 1984.
[8] B. Russell, A.N. Whitehead, Principia Mathematica, Cambridge 1925.
[9] Cfr. A. Koyré, Études d Histoire de la pensée scientifique, ed. Gallimard, Paris 1972, p.83.
[10] Una buona esposizione dello svilupparsi della cosmologia recente si trova in M. Hack, L'universo alle soglie del duemila. Dalle particelle elementari alle galassie, ed.
Rizzoli, Milano 1992. Per chi vooesse accostare, invece, un bel corso
di cosmologia scientifica, didattico e al contempo rigorosamente
matematico, suggerirei F. Lucchin, Introduzione alla cosmologia, ed. Zanichelli, Bologna 1994.
[11] Si
noti come gli stessi medioevali non negavano il fatto che la stessa
vita risiedesse nelle potenzialità della materia, tanto è vero che
credevano addirittura nella possibilità della generazione spontanea che
avveniva quando la materia veniva sollecitata da una causa adeguata,
come il calore del sole.
[12] Le opere scientifiche di H. Poincaré sono state raccolte in traduzione italiana nel volume Geometria e caso. Scritti di matematica e fisica, ed; Boringhieri, Torino 1995.
[13] Un
volume dalle tavole in un certo senso artistiche, con relativa
trattazione matematica, sulla geometria frattale, ormai divenuto un
classico, è quello di H.O. Peitgen e P.H. Richter, La bellezza dei frattali, Bollati Boringhieri, Torino 1987. In Internet si veda anche il sito WWW all’indirizzo http://eulero.ing.unibo.it/~strumia/Menu.html che oltre a mostrare delle immagini offre anche una serie di spiegazioni didattiche e tecniche.
[14] È
davvero rilevante per le sue implicazioni filosofiche questo filone di
ricerca, aperto da alcuni decenni da Ennio de Giorgi e dai suoi
collaboratori alla Normale di Pisa a proposito della possibilità
di costruire un’assiomatica “ampia” che ospiti senza contraddizione
l’autoreferenzialità, le qualità le relazioni di diversi tipi, comprese
le relazioni unidirezionali (come in teologia la relazioni dalla
creatura al Creatore che non ha reciproca). Tutta questa indagine è nata
dall’esigenza, sorta con l’impiego del computer, di sviluppare
un’assiomatica che non escluda l’autoreferenzialità, in quanto le
operazioni iterative, tipiche dell’informatica, sono autoreferenziali.
Si veda, ad esempio: E. De Giorgi, M. Forti e G. Lenzi, Una proposta di teorie di base dei Fondamenti della Matematica, Rend. Mat. Acc. Lincei, ser.9, 5 (1994) 11-22; 5 (1994) 117-128; 6 (1995) 79-92; E. De Giorgi e G. Lenzi,La Teoria ’95, una proposta di teoria aperta e non riduzionista dei Fondamenti della Matematica, memoria
presentata da E. De Giorgi, Pisa 13-11-1995 E. DE Giorgi, “Dal
superamento del riduzionismo insiemistico alla ricerca di una più ampia e
profonda comprensione tra matematici e studiosi di altre discipline
scientifiche ed umanistiche”, memoria presentata da E. De Giorgi, Pisa,
25-3-1996.
[15] Si può vedere a proposito del principio antropico N. Dallaporta, Scienza, metascienza e metafisica, ed. Cedam, Padova 1994, cap.II, §2.1.
Tirando le somme di questa esposizione che cosa si deve dire, dunque?
Tenterei di fissare alcune conclusioni nei seguenti punti:
— l’antica inimicizia tra scienza e teologia è superata almeno per quanto riguarda i principi
— Esistono
aperture nello sviluppo delle teorie scientifiche a tutti i livelli,
dovute all’affronto della complessità, che richiedono la messa a punto
di un’epistemologia e di un’assiomatica ampliate oltre il riduzionismo;
— la
logica-matematica sta dilatandosi in modo da poter formulare in maniera
rigorosa una teoria dell’autoreferenzialità che sembra comprendere, in
qualche modo almeno alcuni aspetti dell’antica teoria dell’analogia.
Anche se, sul piano della metafisica, in ogni caso, l’analogia non può
essere che la descrizione della partecipazione e questo la scienza,
ovviamente, non lo dice;
— la comparsa di approcci di tipo finalistico avvicina ulteriormente l’impostazione scientifica e quella teologica;
— la teologia necessità però di un metodo più dimostrativo di quello che ha attualmente, prevalentemente descrittivo.
Il campo di ricerca è vasto, aperto ed entusiasmante.
Ma intanto che noi facciamo queste riflessioni che cosa ne sarà dell’universo? Avremo il tempo di portarle avanti?
Ciò
che la scienza dice sulle origini e il destino dell’universo è in
realtà molto di meno di quello che i divulgatori le fanno dire: in ogni
caso, allo stato attuale la teoria più accreditata è che l’universo
abbia avuto un’origine nel tempo e che il tempo sia nato con l’universo;
quanto al destino sembra che l’universo sia soggetto ad una espansione
continua e la sua energia si trovi al limite per salvarsi dalla ricaduta
per contrazione. Tutte le stime della curvatura dell’universo sembrano
garantire che la sua curvatura riemanniana è perfettamente nulla e
quindi è nulla la sua energia totale: un perfetto equilibrio tra energia
di espansione e di attrazione gravitazionale. Dunque niente cicli
cosmologici, ma origine nel tempo e morte termodinamica dell’universo.
Ma
fino a che punto le stime in cosmologia sono attendibili? E le
estrapolazioni non sono troppo grandi per essere vendute come certezze?
Comunque, accettando questi risultati, bisogna ammettere che anche il buon vecchio concordismo può dirsi soddisfatto.
[1] Si può vedere come esempio emblematico di concordismo radicale G.L. Schroeder, Genesi e big bang. Uno straordinario parallelo fra cosmologia moderna e Bibbia, tr.
it. Interni, Milano 1991. Si tratta di uno studio che si serve
addirittura della dilatazione del tempo einsteiniana per accordare la
creazione del mondo in sette giorni con i tempi cosmologici stimati
dalle cosmologie recenti.
[2] Oggi
non mancano forme di concordismo tra scienza e induismo o scienza e
buddismo. Esemplare in questo senso, e forse il più noto, è lo studio
ormai classico di F. Capra, Il Tao della fisica, tr. it.. Adelphi, Milano 1982.
[3] Considerazioni concordiste in senso atesita si trovano un po’ in tutto il diffusissimo libro di S. Hawking, Dal big bang ai buchi neri, Rizzoli, Milano, 1988.
[4] Un’analisi
più dettagliata di questi equivoci terminologici e interpretativi si
può trovare in A. Strumia, “Il problema della creazione e le cosmologie
scientifiche”, Divus Thomas 1 (1992), 94, relazione tenuta al Convegno Internazionale “Le origini dell’universo”, Venezia, 5 settembre 1994.
[5] Intendo qui parlare di strumentalismo nel senso in cui ne parla abitualmente K.R. Popper. Si può vedere a questo proposito K.R. Popper, Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, tr. it. Il Mulino, Bologna 1972, p.186 e sgg.
[6] Una presentazione di questo quadro epistemologico medioevale si può trovare in J. Maritain, Distinguere per unire. I gradi del sapere, tr. it. Morcelliana, Brescia 1974, capp.I, II.
[7] Una presentazione dei teoremi di Gödel con il relativo inquadramento storico e testi originali si può trovare in S.G. Shanker, Il teorema di Gödel. Una messa a fuoco, tr. it. Muzzio ed., Padova 1988. Una lettura notevolmente ponderosa, ma estremamente gustosa è offerta da D.R. Hofstadter, Gödel, Escher e Bach: un’eterna ghirlanda brillante, Adelphi, Milano 1984.
[8] B. Russell, A.N. Whitehead, Principia Mathematica, Cambridge 1925.
[9] Cfr. A. Koyré, Études d Histoire de la pensée scientifique, ed. Gallimard, Paris 1972, p.83.
[10] Una buona esposizione dello svilupparsi della cosmologia recente si trova in M. Hack, L'universo alle soglie del duemila. Dalle particelle elementari alle galassie, ed.
Rizzoli, Milano 1992. Per chi vooesse accostare, invece, un bel corso
di cosmologia scientifica, didattico e al contempo rigorosamente
matematico, suggerirei F. Lucchin, Introduzione alla cosmologia, ed. Zanichelli, Bologna 1994.
[11] Si
noti come gli stessi medioevali non negavano il fatto che la stessa
vita risiedesse nelle potenzialità della materia, tanto è vero che
credevano addirittura nella possibilità della generazione spontanea che
avveniva quando la materia veniva sollecitata da una causa adeguata,
come il calore del sole.
[12] Le opere scientifiche di H. Poincaré sono state raccolte in traduzione italiana nel volume Geometria e caso. Scritti di matematica e fisica, ed; Boringhieri, Torino 1995.
[13] Un
volume dalle tavole in un certo senso artistiche, con relativa
trattazione matematica, sulla geometria frattale, ormai divenuto un
classico, è quello di H.O. Peitgen e P.H. Richter, La bellezza dei frattali, Bollati Boringhieri, Torino 1987. In Internet si veda anche il sito WWW all’indirizzo http://eulero.ing.unibo.it/~strumia/Menu.html che oltre a mostrare delle immagini offre anche una serie di spiegazioni didattiche e tecniche.
[14] È
davvero rilevante per le sue implicazioni filosofiche questo filone di
ricerca, aperto da alcuni decenni da Ennio de Giorgi e dai suoi
collaboratori alla Normale di Pisa a proposito della possibilità
di costruire un’assiomatica “ampia” che ospiti senza contraddizione
l’autoreferenzialità, le qualità le relazioni di diversi tipi, comprese
le relazioni unidirezionali (come in teologia la relazioni dalla
creatura al Creatore che non ha reciproca). Tutta questa indagine è nata
dall’esigenza, sorta con l’impiego del computer, di sviluppare
un’assiomatica che non escluda l’autoreferenzialità, in quanto le
operazioni iterative, tipiche dell’informatica, sono autoreferenziali.
Si veda, ad esempio: E. De Giorgi, M. Forti e G. Lenzi, Una proposta di teorie di base dei Fondamenti della Matematica, Rend. Mat. Acc. Lincei, ser.9, 5 (1994) 11-22; 5 (1994) 117-128; 6 (1995) 79-92; E. De Giorgi e G. Lenzi,La Teoria ’95, una proposta di teoria aperta e non riduzionista dei Fondamenti della Matematica, memoria
presentata da E. De Giorgi, Pisa 13-11-1995 E. DE Giorgi, “Dal
superamento del riduzionismo insiemistico alla ricerca di una più ampia e
profonda comprensione tra matematici e studiosi di altre discipline
scientifiche ed umanistiche”, memoria presentata da E. De Giorgi, Pisa,
25-3-1996.
[15] Si può vedere a proposito del principio antropico N. Dallaporta, Scienza, metascienza e metafisica, ed. Cedam, Padova 1994, cap.II, §2.1.
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Fonte : www.albertostrumia.it/?q=content/scienza-e-teologia-confronto-alle-soglie-del-duemila
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