mercoledì 25 dicembre 2024

Omelia nella S. Messa di Natale del Vescovo Giuliano Brugnotto: TUTTO CAMBIA CON L'AMORE VERO


Omelia nella S. Messa di Natale del Vescovo Giuliano Brugnotto

TUTTO CAMBIA CON L'AMORE VERO

Cattedrale di Vicenza, 25 dicembre 2024
Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

Natività, di Beato Angelico


Chi è questo bambino che è nato a Betlemme?

«E il Verbo divenne carne e pose la sua dimora in mezzo a noi». Chi è veramente questo bambino che è nato a Betlemme?
La semplicità e la povertà delle condizioni nelle quali ha visto la luce questo bambino non devono rattristarci. Una persona che nasce è sempre motivo di allegrezza, è un annuncio di speranza nella vita, è gioia che si diffonde a tutti coloro che stanno attorno al nuovo nato. E certamente i racconti evangelici della nascita di Gesù sono tutti avvolti da esultanza che addirittura raggiunge i cieli: gli angeli cantano Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama. Anche noi ci siamo uniti a questo canto poco fa. La nascita di un bambino ci coinvolge quasi naturalmente, e la nascita del Bambino di Betlemme ci provoca stupore e forse anche qualche domanda. Se non altro per il fatto che in molte parti del mondo oggi si parla di Lui, di quel bambino. Che a Lui molti artisti si sono ispirati per rappresentare nella loro epoca la Sua nascita. Che in questa notte Papa Francesco abbia aperto una porta in San Pietro chiamata “Porta Santa”, nella memoria della nascita di quel bambino.
Anche l’evangelista Giovanni si è chiesto proprio all’inizio del quarto Vangelo: chi è veramente quel Bambino?

A Sua immagine siamo stati creati

Quando si approfondiscono, anche per mezzo della ricerca scientifica, il microcosmo che tiene in vita un essere umano con le sue particelle organizzate in modo mirabile per tenere in vita il nostro organismo, tanto complesso ai nostri occhi eppure se fragile anche pieno di armonia che cosa suscita in noi?
Pure il macrocosmo ci interroga, con gli occhi puntati sull’universo, il cielo stellato, o anche semplicemente lo sguardo fisso sul movimento sempre nuovo del mare, cangiante nei suoi colori, in continuo movimento che a noi pare un movimento casuale che però casuale non è; lo ha ricordato l’artista Gianandrea Gazzola esponendo in Basilica Palladiana una singolare installazione “specchio di natura” trasferendo le onde sonore dell’aria all’acqua in una grande vasca quadrata che riflette poi su due tende, ricordando che non vi è nulla di casuale nei movimenti della natura.
Le leggi che si riflettono nell’universo ci fanno intuire la sapienza di un Creatore, la cui immagine ci lascia pieni di sbigottimento e quasi di timore. Possiamo forse colloquiare con Lui? Non resta un Dio Creatore troppo lontano da noi? Potrà mai “sentire” i nostri desideri, condividere i nostri sentimenti?
San Giovanni vuole inserirsi proprio in queste domande. E ci annuncia con l’inno che abbiamo udito dal Vangelo che nel complesso della grande realtà dell’universo e di noi stessi noi possiamo conoscere Colui ad immagine del quale siamo stati creati. Lo possiamo incontrare, conoscere, amare nel Bambino che è appena nato e che è stato posto in una mangiatoia.

Dio è buono!

Non c’è stato bisogno che noi scalassimo i cieli per raggiungerlo. Ci ha pensato Lui a prendere posto in mezzo a noi. Lui è la luce che illumina ogni uomo e le tenebre non sono state per nulla in grado di soffocarla quella luce. Quelle tenebre che giungono fino ai nostri giorni, quelle che oscurano città e paesi, distruggono ospedali e scuole, creano distruzione e morte. Quelle tenebre non riescono fino ad oggi a vincere la luce che il Bambino di Betlemme ha portato in mezzo agli uomini.
La bontà di Dio è apparsa in mezzo a noi. Ognuno di noi, deve sentire oggi quanto è amato da Dio, quanto Dio si è fatto vicino. Dio ci considera figli destinati ad una vita libera di amare senza riserve. Quando un bambino avverte che i suoi genitori gli vogliono bene, che lo amano, davvero progredisce nella fiducia e nella docilità affettuosa. Tutto cambia con l’amore vero. Tutto il nostro mondo cambia accogliendo l’Amore di Dio che è misericordia. Una misericordia che fa rinascere.
Papa Francesco ci invita ad aprire il cuore e la mente agli orizzonti della speranza in questo anno giubilare. Chi è abitato dall’amore vero, dall’amore che Dio ci fa sperimentare su di noi, non cede al richiamo dell’egoismo, della tristezza, della violenza per imporsi sugli altri.

Chi si sente amato, cambia se stesso e il mondo

Chi si sente amato da Dio e da quanti gli sono vicini, cambia se stesso, s’indirizza lungo il sentiero della carità, del dono di sé, della generosità, della solidarietà.
Ci incamminiamo nell’Anno Santo con questa consapevolezza piena di riconoscenza e di gioia: siamo amati da Dio, siamo frutto dell’Amore e perciò capaci a nostra volta di rinnovarci, di aprire vie nuove di cambiamento di noi stessi. La luce di Betlemme ridona speranza al mondo perché a Betlemme è Dio stesso che nel volto di un bambino, che non è neppure capace di parlare, porta pace nella terra a tutti gli uomini e le donne che hanno scoperto che la fonte dell’Amore vero è proprio Lui. Ce lo ha fatto conoscere nella persona di Gesù. Ora lo possiamo contemplare perché questo Dio, quello di cui ci parlano i Vangeli, ha preso casa per sempre in mezzo a noi.

Questo è il nostro Natale, un Natale dell’amore di Dio, un Natale che porta pace.

+ Giuliano vescovo


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martedì 24 dicembre 2024

“Quanti sperano nel Signore, camminano senza stancarsi” (Is 40,31), di mons. Giuseppe Alberti


“Quanti sperano nel Signore, camminano senza stancarsi” (Is 40,31)

messaggio di Natale di mons. Giuseppe Alberti




In questo Natale che apre l’Anno giubilare vorremmo camminare condividendo la fede dei Magi, pellegrini di gioia e di speranza.

I Magi si sono fidati della stella e sono arrivati a Gesù.

Credendo nel senso del loro cammino hanno provato “una gioia grandissima” (Mt 2,10).

Nonostante gli imprevisti e gli ostacoli del cammino, non hanno perso la speranza e sono giunti alla meta.

I Magi ci invitano ad affinare i passi della nostra fede: crederci di più a ciò che facciamo; credere alle persone, fidarci degli altri; soprattutto affidarci a Dio che ci guida con la sua luce. Il Natale di Gesù ci viene a dire che c’è un disegno d’amore per tutti e per ciascuno. Vale la pena cercarlo, senza stancarsi.

I Magi ci insegnano il segreto della speranza. La speranza appare come una bambina piccola e fragile – come diceva Charles Péguy – ma in realtà è il motore che ci fa camminare, fa stringere i denti, fa superare ogni cosa, affrontare ogni situazione, incontrare ogni persona; nei meandri delle nostre storie c’è una stella luminosa che guida i nostri passi e ci porta nella casa dell’Emmanuele del Dio-con-noi.

Il Dio Bambino è venuto ad abitare la nostra vita per colmare la nostra solitudine mortale, per arrenderci al suo amore e orientarci definitivamente verso il bene. Tutto ciò sarà fonte di una grandissima gioia.

L’Anno giubilare sarà un aiuto spalmato nel tempo, una occasione di grazia per rimanere in questa gioia, che si fa dono di pace, esperienza di misericordia, palestra di un bene che si moltiplica perché donato.

Ci piacerebbe avere la fede testarda dei Magi, l’indomabile speranza che li ha spinti e sostenuti nel loro lungo cammino, per lasciarci raggiungere dalla immensa gioia che ha inondato il loro cuore.

Questo è l’augurio che vi faccio in questo anno giubilare, che si apre a una rinnovata speranza:

camminate nel bene, senza stancarvi,

portate gioia,

vivete nella pace.

Che la stella di Gesù brilli sempre nell’orizzonte del vostro cuore.

Un santo Natale nel Signore che nasce, a voi, alle vostre famiglie, alle vostre comunità.

Auguri!


+ Giuseppe
Vescovo di Oppido Mamertina-Palmi




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Fonte: www.diocesioppidopalmi.it/2024/12/23/natale-2024-il-messaggio-del-vescovo-giuseppe-alberti/

domenica 22 dicembre 2024

Quel Bambino che spalanca le braccia e ci sorride, del Vescovo Gianni Sacchi


QUEL BAMBINO CHE SPALANCA LE BRACCIA E CI SORRIDE

Messaggio per Natale del Vescovo Gianni Sacchi


 


Carissimi diocesani,

siamo alle soglie della Solennità del Natale di Gesù e questa festa, come sapete, mette in moto una serie di esteriorità che hanno poco a che fare con l’essenza dell’evento.
E noi corriamo il rischio di essere così assorbiti dalle tante luci artificiali da perdere di vista la Luce vera che viene a porre la sua tenda in mezzo a noi.

Da quando ero bambino fino ad oggi, non ho mai fatto mancare nella mia casa il presepio o più presepi.

In questi giorni di Avvento, mi soffermo davanti ad esso e quella pagina evangelica di Luca, che ascolteremo nella notte di Natale, prende vita…

È significativo mettersi in contemplazione e guardare Gesù tra Maria e Giuseppe.

Quel bambino con le braccia spalancate che ci sorride.

In questo messaggio natalizio che vi scrivo, potrei cercare di fare una lettura della situazione sociale che stiamo vivendo con tutti i problemi e gli avvenimenti tragici, ma ho scelto la via della contemplazione e dello stupore, come l’espressione di una classica statuina che è quella del pastore “stupito”, che non porta altro a Gesù che i suoi occhi e il suo sguardo pieni di meraviglia per ciò che vede. È una delle presenze costanti del presepio. In Provenza è chiamato “le ravì”, cioè l’estasiato, l’incantato; mentre in Sicilia lo chiamano “lu spavintatu”, a sottolineare lo stupore di questo personaggio.

Mettiamoci in questo atteggiamento per cogliere lo straordinario avvenimento di salvezza di cui siamo protagonisti.
Perché se ci pensiamo un po’ il messaggio del Natale, l’incarnazione del verbo di Dio, è qualcosa di sconvolgente.

Quel bambino, che non parla, è la parola di Dio, la parola creatrice di tutto ciò che esiste.
Una parola che ha cercato gli uomini lungo le strade della storia per entrare in comunione con loro.

Quel bambino che è entrato nel nostro tempo fatto di secondi, minuti, ore, giorni… esiste da sempre, da tutta l’eternità.
Quel bambino, così fragile e indifeso, quel bambino che piange quando ha fame, è il Figlio di Dio, Unigenito del Padre, Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato e non creato della stessa sostanza del Padre.

Se sostiamo davanti al presepio della nostra casa o delle nostre parrocchie o a quello molto suggestivo della Cattedrale, mettiamoci in ascolto di questa Parola che desidera raggiungere i nostri cuori.

È davvero una Parola che crea ed è capace di trasformare la vita di chi la accoglie.
È la Parola che si fa carne per incontrare tutta l’umanità.

Quel bambino così debole e indifeso, bisognoso di tutto, è la vita stessa di Dio.
Quel bambino, nato in una stalla e deposto in una mangiatoia, povero tra i poveri, che sembra non possedere nulla, ci offre la ricchezza inestimabile dell’Eternità.

Chi lo accoglie diventa “figlio di Dio“.

E non è un automatismo: solo chi lo accoglie nella propria vita, ha in dono la vita che supera ogni desiderio.
Chi lo accoglie come compagno di viaggio e si lascia trasformare da lui per conformarsi sempre di più in lui.

La vita di quel bimbo è capace di trasfigurare la nostra vita e generare dentro di noi la fiducia, la confidenza, la comunione con Dio che ci apre ad orizzonti infiniti.
Quel bimbo è la luce degli uomini perché lui è la luce vera che brilla tra le tenebre. Lui è la luce immortale che sconfigge ogni tenebra di morte.
Quel bambino, che sembra soggetto agli avvenimenti della storia, che sembra obbedire ai disegni dei grandi e dei potenti è il Signore dei signori, colui che ci rivela la bontà e la bellezza di Dio.

Il sorriso di quel bimbo scavi nel profondo del nostro animo e ci faccia sentire l’eco di una dolcezza dimenticata.
Ci faccia comprendere che in lui siamo tutti fratelli e nei fratelli troviamo il suo volto, soprattutto in chi ha bisogno ed invoca tenerezza e affetto.

Quelle braccia spalancate ci facciano sentire sempre attesi e accolti nonostante il peso dei nostri peccati che spesso segnano il nostro cammino.

Cari fratelli e sorelle, nella messa in Cattedrale nella notte santa di Natale, non mancherà il mio ricordo per tutte le comunità parrocchiali, per tutti i miei sacerdoti e diaconi, le famiglie, i giovani, gli anziani e i bambini. Soprattutto il mio pensiero andrà a chi è nella solitudine, nella malattia, nel dolore, a chi cerca la luce e invoca pace e consolazione.
A tutti la mia preghiera per un Santo Natale e un 2025 capace di aprirci ad un’autentica riscoperta della Speranza cristiana.

+ Gianni Vescovo


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sabato 21 dicembre 2024

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II “Ecco, io vengo . . . per fare, o Dio, la tua volontà”


SANTA MESSA NELLA PARROCCHIA ROMANA DI SAN GREGORIO BARBARIGO 

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II 
“Ecco, io vengo . . . per fare, o Dio, la tua volontà”
Domenica, 22 dicembre 1985



1. “Il Signore è vicino!” (Fil 4, 5). Con queste parole ci saluta la Chiesa nella liturgia degli ultimi giorni prima del Natale. Questi sono i giorni in cui essa fissa particolarmente lo sguardo verso colui che deve venire nella notte di Betlemme. Testimonianza di un tale sguardo sono le così dette antifone maggiori dell’Avvento, che accompagnano ogni giorno nei vespri l’inno del “Magnificat”. Un’altra testimonianza è costituita pure dalla liturgia della domenica odierna. “Il Signore è vicino!”. Con queste parole saluto la parrocchia romana dedicata a San Gregorio Barbarigo, che mi è dato di visitare in questa domenica. Compio questo ministero pastorale come Vescovo di Roma, come indegno erede di quella missione apostolica, che a Roma hanno compiuto San Pietro e anche San Paolo. Proprio loro per primi hanno annunziato ai vostri antenati, duemila anni fa, il mistero dell’Avvento di Dio! “Il Signore è vicino”. Per opera loro, per la prima volta, questo grido si è diffuso nella Roma imperiale e pagana di allora. Ed è arrivato fino ad oggi.

2. L’Avvento si avvicina al suo compimento nella storia dell’umanità. Ne troviamo espressione nella liturgia dell’ultima domenica di questo periodo. Ecco, attraverso la lettura della Lettera agli Ebrei, sentiamo le parole del Figlio di Dio:2 “Ecco, io vengo . . . / Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, / un corpo invece mi hai preparato . . . / Ecco, io vengo . . . / per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10, 5. 7). In queste parole, la venuta di Dio in mezzo agli uomini prende la forma del mistero dell’Incarnazione. Dio ha preparato questo mistero dall’eternità, e ora lo compie. Il Padre manda il Figlio. Il Figlio accoglie la missione. Per opera dello Spirito Santo diventa uomo nel seno della Vergine di Nazaret. “E il Verbo si fece carne” (Gv 1, 14). Il Verbo è Figlio eternamente amato ed eternamente amante. L’Amore significa l’unità delle volontà. La volontà del Padre e la volontà del Figlio si uniscono. Il frutto di questa unione è l’Amore personale, lo Spirito Santo. Il frutto, poi, dell’Amore personale è l’Incarnazione: “un corpo mi hai preparato”. “Il Signore e vicino”.

3. Il Padre “ha preparato” al Figlio “il corpo umano” per opera dello Spirito Santo, che è amore. Il mistero dell’Incarnazione significa una particolare “effusione” di questo Amore: discesa dello Spirito Santo sulla Vergine di Nazaret. Su Maria. “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo, colui che nascerà dunque santo e chiamato Figlio di Dio” (Lc 1, 35). Lo Spirito Santo con la sua potenza divina opera prima di tutto nel cuore di Maria. In questo modo la sorgente del mistero dell’Incarnazione diventa la fede di lei: obbedienza della fede, “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”! (Lc 1, 38). Alla visitazione - di cui parla il Vangelo di oggi - Elisabetta loda prima di tutto la fede di Maria: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (Lc 1, 45). All’annunciazione Maria pronunzia infatti il suo “fiat” nell’obbedienza della fede. Questo “fiat” è il momento chiave. Il mistero dell’Incarnazione è mistero divino e insieme umano. Infatti, colui che assume il corpo è Dio-Verbo (Dio-Figlio). E contemporaneamente il corpo, che assume, è umano. “Admirabile commercium”. In questo momento, quando la Vergine di Nazaret pronunzia il suo “fiat” (avvenga di me quello che hai detto) -il Figlio può dire al Padre: “Ecco, un corpo mi hai preparato”. L’Avvento di Dio si compie pure per opera dell’uomo. Mediante l’obbedienza della fede.

4. La liturgia odierna ci mette davanti agli occhi non solo l’eterna obbedienza del Figlio: “Ecco, io vengo . . . per fare, o Dio, la tua volontà”: non solo l’obbedienza di colei che è stata prescelta per essere la sua madre terrena . . . ma ci mette dinanzi agli occhi anche il luogo, in cui si deve compiere il mistero dell’Incarnazione.3 Ecco, al centro della profezia di Michea appare il toponimo: Betlemme. Questo è proprio il luogo in cui l’eterno Figlio doveva per la prima volta rivelarsi nel corpo umano. Il Figlio di Dio come figlio dell’uomo: figlio di Maria. Il profeta dice: “E tu, Betlemme di Efrata, / così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, / da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele; / le sue origini sono dall’antichità, / dai giorni più remoti” (Mi 5, 1). Tale origine “dall’antichità”: dai giorni più remoti (e senza inizio!) viene partecipata dal FiglioVerbo. “Quando colei che deve partorire partorirà (cf. Mi 5, 2) -annunzia ulteriormente il profeta “il resto dei suoi fratelli ritornerà ai figli di Israele”. Questa nascita umana del Figlio di Dio dalla Vergine dà inizio al nuovo Israele: al nuovo popolo di Dio. Sarà questo il popolo dei “fratelli” di Cristo: di coloro che, mediante la grazia, diventeranno “figli nel figlio”. Riceveranno “potere di diventare figli di Dio”, come dirà San Giovanni nel Prologo del suo Vangelo (cf. Gv 1, 12). Il luogo in cui tutto ciò si compirà - dove si compirà e al tempo stesso sarà sempre ricordato di nuovo nella storia della Salvezza - è proprio quella Betlemme di Efrata.

5. Tale orizzonte apre dinanzi a noi la liturgia di questa domenica. Vediamo quale ricco contenuto nasconde in sé questa concisa invocazione, con la quale la Chiesa esprime il suo saluto negli ultimi giorni di Avvento: “Il Signore è vicino“!

6. La vostra comunità parrocchiale, eretta nel 1964, ha celebrato recentemente il ventennio di fondazione. Essa fu posta sotto la protezione di San Gregorio Barbarigo, perché tutta l’attività pastorale fosse ispirata a quella luminosa figura che, come Vescovo di Bergamo e di Padova, si distinse per la cura delle anime e, in particolare, per la formazione dei candidati al sacerdozio tanto da essere additato come pastore esemplare. In un momento quale è quello che stiamo vivendo, in cui la Chiesa pone al centro delle sue preoccupazioni il problema della scarsezza delle vocazioni ecclesiastiche, vi esorto a non cessare di invocare la sua intercessione, perché il Signore faccia fiorire numerose vocazioni per la gloria di Dio e per il bene delle anime. Insieme col cardinale vicario Ugo Poletti e col vescovo ausiliare Clemente Riva, rivolgo il mio saluto all’intera comunità parrocchiale e, in particolare, al parroco, don Paolo Schiavon, al vice-parroco e a tutti i sacerdoti che a vario titolo prestano la loro collaborazione per l’animazione cristiana di questa zona, situata nel quartiere dell’EUR fra le Tre Fontane e la Via Laurentina. Grazie alla loro dedizione e alla collaborazione di tanti laici generosi, la vita spirituale della parrocchia in questi venti anni è andata progressivamente rafforzandosi. Il lodevole impegno dei sacerdoti della diocesi di Padova, che sono animati dallo zelo apostolico di San Gregorio Barbarigo, antico Pastore nella sede patavina, sta facendo maturare frutti di vita cristiana, che consentono di ben sperare per il futuro, pur in presenza di vari problemi sociali che travagliano il quartiere a causa della diversa provenienza dei suoi abitanti. Mi consta che si sta cercando di far fronte alla tendenza all’isolamento e all’individualismo; che ci si preoccupa di porre riparo all’azione corrosiva che la vita moderna esercita nei confronti dei legami familiari; e che non si lascia nulla di intentato per risvegliare nei singoli una sempre più chiara coscienza dei valori cristiani e sociali. Nel dare atto del cammino percorso, desidero anche rivolgere il mio cordiale saluto alle diverse associazioni, mediante le quali il laicato è attivamente presente nella pastorale parrocchiale sia con l’attività catechetica e formativa, sia con quella caritativa e assistenziale. Il mio pensiero va in particolare ai giovani, a cui esprimo il mio compiacimento per la partecipazione alla liturgia e alla vita dei vari gruppi. Ad essi desidero rivolgere l’esortazione a sentirsi sempre più responsabili nei confronti dei loro coetanei che non hanno ancora esperimentato la gioia, che proviene dalla scoperta e dall’amicizia con Cristo. Un saluto particolarmente affettuoso esprimo infine agli Istituti religiosi maschili e femminili, che operano nell’ambito della parrocchia, attendendo alla formazione della gioventù, all’assistenza sanitaria e a altre opre benefiche. Tra questi, desidero fare esplicita menzione dei monaci Trappisti alle Tre fontane, i quali con la loro vita ascetica di perfetta contemplazione sono gli specialisti di Dio e attirano con la loro preghiera le più elette grazie celesti.

7. “Entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio, né offerta, / un corpo invece mi hai preparato. / Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. / Allora ho detto: Ecco, io vengo . . . / per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10, 5-7). Il mistero nell’Incarnazione significa l’inizio del nuovo sacrificio: del perfetto sacrificio. Colui che viene concepito nel seno della Vergine per opera dello Spirito Santo, che nasce nella notte di Betlemme è sacerdote eterno. Porta il sacrificio e compie il sacrificio già nella sua Incarnazione. E ciò è quel sacrificio che “è gradito a Dio”. È gradito a Dio il sacrificio, in cui si esprime tutta la verità interiore dell’uomo: il sacrificio della volontà e del cuore. Il Figlio di Dio assume la natura umana, il corpo umano, proprio per iniziare5 tale sacrificio nella storia dell’umanità. La compirà definitivamente mediante la sua “obbedienza fino alla morte” (cf. Fil 2, 8). Tuttavia l’inizio di questa obbedienza è già nel seno della Vergine Maria. Già nella notte di Betlemme: “Ecco, io vengo . . . per fare, o Dio, la tua volontà”.

8. Quando circonderemo il Neonato nella notte di Betlemme e per tutto il periodo di Natale, diamo sfogo al bisogno dei nostri cuori, gioiamo di quella gioia che il tempo di Natale porta con sé, cantiamo “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama” (Lc 2, 14). E soprattutto: impariamo fino alla fine la verità contenuta in questo mistero penetrante: “Ecco, io vengo . . . per fare, o Dio, la tua volontà”. Impariamo dal Figlio di Dio a fare la volontà del Padre. Infatti tale è la vocazione di coloro che sono “diventati figli nel Figlio”. Tale è la nostra vocazione cristiana. Tale è frutto dell’Avvento di Dio nella vita umana.



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venerdì 20 dicembre 2024

La costanza del cielo di Gian Piero Stefanoni, recensione di Flavia Buldrini


LA COSTANZA DEL CIELO 
di Gian Piero Stefanoni 
Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2024

Nota critica di Flavia Buldrini


 


I versi di Gian Piero Stefanoni si susseguono tenui in filigrana alla trama segreta dei silenzi, sottratti alla frenetica giostra dei giorni, sussurrati come sospiri che affiorano sull’orlo degli abissi: “Sacro perché ti guarda, / perché è guardato il silenzio / che è in te dalle cose.” (Sabato); “Nella costanza dei morti, / nel loto tornare e aggiungerti al numero, / giunge poi al tempo del sogno degli altri, / della spinta che il mondo ti chiede, / dell’alba dispersa nei mondi ormai muti. / Giunge poi il tempo infestato dalle scimmie, / della casa bendata, delle mura bagnate. / Giunge poi il tempo in cui finalmente ti trovi.” (Il sogno degli altri). Ora sono lutti non mai sopiti che galleggiano in superficie: “La rosa dello spoglio dolore / non s’incurva, non recita / nel buio la propria iconoclastasi. / Ma crede – come io credo - / nel ferito splendore che dà luogo / alla forma, al ritorno d’impasto / che s’infibra nello stelo. / Abbiamo braccia, abbiamo mani / nel patire e morire insieme del padre.” (Non s’incurva); “La povertà della luce senza immagine, / la madre sola a dare figura. / Ma i portatori di fiori / nella superficie dell’assenza / restituiscono ciò che il sole nasconde / e resta nel conversare del buio. / Lo devi sentire, lo devi pensare / l’arrivo, il suo ritorno / nello scioglimento del ghiaccio. / Noi non vediamo tutto.” (La povertà della luce).

Sono rêveries amorose appese agli sguardi fugaci, intercettate da divini misteri: “Ma arrotonda il frammento / al compimento, sfugge alla morte, / all’idea che ha di sé: sempre / del presente l’amore.” (Campanule); “Comporta un peso quest’ombra leggera / che si distende nel mare. / La terra, come gli amanti, non è sola / nella finitudine della forma. / Esclama e riapprende da una parola non sua. / L’amore il perché dell’amore. / L’amore il mattino dei corpi.” (Lessico madre).

I paesaggi sono i naturali sfondi degli stati d’animo, messaggi cifrati che alludono ad un altrove:

“- e il mare / non ha confini non accettando più di bussare. / Così, nel sonno, sei ancora tu l’intruso, / l’occhio lungo la spina di pesce, la notte / senza riflessi nel giorno che cede alla sete.” (Tutti gli addomesticabili mondi); “Perché per questa partecipata terra / quest’alito breve, questo profumo / al termine della salita che apre all’azzurro / nell’immagine scoperta dell’uomo. / Perché ancora chiede e dà vita / nell’idea dell’acqua la viola del giorno, / nello stelo la mano rupestre, lo sguardo eretto / che chiama ogni ora nel volto / alla ragione dell’altro.” (Salite).

Sono flebili singulti di dolore che scavano voragini sulla faccia della terra, rintocchi sommessi dalla notte alle porte dell’aurora: “Ha una doglia lo sguardo / della luce sulla terra / non rincorre albe / nel volo di notte dell’uccello.” (Doglie).

Un furtivo straniamento sradica dalle rassicuranti certezze, mentre si è sospesi sul confine tra la vita e la morte: “Non è di nessuno questa terra, / questo battesimo / ma il colpo batte il confine, / il lago sembrando fango / nella nostra interpretazione del sangue. / All’occhio insiste ancora, / bussa alla porta / la frattura dell’ombra, / la mai sopita negazione / in nome del padre.” (La fodera, per Czeslav Misloz).

“Il cacciator di fede” fruga tra “le ombre del giorno” per scovare “la cellula versata”, la perla rara deposta dal mare della vita sulla sponda dell’Eternità. Tuttavia, non riesce a passare il guado, a spiccare il balzo verso l’altra riva dove arride il sole: “Tu credi ma il vento / in te non può riposare / né adagiarsi la nuvola / o l’albero finalmente / alla sua maturata infanzia / dare respiro nel piccolo nido. / Tu credi ma non riesce / a passare / basso allo sguardo / il sole, l’oriente.” (Tu credi). L’anelito religioso insorge dal sepolcro del passato: “Perché un inizio questo Dio di pietra, / un inizio questa visione del tutto / che lentamente nella separazione ci consuma.” (Del cuore). Il divino tesse l’armonia tra cielo e terra nel canto unanime della creazione: “Quale parola dice la paura, / quale la nasconde? / Non è umano questo premere / senza toccare e che chiede l’assenso / nella conta dormiente degli angeli. / Non è da Dio il tormento, / la divisione della luce, l’impaziente / sottrazione delle orme. / È scritto infatti – l’uomo alla fine del cielo, / il salto alla fine dell’acque.” (Quale parola). Gli oppressi sono gli interlocutori più vicini a Dio, capaci di schiudersi all’annunzio angelico del Kerigma: “E li vedi ogni anno / sempre più piegati fino a toccare la terra, / gli occhi fissi, la bocca aperta al ruminare del cielo. / Ma poi passi / e dimentichi il velo, dimentichi la veste, / l’odore dell’agnello nella tosatura delle mani.” (Kerigma). L’anima è lago di luce che affluisce dalla sorgente perenne dell’amore: “Siamo quasi arrivati / ma abbiamo smesso di andare / mentre scendeva la luce sulla terra. / Così se non trovi l’infezione / cura lo stesso, bel limite dell’amore, / nel tema degli occhi. / Quest’anima sei tu, l’elemento / tagliato, la variante che nessuno / considera nel compagno lasciato / solo – noi di qua lui di là - / nel tuo povero tempio.” (Siamo quasi arrivati).

Eppure sottentra anche una vocazione all’abisso, ai fondali sommersi dell’essere: “Su questa terra dove è stato posto il pozzo / nel punto esatto dove il padre non ha potuto frenare / come stelle perturbate all’approdo / ruotiamo attorno nell’ignoto della riserva / dentro a quel grido che a quell’abisso ci chiama. / Danza finché cade nel sabato, nella rimessa / ogni sette giorni del fango, l’oscurità rivelata dal volto, / il silenzio delle statue nella bocca dei piccoli.” (Danza finché cadi).

La poesia è un respiro che avvolge tutte le cose: “È la politica del gesto / che fa il frammento, il mondo / che si percepisce al suo passo, / l’ordine della poesia nella preghiera” (La politica del gesto).

L’autore rivolge lo sguardo anche alla realtà più cruda, come in Non resti insepolto Caino, ove forse solo il cuore di un poeta sa indulgere ad uno sguardo di compassione e intonare un requiem a chi muore sotto il segno dell’estrema solitudine e maledizione, come Cristo sulla croce: “Chi piangerà adesso questo ragazzo? / Quale latte di padre o di madre / lo nutrirà, la gola stretta, il nodo teso? / Quale terra, quale mano lo accompagnerà / finalmente a una pace di acque e di parola? / Quale luce? / Avvolgetelo, lavatelo, sia per lui carezza. / Non ha odi il Dio senza oscurità.” (Per Jabar Al Bakr, rifugiato siriano, morto suicida nel carcere di Lipsia il 12 ottobre 2016).

La condizione ontologica dell’uomo è segnata da un’originaria ferita fin dallo “strappo sanguinoso della nascita” – secondo l’icastica definizione della Morante -: “Svegliato e bagnato dal sole / al riflesso breve del mistero, / l’Uomo strappato al suo posto. / Appena nato al corpo denso dell’asfalto / ha il grumo lieve della madre; / non geme, non ha richieste / nel torpore acceso della ferita.” ((Re)Incarnazioni).

La bellezza celeste sovrasta con la sua trascendenza divina l’umanità frale: “Ma il mondo a sé rivolto non muta, / non dà pace, tutto occultando, / tutto spegnendo nell’ispirazione sorda, / nel desiderio scevro. / Il cielo non è uno spazio, la rosa / una facile voce nell’ipotesi divina.” (Dorsali); “Prende bagliore dai corpi / l’inavvertita altezza dell’arca, / il libero azzurrarsi del tramonto / nel profilo dorato del salmo.” (Non cede bel passo, s’illumina).

Gian Piero Stefanoni in questi testi si effonde in meditazioni profonde, raggiungendo esiti di intenso lirismo: “Sanno prima del buio la chiamata nuda, / l’offerta dell’azzurro.” (Prima del buio).

La costanza del cielo è il permanere del bene sopra la terra, nonostante noi, un seme di luce incastonato nell’anima che silenziosamente fiorisce “e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano tra i suoi rami” (Mt 13,32): “Prepara al silenzio e al fiume / la parola nel greto che guarda al fiorire / Ancora si specchia, ancora ci segue: / più forte il dolore screpolato alla terra, / sa della luce l’esercizio, il cadere dell’ombra.”; “Sa da dove il frutto / è fatto opera, di quale annuncio, / di quali scaglie l’ombra ora riluce / nello strappo di vita delle forme. / Sa per femminile trasparenza / la visione dell’ultimo nato, / sul ramo la costanza del cielo che non cede.”





giovedì 19 dicembre 2024

Tenere lo sguardo fisso su Gesù Bambino, di mons. Vito Angiuli

 TENERE LO SGUARDO FISSO SU  GESU' BAMBINO

di mons. Vito Angiuli 




Cari fratelli e sorelle,

il Natale è un evento storico e un mistero della fede. Si fa memoria della nascita di Cristo al fine di meditare il mistero del Verbo fatto carne. I fatti storici si narrano, i misteri si contemplano. La verità storica mette al bando ogni affabulazione mitica, la contemplazione dona un nuovo afflato di vita e una rinnovata sorgente di luce, anche se è grande la sproporzione tra la povertà del segno (un bambino giace nella mangiatoia) e lo splendore della visione celebrata dalla voce degli angeli che lodano Dio.
L’incarnazione del Verbo è la manifestazione visibile del mistero invisibile. Certo il Dio «invisibile» (Col1,15, 1Tim 1,17; Eb 11,27) non può essere racchiuso in un’immagine visibile. Tuttavia, nel Figlio, Dio si rende accessibile all’uomo. La tradizione giovannea, in modo particolare, sottolinea l’importanza del vedere, con gli occhi della fede[1], il mistero di Dio nella santa umanità di Cristo (cfr. Gv 1,14; 1,50-51; 12,21; 14,9; 20,29; 1Gv 1,1-3). Se la rivelazione attraverso il creato dà la vita a tutti gli esseri che si trovano sulla terra, molto più la rivelazione per mezzo del Verbo è causa di vita per coloro che vedono Dio[2].. Dobbiamo camminare sulla terra senza distogliere gli occhi dal cielo perché non ci raggiunga il rimprovero rivolto ad Israele: «Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto nessuno sa sollevare lo sguardo» (Os 11,7). La beatitudine nasce dallo sguardo contemplativo: «Beati i vostri occhi perché vedono» (Mt 13,16).

Tenere fisso lo sguardo su Gesù Bambino

Il silenzio della notte e il cielo illuminato dalla stella rende ancora più suggestiva la rappresentazione della scena evangelica e infonde una gioia più intima alla contemplazione del mistero: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria» (Gv 1,14). Era questo il motivo che indusse san Francesco nel 1223, ottocento anni fa, a realizzare a Greccio il primo presepe della storia. Egli voleva «vedere con gli occhi del corpo» la scena commovente nella quale «risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme»[3].
La liturgia che celebriamo a Natale non è soltanto un rito, ma è quasi la ripresentazione della scena narrata dai Vangeli, la manifestazione della nuova Betlemme, del Cristo che nasce nel nostro cuore. Ci sono di aiuto le tre collette delle Messe di Natale. Prendendoci per mano, ci invitano a compiere il nostro ingresso nel mistero secondo una precisa progressione: l’evento dell’incarnazione del Verbo sprigiona una tale luce (Messa della notte) che investe il nostro agire (Messa dell’aurora) perché possiamo partecipare alla stessa vita di Dio (Messa del giorno).
In questa Messa della notte di Natale, prima di ogni altra cosa, siamo invitati a uno sguardo contemplativo, reso possibile dallo svelamento del Verbo di Dio nella carne umana. Nell’umanità del Figlio si può vedere il volto misterioso e l’infinito amore del Padre. D’ora in poi, siamo chiamati a tenere fisso lo sguardo su Gesù (cfr. Lc 4,20), come suggerisce san Giovanni della Croce quando mette in bocca a Dio Padre queste parole: «Fissa lo sguardo in lui solo e vi troverai anche più di quanto chiedi e desideri: in lui ti ho detto e rivelato tutto»[4].

Il supremo comandamento è fissare lo sguardo sulla persona di Gesù

Fissare lo sguardo sul Verbo incarnato è il comandamento supremo a cui dobbiamo attenerci. Quando questo avviene, per un intervallo indeterminato di tempo, il movimento si ferma, non scorre più, rimane come sospeso e quasi si arresta. Il resto del mondo scompare dalla scena, e improvvisamente si dilegua. Rimane solo lui, il Bambino collocato nella mangiatoia, con la soave grandezza del suo mistero, le cui porte si aprono solo dall’interno e il cui svelamento non annulla la sua ineffabilità. Per la sua eloquente analogia con l’amore si parla giustamente di un mistero d’amore. E come nell’amore, l’accresciuta conoscenza chiede un suo continuo approfondimento, così anche per il “Bambino di Betlemme”[5], come soleva chiamarlo san Francesco d’Assisi, la comprensione del suo mistero diviene sempre più coinvolgente e affascinante per chi lo contempla.
Contemplare significa fisare lo sguardo e dare il primato alla persona di Gesù. È lui stesso il Vangelo. A lui bisogna “attaccare” il proprio cuore. Con lui bisogna instaurare una vera e profonda relazione interpersonale fino ad arrivare alla totale e piena conformazione. Le parole e i gesti, staccati dalla sua persona, diventano solo consigli morali da mettere in pratica senza la grazia necessaria che consente di attuarli realmente. Cristo è la grazia che annuncia e dona la forza per attuare il suo insegnamento. Solo l’amicizia con lui rende forte e stabile la fede e consente che essa si sviluppi e si concretizzi nella carità. Per amare come Gesù bisogna avere fede in lui, bisogna cioè tenere fisso lo sguardo sulla sua persona. L’imitazione scaturisce dalla contemplazione!
Nel particolare tempo che stiamo vivendo, caratterizzato dalla crisi della fede e dalla sua deriva in una sorta di umanitarismo che svuota il suo contenuto misterico, occorre richiamare le parole pronunciate da Joseph Ratzinger nell’omelia della Messa pro eligendo Romano Pontifice (18 aprile 2005): «“Adulta” – egli diceva – non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. È quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede – solo la fede – che crea unità e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a questo proposito – in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle onde – una bella parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell’esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna” (1Cor 13, 1)».
Il mistero della natività si mostra al nostro sguardo nella rappresentazione del presepe. Dobbiamo imparare a fissare lo sguardo sul Bambino da tutte le possibili angolazioni. Dall’alto, in quanto è una manifestazione dell’eterno amore tra le tre divine persone, dal basso, considerando la sua dimensione storica, da vicino in quanto evento intimo e famigliare.

Lo sguardo dall’alto

Il primo sguardo proviene dall’alto, dal cielo ad opera delle tre persone divine e delle schiere angeliche. Da questo punto di vista, il mistero del Natale si svela a partire dalla sua più profonda e impenetrabile interiorità: il suo legame con il mistero della Trinità. È significativo che la tela che si trova nella Chiesa della Confraternita di Barbarano, è divisa in due parti: in basso la scena della nascita di Cristo, in alto la raffigurazione della Trinità, in un tripudio di gioia delle schiere angeliche[6]. Sembra che le tre persone divine e gli angeli siano quasi sopra il palco superiore di un teatro a contemplare la scena della notte di Betlemme.

Lo sguardo delle tre persone divine
Da sempre le tre persone divine contemplano l’evento storico dell’incarnazione del Verbo e della sua nascita. Il mistero è innanzitutto sotto lo sguardo amante del Padre. Dall’eternità, egli volge i suoi occhi sul Figlio e con la sua voce proclama: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato» (Sal 2,7). L’avverbio “oggi” si riferisce alla vita intima di Dio: è l’“oggi” del Padre che dall’eternità contempla non solo la generazione eterna del Figlio, ma anche la sua nascita storica. Duplice, afferma san Cirillo di Gerusalemme, «è la generazione: una da Dio Padre, prima del tempo, e l’altra, la nascita umana da una vergine nella pienezza del tempo»[7]. Con un solo atto, il Padre contempla amorevolmente il volto del Figlio di cui si compiace (cfr. Mt 3,17; 17,5), nell’eternità e nel tempo.
A sua volta, il Figlio, che da sempre è rivolto verso il Padre, vede sé stesso riflesso negli occhi del Padre. Lo sguardo del Padre è lo specchio dove il Figlio vede che il suo volto, che è «irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza» (Eb 1,3). Per questo il suo è uno sguardo obbediente. «Entrando nel mondo, – afferma la Lettera agli Ebrei – Cristo dice: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”» (Eb 10, 5-7). L’obbedienza del Figlio consente agli uomini di vedere la gloria eterna del Padre. Essa, infatti, diventa accessibile solo quando è velata dall’umanità del Figlio. Altrimenti, «a causa dell’eccessiva luce si dissolverebbe ogni carne, a meno che, per disposizione ineffabile di Dio, o la carne si muti in luce per poter vedere la luce, o la luce si muti in carne per essere vista dalla carne»[8].
Il Natale è anche la festa dello sguardo dello Spirito Santo, protagonista silenzioso e nascosto del vicendevole amore tra il Padre e il Figlio e artefice della nascita di Gesù nel grembo benedetto di Maria. Lo Spirito, forza divina generante e generatrice, rende possibile la realizzazione di tutte le fasi del mistero: l’illuminazione e l’adesione di Maria, la decisione di Giuseppe di prenderla in sposa e il riconoscimento che tutto era un’opera della grazia. Nello lo scritto apocrifo Vangelo secondo gli Ebrei, si legge che lo Spirito Santo, posandosi su Gesù, sussurra: «Figlio mio, in tutti i profeti aspettavo te, che tu venissi e io potessi riposare in te. Tu sei il mio riposo»[9].

Lo sguardo degli angeli
Allo sguardo compiaciuto delle tre persone divine fa da contrappunto lo sguardo gioioso degli angeli. Anch’essi, si affacciano dalle finestre del cielo spinti dal desiderio di «fissare lo sguardo» (1Pt 1,10-12) sulla nascita terrena del Verbo eterno. E mentre guardano con stupore questa divina meraviglia, intonano l’inno di lode: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra agli uomini amati dal Signore» (Lc 2,14). Con il loro gioioso canto, gli angeli esprimono una verità, avanzano una profezia, suggeriscono una proposta.Anzitutto constatano la grandezza, la maestà e lo splendore di Dio, la cui gloria risplende nei cieli e si manifesta sulla terra in Gesù Bambino. Formulano una profezia: ci sarà pace sulla terra, quando gli uomini si lasceranno amare da Dio attraverso suo Figlio. La pace, infatti, non si fonda sugli sforzi degli uomini, ma sulla benedizione e sulla misericordia di Dio. Suggeriscono agli uomini una proposta: mettere Dio al primo posto, al di sopra di tutto, accogliendo il Figlio che si manifesta nella fragile realtà di un bambino bisognoso di tutto.
Sant’Agostino commenta in modo mirabile il canto degli angeli con questa esortazione: «Meditiamo con fede, speranza e carità queste parole divine, queste lodi di Dio, questa gioia angelica, dopo averla accolta con profondo rispetto. Come infatti ora crediamo e speriamo e desideriamo, anche noi saremo gloria a Dio nell’alto dei cieli quando nella risurrezione del corpo spiritualizzato saremo rapiti sulle nubi incontro a Cristo; purché però, ora che siamo sulla terra, ricerchiamo la pace con buona volontà. Nell’alto dei cieli ci sarà la vita perché ivi è la regione dei vivi; ivi sono i giorni buoni, dove il Signore è sempre lo stesso e i suoi anni non verranno meno. Chiunque vuole la vita e desidera vedere i giorni del bene distolga la sua lingua dal male e le sue labbra non pronuncino inganni; si allontani dal male e operi il bene: facendo così sarà un uomo di buona volontà. Cerchi la pace e la persegua perché sarà pace in terra agli uomini di buona volontà»[10].

Lo sguardo dal basso

Lo sguardo dall’alto si fonde con lo sguardo dal basso. Il mistero della nascita di Cristo, contemplato dall’eternità, viene riconosciuto nella storia in quanto è annunciato dai profeti, venerato dai pastori, adorato dai Magi.

Lo sguardo lungimirante dei profeti
Il fondamento storico è dato dallo sguardo lungimirante dei profeti. La Prima Lettera di Pietro afferma:«Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti che profetizzarono sulla grazia a voi destinata cercando di indagare a quale momento o a quali circostanze accennasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che dovevano seguirle. E fu loro rivelato che non per sé stessi, ma per voi, erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello Spirito Santo mandato dal cielo» (1Pt 1,10-12).
I profeti, uomini incandescenti, nella loro umana transumanza respirano il soffio dello Spirito. Con i loro occhi penetranti, vedono dentro e oltre il loro tempo e, da lontano, lacerano l’orizzonte. Con la loro insopportabile lucidità e chiaroveggenza, infastidiscono gli uomini che vivono in modo superficiale. Sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda di Dio, vedono con lungimiranza nel tempo presente ciò che accadrà in futuro. Sono sentinelle che sanno scrutare con passione le contraddizioni e le miserie del tempo e riescono a scorgere i segni dell’amore gratuito e misericordioso di Dio che avanza nella storia. Con il loro annuncio, mantengono viva l’attesa del Messia, ravvivano la fragile fede dei credenti perché siano pronti a riconoscere l’Atteso delle genti, dando vigore alla speranza che egli certamente verrà.

Lo sguardo meravigliato dei pastori
I pastori sono uomini dallo sguardo meravigliato. Apparentemente sembra che dormano un sonno tranquillo. Sanno però che al riposo manca qualcosa che sia capace di stupire e dare gioia alla vita. All’improvviso, nella notte oscura, odono un canto e scorgono il sorgere di una stella, «come quando le stelle nel cielo, intorno alla luna che splende, / appaiono in pieno fulgore, mentre l’aria è senza vento; / e si profilano tutte le rupi e le cime dei colli e le valli; / e uno spazio immenso si apre sotto la volta del cielo, / e si vedono tutte le stelle, e gioisce il pastore in cuor suo»[11].
Svegliati dal sonno tranquillo e dal meritato riposo, si muovono al canto degli angeli attratti dalla luce che intravedono all’orizzonte. Provocati dal dispiegarsi del firmamento, sentono di essere chiamati ad alzarsi per scoprire il segreto della stella e dare forma concreta al canto degli angeli. Riposare è necessario solo per essere più pronti al cammino del giorno dopo. Accogliendo i segnali celesti la vita si desta, ed anche il gesto più piccolo diventa immenso. Giunti sul luogo, rimangono a bocca aperta avvolti da una meraviglia incontenibile. Il Bambino, contemplato nella mangiatoia, li invita a vegliare, a camminare e a riconoscere definitivamente che non «è funesto a chi nasce il dì natale»[12].

Lo sguardo adorante dei Magi
Mentre i pastori ritornano alle loro case dopo avere visto il Bambino, giungono da lontano i Magi, uomini sapienti dal cuore inquieto. Secondo la tradizione, sono i rappresentanti dei tre regni allora conosciuti (Africa, Asia ed Europa) e delle tre età della vita: la giovinezza, l’età adulta e la vecchiaia. All’apparire della stella, si è nuovamente destato il loro desiderio che li ha spinti a guardare oltre, in alto e in grande, per riconoscere che c’è molto di più di quello che si vede, si tocca e si sperimenta.
Essi sanno che bisogna saper discernere tra le molteplici stelle. Vi sono, infatti, stelle abbaglianti che suscitano emozioni forti, ma che non orientano il cammino. Sono meteore che brillano un po’, ma ben presto scompaiono e il loro bagliore svanisce; stelle cadenti che depistano anziché indicare la meta. La stella del Signore, invece, anche se talvolta sembra dileguarsi, sempre riappare. È una stella mite, prende per mano e accompagna infallibilmente alla meta desiderata. Non promette ricompense materiali, ma garantisce la pace e suscita nel cuore «una grandissima gioia» (Mt 2,10).
I Magi non sono viandanti o esploratori solitari. Camminano insieme, si fidano e si affidano l’uno all’altro. Scrutano insieme i segni e le tracce celesti. Spesso si tratta di piccoli indizi che si rivelano epifanie di bontà e illuminano il sentiero sconosciuto. Non temono gli errori e, anche di fronte a fraintendimenti e malintesi, non desistono dalla loro ricerca. Basta un piccolo segno per riaccendere in loro la fiducia e la speranza. Giunti alla meta, contemplano con i loro occhi il segno che avevano tanto desiderato vedere. Cercavano un re e si ritrovano davanti un bambino tra le braccia della madre, in una stalla. Riconoscono però che era proprio quel semplice e povero bambino l’astro che li aveva accompagnati. Si inginocchiano, adorano e offrono doni. È la conclusione del loro viaggio e del loro desiderio e il pegno di una nuova ripartenza. Ora che hanno visto, possono tornare al loro paese «per un’altra strada» (Mt 2,12).

Lo sguardo da vicino

Il mistero della nascita di Cristo, contemplato dall’alto e riconosciuto nel corso della storia, è guardato con attenzione nell’intimità e nella relazione interpersonale. Questa volta i personaggi esemplari sono Maria e Giuseppe.

Lo sguardo meditativo di Maria
Maria è colei che ha generato Cristo, ma è anche colei che lo custodisce. Lo genera come madre e lo custodisce come arca dell’alleanza e primo tabernacolo vivente. Il suo è uno sguardo meditativo. Ella “tiene insieme” tutto ciò che riguarda suo Figlio. È un grande mistero da scoprire a poco a poco. Il suo non è solo lo sguardo della madre, ma è anche lo sguardo della discepola. Raccoglie ogni singolo elemento, ogni parola, ogni fatto, lo conserva e lo confronta all’interno del tutto, riconoscendo che tutto proviene dalla volontà di Dio.
Non le basta una prima comprensione superficiale, scende in profondità, si lascia interpellare dagli eventi e li elabora per acquistare quella consapevolezza che solo la fede può garantire. Per lei, tutto ha il valore di un “simbolo” che spinge a cercare il senso recondito, a soppesare, paragonare, confrontare. Come un’abile tessitrice, ella ricama la trama del mistero con fili sottili e, con grande maestria, incastona le tessere del mosaico, cercando di ricostruirne l’insieme.
Il suo cuore è il luogo del discernimento, del ricordare, del ponderare attentamente le parole e gli eventi, in un esercizio di affettività interiore. Nell’angolo più segreto della sua anima, confronta i testi, i dati e gli eventi e li lascia maturare nella profondità dello spirito. Così san Lorenzo Giustiniani commenta: «Schiudeva verso di sé la porta dei misteri celesti e si colmava di gioia, si arricchiva copiosamente del dono dello Spirito, orientandosi verso Dio, e nel medesimo tempo si conservava nella sua profonda umiltà»[13].

Lo sguardo silenzioso di Giuseppe
Lo sguardo di Giuseppe è avvolto nel silenzio perché, come scrive san Giovanni della Croce, «una parola pronunciò il Padre, e fu suo Figlio ed essa parla sempre in eterno silenzio, e nel silenzio deve essere ascoltata dall’anima»[14].
San Giuseppe è il modello di un silenzio pieno di ascolto, di interiorità e di operosità; un silenzio permeato di contemplazione del mistero di Dio, in atteggiamento di totale disponibilità ai suoi voleri. Il suo silenzio non va confuso con il mutismo, con una sorta di un vuoto interiore. È un silenzio pieno di quella fede che sa orientare il pensiero e guidare l’azione. Il silenzio di Giuseppe, all’unisono con quello di Maria, custodisce la Parola di Dio, conosciuta attraverso le Sacre Scritture, e la confronta continuamente con gli avvenimenti della vita di Gesù. Il suo è un silenzio intessuto di preghiera, di benedizione al Signore, di adorazione della sua santa volontà e di affidamento senza riserve alla sua provvidenza.
Qualcuno ha parlato di Giuseppe come l’uomo dei sette silenzi[15]. Sette, infatti, sono i momenti che hanno scandito la sua esistenza, accompagnata da altrettanti silenzi: il silenzio delle nozze; il silenzio della speciale paternità; il silenzio del Natale; il silenzio nel Tempio; il silenzio dell’esilio; il silenzio di Nazareth; il silenzio della morte. Il suo è stato un “silenzio assoluto” perché, come afferma sant’Agostino, «nella misura in cui cresce in noi la Parola – il Verbo fatto uomo – diminuiscono le parole»[16]. Ha nobilitato la parola perché è stato amante della “parola minore”, quella più delicata rispetto a quella brutale e urlata che ormai siamo abituati ad ascoltare nel nostro tempo, dove spesso domina non soltanto l’aggressività, ma anche la volgarità.

Lo sguardo interiore

Gesù non è solo oggetto del nostro sguardo, ma è il soggetto che guarda noi e il Padre. A quale apprendistato si è sottoposto il Verbo venendo nel mondo! Egli, scrive sant’Ireno, «pose la sua abitazione tra gli uomini e si fece Figlio dell’uomo, per abituare l’uomo a comprendere Dio e per abituare Dio a mettere la sua dimora nell’uomo secondo la volontà del Padre»[17]. Il suo è lo sguardo del Bambino, del Crocifisso e del Risorto.
Lo sguardo di Gesù Bambino è intenso e trasognato come quello di un infante che vede ogni cosa nella sua originaria bellezza. È un vedere in profondità il mondo e la storia umana secondo il disegno eterno del Padre, per discernere il suo valore e il suo destino.
Dall’alto della croce, il Crocifisso ci raggiunge con il suo sguardo compassionevole[18]. I suoi occhi sono finestre aperte per scrutare la profondità del nostro cuore. Quando ormai la voce ha perso il suo suono, lo sguardo crea un ponte, una comunicazione, una relazione, una dolce violenza d’amore. Lo sguardo del Crocifisso non si limita a constatare, ma riplasma la vita, crea una novità, fa iniziare una storia, apre l’orizzonte della risposta perché ogni uomo possa trovare in lui il suo punto di approdo, il suo ultimo orizzonte, la sua più intima e profonda gioia.
Dopo la sua risurrezione, il Risorto si «fa vedere» (ofthê) e si fa riconoscere. Siamo tutti davanti al suo sguardo meraviglioso che non indaga, ma accarezza con tenerezza di madre. È la potenza dell’amore che si manifesta attraverso quello sguardo. Andiamo avanti nella vita nella certezza che lui ci guarda e attende di essere ricambiato. L’amore, ricevuto e donato, è tutto in questo sguardo, che segna la vita e apre le porte dell’eternità. La persona che si lascia guadare è spinta ad abbandonare tutto e a seguirlo.

Cari fratelli e sorelle, fissare lo sguardo su Gesù è il messaggio di questa notte di Natale, Questo messaggio rimane valido per tutta la nostra vita. Siamo, infatti, chiamati a correre «con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb 12, 1-2). Buon Natale.

Mons. Vito Angiuli, Vescovo della Diocesi Ugento Santa Maria di Leuca

Omelia nella Messa della Notte di Natale
Chiesa Cattedrale, Ugento 24 dicembre 2023.



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[1] Cfr. Agostino, Lettera 147 sulla visione di Dio, 1-23.
[2] Ivi, 4, 20, 5-7
[3] Tommaso da Celano, Vita prima, XXX, 84-85; FF 468-469.
[4] Giovanni della Croce, Salita al monte Carmelo, lib.2, cap.22.
[5] «Spesso, quando voleva nominare Cristo Gesù, infervorato di amore celeste lo chiamava “il Bambino di Betlemme”, e quel nome “Betlemme” lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva “Bambino di Betlemme” o “Gesù”, passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole», Tommaso da Celano, Vita prima, XXX, 86, FF 470.
[6] La cappella e tela, dedicata della Santissima Trinità, furono volute dai baroni Capece e possono essere datate nei primi anni della seconda metà del ‘500. La grande tela rappresenta i due misteri principali della fede: unità e Trinità di Dio; incarnazione, passione e morte di Gesù Cristo. L’impostazione del quadro rispecchia le raffigurazioni di quel tempo (presenti anche negli affreschi della Chiesa di Santa Maria degli Angeli in Presicce): l’offerente in basso a pregare, in alto Gesù che siede alla destra del Padre con in mano la croce e la Natività dipinta non all’interno di una grotta, ma sullo sfondo architettonico di un tempio crollato, a indicare che con la nascita di Gesù sono terminate le religioni pagane. Si può notare che il volto di Maria rassomiglia a quello della Madonna di Leuca, un contadino offre un paniere pieno di uova, l’artista forse si è dipinto dietro l’arco che osserva la scena.
[7] Cirillo di Gerusalemme, Catechesi, 15, 1.
[8] Ps. Clementine, Hom. XVII, 16.
[9] Vangelo degli ebrei, 5 in M. Craveri, I Vangeli apocrifi, Einaudi, Torino 201717, p. 276.
[10] Agostino, Discorso 193 Natale del Signore, 1.
[11] Omero, Iliade, VIII, 555-560.
[12] G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante, 140.
[13] L. Giustiniani, Sermone 8, nella festa della Purificazione della B.V. Maria, Opera, 2, Venezia 1751, 38-39[13].
[14] Giovanni della Croce, Dichos de luz y amor, BAC, Madrid, 417, n. 99.
[15] Cfr. Z. Zuffetti, L’uomo dei sette silenzi, Àncora Editrice, Roma 2012.
[16] Agostino, Discorso 288, 5.
[17] Ireneo, Contro le eresie, 3, 20, 3.
[18] Cfr. A. M. Cànopi, Sguardo di Gesù. Lectio divina su alcuni brani del Vangelo, Edizioni Paoline, Roma, 2010.

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mercoledì 18 dicembre 2024

LA FAMIGLIA DI GESU', di mons. Giuseppe Mani

LA FAMIGLIA DI GESU'

di mons. Giuseppe Mani




“Chi vede me vede il Padre mio”. Con questa fede entriamo nella capanna di Betlemme a vedere Dio in persona, adorarlo e rimanere stupiti. Siamo abituati a pensare al Paradiso come alla casa di Dio ed è vero: Betlemme è il suo paradiso, il luogo in cui si compiace di abitare e rivelarsi. L’ornamento della casa di Dio è costituito da poche cose, anzi da niente di ciò che abitualmente appartiene ad una normale famiglia che accoglie un bambino.

Apparentemente è così, si chiama povertà, ma, se guardiamo bene, Dio, al momento della sua nascita, si è fatto mancare tutto ciò di cui poteva benissimo fare a meno, ma non una famiglia anzi, una bellissima famiglia. Questo ci dice tutto. L’uomo può fare a meno di tutto, ma non della famiglia. E’ la prima rivelazione che Dio ci ha fatto attraverso Gesù: ogni uomo ha diritto ad una famiglia e il dovere di dare una famiglia a tutti.

Solitamente a Natale siamo colpiti dalla povertà della Grotta in cui nasce Gesù, che la fede e l’amore dei fedeli rendono bella ed accogliente con i pastori vestiti di velluto e damaschi, pastori più dell’Arcadia che della Palestina, un ambiente da presepe napoletano più che da campagna palestinese. Con superficialità si parla della povertà di Gesù a Betlemme, mentre oggi ci sono bambini che nascono in situazioni molto più precarie di Gesù. Penso a quelli che non sono accolti e vengono uccisi con l’aborto prima di vedere la luce, penso a quelli che finiscono nei cassonetti delle immondizie, a quelli che non vengono riconosciuti dai loro genitori naturali: sono tutti molto più poveri di Gesù. La loro condizione non è di povertà, autentica virtù, ma di miseria che Dio non vuole e che la Chiesa combatte con il suo magistero sociale.

Dopo Betlemme il vangelo ci presenta la Famiglia di Gesù a Nazaret, dove il Bambino cresceva in sapienza, età e grazia. Non era una famiglia di barboni, ma di normali artigiani, tanto che Gesù è riconosciuto come il figlio del falegname e Lui stesso impara il mestiere del padre. Una famiglia che lavora e vive del suo lavoro, una famiglia che prega e fa le sue pratiche religiose ebraiche, compresi i pellegrinaggi a Gerusalemme. E’ il prototipo della normale famiglia. Questa normalità, questa naturalezza in cui vive il Figlio di Dio per trenta anni, ci stupisce: possibile che Dio sia venuto in terra per fare il falegname per trent’anni? Anche questi trent’anni di normalità sono la forma di evangelizzazione della vita: lo stile Nazaret è l’unico stile possibile del vivere tra gli uomini. Tutto ciò che è umano deve essere improntato alla semplicità, alla sobrietà e allo stile familiare; esattamente il contrario dello stile burocratico, complicato e solenne. La famiglia di Nazareth è il prototipo della vita umana. L’umanità fatta di Figli di Dio e quindi di fratelli non può essere perfetta che realizzandosi come universale famiglia umana.

Lo stile familiare della famiglia di Nazareth non è soltanto prototipo di ogni vivere sociale, ma anche modello di tutte le famiglie, come Cristo è modello di ogni uomo. E’ prototipo soprattutto perché è “La Santa Famiglia”, cioè una famiglia santa e la santità è la perfezione a cui ogni famiglia deve aspirare. Tanti sono i “manuali per la vita familiare”che esaminano la famiglia sotto vari aspetti, ma nonostante tutti gli studi la situazione della famiglia è sempre più precaria fino alla accettazione della sua composizione. Toccare la famiglia è come toccare la persona umana: è toccare Dio, una creatura fatta a sua immagine e somiglianza. E’ una autentica profanazione della creazione che a suo tempo si ribellerà presentando il conto del male fatto. E’ proprio il caso di dire: con la famiglia non si scherza. La proposta che Dio fa ad ogni famiglia non è di essere buona, ma Santa e propone la famiglia di suo Figlio come modello di santità. In che senso? Perché la famiglia di Nazareth è santa? Non perché c’era la Madonna, Immacolata Concezione e San Giuseppe, uomo giusto, ma unicamente perché era presente Gesù che è il Santo. E Gesù è la ragione della santità di ogni famiglia.

Gesù è presente in ogni famiglia, lo ha affermato Lui stesso: “Quando due sono uniti nel mio nome io sono in mezzo a loro” e lo ha dichiarato con la sua presenza a Cana, dove operò a favore della famiglia il gesto profetico di cambiare l’acqua in vino.

Il Concilio Vaticano II lo dichiara: “Il Salvatore degli uomini e Sposo della Chiesa, viene incontro ai coniugi cristiani attraverso il sacramento del matrimonio e rimane con loro perché, come egli stesso ha amato la Chiesa e si è dato per essa, così anche i coniugi possano amarsi l’un l’altro.” (G.S. 48). Ed è proprio attraverso il loro vicendevole amore che camminano insieme verso la perfezione cristiana. Questo amore nuziale è la base della loro vocazione di padre e di madre, da cui scaturisce la fecondità della loro missione di educatori.

Il Vaticano II ha aperto la strada delle canonizzazioni delle famiglie, insieme alla Sacra Famiglia già sono state dichiarate sante anche altre famiglie.

La pastorale familiare è il fondamento della Nuova Evangelizzazione. Ripartire dalla Famiglia era la proposta chiara e sicura di San Giovanni Paolo II e credo sia la strada per vivificare la Chiesa e bonificare la società.



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martedì 17 dicembre 2024

AVVENTO: prepariamo la CULLA nel nostro CUORE, di Marilda Zonarelli

AVVENTO: prepariamo la CULLA nel nostro CUORE

di Marilda Zonarelli




Tutta la nostra vita è un cammino di conversione, ma ci sono momenti in cui, più di altri, siamo chiamati a vivere questa nostra conversione: una di queste occasioni preziose si presenta proprio adesso con il periodo dell’Avvento, dell’attesa, della venuta. È tempo di preparazione alla Solennità del Natale in cui si ricorda la prima venuta di Gesù, ma è anche tempo in cui, attraverso questo ricordo, il cuore degli uomini viene guidato all’attesa della seconda venuta del Signore.

È tempo di speranza. Attendiamo con gioia il giorno di Natale perché è il giorno in cui ci accorgiamo di quanto siamo preziosi: Dio non si è accontentato di parlare all’uomo, ma ha voluto rivelarsi a noi, diventare carne e venire a vivere in mezzo a noi. Non ha scelto di dimorare in qualche luogo lontano dall’umanità, ma con noi e tra di noi, dandoci la possibilità di incontrare questa Persona concreta e contemplarne la gloria. E ha voluto farlo incarnandosi in un Bambino, perché il Signore si serve delle “cose” più piccole per dimostrare la sua grandezza.

In questa nascita troviamo già tutte le indicazioni su come dovremmo prepararci, durante il periodo di Avvento, al momento stesso della nascita di Gesù. Egli, infatti, non è venuto solo per parlarci della conversione: è Lui stesso la conversione e ci aiuta concretamente a capire come realizzarla nella vita quotidiana, attraverso gesti di riconciliazione.

Se è vero che la venuta di Cristo nel mondo è un dono, c’è qualcosa, però, che possiamo fare anche noi: spianare la strada per il suo arrivo nel nostro cuore e fare in modo che la sua efficacia sia “al massimo”.

Gesù Bambino, nel silenzio di una stalla, ci libera dal protagonismo e ci insegna a vivere nell’umiltà. Per prepararci ad accoglierLo dobbiamo cercare intanto di schiacciare la superbia che ci rende rigidi, anche nelle relazioni con gli altri. Lasciamo questa via, che ci porge solo una falsa rassicurazione, abbassando il nostro ego e cercando di essere semplici, perché tante volte tendiamo ad essere complicati e a complicare le cose e le relazioni con i nostri fratelli. Cogliamo l’occasione della preparazione alla nascita di Gesù andando all’essenziale anche dentro di noi, perché altrimenti - offuscati dalla complicanza e dalla superbia - non riusciamo nemmeno a sentire la voce di Dio.

E l’epoca in cui viviamo non si presenta come il momento migliore per riuscire a fare silenzio nel nostro cuore ed ascoltare quello che ci dice il Signore. Il nuovo linguaggio digitale, prezioso ed utile da tanti punti di vista, agisce però sui livelli di pensiero ed influisce sulla capacità di fare silenzio dentro di noi e di socializzare. Il continuo “rumore informatico” ci distrae e può entrare in contraddizione con i pensieri che nascono dalla riflessione, dalla contemplazione. In questo senso gli adulti possono cogliere l’occasione di questo periodo di preparazione al Natale per aiutare ancora di più i giovani ad “uscire”, perché, spesso, molti di loro sono “credenti in privato”, ma si vergognano in pubblico e sono i più distratti da questo sistema veloce.

Facciamo noi per primi il proposito di cercare di limitare alcune necessità che ci stordiscono ed aiutiamo i nostri ragazzi a non farsi distrarre dalla superficialità e dal “rumore del mondo” e a riconoscere le mancanze. Aiutiamoli a non colmare questi vuoti con cose poco sane e a rimanere disponibili per le molteplici possibilità che la vita offre con la pace interiore. Vigiliamo e supportiamo i giovani nel vigilare per cogliere ancora di più in questo periodo le occasioni per amare, per fare attenzione e non sprecare le opportunità che Dio ci dona, opportunità di amore e di preoccupazione verso gli altri.

Al di là di tutta l’evoluzione della realtà e della società, ci sono realtà immutabili, che trovano fondamento in Gesù, che è sempre lo stesso. Gesù che è il centro ed il fine di tutta la storia umana.

E per non essere distratti e non perdere le occasioni, facciamo in modo che l’Avvento sia tempo di preghiera per lasciare che il Signore muova il nostro cuore. Non dobbiamo smettere di essere come siamo, ma dobbiamo far entrare Dio in quello che siamo: l’Amore di Dio è gratuito, Egli ci ama sempre e a prescindere da quello che facciamo, da come ci comportiamo. L’ Amore di Dio non è il frutto delle nostre opere.

Con questa fondamentale certezza nel cuore, possiamo solo predisporci al meglio nella preghiera, perché ci aiuti ancora di più in questo periodo ad essere umili e semplici, a riflettere sul nostro stile di vita, ad essere attenti ai momenti in cui possiamo incontrare Gesù, compiendo atti di carità verso i fratelli, sperimentando tutte le volte in cui poter crescere nella fede, imitando la Vergine Maria con il nostro “sì” al Signore che ci rende suoi strumenti.

L’ Avvento ci offre una preziosa occasione per guardare nel profondo del nostro cuore e vedere se siamo ciò che corrisponde a quello che Dio aveva nel cuore quando ci ha dato la vita; per prendere in mano la nostra storia e cercare di rimetterla in sintonia con Gesù Bambino.

Prepariamoci allora ad accoglierLo ed a farLo nascere davvero nella culla del nostro cuore, trovando così la via per amare come Lui ha amato.


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