giovedì 5 settembre 2024

Lettura teologico spirituale dell'icona della Vergine del Carmine detta "La Bruna", di Jesùs Castellano Cervera




Jesùs Castellano Cervera

LETTURA TEOLOGICO SPIRITUALE
DELL'ICONA DELLA VERGINE DEL CARMINE
DETTA " LA BRUNA "

                


Maria SS. del Carmine Maggiore , detta " La Bruna " , Napoli .

Leggere il mistero di una icona veneratissima ed antica come quella della Madre di Dio, detta la Bruna, che presiede la Chiesa del Carmine Maggiore di Napoli, è per me un onore e una sfida. Prima di tutto è l'onore di un figlio carmelitano che contempla una delle più antiche immagini di Maria che sono rapportate al titolo di Madre del Carmelo. Una sfida perché tale lettura impegna la mente ed il cuore nello svelamento dei misteri che ogni immagine sacra porta con sé, in maniera oggettiva, al di là dei nostri sentimenti e dei nostri gusti. Cercherò quindi di leggere quest'immagine, non dal punto di vista storico o devozionale , ma dal punto di vista teologico e spirituale, a partire da una convinzione, che si è fatta certezza, dopo aver contemplato l'immagine restaurata della Bruna, prima nelle riproduzioni recenti e poi direttamente a faccia a faccia. È la certezza di trovarci davanti ad un'icona della Madre di Dio, di ispirazione certamente orientale, alla quale è doveroso applicare per analogia, quanto si può dire delle icone orientali della Madre del Signore. Esordirò quindi con alcune annotazioni di carattere generale sull'icona per poi fissare l'attenzione nell'immagine della Bruna di Napoli.

1. L'ICONA: IL MISTERO DI UNA PRESENZA
L'icona è un segno sacramentale della Chiesa. Questa sacramentalità è molto accentuata in Oriente fino ad affermare che le immagini sacre sono come "presenze" delle persone e dei misteri che rappresentano. La " sacramentalità " delle icone forse in principio non veniva direttamente da una speciale benedizione impartita dalla Chiesa, ma semplicemente dal contatto vivo delle icone stesse con la liturgia celebrata, con la fede confessata e la preghiera ecclesiale; o proveniva dalla sacralità del luogo dove era celebrata l'Eucaristia ed era presente l'icona. Oggi esiste in Oriente un rito speciale per la benedizione delle icone; non manca un analogo rito di benedizione delle immagini neppure in Occidente. Tuttavia in alcuni luoghi di Oriente Je icone sono benedette quasi per contatto con il mistero eucaristico, passandole sopra la patena ed il calice prima della dossologia dell'anafora. L'icona entra così a far parte dell'universo simbolico della liturgia, con il carattere evocativo di una presenza e per essere la visibilità dell'invisibile volto di Cristo, di Maria e dei Santi; esse irradiano uno sguardo amico, offrono una compagnia che, nel mistero della comunione dei Santi, ci viene incontro e da noi è confessata ed invocata. . , ,, Con questa benedizione la Chiesa esprime un duplice sentimento della propria fede: rendere l'immagine un segno sacro, evocativo per la fede dei fedeli della realtà che rappresenta; invitare i fedeli a venerare le persone o i misteri rappresentati. . Davanti ai nostri occhi l'immagine è come una presenza che si propone come una finestra aperta sul mistero per poter entrare m comunione con Cristo, con la Madre di Dio e con i Santi; una presenza accessibile che ci invita anche all'imitazione, a realizzare nella nostra vita ciò che vediamo, a riviverlo interiormente. L'immagine è un ricordo/memoriale, luogo d'incontro di sguardi e di presenze; è possibilità di contemplazione, è stimolo all'imitazione. Nel a preghiera davanti a un'immagine di Cristo o della Vergine Maria, non solo guardiamo ma ci sentiamo anche guardati da Qualcuno/a che ci ama. La contemplazione è in questo caso un modo di "contemplare 1 Inviabile. (Cfr Eb 11 27) o, come dice la liturgia di Natale, una visione della realta soprannaturale, "affinchè contemplando le cose visibilmente siamo portati all'amore dell'invisibile". . Il Patriarca Dimitrios I esprimeva così nel 1987, nella sua Enciclica sulle sante icone, il senso profondo dell'icona di Cristo come manifestazione della sua presenza, secondo la più genuina tradizione orientale. Ma il testo può essere anche riferito alla Vergine Maria: "L'icona di Cristo testimonia una presenza, la sua stessa presenza, che consente di giungere ad una comunione di partecipazione, ad una comunione di preghiera e di resurrezione, ad una comunione spirituale, ad un incontro mistico col Signore dipinto in immagine. Certamente l'icona del Signore non e Cristo stesso, come nell'Eucaristia il pane è il suo corpo e il vino il suo Sangue.
Nell'icona c'è la presenza della sua ipostasi, che non cambia ne modifica m nulla la materia o i colori o il pennello o i disegni esteriori e le forme alle quali i disegni corrispondono. Tuttavia, questa icona riproduce in maniera ipostatica (personale) le sembianze e l'identità di Cristo, che in essa è raffigurato con quanto è caratteristico di tutta la sua immagine. Tutto il mistero dell icona e contenuto in queste sembianze dinamiche e misteriose che rinviano ali originale, vale a dire all'essere divino e umano del Signore".'
--Testo dell'Enciclica del Patriarca Dimitrios in 11 Regno /Documenta 1 marzo
1988 pp 148-156, testo citato a p. 154; Per una introduzione alla comprensione delle
icone Sella Madre di Dio, cfr. SUOR MARIA DONADEO, Icone dola Madre d^o_
Broscia, Morcelliana, 1982. Una breve presentazione delle icone ir.Catecheo della chiesa
cattolica, nn. 1159-1162; cfr. anche il mio contributo: Icone, m Dwonano Enciclopedico
di Spiritualità. Roma, Città Nuova, 1990, pp. 1241-1251.

Ci sono poi, in Oriente ed in Occidente, immagini che cariche della preghiera e della venerazione dei fedeli diventano come un luogo di rivelazione, una presenza miracolosa. Questo inserimento delle icone nel movimento cultuale della Chiesa, ascendente e discendente, quale presenza di grazia e luogo di preghiera, le rende particolarmente adatte ad essere una mediazione per l'incontro con il mistero, nella linea della sacramentalità della Chiesa e della santa liturgia, con il senso positivo di manifestazione visibile delle cose invisibili, con la capacità di suscitare la fede e l'amore senza i quali non si entra in comunione con il mistero. Diventano così luogo dell'incontro delle persone, trasparenza per un rapporto di comunione spirituale fra il credente che vi si accosta con la propria fede e le persone rappresentate che in qualche modo rendono visibile il loro rapporto vivo con noi nella comunione dei Santi. In sintesi, ogni icona, per poter essere venerata dai fedeli, deve possedere tré qualità che solo la Chiesa può garantire e che sono interpretate dalla tradizione con un senso molto preciso. Deve essere quindi un'immagine vera, miracolosa e a-cheròpita. Vera, in quanto i suoi tratti devono corrispondere esattamente alla parola che la illumina e che l'immagine stessa rende visibile, al mistero che rappresenta. Miracolosa, in quanto fa vedere le meraviglie di Dio, per quanto a volte si tratta anche di un'immagine che possiede la qualità carismatica di essere una fonte di grazie soprannaturali e di manifestazioni miracolose. Acheròpita, in quanto non deve corrispondere ad un'opera semplicemente umana, fatta da mano d'uomo, ma in qualche modo deve essere un'immagine "non fatta da mano d'uomo", ispirata da Dio attraverso la mediazione della sua parola e la tradizione della Chiesa. Tale è per noi l'immagine santa e santifìcatrice della Vergine Maria, Madre di Dio, Vergine del Carmelo, la Bruna di Napoli, attraverso il flusso di grazia e di devozione che unisce il suo sguardo allo sguardo e alla preghiera dei fedeli. La Vergine del Carmelo a Napoli è anche tutto questo: una presenza sacramentale di Maria in una sua icona, una finestra che apre il cielo alla terra e la terra al cielo.

2. L'ICONA DELLA BRUNA FRA LE ICONE TRADIZIONALI DELLA VERGINE MARIA
Le immagini della Vergine Madre di Dio sono innumerevoli. Sono tutte rappresentazioni della Vergine Maria nei suoi episodi evangelici e nei suoi titoli teologici. Ma vi sono innumerevoli icone che hanno origine da un'apparizione, da un miracolo, dalla venerazione tributata in un determinato santuario. Segnaliamo per prime alcune immagini classiche. La rappresentazione più comune è quella dell'immagine della Theotòkos Madre di Dio col Bambino Gesù fra le sue braccia o nel suo seno. Tale immagine ha diversi nomi teologici, sia per l'espressione del suo volto che per il rapporto della Madre con il Bambino che tiene fra le braccia. Tutte però hanno in comune il titolo più eccelso della Vergine Maria: Madre di Dio. Il titolo che tutto contiene, la sintesi della vocazione e de missione di Maria, il principio da cui scaturiscono tutti i suoi privilegi. La Vergine viene rappresentata come Odighitria, colei che indica la via, se ci presenta il suo Figlio Gesù ed indica che è Lui la via. La Vergine Eleousa, o della tenerezza, esprime l'intimità della Vergine con il Bambino, fusi in un abbraccio. Di questo tipo, come si dirà, è la Vergine Bruna, Madre di Dio della tenerezza; si chiama anche Glycofìlousa, del dolce amore e dei dolci baci, perché rappresenta la Vergine in un tenero bacio, o con le guance accostate del Figlio e della Madre. La Vergine Galattotrefoussa rappresenta Maria che nutre con il latte del suo seno il Bambino. Esiste anche un'immagine di Maria in cui l'atteggiamento del Bambino è quello di un bimbo che giocherella con la Madre in posizione ardite. Esiste pure il tipo della Vergine, detta Kyriotissa, che forse significa anche Signora, perché sostiene il Bambino fra le sue ginocchia, come seduto su un trono. La Vergine è chiamata Panaghia, o Tutta Santa, perché è coperta da un manto rosso che indica la santità dello Spirito Santo, ed esprime la pienezza della sua santità esteriore ed intcriore.
La Platytera, o più grande dei cieli, è colei che contiene l'Incontenibile, o colei che è immensa a tal punto che contiene l'Immenso. La vergine Orante, con le mani giunte in preghiera e il Bambino in un cerchio di gloria, come quella di Jaroslav, o semplicemente con le mani alzate in preghiera come quella di Santa Sofia di Kiev. La Vergine Psychosostria, o colei che salva le nostre anime. La Vergine della Passione, conosciuta in Occidente come la Vergine del Perpetuo Soccorso, con gli Angeli che recano gli strumenti della Passione e il Bambino che guarda attonito verso il futuro che lo attende. Maria è come la Portaissa, porta del cielo, dal nome di una delle icone più celebri del Monte Athos, conservata nel monastero di Iviron. Con frequenza la Madonna è anche avvolta in un manto rosso o porpora che ricopre pure il suo tipo; il colore rosso o porpora indica la sua santità, e per questo la Vergine viene chiamata Panaghia (Tutta santa), con una espressione cara ai fratelli di Oriente che sottolineano il suo rapporto con il Panaghion o Tuttosanto (lo Spirito Santo) che avvolge completamente Maria. Sulla veste di Maria sono dipinte tré stelle, alle volte è visibile solo una, come nel caso della Bruna. Una sulla fronte, due ai lati, formando un triangolo che allude senz'altro alla Trinità. Secondo l'interpretazione più accettata si tratta di un segno che indica la triplice verginità di Maria: prima, durante e dopo il parto. La Vergine Bruna è parte integrante della grande tradizione pittorica che si ispira all'iconografia orientale e per la sua antichità si colloca fra le più significative e più antiche icone venerate in Occidente, se risale, come molti credono, alla seconda metà del secolo XIII.2
Il suo tipo corrisponde a quello della Madre di Dio della tenerezza, Eleousa , o la Vergine Glycofìlousa, dei dolci baci. La sua contiguità con le immagini orientali è tale, che anche se fosse di origine italiana, una improbabile Madonna senese, come alcuni ritengono, si tratta sempre di una immagine ispirata all'iconografia dell'Oriente. Il fatto poi che vi sia nella tradizione della Bruna di Napoli la sua commemorazione settimanale al mercoledì - i mercoledì della Bruna - e non al sabato, anche se si tratta di una tradizione che risale ad un particolare miracolo della Bruna, avvenuto in un mercoledì, suggerisce ancora con più forza la contiguità della tradizione orientale di tale devozione. Il mercoledì è ancora oggi il giorno del ricordo di Maria come Madre di Dio nella liturgia bizantina.

3. UNA LETTURA STORICA DELL'IMMAGINE DELLA BRUNA ALLA LUCE DELLA TRADIZIONE DEL CARMELO
II Carmelo, con le sue tipiche radici orientali, ha venerato fin dall'inizio della sua esistenza la Madre di Dio nella piccola e bella cappella primitiva del primo monastero del Wadi-ain- es-Siah, presso Haifa in Israele. Nessuna notizia autorevole può appagare la nostra curiosità di sapere come era l'immagine di Maria venerata dai primi Carmelitani. Si può logicamente supporre che si trattasse di una icona, di una tavola dipinta, più che di una immagine in legno o in marmo, e che raffigurasse il tipo classico
della Theotokos, la Madre di Dio, con il Bambino tra le braccia in quell'atteggiamento di comunione e di tenerezza che è caratteristico di tante immagini venerate dai Carmelitani, come nel caso della nostra icona della Bruna di Napoli o della Madonna del Carmine di Firenze. Prima ancora che l'iconografia della Vergine del Carmelo presenti i tratti caratteristici dello Scapolare, della protezione sull'Ordine o della sollecita liberazione dal Purgatorio, i Carmelitani riconoscono la loro Madre nel volto tenero e materno della Madre di Dio. 2 Per le notizie storiche che riguardano la Bruna ed il suo culto cfr. G. MONACO, S. Maria del Carmine detta " La Bruna ". Storia, culto, folklore, Napoli, Laurenziana, 1975; La Vergine Bruna e il Carmine Maggiore di Napoli . Fede, storia, arte. Napoli 1988. Forse una delle immagini più antiche della Vergine del Carmelo è il ritratto conservato dell'icona della Madre di Dio venerata per molto tempo nella chiesa di San Cassiano a Nicosia (Cipro), poi alla Basilica di Santa Sofia, sempre a Nicosia, e ora nel Museo cittadino dedicato all'Arcivescovo Makarios. Si tratta di una bella tavola a colori, verosimilmente del secolo XIV, dovuta ali' arte di un iconografo orientale. La Vergine appare maestosa, assisa in trono, ricoperta di un mantello bianco; porta alla sua sinistra il Bambino e lo indica come Salvatore; ai suoi piedi si vede un gruppo di Carmelitani che indossano il bianco mantello dell'Ordine, in atteggiamento di supplica e di venerazione; ai lati, secondo lo stile dell'iconografìa orientale, sedici scene che probabilmente si riferiscono alla storia dell'Ordine, ma, purtroppo, indecifrabili, dato lo stato generale di deterioro della pittura. Questa immagine combina tré tipi iconografici classici: la Theotokos (Madre di Dio), la Odighitria (Colei che mostra la via, perché indica il suo Figlio come Via), la Kyriotissa (Signora o Regina), per il suo atteggiamento maestoso in quanto Maria diventa il trono stesso di Cristo). Si tratta di una icona venerabile che è stata con tutta probabilità venerata dai Carmelitani di Cipro quando nell'isola esisteva una Provincia Carmelitana (1291-1570) con ben sei conventi, dei quali uno precisamente a Nicosia, da dove certamente proviene l'immagine.3 Tuttavia, nonostante queste tracce di ispirazione orientale per dipingere la Madre del Carmelo, è prevalso in Occidente il tipo primitivo della Vergine Madre di Dio, come quella della Bruna, in quella raffigurazione che rende presente la grande comunione della Vergine con il Figlio fino a presentare i due con due guance accostate l'uno all'altra. Abbiamo così il tipo della Vergine Eleousa, o della tenerezza, che diventa pure la Glycofiloussa (dei dolci baci o del dolce amore). Sono stati conservati di quest'immagine alcuni tipi iconografici della Vergine venerati dai Carmelitani, per sottolineare la vera maternità di Maria e la vera umanità di Gesù, quando la dipingono allattando il Bambino; questo tipo, che trova anche alcuni esemplari carmelitani, come quello del Carmine di Catania, si chiama, come è stato ricordato, Galattotrefoussa (Colei che nutre con il proprio latte). Questi tipi iconografici antichi, spesso ritrovati nella raffigurazione primitiva della Madonna del Carmine, sono oggi di nuovo riflessi in alcuni tentativi di iconografia carmelitana moderna. Essi indicano l'essenziale della devozione mariana del Carmelo : la proclamazione della Vergine quale 3 Sulla storia e l'arte in questa antica icona, con una bella riproduzione dell'insieme e dei dettagli, cfr. R. PALAZZI, Sotto il manto della Madre, in La Vergine Bruna, n. 7-8, luglio agosto 1989, pp. 24-29.vera Madre di Dio e sempre Vergine, Immacolata e Purissima, piena della santità dello Spirito. II Carmelo presenta così una congiunzione fra Oriente-Occidente nella venerazione della Madre di Dio e diventa un segno di unità nella stessa tenera venerazione dei fratelli cattolici ed ortodossi alla Vergine Maria. L'immagine della Vergine Bruna di Napoli non si può capire se non a partire da questi dati storici ed iconografici. Come l'immagine di Maria nella cappella del primitivo monastero era la Signora del luogo e la sua presenza materna accompagnava la vita dei primi Fratelli della B.V.M. del Monte Carmelo, così pure dovunque i Carmelitani sono arrivati hanno portato con sé l'immagine di Maria, la loro Signora del luogo e della comunità, la Madre e la Sorella. Forse è troppo pensare che la Bruna sia la stessa immagine venerata in quella cappella del Carmelo. Tuttavia essa rappresenta molto bene l'esenziale devozione primitiva e la continuità di una pietà orientale. Anche nell'ipotesi di alcuni autori che essa provenisse non dall'Oriente , ma dall'Italia, non dobbiamo dimenticare che tutto il litorale dell'Adriatico e del Tirreno è costellato di presenze iconografiche orientali. Ci troviamo quindi con un'immagine antica, forse della seconda metà del tredicesimo secolo. Certamente di tratti orientali, ciprioti o cretesi, comunque radicata nella tradizione iconografica orientale, come ci farà capire anche una rapida lettura estetica e teologica dell'Icona. Vero è comunque che l'immagine della Bruna ha avuto una grandissima fortuna iconografica oltre che devozionale. Si tratta di una immagine che è stata moltiplicata in tante creazioni originali. A Napoli doveva esserci una grande scuola di riproduzioni dell'icona della Bruna. In una recente esposizione di antiche icone fatta in quest'anno 2000 a Valencia, è stata portata una bellissima copia della Bruna, che risale probabilmente al sec. XIV. Si trova nel paese de La Yesa, non lontano dal mio paese natale, ed è una copia fedelissima della Bruna, anche perché tradizionalmente porta il titolo di Madonna del Carmine. Probabilmente è stato portata nel sec. XVI da un soldato che ha dimorato a Napoli e ha voluto regalare quest'immagine alla sua parrocchia natale come un dono prezioso. E la si conserva con il titolo di Madonna del Carmine. Sia Maria, sia il Figlio sono incoronati, secondo la tradizione occidentale.

4. UNA CONTEMPLAZIONE ESTETICA

Sono molti gli elementi di carattere estetico che ci aiutano a decifrare il significato profondo dell'icona della Bruna. 4 Oriente en Occidente. Antiguos iconos valencianos, Valencia 2000, pp. 34.179, 224.P. II primo elemento che richiama la nostra attenzione è il fondo d'oro in cui s'iscrive l'icona. Questo sfondo dorato dell'icona, detto luce, esprime il fatto che l'icona è nella luce del mistero di Dio. Anche la progressiva chiarezza data all'icona con ocra giallo è chiamata luce. Dipingere un'icona significa illuminare o "scrivere" un volto o un mistero. Maria e la sua maternità divina, illuminata dallo sfondo dorato dell'immagine, sono iscritte nel mistero di Dio. Ma questa luce dorata, divinizzante, è presente anche in altri dettagli dell'icona. E evidente nel fregio dorato del bordo del vestito della Madre di Dio, nella stella che porta all'altezza delle spalle a destra. Quest'oro diventa quasi impercettibile e pure scintillante nelle pennellate dorate sul rosso del copricapo o piuttosto una cuffia rossa all'intemo del capo della Vergine, nelle sue eleganti maniche e nel vestito del Bambino. Questo particolare iconografico delle pennellate dorate che rendono scintillanti le vesti, è chiamato assist. Questa forma spesso attribuita a Teofane il Greco, pittore di icone del XIV secolo, esprime con leggere pennellate d'oro sulle vesti di Cristo, della Vergine e dei Santi, oltre ad una particolare leggerezza e bellezza, la trasfigurazione delle persone mediante l'elemento divino, l'oro, la luce, che penetra la figura e le vesti. Ciò indica che le persone sono come divinizzate, partecipi della luce di Dio, della sua natura. L'immagine di Maria, oltre ad essere iscritta nel fondo dorato della divinità, ha anche una bella e lavorata aureola dorata, come anche il Figlio. Le due aureole che s'intrecciano sono anche segno di comunione nel mistero divino. La Vergine Maria è presentata rivestita di un ricco manto o omophorion che copre il suo capo e scende come una tenda sulle sue spalle. La ricopre per intero, come per intero è ricoperta dalla grazia Colei che è Tuttasanta. La veste interna della Vergine è rosso porpora e significa l'azione dello Spirito Santo che la riveste per intero, dal capo ai piedi. Spunta il colore rosso sul suo capo e sulle sue maniche eleganti da Regina. Fino a confondersi come parte del vestito di Maria e del vestito del Bambino.
Il colore azzurro della veste esprime la realtà celeste. Lo troviamo spesso nel manto del Cristo Pantocratore e in alcune icone della Vergine Maria, con una tonalità soave e leggera. Il colore rosso lo si trova spesso nella porpora delle vesti del Cristo Pantocratore. Ma anche della Vergine Maria, come nella nostra icona, dove Maria appare rivestita completamente dell'amore e della santità dello Spirito, il Panaghion, il Tutto santo che rende Maria la Panaghia, la Tutta Santa o Santissima. Maria appare nella sua bellezza e compostezza. Non è una dea, è una donna, una madre, una nostra sorella. Il suo volto è bello, proporzionato: occhi grandi e profondi, naso affilato, bocca piccola. Il suo capo coperto è ampio, come sede della sapienza, elegantemente ricoperto con la parte superiore dell'omophorion. Il collo è forte e sottile, come torre di avorio, turris eburnea. Le sue mani sono ampie e le sue dita sottili. Sul lato destro del manto di Maria una stella, allusiva anche alle tradizionali tré stelle sul capo, e a destra e sinistra del suo vestito, all'altezza delle sue spalle. Segni antichi della sua verginità, prima, durante, dopo il parto. Il suo volto, raccolto e bello, illuminato, con gli occhi che guardano dentro al mistero, ma anche che guardano noi. È la Tota pulchra. Maria porta accanto a sé il Bambino Gesù che è insieme un Bambino m che traduce anche qualcosa di adulto nelle sue sembianze. E "l'antico dei giorni", il Figlio del Padre eterno. Esisteva già nell'eternità prima di esistere nel tempo. Con le sue mani Maria lo stringe soavemente a sé, per significare insieme la comunione materna e filiale, la tenerezza. Anche il volto del Bambino rispecchia le caratteristiche dell'iconografìa orientale: capo ampio con una bella capigliatura che prelude le belle immagini di ondeggiante chioma di capelli del Pantocrator nelle icone cretesi, bulgare e russe. Piccoli sono gli occhi, il naso, l'orecchio. La tenerezza dell'intima comunione si manifesta nel dettaglio comune delle icone, con le guance del fanciullo che si fondono con quella della Madre. Così si rappresenta la comunione intima della Madre col Figlio, anche nelle icone della deposizione dalla croce, o della Madre di Dio con il suo Figlio morto nella sepoltura. Una intimità indistruttibile. Il Bambino accarezza la Madre soavemente sotto il mento con la mano destra, mentre si aggrappa al suo vestito con la sinistra e un ginocchio si appoggia sulla Madre. Il Figlio guarda lontano. Il suo sguardo si perde nel mistero. Guarda a noi e guarda anche al suo lontano destino di passione e di gloria. È l'immagine estetica della divina maternità, della Madre e del Figlio. L'iconografo oltre ad esprimere la comunione della Madre con il Figlio nella mutua carezza, ci rivela questa comunione, questa somiglianzà divina fra il Figlio e la Madre, nell'identità delle sembianze, nello stesso colore rosso del manto del Bambino che è anche manto della Madre. Ma vi è anche un dettaglio importante. Il vestito del Bambino, una specie di camicia che fa vedere il braccio e la mano, ha lo stesso colore della carne della Vergine Maria. In realtà egli ha rivestito la nostra carne nella carne di Maria. Si realizza in quest'icona una comunione che in una icona del Monte Athos si manifesta al rovescio. Infatti in un'icona della Passione, della Madre accanto al Figlio morto, il vestito di Maria ha lo stesso colore della carne del Figlio. In quest'icona il vestito del Figlio ha lo stesso colore della carne della Madre. Maria è simile al suo Figlio come il Figlio è simile alla Madre, di cui ha presso la nostra carne, la nostra natura umana.
L'insieme dei loro volti rispecchia l'iconografia classica secondo alcune caratteristiche che troviamo nei manuali di iconografia che interpretano alcuni elementi estetici. Secondo l'iconografia classica i personaggi delle icone posseggono una maestà ieratica. Sono quasi una terza forma di bellezza tra la fotografia ed il linguaggio astratto. In genere, come nel nostro caso, sono vestiti con estrema eleganza, secondo lo stile bizantino; le figure sono snelle, i lineamenti illuminati, la fronte ampia, gli occhi profondi, le orecchie attente. Offrono sempre il volto, senza profili, poiché l'assenza di una presentazione frontale costituisce un modo ingannevole di presentarsi. Tutto il messaggio sta nel volto, dove si scopre l'immagine di Dio nell'uomo. I personaggi sono figure ieratiche, immobili, come chi contempla o si lascia contemplare. La loro carnagione non ha mai il colore naturale ma un colore oscuro. E quasi una trasfigurazione della natura umana che annuncia la resurrezione dai morti. Una Presentazione dell'esposizione delle icone del Vaticano, dal dicembre del 1989 al gennaio del 1990, descrive così l'estetica dell'icona che si concentra nei volti: "II centro della rappresentazione è sempre il volto; è il luogo della presenza dello spirito di Dio, perché la testa è la sede dell'intelligenza e della sapienza. Il volto è costruito intorno a tré cerchi: il primo, normalmente dorato, contiene l'aureola, simbolo della gloria di Dio; il secondo comprende la testa e in essa compare la fronte, sede della sapienza, molto alta e convessa, in modo che appaia la forza dello Spirito; il terzo cerchio comprende la parte sensuale del volto ed esprime la natura umana della quale il personaggio raffigurato si è rivestito durante la sua vita. Gli occhi, il cui sguardo si irradia verso lo spettatore e tiene concentrata tutta l'attenzione, sono grandi, fissi e severi, sono incorniciati in ampie sopracciglie ad arcate. Le narici sono sottili, vibranti sotto il movimento del soffio dello Spirito, e manifestano l'amore appassionato per Dio. La bocca è piccola, talora è disegnata in forma geometrica ed è sempre chiusa, quasi nel silenzio della contemplazione".5 E a proposito delle icone della Madre di Dio si affermano alcuni particolari che noi pure possiamo osservare nella Bruna di Napoli: "Osservando le icone della Madre di Dio si può notare la rotondila del capo della Vergine, che indica la perfezione della creatura scelta da Dio per la realizzazione del suo disegno salvifico sull'uomo. Anche le mani, nella loro stessa forma nobile e allungata, rivelano profondi significati teologici.
Vale la pena in questo momento ascoltare due testi importanti sull'immagine di Maria, contemplando anche l'immagine della Bruna. Uno appartiene all'alta tradizione patristica greca e risale a S. Epifanie di Salamina. L'altro di un Manuale di iconografia del Monte Athos, di vari secoli posteriore alla nostra immagine. Niceforo Callisto (sec. VIII-IX) in un testo che già fu citato alla fine del seicento da un frate carmelitano, Filocalo Caputo, a proposito dell'icona della Bruna riferisce la testimonianza di S. Epifanie circa il volto di Maria e afferma: "La Vergine non era di alta statura, benché alcuni dicano che sorpassasse il limite della media...Il colorito leggermente dorato dal sole della patria sua, rifletteva il colore del frumento. Biondi i capelli, vivaci gli occhi, un po' olivastra la pupilla. Le sopracciglia arquate e nere: il naso un poco allungato; le labbra rosse e colme di soavità nel parlare, il viso ne tondeggiante ne aguzzo, ma leggermente ovale, le mani e le ditta affusolate." 7 II Manuale di iconografa dell'ottocento, di Dionisio da Fuma, monaco
del Monte Athos, indica il modo di dipingere l'icona della Madre di Dio e ci trasmette della sua figura questi dettagli che ben si possono contemplare nell'immagine della Bruna. Maria, si dice, aveva la carnagione "del colore del grano, con cappelli biondi e occhi chiari e belli, sopracciglia allungate, naso medio, mano lunga con dita affilate..."8 Maria appare anche nella sua bellezza tipica intcriore ed esteriore. È stato detto a proposito di Maria da parte del grande Patriarca Atenagora I: "La Madre di Dio è ad un tempo sapienza e bellezza. In lei si raduna tutta la bellezza della creazione per partecipare alla bellezza divina."9


5. UNA LETTURA TEOLOGICO-SPIRITUALE

Ogni immagine porta il suo significato nel suo nome iscritto nella tavola iconica. Il nome è la persona, la realtà. Si intravede nell'icona della Bruna il nome della Madre e del Figlio con le classiche iniziali in lingua greca: Meter Theou, lesous Christos, Madre di Dio, Gesù Cristo.
Il nome più essenziale è Maria, personaggio unico ed irrepetibile; il titolo che racchiude tutto il mistero e tutta la missione di Maria è quello di Theotokos , Madre di Dio. L'icona della Bruna è l'icona della divina maternità di Maria. Questa icona rende viva la storia stessa di Maria, traduce in colori la Parola evangelica. Quella che si riferisce in genere al titolo di Madre di Gesù. Titolo dato dall'Angelo, da Elisabetta, da Gesù, dagli apostoli, dalla Chiesa... Ci rivela l'esperienza concreta della sua maternità, il suo portare il Figlio piccolo sulle sua braccia, allattarlo, presentarlo ai pastori, a Simeone, ai Magi. Il cammino di Egitto con il piccolo raccolto nelle sua braccia. Il suo sguardo traduce le parole di Luca, dopo la nascita di Gesù e i primi episodi dell'infanzia: "Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore..." ( Le 2,19), mentre osservava la misteriosa crescita del suo Figlio: "II bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui" (Le 2,39) a un certo punto Maria non porterà più Gesù sulle sua braccia, finché alla fine della vita, deposto dalla croce lo accoglierà di nuovo. Desolata, sulle sue ginocchia. Forse anche nell'icona della Bruna Maria, come nell'icona della Madre di Dio di Vladimir e in quella della Passione o del Perpetuo Soccorso, guarda lontano a questo misterioso traguardo che la rende pensosa ed insieme disposta a compiere fino in fondo la sua missione. Il centro dell'icona, e quindi il centro stesso della Vergine Madre, è costituito dalla figura di Gesù, l'Emanuele, il Dio con noi, secondo la profezia di Isaia. Maria è insieme Madre di Dio e Portatrice di Dio. La Madre sostiene il Figlio in un abbraccio, con le due mani: Maria è la Theophora e l'Odighitria , portatrice di Dio, Colei che indica la strada. La divina maternità di Maria esprime non tanto e non solo il privilegio mariano eccelso di una donna diventata Madre di Dio, ma di una donna che proclama che il suo Figlio è il Figlio di Dio. La storia della salvezza è un mistero, un sacramento, un progetto di Dio che si svela e si realizza nel tempo e che ha come centro il mistero di Cristo. Il Padre lo ha svelato con una logica sapiente. Lo ha realizzato, in mezzo alle contraddizioni della storia degli uomini, riportando continuamente le cose al suo disegno originale. Cristo è la chiave di volta di questo disegno di salvezza ed è la segreta sorgente di luce che illumina il mistero di Maria dalla Genesi all'Apocalisse. Senza questa sorgente nascosta, non si possono scoprire tante armonie e tante anticipazioni di Maria nelle vicissitudini dell'Antico Testamento. Senza una visione grandiosa delle "meraviglie di Dio" con il suo Popolo, saremmo anche noi tentati di ridurre Maria ad una piccola, povera e sconosciuta donna del popolo che ha dato i natali al Messia. La grandezza di Maria invece non fa altro che riflettere la grandezza del Dio della creazione, del Dio dell'esodo pasquale e della nuova Alleanza. Perché non dovrebbe essere grande Dio nei suoi doni verso Maria se è stato grande nelle meraviglie operate nel suo popolo? Allora anche la visione di fede che progetta su Maria la pienezza della grazia, la verginità e la maternità, hanno la loro logica divina; sono le grandi cose che il Dio della storia della salvezza ha operato in lei, in vista del momento culminante, atteso e preparato che è l'incarnazione del Verbo. Maria ritrova la sua chiave di comprensione nel mistero del Figlio, Salvatore e Redentore. Egli è la vera luce che illumina il suo mistero, colui che svela Maria all'umanità ed anche a se stessa. Troviamo quindi una assoluta inclusione di Maria nel mistero di Cristo e pertanto una assoluta relatività di Maria al servizio di questo mistero. Ma non dobbiamo dimenticare che è Dio stesso che ha voluto il necessario passaggio del Verbo per il grembo di Maria. Non ha affiancato Maria a Cristo, ma ha voluto Cristo nato dalla Vergine Maria. In un certo senso è lei, la Madre del Verbo Incarnato, che ha svelato a noi il mistero del Figlio eterno del Padre. Con la sua maternità lo ha reso immagine di Dio nella nostra umanità, parola, volto, amore. Non è esagerato affermare che Maria ha "umanizzato" Dio. Lo ha reso, per volontà stessa dell'Altissimo, uomo con tutte le conseguenze. Maria ci ricorda così che la salvezza di Dio è salvezza nella carne, salvezza incarnata. Maria non è una semplice Madre nell'ordine fisico ed ontologico della maternità; è Madre a partire dal suo libero consenso; la sua maternità che è insieme fìsica, psicologica, spirituale, diventa principio di comunione e di destino con la persona e l'opera del Figlio in un cammino progressivo di donazione. Qual è allora il senso dell'icona della Theotókos con il Figlio suo fra le braccia? Maria proclama la fede della Chiesa nella vera umanità di Cristo e nella sua divinità. Ci rassicura della verità dell'incarnazione che è fondamentale nel modo di percepire la salvezza. Dio si è fatto uomo perché l'uomo diventi Dio. Egli non ci ha salvato soltanto attraverso i messaggi di una dottrina altissima, ma mescolandosi con la nostra natura, assumendo nel Figlio quello che è nostro per salvarlo. L'incarnazione, nella quale Maria ha avuto un ruolo specificamente materno, è la vera comunione di Dio con l'uomo; è la chiamata dell'uomo a condividere la comunione con Dio. La particolare accentuazione del mistero di Maria come Vergine della tenerezza, dell'amore tenero e materno, offre ai nostri occhi anche un'immagine della tenerezza materna del nostro Dio che si rivela nel volto materno della Madre. Si tratta di una tenerezza misericordiosa, di una compartecipazione alla vicenda del suo Figlio. Ma nella maternità di Maria che ci mostra Cristo, l'unico Salvatore, possiamo anche scorgere l'immagine del Primogenito che rimanda a tutti i suoi fratelli. Ieri Cristo, oggi la Chiesa, ieri il Figlio di Dio, ora noi, i figli di Dio. Per questo l'icona della Bruna è insieme un'immagine della tenerezza della Madre di Dio verso il suo Figlio e verso i suoi figli. È icona della Madre di Cristo, icona della Madre dei fedeli. Nel suo sguardo misterioso  si proietta la sua tenerezza verso tutti. E nei suoi occhi pieni di soave dolcezza i fedeli scoprono la Madre tenera e misericordiosa di tutti.

UNA PREGHIERA DAVANTI ALL'ICONA
Davanti all'icona della Bruna ci piace sostare in preghiera e ridire alla Vergine del Carmelo, guardando la sua icona materna, le parole di un Carmelitano della Spagna, Jaime Montanés : "Oh Vergine Santissima, Madre del Creatore e Salvatore del mondo, avvocata dei peccatori! E giusto che, dopo aver reso grazie a Gesù Cristo tuo Figlio e mio Redentore, per essersi dato con amore per me peccatore, e per avermi comunicato il suo santissimo copro, io dia grazia anche a tè, celeste Regina, perché da tè prese l'umanità questo Verbo divino, tuo Figlio e mio Dio e Creatore. Con umiltà supplico la tua clemenza, perché sei Regina del cielo e madre della misericordia e di questo misericordioso Signore e - poiché dalla pienezza della tua grazia i prigionieri ricevono redenzione, gli afflitti consolazione, i peccatori perdono dei loro peccati, i giusti grazia e gloria, gli infermi salute e gli angeli una grande gloria - ti supplico di comunicarmi la tua benevolenza, o Signora e Madre della stessa grazia e misericordia. Tu o Signora sei la scala del cielo, la stella del mare, la porta del paradiso, la sposa del Padre eterno, la madre del Figlio e il tabernacolo dello Spirito Santo, sigillata dal Padre con la sua potenza, dal Figlio con la sua saggezza e dallo Spirito Santo con la sua bontà ".10

P. JESÙS CASTELLANO CERVERA OCD.
NAPOLI, 29 OTTOBRE 2000
ANNO GìUBÌLARE XI

Note :
7 NICEFORO CALLISTO, Storia della Chiesa, libro II, cap. 23: PG 145, 815-816;
Cfr. G. MONACO, O.C., p. li'-29, con la descrizione del volto di Maria.
8 Ermeneutica della pittura. Napoli 1971, p. 305.
9 O. CLÉMENT, Dialoghi con Atenagora, Torino, Gribaudi, 1972, p. 306.
10 Citato da E. BOAGA, Con Maria nelle vie di Dio. Antologia della marianità carmelitana. Roma, Edizioni Carmelitane, 2000, p. 100.




Fonte:  www.santuariocarminemaggiore.it    




lunedì 26 agosto 2024

LA CROCE DEL SIGNORE E I SUOI SIGNIFICATI TEOLOGICI, di P. Felice Artuso



LA CROCE DEL SIGNORE E I SUOI SIGNIFICATI TEOLOGICI
di P. Felice Artuso 
        


                   
Il segno grafico della croce è antico e universale. Le civiltà primitive lo usavano per ornare gli oggetti. Adoperavano particolarmente a questo segno, per simboleggiare la fecondità, la vita, la metafisica, la magia, l’infinito e la congiunzione degli elementi contrapposti come la forza centrifuga e centripeta, lo spirito e la materia, il cielo e la terra, la verticalità e l’orizzontalità, l’alba e il tramonto, la luce e le tenebre, il bene e il male, l’amore e l’odio, il razionale e l’irrazionale, l’ordine e il disordine.
La raffigurazione della croce assume un senso di sconfitta, di condanna, di sofferenza e di morte, quando i politici introducono la crocifissione per punire i grandi delinquenti e i ribelli al loro potere. Gesù Cristo si lascia inchiodare ad una croce. Termina il suo cammino di pura obbedienza a Dio Padre per attuare il suo progetto salvifico. Con la sua risurrezione trasforma il segno della croce da strumento d’infamia, di dolore, di annullamento e di maledizione (Dt 21,23; Eb 12,2) a vessillo di vittoria, di trionfo e di gloria perenne. Gli apostoli adempiono la propria missione, concentrando il loro annuncio su questo meraviglioso evento. Attestano che Gesù, passando dalla sofferenza terrena alla gloria del cielo, distrugge gli effetti degradanti del peccato e offre a tutti la grazia necessaria per giungere alla definitiva meta della beatitudine divina. Esortano pertanto i loro uditori a credere in Gesù, crocifisso e vivente. Chiedono a tutti cristiani di confidare in lui e di sollevare gli afflitti dalle loro sofferenze. Evochiamo i maggiori significati teologici della croce del Signore.


La croce è segno d’amore

Durante la vita pubblica Gesù vive rivolto verso Gerusalemme, meta finale della sua attività. Conclude il suo libero percorso nell’obbrobrio della crocifissione e nell’umiliazione della morte. Nell’estrema sofferenza rivela in modo tangibile che Dio è comunione d’amore delle tre persone e gratuità infinita. Manifesta che Dio Trinità raggiunge l‘uomo che si è ribellato a lui. Non lo castiga, né lo priva di qualcosa. Lo distoglie bensì da ogni forma di idolatria, lo libera dal peccato, lo congiunge alla sua stessa vita e lo prepara al dono della gioia eterna. Per ottenere una piena adesione di fede agli interventi salvifici della Santissima Trinità, l’evangelista Giovanni scrive: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16); «Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi» (1 Gv 3,16). L’apostolo Paolo si esprime lo stesso pensiero di Giovanni. Comunica, infatti, ai suoi lettori: «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché mentre eravamo peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8); Cristo «mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20); egli «vi ha amato ed ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5,2); «ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei» (Ef 5,25). Avendo riflettuto su queste parole bibliche, Giovanni Paolo II trae la seguente riflessione: Gesù crocifisso rappresenta il «più profondo chinarsi della Divinità su ciò che l’uomo, soprattutto nei momenti difficili e dolorosi, chiama il suo infelice destino» . La Conferenza Episcopale Italiana aggiunge che Gesù è «la rivelazione inaudita della misericordia e tenerissima solidarietà di Dio nei confronti dell’uomo» . Gesù crocifisso, il più grande dono di Dio all’umanità, interpella adesso ogni persona e la sollecita a vivere decisamente nell’amore.
 
 

La croce è segno di vittoria sul male

Agonizzante sulla croce, Gesù dà l’impressione di perdere la battaglia contro la potenza del maligno (Gv 12,31-32). In realtà adempie la promessa divina a Satana, proferita dopo la prima defezione umana: «Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa (discendenza o individuo) ti schiaccerà il calcagno» (Gn 3,15). Con la risurrezione Gesù trionfa sul potere della morte. Si mostra il vincitore d’ogni male. Garantisce che l’amore è più forte dell’odio. Trasforma la sua croce da strumento da morte a trofeo vittorioso su tutto quello che si oppone alla sua santità. Glorioso presso il Padre rovescia i potenti dai troni ed innalza gli umili (Lc 1,52). Conferisce stabilità al suo Regno divino e universale. Alla fine dei tempi «comparirà nel cielo» con la croce, vessillo glorioso e risposta luminosa dell’amore di Dio. Paleserà agli umani la sua misericordia, giustizia e santità. Allora quelli che lo hanno offeso nei suoi fratelli «si batteranno il petto» (Mt 24,30).
I cristiani dei primi secoli, provenienti da ogni estrazione sociale e culturale, riconoscono che la croce è il loro trofeo. Volendo distinguersi dai pagani, la pongono negli oggetti personali. Rafforzati dalla presenza della croce, sentono l’esigenza di mettere un nuovo ordine nella propria vita, di opporsi ai sistemi oppressivi e di partecipare attivamente alle sofferenze redentrici di Gesù Cristo (Ef 6,12). Durante le persecuzioni gioiscono fregiarsi della croce, imitare Gesù che ascende sul Calvario e si lascia crocifiggere. Costantino I dispone che la croce, sormontata da una corona trionfale, sia posta sugli stendardi, sulle monete e sui sarcofaghi, perché essa brilli come segno di vittoria su ogni potenza nemica. Nel IV secolo Rufino nella spiegazione del credo afferma che la croce è un emblema di trionfo, perché «Cristo col suo avvento ha sottomesso a sé i tre regni» (il regno celeste, terrestre e infernale) . Nel VI secolo Venanzio Fortunato compone l’inno liturgico “Vexilla regis prodeunt, fulget crucis mysterium” (procedono i vessilli del re, splende il mistero della croce). Nello sviluppo dell’inno ricorda quindi che Gesù è stato ingiuriato ed esalta la sua trionfale vittoria sul male.
 
 
 
La croce è albero di vita e vela diretta al porto celeste

Secondo il racconto della Genesi Adamo ed Eva vivono felici nel Paradiso terrestre. Ingannati dal demonio, mangiano il frutto della pianta proibita, sperando di pervenire alla piena autonomia da Dio. La loro speranza svanisce presto, perché sperimentano subito i penosi effetti della loro ribellione. Infatti, avvertono di aver perduto la bellezza dei loro piacevoli rapporti con Dio, con le sue creature e con se stessi. (Gn 3,17-19). I Padri Apostolici e i Padri della Chiesa nei loro commenti al libro della Bibbia collegano sovente l’albero dell’Eden alla croce di Gesù. Notano che il primo albero procura all’umanità disarmonia, afflizione e morte, mentre il legno della croce dona evita, salute e gioia perenne. Raccomandano ai cristiani di avvicinarsi a questo nuovo albero, di cogliere i suoi salutari frutti e di nutrirsene. Vinceranno allora le forti suggestioni maligne, incrementeranno la comunione con Dio e si prepareranno alla visione beatificante del cielo (Ap 2,4.7; 22,2).
Se ci adegueremo all’insegnamento dei primi maestri della nostra fede, guariremo dai nostri guasti interiori, distingueremo la verità dalla menzogna, rafforzeremo la nostra unione con Dio, diventeremo grandi nell’amore, saremo sempre rigogliosi «come l’albero pianto lungo corsi d’acqua» (Sal 1,3) e produrremo molti frutti squisiti.
Alcuni artisti medievali mostrano l’effetto salvifico della croce, raffigurando un albero zeppo di fronde, di foglie, di fiori e di frutti, piantato al centro della splendida Gerusalemme celeste e circondato da animali simbolici. Decorano solitamente l’albero della croce, inserendovi dei tondi dipinti, che ricordano in modo sintetico la storia della nostra salvezza. Altri al posto dell’albero raffigurano la vite, intrecciata alla croce di Gesù Cristo. In qualche rara opera abbinano l’albero rigoglioso dell’Eden e l’albero della croce. Qualche poeta a sua volta compone inni, antifone e preghiere, evocando l’evento drammatico della crocifissione. Citiamo la suggestiva invocazione di Giosuè Carducci: “Le braccia di pietà che al mondo apristi, sacro Signor, da l’albero fatale, piegale a noi che, peccatori e tristi, teco aspiriamo al secolo immortale”.
La letteratura ellenistica e latina ricorda spesso i pericoli, sperimentati dai marinai, che con le loro navi a vela percorrevano le rotte del Mediterraneo. Al sopraggiungere di una poderosa tempesta si aggrappavano all’albero maestro della loro nave. Evitavano in questo modo il naufragio e arrivano al porto desiderato. I Padri della Chiesa e i teologi medievali ne traggono la seguente applicazione. I cristiani nel loro pellegrinaggio verso la gloria eterna sono minacciati da tanti pericoli spirituali e da numerose potenze avverse. Se si stringono con fede al solido legno della croce e se si affidano alla potente protezione del Signore, superano ogni ostacolo, procedono sicuri e giungono alla meta finale della loro vita. A questo proposito sant’Agostino asserisce: «Nessuno può attraversare il mare di questo secolo, se non è portato dalla croce di Cristo. Anche se uno ha gli occhi malati, può attaccarsi al legno della croce. E chi non riesce a vedere da lontano la meta del suo cammino, non abbandoni la croce, e la croce lo porterà» .
 
 

La croce è talamo nuziale e trono regale

Il talamo è il luogo, dove coniugi riposano, dialogano e condividono il loro amore. Dio sceglie l’arca dell’alleanza come primo talamo, in cui dà ad Israele un segno della sua presenza e del suo amore. Il Figlio unigenito, che vive da sempre nel seno del Padre, quando si incarna, entra nel talamo immacolato di Maria vergine, si fa nostro fratello e nostro compagno di viaggio. Nel periodo della vita pubblica si presenza come sposo che rallegra i suoi discepoli e attua le profezie del vecchio Testamento (Mc 2,19-20). Giunta l’ora del supremo sacrifico, sale sul Calvario in obbedienza al Padre, si distende sul ruvido talamo della croce, si lascia inchiodare ed elevare da terra. Con le braccia aperte unisce simbolicamente a sé tutti gli uomini e offre a loro una concreta immagine visibile del suo amore nuziale. Durante il sonno della morte riposa sia sul legno della croce sia sulla pietra tombale. Con la risurrezione ascende trionfante al Padre, da cui comunica all’umanità il suo alito vitale e la invita a riposare in lui, per trovarvi dolcezza, vigore e pace (Ct 1,2).
I mistici cristiani ammirano l’icona di Cristo sposo, appeso allo scomodo talamo della croce. Anelano vincolarsi alle sue sofferenze, ascendere interiormente e celebrare le nozze mistiche. Consigliano talvolta le persone d’alta statura spirituale di unirsi a Gesù crocifisso e di dimorare sempre nel suo ardente amore. Ad esempio san Paolo della Croce, celebre contemplativo della passione del Signore, scrive ad Agnese Grazi: «Ora siete in agonia sul letto ricchissimo della croce; che vi resta dunque da fare se non spirare l’anima nel seno del Padre celeste… Morta che sarete di tal mistica morte, vivrete di una nuova vita…» .
I potenti di questo mondo bramano ascendere ad un trono, governare i loro sudditi, aumentare il prestigio personale e ricevere tanti onori . Gesù nasce da Maria vergine, eredita il trono di Davide ed esercita la sovranità, condividendo le gioie e le sofferenze dei suoi fratelli. Elevato sullo scomodo trono della croce in mezzo ad altri due condannati, prende l’ufficiale investitura degli schiavi ribelli, conosce lo sfascio fisico e comincia a regnare spiritualmente sull’intera creazione. Non condanna i suoi uccisori, ma li scusa e perdona. Preparandosi al momento dlla morte, attende l’innalzamento celeste, dove potrà comunicare con più efficacia la sua grazia ed irraggiare con più intensità la gloria divina (Gv 12,32;19,19; Eb 1,3). Nel giorno della risurrezione il Padre lo accoglie, lo onora e lo costituisce salvatore universale . Ora egli con il fuoco del suo amore attrae gli uomini che credono in lui e li invita a salire ogni giorno sul disagevole trono della croce. Quelli che accettano il suo invito, si lasciano crocifiggere dai violenti, lottano senza interruzione contro le forze del male, si mantengono interiormente liberi e attendono il dono della gloria eterna.
 
 
 
La croce è altare e cattedra

I primitivi supponevano che gli dèi abitassero sulle alture. Sceglievano quindi un rialzo naturale, per avvicinarsi alle divinità e affidarsi alla loro protezione. Le società più evolute trasformano l’altura in una piattaforma di terra, di pietre, di mattoni e di cemento. Ornano la piattaforma di marmi, di metalli e di stoffe preziose, per renderla più adatta alle celebrazioni cultuali e ai desideri dei devoti. Gli ebrei pensano e agiscono come gli altri popoli. Immaginano che Dio è presente nei luoghi elevati, dove accoglie le offerte, destinate a lui (Gn 12,7; 26,24-25). Durante l’esodo con il legno d’acacia fabbricano due altari quadrangolari e mobili. Su un altare offrono a Dio gli olocausti e i sacrifici di comunione. Sull’altro bruciano i profumi (Es 27,1-8; 30,1-10). Stabilitisi nella terra promessa, costruiscono il tempio di Gerusalemme. Dentro al sacro recinto elevano due altari di pietra, nei cui lati pongono quattro corni, simbolo della forza invincibile di Dio . Sopra gli altari sistemano un braciere, per incenerire le loro offerte (Lv 4,7; 6,5-6; Ez 43,15.20). I pellegrini vi sostano di fronte o girano attorno, cantando i salmi .
Il corpo di Gesù è l’altare della vera immolazione e la sorgente di grazia per tutti (Ebr 13,10). Senza indossare un abito sacerdotale, ascende sulla croce, completa la sua immolazione terrena ed offre al Padre il profumo della perfetta lode (Eb 7,26-27). Risorgendo dai morti, si asside presso Dio e riceve dall’assemblea celeste adorazione, lode e onore (Ap 8,3-5). Nelle nostre celebrazioni eucaristiche s’immola sacramentalmente sulle nostre mense (1 Cor 10,21), ci unisce alla sua offerta sacrificale, ci costituisce altari spirituali, accende in noi il fuoco del divino amore e ci invia a scoprirlo presente in qualsiasi bisognoso. San Giovanni Crisostomo asserisce, infatti, in una delle sue omelie: «Ogni volta che vedi davanti a te un fratello povero, pensa che hai davanti a te un altare, e lungi dal disprezzarlo, veneralo e difendilo dagli insulti degli altri. Se agirai così ti propizierai i beni che (il Signore) ha promesso».
I docenti hanno una loro cattedra, riconosciuta dal ministero dell’istruzione. Gesù non ha alcuna cattedra. Essendo un maestro carismatico, educa il popolo ad ascoltare Dio e a pregarlo per avere la prontezza di percorrere le sue vie. Sulla croce trasforma lo strumento di morte in una sede, dove parla dell’amore di Dio e impartisce all’umanità una solenne lezione. Sant’Agostino, infatti, afferma: «Il legno della croce al quale erano state confitte le membra del morente, diventò la cattedra del maestro che insegna» . Seguendo l’intuizione di questo grande maestro della fede, molti commentatori del Vangelo insegnano che chi si mette ai piedi di Gesù crocifisso costata di essere amato da Dio, riconosce le proprie infedeltà, impara a servire i fratelli, migliora le qualità personali e ascende sui gradini della santità. Possiamo quindi apprezzare il pensiero che san Paolo della Croce comunica alla marchesa della Scala del Pozzo: «In questa santissima scuola s’impara la vera sapienza: qui è dove hanno imparato i santi» .
 
 

La croce è libro e chiave

Il creato in continua espansione ed evoluzione è un libro, che racchiude la potenza, la sovranità e la perfezione di Dio. Gesù risorto partecipa al potere universale di Dio. Conferisce un senso finale al creato e alla storia umana. Anticipa e porta a completezza definitiva tutto l’universo (Ef 1,9-10; Col 1,19-20). Secondo l’autore dell’Apocalisse nell’assemblea celeste egli prende da Dio un libro, che è scritto all’interno e all’esterno, inoltre è chiuso con sette sigilli (Ap 5,1-7). I presenti si affliggono, perché non sono capaci di rompere i sigilli, di aprire il libro, di leggerlo e di darvi una retta interpretazione. Solo Gesù, agnello immolato e vivo, è capace di aprire, leggere e spiegare il contenuto del libro. Quelli che ascoltano il suo commento capiscono il senso della loro storia, densa di eventi iniqui e distruttivi, cagionati dai diffusori della menzogna. Riconoscono che Gesù è il redentore definitivo, che realizza quanto è stato scritto nel libro e toglie ogni ostacolo alla visione di Dio (Ap c 6 e c 7). Contemplando lui, maestro di vita, vittima immacolata e glorioso per sempre, sant’Ignazio d’Antiochia confida: «Per me l’archivio è Gesù Cristo, i miei archivi inamovibili la sua croce, la sua morte e resurrezione e la fede che viene da lui» . Numerosi teologi e mistici medievali ripetono che la croce è un libro, sempre aperto, che sintetizza tutto l’annuncio biblico, evoca l’evento storico delle sofferenze di Gesù, comunica la vita di Dio, vincola a lui, spiega il senso delle nostre afflizioni, ci fa capire il prezzo della grazia divina, aiuta ad entrare in noi stessi e ci perfeziona interiormente.
La croce non è ovviamente un testo fiabesco o romanzesco, ma un libro che rimprovera le nostre infedeltà a Dio e facilita il superamento delle crisi personali. Non ha bisogno d’ampie spiegazioni o di grandi sforzi mentali, per comprendere il suo messaggio di liberazione e di speranza. Eruditi e analfabeti, giusti e peccatori, se dialogano davanti Gesù in croce, progrediscono nella conoscenza dell’amore di Dio e si propongono di migliore la propria condotta. I primi compagni di san Francesco d’Assisi, non possedendo ancora i breviari, pregano di fronte a un crocifisso. Meditano «di giorno e di notte il libro della croce, guardandolo continuamente, ammaestrati dall’esempio e dalla parola del loro padre» . Alcuni santi, schivi ai sottili ragionamenti, mettono il loro crocifisso in un luogo visibile. Lo guardano con frequenza e nel silenzio ricordano il legame che hanno con Gesù. Costatano che egli li stimola ad aborrire il peccato, ad uscire dalle loro contraddizioni, a distaccarsi dalle realtà illusorie, a vigilare sui propri difetti, ad accogliere la grazia divina, a vivere nella difficile arte dell’amore e ad abbandonarsi nell’infinita carità di Dio. Qualcuno arriva all’ingenua affermazione: mi basta leggere il libro della croce. Oggi non è sufficiente guardare un crocifisso, bisogna anche ricorrere alla lettura della Scrittura, perché essa ci istruisce sul mistero del male morale e ci ricorda quello che Dio ha fatto per redimerci.
Ogni chiave apre la porta d’accesso ad un locale o consente l’uso di uno strumento di lavoro. La croce di Gesù introduce nella comprensione dell’essenza e dell’agire di Dio sull’universo (Ap 3,7). Permette di intendere rettamente i racconti della Sacra Scrittura, di conoscere tutta la storia della salvezza, di interpretare il valore sulle realtà create, di comprendere la missione della Chiesa, di compiere un giusto discernimento sugli eventi della nostra della nostra vita, di elaborare una teologia profetica, di difendere la dignità di ogni persona, di apprezzare le conquiste spirituali e di guardare alle realtà ultraterrene.
Commentando la Sacra Scrittura, i Padri della Chiesa insegnano che il peccato originale ha chiuso le porte dell’Eden e ha impedito all’uomo di entrarvi (Gn 3,23-14). Uscendo da questo mondo ed entrando con il vessillo della croce nel Paradiso, Gesù sbarra ogni impedimento al Regno celeste (Sal 107,16), spalanca l’ingresso alla conoscenza della grazia divina, indica la via d’acceso a Dio, spiega gli atti eroici di tanti cristiani e introduce nella sala del banchetto nuziale (Mt 25,1-13). Dipendendo dalla loro teologia, san Giovanni della Croce scrive: «Per entrare nelle ricchezze della divina sapienza la porta è la croce che è angusta, ma è di pochi il desiderio d’entrare in essa, mentre è di molti bramare i diletti a cui si giunge per suo mezzo» . Il Signore dirà a tutti coloro che lo hanno seguito sulla via stretta e angusta del Golgota: «Conosco le tue opere. Ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere» (Ap 3,8).
 
 
 
La croce è segno di redenzione e d’appartenenza alla Chiesa

La croce evoca la potenza di Dio e la fragilità umana. Mostra la misericordia divina e la nostra crudeltà. Sintetizza i patimenti di Gesù e dei giusti. Collega la sconfitta mortale al dono di una nuova e migliore vita. Spiega in un certo modo il senso ultimo della nostra storia. Ci sollecita ad accogliere con entusiasmo il mistero della nostra redenzione.
Per non scordare il senso teologico, spirituale e redentivo di questo evento, la civiltà cristiana ha elaborato croci d’ogni forma e dimensione. Le ha decorate con una molteplicità di materiali pregiati: oro, argento e pietre preziose. Ha collocato le innumerevoli croci su luoghi visibili: altari, oggetti di culto, porte delle chiese, cuspidi dei campanili, cime dei monti, pareti pubbliche e private, viali residenziali, incroci stradali, stendardi di associazioni, bandiere nazionali, corone regali, sigilli personali, lapidi commemorative, immagini sacre, ex voto, stampe private, monete statali, bare funebri e tombe cimiteriali. Ha fondato confraternite che nelle processioni patronali sorreggono e fanno danzare i loro crocifissi di legno, intarsiati d’argento e ornati ai lati con metalli elaborati.
I vescovi e alcuni religiosi appendono sul petto una croce come segno d’identificazione, di giurisdizione, di consacrazione e di servizio. Parecchi fedeli laici portano sugli indumenti una croce quale segno di riconoscimento e di impegno battesimale. Episodio unico nella storia, i lituani, dissidenti alla dittatura comunista, hanno coperto una collina con fitte croci. Con questa iniziativa hanno affermato la loro identità religiosa e nazionale.
La croce più celebre è quella che Giovanni Paolo II ha affidato ai giovani di tutto il mondo nel Giubileo della Redenzione, celebrato nel 1984. Compiendo questo gesto, ha chiesto a loro di portarla ovunque e nella ricorrenza ventennale dell’assegnazione ha detto: «Continuate insieme a portare la Croce che vi affidai venti anni or sono» . Presa la croce del Pontefice, i giovani l’hanno trasferita nelle maggiori comunità cristiane dei continenti. Innalzata al centro delle grandi assemblee liturgiche, tutti hanno potuto guardarla e ricordarne il messaggio di speranza. Senza saperlo, hanno più o meno interiorizzato la preghiera di santa Veronica Giuliani: «O Dio! Se, con sentimento di cuore, noi penetrassimo un poco che cosa è croce, certo che di altro non si ragionerebbe, né altra industria si troverebbe che il vivere del tutto crocifisse» .
 
 

L’esposizione della croce nei luoghi pubblici

Gli uomini ricorrono generalmente ai simboli per qualificare la loro fede, la loro cultura e la loro appartenenza. Dispongono di luoghi dove raccogliersi in preghiera ed espletare i loro atti di culto. I cristiani scelgono il simbolo della croce, senza o con un crocifisso, per esprimere la propria conversione, identità, libertà, dignità e speranza. Deducono dalla croce gli universali valori dell’amore, della fedeltà, del perdono, dell’uguaglianza e del rispetto reciproco. Pongono la croce al centro della loro vita, della loro attività e della loro professione di fede. Collocano questo simbolo nei locali privati e nei luoghi pubblici, per favorire l’intesa, creare collaborazione senza minare il pluralismo, condannare la credenze delle minoranze, fomentare la divisione e soffocare la libertà altrui.
Molti contemporanei ritengono che la croce sia un simbolo scandaloso, sconcertante e turbante, perché Gesù domanda a tutte persone: «Mai voi, chi dite chi io sia?» (Mc 8,29). Credendo erroneo tributare alla croce un atto di venerazione, la tolgono dalle loro abitazioni e dagli oggetti personali oppure la riducono ad un elemento di ornamento, di sfoggio e di vanità. Arrivano anche alla pessima scelta di sostituirla con dei portafortuna come i segni zodiacali, il ferro di cavallo e il quadrifoglio. I gruppi satanici in crescita, si ornano di una croce rovesciata, celebrano messe nere, disprezzano i valori cristiani, propagano l’odio, aggrediscono qualsiasi, irrompono nelle chiese e vi distruggono gli oggetti di culto. Alcuni fondamentalisti islamici, contrari alla libertà personale, pretendono di espellere la croce dai nostri luoghi pubblici. In Francia hanno imposto perfino ad un contadino di toglierla dal suo campo di grano . Gli atei e gli agnostici più radicali smaniano la rimozione della croce, la cancellazione del cristianesimo, la riduzione della libertà religiosa e la promozione della secolarizzazione in tutta la società. Inscenano scaramucce contro la presenza di una croce. In Inghilterra la British Airwais ha minacciato di licenziare una hostess, se non toglieva la catenina con la croce. Un direttore di un ospedale inglese ha imposto ad una infermiera di deporre la collanina con il crocifisso, mentre compie le sue ore di lavoro in corsia . Non ci soffermiamo sulla complessa discussione giudiziaria, inerente ai crocifissi nelle scuole statali. La Chiesa sa benissimo che dove si ritira il simbolo della croce di Gesù Cristo, scompare maggiormente il senso della presenza di Dio e svanisce l’impegno di esternare un perfetto amore. Se rifiutiamo questo assioma, si stabilisce la crescita del disamore, della corruzione, dell’arrivismo, dello sfruttamento, della vendetta e dell’infelicità. Per impedire la totale rovina dell’umanità, con messaggi chiari e mirati la Chiesa raccomanda quindi che la croce e i simboli cristiani siano conservati e esibiti anche negli edifici pubblici.
 
 



 
 
 
 


Fonte : scritti e appunti di Padre Felice Artuso (religioso Passionista) , e-mail: feliceartuso@katamail.com  .












lunedì 19 agosto 2024

Riflessioni critiche sul tema "Dio è Amore e Amore è Arte" e breve excursus filosofico relativo alla concezione di Dio come Amore e come Creatore del mondo, di Elisa Sparano



Riflessioni critiche sul tema "Dio è Amore e Amore è Arte" e breve excursus filosofico relativo alla concezione di Dio come Amore e come Creatore del mondo.

Elisa Sparano
  



Parte Prima

RIFLESSIONI CRITICHE SUL TEMA " DIO E' AMORE, AMORE E' ARTE "

Che Dio sia Amore e che, da sublime artista, abbia realizzato la più grande opera d'arte, il più grande vero capolavoro, quale è l'universo con tutte le sue creature, è una certezza che possiamo cogliere nell'intimo della nostra coscienza e che può essere inverata con la nostra intelligenza (dal latino inter-lego) la quale è una parte della immensa Sapienza di Dio, che ha compiuto il grande Atto della Creazione.
Certamente, se riusciamo a guardare nel profondo della nostra anima, giungiamo a sentire quella voce interiore che ci indica il bene e il male, che ci apre la via alla Verità e la Verità è lo stesso Essere divino manifestatosi nel Verbo incarnato, è la Luce che viene data a chi la ricerchi dentro di sé e che, come dice S. Agostino, partendo da Dio, illumina direttamente l'anima e la guida.
Anche gli ignoranti, infatti, quando sono bene interrogati, rispondono correttamente, perché è presente in essi, nella misura in cui lo possono ricevere, il Lume della Ragione eterna.
Ricordiamo che, addirittura, gli Apostoli, nel Cenacolo, ricevono dallo Spirito Santo la facoltà di parlare in tutte le lingue per poter insegnare ai vari popoli la Parola di Dio. Noi abbiamo bisogno dell'amore di Dio e di essere guidati da Lui nel percorso della vita !
A volte sentiamo così forte la nostra fede che proviamo il desiderio di rifugiarci tra le Sue braccia misericordiose. Egli si è rivelato in Gesù Cristo, Logos e Verbo incarnato, che ci ha salvato attraverso lo Spirito Santo. Dio è Trinità nell'Unità. E' un solo Dio che opera come Padre, come Figlio e come Spirito Santo.
Dio Padre e Amore infinito, Mistero e Rivelazione: sono queste le parole nuove e complesse del Cristianesimo, che è ad un tempo Religione, Filosofia, capovolgimento di strutture sociali ingiuste, insegnamento a vivere una vita elevata nella ricerca di valori veri e profondi.
Egli ci ha voluto per un atto di libera donazione e ci ha creati dal nulla, a Sua immagine e somiglianza; da ciò si evince il grande amore che ha per noi.
Del resto la dignità dell'uomo consiste proprio nel fatto che ognuno, per un atto spontaneo di amore, è stato creato, progettato, amato da Dio e non è frutto della cieca casualità: ne dobbiamo essere orgogliosi !
Dio non ci ha abbandonati dopo la Creazione, ma ci è sempre vicino e ci segue col Suo amore.
Egli ci ama ! E' questo pensiero che dovrebbe colmare il vuoto spirituale di tante persone, i loro momenti di sconforto e di debolezza di fronte alle difficoltà della vita quotidiana.
Se avessimo sempre presente ciò, eviteremmo di fare il male perché penseremmo di svilire quella luce divina che è in noi.
Purtroppo, oggi, una larga fascia di giovani non riesce a cogliere Dio ed il senso della vita, per cui si sente sola. Ma la solitudine si traduce in disperazione e la disperazione porta agli atti peggiori.
Se, invece, tutti percepissero l'amore di Dio, se avessero fiducia in Lui e nel Suo amore, tutto sarebbe più bello e la società stessa potrebbe essere migliore.
Dio ci ama tanto che si è spinto fino alla sublimità del sacrificio inviando il Suo unico Figlio, il Verbo che si è fatto uomo per sollevarci dal peccato e che è a Sua volta Amore. Gesù ci ha insegnato a vivere amando i nostri fratelli , così come Egli ha fatto con noi. Ci ha consentito di comprendere che amare significa avere compassione (dal latino cum-patire) cioè partecipare alle emozioni, al pathos degli altri, considerare le loro esigenze e spogliarsi di ogni forma di egoismo, alla Sua stessa maniera: Egli, avendo compassione, guariva e compiva miracoli.
Cristo, essendosi fatto uomo come noi, compatendo le nostre debolezze e parlando di resurrezione della carne, anzi resuscitando Egli stesso dalla morte con animo e corpo, ha dato alla nostra corporeità un giusto valore.
Dio, infatti, ci ha creati come un insieme di anima e corpo che hanno entrambi importanza ai fini dell'unità psico-somatica e spirituale dell'uomo.
Anima e corpo non devono essere concepiti dualisticamente, come è avvenuto nella filosofia classica o come, nell'era moderna, nel pensiero di Cartesio, che portando alle estreme conseguenze il dualismo platonico, li ha considerati "due sostanze eterogenee anche se conviventi".
L'anima e il corpo formano l'essere umano nella sua interezza.
E' vero come dice Blaise Pascal, paragonando l'uomo ad una canna pensante, che la sua massima dignità risiede nel pensiero, il quale è infinito e può rivolgersi ai concetti più elevati (es. Dio), ma è pur vero che noi viviamo, amiamo, pensiamo e ci presentiamo al mondo attraverso il nostro corpo, attraverso questa fragile canna, che però non ci è ostile se noi sappiamo difenderla e guidarla nelle tortuosità della vita !
Dobbiamo, quindi, rispettare questo corpo donatoci da Dio e non usarlo per fini turpi o mortificarlo con azioni vergognose.
Nello stesso tempo non dobbiamo dargli eccessiva importanza, esaltando l'immagine esteriore del nostro io, come si sta facendo nella società odierna, in cui si sta dimenticando che essa è espressione dello spirito e non di pura e semplice materialità, tanto è vero che risorgerà, come è avvenuto per Gesù.
Questi, con la Resurrezione, ha trasfigurato la Sua corporeità, realizzando un processo di spiritualizzazione e di ricomposizione della materia stessa.
All'atto, inoltre,  della consacrazione eucaristica, durante la Santa Messa, la sostanza del pane e quella del vino si trasformano rispettivamente in quella del corpo e del sangue di Cristo, di cui noi ci cibiamo, pur rimanendo immutate le sostanze esterne (transustanziazione).
Gesù che nella Sua bellissima visione della vita ha detto allo schiavo : spezza le tue catene perché sei uguale agli altri uomini, che ha curato le nostre infermità fisiche e spirituali, che ha trasformato l'acqua in vino, non ha voluto che l'uomo disprezzasse la vita terrena e le gioie in essa contenute, perché doni del nostro Signore, ma ha indicato un cammino etico e sereno, fatto di giusta misura, di equilibrio, di amore, di perdono, di aiuto reciproco, di attivismo, di ottimismo e di speranza, in attesa di ricongiungersi a Lui.
Noi possiamo cogliere l'esistenza di Dio, la Sua Onnipotenza, la Sua trascendenza, oltre che attraverso l'interiorità coscienziale e la Luce divina, anche osservando il Creato, il Suo capolavoro: basta guardare la perfezione di tutta la natura (che procede secondo programmi prestabiliti), lo stupendo spettacolo del cielo che si confonde col mare, la bellezza dei fiori, il volo degli uccelli, ecc., per avvertire la mano del Grande Creatore. Questi, che esiste ab aeterno, ha creato ex nihilo il migliore dei mondi possibili, rivelandosi sia per la bellezza della Sua opera e sia perché non si è servito di alcuna materia preesistente, il più colossale Artista di tutti i tempi.
Come ogni vero artista Egli ama le Sue creature, cerca continuamente di perfezionarle, rimproverandole, correggendo i loro errori con l'autorevolezza dell'Autore, ma pur sempre con l'amore di un Padre.
In Dio, Perfezione assoluta, sono presenti tutti i Valori allo stato puro, come intuiamo con il nostro pensiero e con la nostra fede e come sostengono numerosi filosofi che intendono dimostrare l'esistenza di Dio e la Sua immensa Grandezza.
Essendo, quindi, infinitamente buono, Egli ha voluto dare all'uomo l'eccellenza in ogni cosa e concedergli di vivere, nel modo migliore, nel mondo meraviglioso da Lui realizzato.
Tutto l'universo è governato da una forza di coesione e di amore, presente sia negli esseri viventi che nel mondo fisico. E l'amore è armonia, l'armonia è Bellezza, è Ordine. Il male è disordine; se prevalesse il disordine il mondo cesserebbe di esistere.
Ogni forma di amore può considerarsi un'opera d'arte: l'amore del genitore per il figlio, l'amore di un uomo per la sua donna, l'amore di un santo per Dio. Anzi l'amore totale per Dio è una grande opera d'arte, in quanto, in essa, forma e contenuto coincidono e sono di pari misura.
Chi ama crea sempre qualcosa che si avvicina alla perfezione, che racchiude in sé bellezza, verità e bontà e non guasterebbe mai la sua opera d'arte, non farebbe mai qualcosa che potrebbe inficiarla e così anche Dio non potrebbe mai farci del male !
Ogni espressione d'arte (poesia, prosa, pittura, scultura, musica, etc.) trascende la mera oggettività delle cose e del mondo; coglie, mediante l'intuizione, valori che non ricadono soltanto nei confini del sensibile e dà entusiasmo all'uomo attraverso il Bello che coincide col Bene e col Vero, riflettendo, come dice Giovanni Paolo II "l'infinita bellezza di Dio e indirizzando a Lui la mente degli uomini, che vengono affascinati dal mondo dello spirito e quindi di Dio".
La stessa idea di perfezione che c'è in noi, esseri imperfetti, l'ansia di infinito, l'anelito al trascendente che si coglie soprattutto nell'arte, è un'impronta che ha lasciato in noi il nostro Creatore. Ogni uomo aspira al Bello, al Bene e al Vero e siccome questi valori esistono solo in Dio, egli inconsciamente desidera giungere a Dio che è perfetto e ci trascende per la Sua Perfezione.
L'arte è il tramite che ci solleva dal quotidiano banale per farci cogliere i bagliori dell'Assoluto. Tutti noi, nel nostro piccolo, creiamo ed assomigliamo un po' al Creatore. Ogni nostra azione si può considerare creazione anche se non ex nihilo, come quella di Dio.
Siamo stati dotati, infatti, a differenza delle specie inferiori, di una intelligenza creativa, senza la quale non avremmo operato nulla, non avremmo progredito.
L'uomo, anche non di cultura, viene particolarmente colpito da una grande opera d'arte, dimostrando l'innata percezione del Bello; nello stesso tempo ogni artista, nell'estrinsecare i sentimenti attraverso le sue opere, conferma l'esistenza di Dio, perché le qualità artistiche e l'amore per l'arte gli sono stati trasfusi dal suo Creatore, che contiene tutte le forme di perfezione.
Queste si sono concretizzate nell'operato di Gesù, di cui ogni azione è perfetta e diretta solo al nostro Bene.
Alla stessa maniera del Padre, infatti, anche Gesù amando crea, dona la vita e vive la Sua stessa esistenza come una perfetta opera d'arte !
Amore e Arte in un intreccio misterioso, miracoloso che trascende la nostra umana capacità di pensiero, ma che può essere colta con la nostra fede o con qualche atto di intuizione logica. Al centro di tutto ciò è Dio, Padre, Verbo incarnato, Logos e Spirito Santo, Maestro di amore, di vita, di verità, di creatività, fonte di speranza e di salvezza per ognuno di noi.



Parte Seconda

LA CONCEZIONE DI DIO COME AMORE E COME CREATORE DEL MONDO ATTRAVERSO LE PIU' IMPORTANTI TEORIE FILOSOFICHE DALL'EPOCA GRECA ALL'ETA' CONTEMPORANEA.

L'essere umano si è sempre posto il problema della divinità, o meglio di qualcosa che trascendesse le sue umane possibilità di azione e di pensiero. Ha sempre intuito che la sua vita non si limitava a quella terrena e che il suo destino era più alto, come se avesse innato in sé il senso del divino. Nello stesso tempo si è sempre "adattato" a questo universo per lui sconosciuto, con la sua intelligenza che gli ha consentito di sopravvivere, dimostrando così di avere ereditato almeno in parte l'amore, la forza e la capacità creativa di Dio.
Da quando, poi, è sorta la riflessione critica da parte dell'uomo, cioè da quando è sorta nelle colonie greche d'Oriente e d'Occidente la "Filosofia" (l'espressione massima della razionalità umana), il principale obiettivo di tutte le dissertazioni filosofiche è stato quello di dimostrare l'esistenza di un Dio creatore dell'Universo, colto o attraverso la propria interiorità coscienziale o attraverso l'osservazione della natura.
Se, infatti, si riesce a guardare nel profondo del nostro animo, se si ascolta la voce della coscienza che indica i comportamenti da seguire, si avverte la presenza di Dio.
Il nostro stesso slancio di fede verso il Creatore o la stessa forza d'amore di chi sacrifica la sua vita per il Signore, testimonia quanta ricchezza interiore, quanta capacità d'amore può essere contenuta nel cuore di un uomo per dono di Dio.
E' questa la "via dell'interiorità" che hanno seguito tanti uomini di fede ma anche molti filosofi sia dell'epoca pagana che di quelle successive al Cristianesimo sino ad oggi (da Socrate a Platone, a S. Agostino, a Cartesio, a Kant, a Sciacca, etc.).
D'altro canto anche teorie filosofiche partite da concezioni essenzialmente scientifico-naturalistiche, studiando l'ordine e la perfezione dell'universo, sono giunte all'esaltazione del Dio Creatore.
In proposito ricordiamo che vi sono numerosi filosofi tra cui il grande Aristotele, il cui pensiero, ritenuto punto di riferimento fino al '700 e anche dopo, è stato ripreso mirabilmente da Tommaso d'Aquino.
E' importantissimo secondo me che i più grandi filosofi (dall'epoca greca ad oggi) abbiano messo al primo posto nei loro studi la Creazione del mondo, perché significa che la ragione umana, nel tempo, ha sempre cercato Dio e ne ha sostenuto l'opera creatrice.
Ciò trova la sua ragion d'essere nel fatto che ogni uomo, in quanto razionale, partecipa alla ragione universale (il Logos che è Cristo stesso) e in tal modo è in grado di cogliere, anche se parzialmente la verità della fede.
I pensatori greci, infatti, spinti dallo loro esigenza logico-speculativa, hanno indicato nell'apparente variabilità dei fenomeni, una legge unificante, un principio primo (Archè) di tutte le cose, pervenendo ai concetti di Logos, di Mete Ordinatrice (Nous) di Sommo Bene, di Causa Prima, di Perfezione Assoluta, ecc.
Tali concetti erano così elevati e così vicini allo spirito del Cristianesimo che i maggiori esponenti della Filosofia Patristica e della Filosofia Scolastica, caratterizzanti l'epoca cristiana, nel voler trovare un punto di incontro fra la cultura pagana e quella cristiana, sono partiti dalle loro teorie ed hanno soltanto completato quella ricerca del Vero e di Dio che la filosofia greca aveva parzialmente raggiunto.
Certamente mancava in essi il bellissimo concetto di Amore, tipico della nostra Religione, che compare solo con il messaggio salvifico di Cristo e quindi dopo l'avvento del Cristianesimo.
Per entrare un po' più nel merito delle varie dottrine, iniziamo col cogliere nella filosofia di Platone la perenne inquietudine dell'anima umana che la spinge al possesso della verità e che Platone personifica nell'Eros, l'amore, che è il tramite verso i valori del Bene, del Bello, del Vero, etc.
L'Eros platonico, quando sarà trasformato dalla filosofia cristiana, diventerà l'agostiniano "irrequietum cor meum" che brama riposare in Dio !  L'anima dell'uomo, infatti, secondo Platone eterna e immortale, appartiene ad un mondo intelligibile dove si trovano, quali pure essenze ideali, universali, immutabili, eterne e perfette, le idee di tutte le cose e di tutti i valori al cui vertice sta il Sommo Bene o meglio l'idea di Essere-Bene.
L'anima per necessità cosmica (o per espiare una colpa) cade dal mondo intelligibile nel mondo sensibile, anzi nel corpo, in cui vive come in una prigione, con la continua ansia di liberarsene per ritornare nel luogo di origine, perfetto e trascendente.
Il mondo sensibile, nella concezione platonica, è opera di un Dio artefice, o Demiurgo, che trovandosi davanti una materia ribelle ed amorfa, esistente ab aeterno, deve plasmarla secondo i modelli eterni ed inimitabili quali sono le Idee.
Come ben si vede nonostante la sua profonda visione spiritualistica, manca in Platone il concetto di Creazione dal nulla e di Amore, essenziali nella Religione Cristiana. Anche per quanto riguarda il Dio di Aristotele, che può considerarsi la concezione più alta ed elaborata a cui sia pervenuta la teologia pagana, non si può parlare ancora di Amore e di Creazione dal nulla.
Dio è per Aristotele il Primo Motore e la Causa Prima a cui mettono capo necessariamente sia la catena dei movimenti che le serie causali dell'universo. Esso è motore immobile, eterno, trascendente e separato dalle cose sensibili, che subiscono passaggio dalla potenza all'atto per giungere a Lui che è Atto puro, attratte dalla sua Perfezione assoluta. Ma questo Dio, Pensiero di Pensiero, Causa sui, puro e impersonale Intelletto, è ancora lontano dal Dio Cristiano, che per noi cattolici, ha creato il mondo per un atto di Amore infinito per esso !
Solo dopo l'avvento del Cristianesimo, con i padri della Chiesa, come Giustino, Tertulliano, ecc. e specialmente Agostino di Tagaste, maggiore esponente della Patristica, compare il concetto di Dio come Amore e Creatore dal nulla, da cui tutte le cose dipendono.
Dice S. Agostino nel " De Trinitate " che Dio crea non nel tempo, ma col tempo, direttamente dal nulla la materia prima contenente in sé le " rationes primordiales ", ossia le essenze di tutte le cose allo stato germinale, che si svilupperanno nel corso delle generazioni. Egli ama le sue creature ed " il mondo così creato ha come fine la manifestazione della liberalità, della gloria della Trinità ".
Agostino è chiamato il Platone cristiano perché rinnova nello spirito del Cristianesimo quella ricerca del vero che era stato il punto fondamentale della speculazione platonica.
Egli, grande scrutatore della via dell'interiorità, intende il problema filosofico come problema di spiritualità e di esistenzialità, nonché come intima e profonda ricerca della verità; concetti dai quali derivano il fascino e la perenne attualità del suo pensiero. Agostino nel " De vera Religione " arriva alla conclusione della sua faticosa ricerca filosofica: la verità è Dio (lo stesso essere divino manifestatosi nel Verbo incarnato); Dio che si rivela all'uomo nell'interiorità della coscienza ("in interiore homine habitat verum") che illumina la sua ragione e le fornisce la norma di ogni giudizio e di ogni valutazione; Verità e Religione, Ragione e Fede, dunque, coincidono !
Dio è Trascendenza e Rivelazione, Essere e Verità, Padre e Logos e soprattutto Amore che si manifesta all'uomo che amorosamente lo cerca nella profondità del suo Io.
Anche San Tommaso d'Aquino, che rappresenta una tappa decisiva della Scolastica, parte dalla filosofia greca, compiendo una originale elaborazione dell'aristotelismo e costruisce una sintesi nuova tra il pensiero antico e la dottrina cristiana. Dotato di grande vigore speculativo, Tommaso nel riproporsi il problema del rapporto tra la verità naturale (di ragione) e la verità soprannaturale (di fede), si sforza di salvaguardare sia i diritti della ragione che quelli della fede, distinte ma non separate: tra esse non ci può essere conflitto perché entrambi derivano da Dio.
Da Dio, dunque, dipende anche l'esistenza del mondo.
Le creature hanno l'essere ma non sono l'essere (altrimenti si identificherebbero con Dio).
E' Dio in cui l'essenza coincide con l'esistenza, che, col suo atto creativo, dà loro l'esistenza, facendo che il possibile (essenza) diventi atto (esistenza).
Anche il rapporto tra il corpo e l'anima dell'uomo è visto come passaggio dalla potenza all'atto secondo il procedimento di Aristotele, il quale aveva avuto il merito di sostenere l'unità tra l'anima ed il corpo, considerando l'anima forma del corpo. San Tommaso, però, aggiunge a tale teoria una maggiore indipendenza dell'anima, al fine di garantirne l'immortalità.
Anche la dimostrazione dell'esistenza di Dio è di tipo aristotelico, però, il Dio di Tommaso non è come quello di Aristotele: è Creatore, Provvidenza, non puro Intelletto, ma volontà attiva e soprattutto Amore e Bontà per cui ha creato e, in un continuo processo creativo, conserva il creato che è stato prodotto dal nulla !
Dopo queste premesse Tommaso intende dimostrare l'esistenza di Dio e del mondo da Lui creato, razionalmente, partendo dallo stesso mondo sensibile. Il processo della conoscenza, infatti, inizia con la sensazione ("nihil est in intellectu quod non fuerit in sensu") per cui egli elabora cinque prove a posteriori dell'esistenza di Dio e dell'origine del mondo, le famose cinque vie che dal sensibile conducono a Dio. Questi è inteso come motore immobile (1° via), come causa efficiente incausata (2° via), come Essere necessario e perfettissimo (3° e 4° via), come Supremo ordinatore dell'universo a cui tendono tutte le cose finalisticamente (5° via).
Tali prove, desunte quasi tutte dalla Fisica e dalla Metafisica di Aristotele, si possono raggruppare in "argomento ontologico" (per cui la contingenza del mondo postula un essere necessario) e un "argomento teleologico" (per cui l'ordine ed il finalismo che si presentano nella natura richiedono un ordinatore ed una intelligenza).
Già prima di Tommaso d'Aquino un altro filosofo della Scolastica, Anselmo d'Aosta, aveva effettuato una dimostrazione razionale dell'esistenza di Dio e del mondo con una prova, però, a priori.
Anselmo, pur esaltando come punto di partenza la fede, senza la quale nulla si può intendere, ritiene che essa debba essere confermata e dimostrata dalla ragione, altrimenti "sarebbe pigrizia non farlo". Così giunge al celebre argomento ontologico, che, partendo dall'idea che noi abbiamo di Dio, arriva alla dimostrazione a priori dell'esistenza Sua e del mondo (Proslogion).
I principi filosofici che ho cercato di enunciare sinora, seguendo i concetti della Creazione del mondo e di Dio, sono, a mio avviso, i più significativi nell'ambito del tema che stiamo trattando. Essi, infatti, sono stati considerati da tutti i filosofi successivi, pietre miliari da cui partire per ogni dissertazione filosofica che li contestasse o li approvasse, anche parzialmente.
Non possiamo ad esempio non citare nell'era moderna R. Cartesio, in cui cogliamo spunti anselmiani e B. Pascal in cui si ritrova l'interiorità agostiniana. Essi, entrambi matematici e filosofi insigni, particolarmente rappresentativi del pensiero moderno, pur seguendo due posizioni diverse giungono ad una efficace affermazione dell'esistenza di Dio e della Sua opera creatrice.
Cartesio, iniziatore del razionalismo, erige il metodo matematico a metodo della conoscenza e siccome il principio della evidenza matematica è il pensiero, muove dal pensiero per giungere alla certezza ("Io posso ingannarmi su tutto ma non potrei ingannarmi se non esistessi" - "Se dubito penso" - "Cogito, ergo sum"). Egli pone, così, il cogito ad insegna del razionalismo moderno e (non riconoscendo altra autorità al di fuori della ragione) proprio dal cogito, principio dell'evidenza, Cartesio ricava tre prove a priori dell'esistenza di Dio e del mondo, riallacciandosi ad Anselmo d'Aosta e rinnovando per alcuni aspetti la tradizione agostiniana ("Posto che è in me l'idea di Dio eterno, onnisciente, onnipotente, creatore, non posso averla creata io, essere finito e imperfetto, né posso averla indotta dalle cose del mondo, anch'esse imperfette" - "Dunque l'idea di Dio è innata, come l'impronta che il Creatore ha impresso nella coscienza della creatura, ecc.").
E la Creazione da parte di Dio, secondo Cartesio, è continua, perché se Dio cercasse di creare, il mondo cesserebbe di esistere. B. Pascal, poi, lo scopritore del vuoto fisico, lo è anche del "vuoto umano", che "nessuno e niente potrà mai riempire tranne Dio".
L'uomo aspira a Dio ma non può arrivarci se la fede non lo soccorre. Dunque "coer et raison", cuore e ragione, filosofia e religione !
La posizione di Pascal nel pensiero moderno è molto significativa: nel secolo di Cartesio e Galilei, cioè nel tempo in cui nascono una nuova filosofia ed una nuova scienza, Pascal inaugura un metodo di filosofare inconfondibile, il metodo del "cuore", ponendo ad un tempo tutta la dignità dell'uomo nel pensiero; scrive, infatti, nel suo capolavoro filosofico "Pensèes": "l'uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna che pensa... Quand'anche l'universo lo schiacciasse... egli sa di dover morire".
Dalla coscienza di avere dei limiti, l'uomo manifesta i segni della sua nobiltà: miseria e grandezza, dunque! E così anche dalla consapevolezza del peccato l'uomo giunge alla redenzione mediante l'aiuto di Dio.
Come abbiamo visto Pascal giunge ad una singolare sintesi di ragione, fede, scienza e religione, razionalità e amore per Dio; Cartesio, invece, era giunto a Dio tramite l'esaltazione della ragione.
E. Kant, poi, massimo rappresentante dell'illuminismo tedesco, estendendo i poteri della ragione alla critica della stessa ragione, ne vede limitati i poteri entro l'ambito del fenomeno, ritenendo cioè che essa non può andare al di là dell'esperienza. In tal modo apre una nuova via verso Dio, facendo di Lui e della Creazione del mondo un postulato della Ragion pratica, un'esigenza della vita morale, per cui, nell'imperativo categorico della coscienza che si impone e rimorde, si riconosce la voce di Dio; "tu devi" è l'imperativo categorico che urla dentro di noi. La nostra azione è veramente etica quando implica il dominio delle nostre inclinazioni sensibili ("Dovere per il dovere" - "Agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere come legislazione universale" - "Agisci in modo da trattare l'umanità, così in te come negli altri, sempre come fine e mai come mezzo, ecc.").
La continuità creativa di Dio si ritrova in parte nella nozione di "progresso" che l'Illuminismo settecentesco aveva elaborato relativamente al mondo umano e che l'800 estende al mondo naturale.
Tale nozione ha dato luogo da un lato al concetto di sviluppo dialettico proprio dell'Idealismo romantico e dall'altro a quello di evoluzione utilizzato nel positivismo evoluzionistico di Herbert Spencer e che trova la massima espressione nel trasformismo biologico di Carlo Darwin ("Origine della specie").
Entrambi sono lontani dal nostro tema in quanto sostituendo all'istantaneo "fiat creatore" una derivazione razionale, necessaria, graduale, delle cose dal loro principio, negano nel medesimo istante il concetto stesso di Creazione.
Anzi, se l'idea di evoluzione può essere compatibile con quella di Creazione, in quanto Dio ha creato un mondo in evoluzione, la teoria evoluzionistica del positivismo no !
Essa, infatti, è solo una filosofia materialistica: non è neanche una scienza perché non dà valide spiegazioni, in quanto gli sforzi degli scienziati di ricostruire un comune denominatore in base agli alberi genealogici sono falliti.
Nel pensiero contemporaneo, poi, il concetto di Creazione ex nihilo non è stato abbandonato, anzi è stato esaltato ed è stata ripresa la visione di Dio come Amore.
Ce lo dimostrano varie correnti che si oppongono al positivismo, al materialismo ed allo scientismo imperanti !
Gli indirizzi neotomistici, infatti, del XIX secolo si propongono, contro le deviazioni del pensiero non guidato dalla fede, un ritorno alla metafisica e alla filosofia di S. Tommaso, per rivalutare la sua vitalità speculativa e la sua genialità teologica, attualmente valide.
Gli orientamenti spiritualistici del XX secolo si caratterizzano per un recupero dell'interiorità coscienziale agostiniana e della trascendenza dell'Essere divino, ai fini della rivendicazione della superiorità del pensiero che aspira al vero.
In tali ottiche, per concludere questa mia panoramica, vorrei ricordare il maggiore esponente del neo-tomismo contemporaneo, Jacques Maritain, nonché l'esponente a mio avviso più rappresentativo dello spiritualismo dei nostri giorni, M.F. Sciacca.
J. Maritain riallacciandosi alla filosofia di Tommaso d'Aquino e confrontandola con le problematiche culturali socio-religiose contemporanee, si fa promotore di un "umanesimo integrale" di cui parla nell'opera omonima.
L' "umanesimo integrale" secondo Maritain non si riferisce solo al piano individuale, ma all'individuo nel contesto sociale ed ha il compito di rispettare ogni uomo, il quale è correlato con Dio e dipende interamente da Lui, principio e fine di ogni cosa.
L'uomo deve mirare, oltre che alla conoscenza metafisica, alla saggezza teologica, attraverso la ricerca della causa dell'essere delle cose (nel loro essere). Tale saggezza Dio può dare all'uomo con la comunicazione della scienza che ha di se stesso, mediante la Rivelazione; dopo di che, l'uomo può arrivare alla saggezza mistica, che è conoscenza di Dio.
Maritain, così, spera di ricondurre la società profana ai valori cristiani.
Lo spiritualismo, poi, in cui abbiamo inquadrato M.F. Sciacca, viene da lui approfondito e inverato nella "Filosofia dell'integralità", che intende considerare l'uomo in una dimensione ontologica, che comprende tutte le forme dell'attività umana. Egli, inoltre, ripropone Dio come assoluta trascendenza che ha creato l'uomo ed il mondo per espressione della sua infinita liberalità e del suo immenso amore, che investono l'uomo e gli danno natura e destino divini, con mediatore Cristo.
L'amore umano a sua volta, che si perfeziona attraverso gli errori personali, culmina nell'Amore di Dio in una armonia di fede e ragione, di Mistero e Rivelazione.
Riallacciandosi, quindi, a Platone ed a S. Agostino, all'Eros e al Logos, Sciacca ritiene che la filosofia è ricerca della verità, ed è finalizzata a svelare il senso della vita, anche al di là della vita stessa. Il suo spiritualismo agostiniano lo porta a scrutare la propria interiorità e ad affidare alla filosofia il compito di "chiarire sé a se stesso", come sostiene nelle bellissime pagine di "Atto ed Essere".

Come abbiamo visto da questo mio breve excursus filosofico, l'uomo, anche il filosofo, ha sempre cercato Dio e ciò perché vi è in lui una scintilla divina che lo spinge sia pure inconsciamente ad avvicinarsi a Colui che l'ha creato.
Ciò sottolinea la grande importanza che ha Dio per l'essere umano, il quale, senza la fede in Lui, senza riconoscerLo come Creatore, Padre e Maestro, senza sentire il Suo Amore, cade nelle più grandi forme di disorientamento.
L'egoismo, il relativismo, la prevaricazione predominanti nella società odierna possono far perdere la capacità di distinguere il bene dal male, offuscano sapienza ed intelligenza e quindi l'uomo, trovandosi come dice S. Kierkegaard, di fronte a un "mare di possibilità" non sa più effettuare giuste scelte, rischiando di cadere in uno stato di angoscia esistenziale, causa di tanti e tanti altri errori.
E' necessario porre dei limiti alla corsa sfrenata dell'uomo, dei punti saldi, religiosi, a cui ancorare i principi etici, rispettare l'Ordine dato da Dio all'Universo, che non si può violare senza autodistruggersi.
Dobbiamo, quindi, farci sostenere da Dio e dalla fede in Lui per evitare che la ragione possa deviare; dobbiamo farci illuminare da quella Verità che cogliamo agostinianamente nell'intimo della nostra coscienza e nello stesso tempo dobbiamo ergere come baluardo, a difesa della fede, le capacità raziocinanti dateci da Dio, altrimenti "sarebbe pigrizia non farlo", come dice S. Anselmo.
A conforto di ciò, ricordo un'espressione del Papa Benedetto XVI il quale, nella sua Lectio Magistralis tenuta a Ratisbona, esordisce affermando: " E' necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione... Non seguire il Logos, non seguire la ragione è contrario alla natura di Dio ". Ovviamente la ragione deve essere sostenuta dalla fede !



CONCLUSIONI

Nella prima parte del mio lavoro ho cercato di mettere in risalto il grande amore per l'umanità da parte di Dio, il quale ha creato, progettato e voluto ognuno di noi per un atto spontaneo di donazione.
Proprio nel fatto che siamo stati creati intenzionalmente da Dio e non siamo frutto di una cieca causalità, consiste la nostra dignità; non dobbiamo, perciò, svilire il nostro corpo ed il nostro spirito con azioni turpi o vergognose !
Dio per nostro amore si è rivelato in Gesù Cristo, Logos e Verbo incarnato, sacrificandoLo per la nostra salvezza e ha inviato lo Spirito Santo per realizzare l'opera salvifica del Figlio.
Dio, quindi, Perfezione assoluta, per la Sua infinita Bontà, che coincide col Vero e col Bello, ha compiuto il grande Atto della Creazione ex nihilo che è il Suo Capolavoro, in cui prevalgono l'Amore e l'Ordine e che è la più grande opera d'arte di tutti i tempi.
In Dio, pertanto, Amore e Arte coincidono !

Nella seconda parte, poi, ho cercato di cogliere il concetto di Dio come Amore e come Creatore del mondo nelle più significative teorie filosofiche, dall'epoca greca all'età contemporanea, al fine di dimostrare che l'uomo, avendo in sé una scintilla divina, ha sempre cercato il suo Creatore e che molti pensatori hanno affidato alla filosofia il compito di chiarire il grande problema di Dio e della Creazione del mondo.
Alcuni di essi lo hanno spiegato attraverso le proprie idee e la propria coscienza, seguendo la via dell'interiorità (da Socrate a Platone, a S. Agostino, a Kant, a Cartesio, a Sciacca, ecc.), altri, partendo dall'osservazione della natura, dalla perfezione e dal teleologismo che c'è nell'universo (da Aristotele a S. Tommaso, a Maritain, ecc.).
Tutti sono stati, comunque, concordi nell'attribuire alla ragione (che è un altissimo dono di Dio) il compito di difendere e di spiegare le verità della fede e nello stesso tempo alla fede di illuminare la ragione, per evitare possibili deviazioni.

Elisa Sparano








Fonte  :   si ringrazia la professoressa Elisa Sparano che ha cortesemente inviato alla Redazione di ARTCUREL la sua relazione per il Convegno sul tema "Dio è Amore, Amore è Arte" del Raduno Internazionale Triennale SS. Trinità di Cava del 2008. 











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