LA CHIESA ICONA DELLA TRINITA'
di Mons. Bruno Forte
La
Chiesa che Gesù è venuto a fondare sulla terra è la comunità dei figli resi
tali nel Figlio. Proprio così, essa è l’immagine o icona viva della comunione
trinitaria: lo rivela una parola usata nel Nuovo Testamento, soprattutto in
Giovanni, “kathòs”, che vuol dire “come”: “La formula più corrente mediante la
quale Giovanni dà espressione alla realtà escatologica della Chiesa è la
semplice congiunzione ‘come’ (kathòs).
Essa non soltanto stabilisce un legame di somiglianza fra Cristo e i suoi
discepoli, ma indica anche che ciò che è in Dio deve essere pure in coloro che
gli appartengono... I testi in kathòs,
che affermano una corrispondenza ontologica fra le persone divine e la comunità
cristiana, sfociano precisamente in un comando: ‘Amatevi gli uni gli altri,
come io ho amato voi’ (Gv 15,12; cf. 13,34); ovvero: ‘Che essi siano uno, come
noi siamo uno’ (Gv 17,21. 22)” (P. Le Fort, Les structures
de l'Église militante selon Saint Jean, Genève 1970, 172). In
queste parole di Gesù, che sono al tempo stesso di imperativo e di invocazione,
si coglie il triplice senso della parola “kathòs”riguardo al rapporto fra la
Trinità e la Chiesa: la Chiesa viene dalla Trinità, dall’amore che lega il
Padre e il Figlio nello Spirito Santo, è immagine della Trinità e tende verso
la Trinità. La Chiesa è inseparabilmente la “kènosi” - cioè la consegna amorosa
e umile - e lo “splendore” - cioè la partecipazione reale e vivificante - della
Trinità nel tempo!
In che senso la Chiesa sia “kènosi”
della Trinità lo fa comprendere una splendida intuizione della meditazione
teologica dell’Oriente: “Lo Spirito Santo si comunica alle persone, segnando
ogni membro della Chiesa con il suggello di un rapporto personale ed unico con
la Trinità, divenendo presente in ogni persona. Come? Qui permane un mistero:
il mistero dell'esinanizione, della ‘kènosi’ dello Spirito Santo veniente nel
mondo. Se nella ‘kènosi’ del Figlio la persona ci è apparsa mentre la divinità
rimaneva nascosta sotto ‘le sembianze del servo’, lo Spirito Santo, nel suo
avvento, manifesta la natura comune della Trinità, ma lascia che la sua persona
sia dissimulata sotto la divinità. Rimane non rivelato, nascosto per così dire
dal dono, affinché il dono ch'Egli comunica sia pienamente nostro, fatto
proprio dalle nostre persone” (V. Lossky, La
teologia mistica della Chiesa d'Oriente, Bologna 1967, 160s). In maniera
analoga il Concilio Vaticano II parla di una “non debole analogia” fra il
mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio e il mistero della Chiesa:
“Infatti, come la natura assunta è a servizio del Verbo divino come vivo organo
di salvezza, a lui indissolubilmente unito, in modo non dissimile l'organismo
sociale della Chiesa è a servizio dello Spirito di Cristo che lo vivifica, per
la crescita del corpo (cf. Ef 4, 16)” (Lumen
Gentium 8).
La Chiesa è anche lo “splendore”
della Trinità, cioè la partecipazione viva alla Sua gloria fra gli uomini: i
discepoli vivono nello Spirito per il Figlio alla presenza del Padre, e si
lasciano amare dal Padre per Cristo nello Spirito. Perciò, la legge
fondamentale della Chiesa è la stessa della vita trinitaria: l’agape, la carità
di Dio, l’amore. La Chiesa è la Chiesa dell’amore: una Chiesa senza amore è un
corpo senz’anima, uno scheletro senza carne. Tutto nella Chiesa viene
dall’amore: l’agape è l’anima della Chiesa, il distintivo di quanti credono nella
rivelazione dell’amore del Padre compiutasi in Cristo. “Allélon _ allélous” -
“gli uni gli altri” è la formula che nel Vangelo di Giovanni corrisponde al
“kathòs”: se il “come” dice il rapporto tra noi e la Trinità,
“allélon_allélous” dice il rapporto della reciprocità fra di noi. È insomma la
carità di Dio a fondare la carità fraterna: e questa è la partecipazione alla
vita divina nell’umiltà del tempo.
La Chiesa è dunque “kènosi” e
“splendore” della Trinità nella storia: è in questa formula che può riassumersi
la profezia del Concilio Vaticano II sulla Chiesa, espressa nella costituzione Lumen Gentium, la cui struttura portante
è costituita dalla meditazione sul rapporto fra la Trinità e la Chiesa. Il
capitolo primo, dedicato al mistero che è la Chiesa, presenta l’idea chiave che
la Chiesa viene dalla Trinità: “De Trinitate Ecclesia”. I capitoli che vanno
dal secondo al sesto mostrano come la Chiesa - nella sua articolazione
carismatica e ministeriale - sia icona della Trinità: “communio sanctorum”. Il capitolo
settimo presenta la Chiesa che va verso la Trinità nel pellegrinaggio del
tempo: “Ecclesia viatorum”. Il capitolo ottavo, infine, riassume l’immagine
trinitaria della Chiesa nella figura di Colei che è in persona l’icona vivente
del popolo di Dio: Maria...
1. Da
dove viene la Chiesa? La memoria dell’origine: “de Trinitate Ecclesia” (Lumen Gentium cap. I)
L’amore di Dio precede l’amore
dell’uomo: la Chiesa non è frutto di “carne e di sangue”, non è un fiore
spuntato dalla terra, ma è dono dall’alto, frutto dell’iniziativa libera e
gratuita della carità divina. Pensata da sempre nel disegno salvifico del
Padre, essa è stata preparata da Lui nella storia dell’alleanza con Israele,
perché, compiutisi i tempi, fosse posta nell’effusione dello Spirito. Come il
suo Signore, la Chiesa è “oriens ex alto”: la sua origine non è quaggiù, in una
convergenza di interessi umani e nello slancio di qualche cuore generoso, ma è
“in alto”, presso Dio, da dove è venuto il Figlio nella carne, per vivificare
questa carne nel dono della vita trinitaria. Con la storia di Pasqua, lo
Spirito è entrato in modo pieno e definitivo nella vicenda di questo mondo: Dio
ha avuto “tempo per l’uomo”, e i giorni dell’uomo sono diventati, a partire
dall’alba della resurrezione, il tempo penultimo, il “frattempo”, che sta fra
la prima venuta del Figlio dell’uomo e il suo ritorno nella gloria, tempo dello
Spirito che instancabilmente opera nella vicenda umana. Dalla missione del
Figlio e dello Spirito è nata la Chiesa, partecipazione reale della vita
trinitaria nel tempo degli uomini: “De unitate Patris et Filii et Spiritus
Sancti plebs adunata” - “Popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo” (S. Cipriano, De
Oratione Dominica 23)! Tre conseguenze possono trarsi da questo richiamo
dell’origine “ex alto” per l’idea che possiamo farci della comunione
ecclesiale.
In primo luogo, il richiamo
dell’origine trinitaria ci fa capire che la Chiesa è dono e grazia: la Chiesa non si inventa né si produce, si riceve.
Non è il frutto della fatica dell’uomo, ma l’offerta gratuita di una grazia,
che non è né meritata né prevedibile. La Chiesa nasce dall’accoglienza e dal
rendimento di grazie: ne risulta l’esigenza di uno stile di vita contemplativo
ed eucaristico. Lì dove Dio è adorato nell’attesa perseverante, lì dove si
celebra il rendimento di grazie nella memoria potente, che attualizza la
presenza del Crocifisso Risorto fra i suoi, lì irrompe lo Spirito e suscita la
famiglia dei figli di Dio. Non è la ricchezza dei mezzi umani, ad edificare la
Chiesa, anzi, non è nonostante, ma spesso è proprio mediante la mancanza dei
mezzi umani che la Chiesa si edifica! È il primato della dimensione
contemplativa della vita che sempre di nuovo alimenta e rigenera la Chiesa:
questa convinzione è espressa dai Padri attraverso la bellissima immagine della
Chiesa “luna”. La Chiesa è la luna perché nella notte del mondo essa risplende
della luce del solo sole, Cristo, che la raggiunge con i suoi raggi e la fa
risplendere per illuminare le genti: “Questa è la vera luna - scrive
Sant’Ambrogio -, che dall’intramontabile luce dell’astro fraterno ottiene la
luce dell’immortalità e della grazia. Infatti la Chiesa non rifulge di luce
propria, ma della luce di Cristo. Trae il suo splendore dal sole della
giustizia, per poter poi dire: Io vivo, però non son più io che vivo, ma vive
in me Cristo!” (Hexaemeron 4, 8, 32).
In quanto dono e grazia, la Chiesa
è, quindi, tutta relativa a Cristo, tutta orientata a Lui e dipendente da Lui:
luna crescente, quando annuncia la Parola della vita, luna piena quando celebra
i divini misteri, luna calante nella notte della carità. È la Chiesa di Dio,
che vive solo della luce da Lui trasmessale attraverso il Verbo fatto carne per
noi. Talmente profonda è la convinzione dei Padri che la Chiesa dipende
totalmente dalla relazione vitale col suo Signore Gesù, che non manca nei loro
scritti l’invocazione rivolta alla Sposa a non allontanarsi mai da Lui, lo
Sposo lunare: Anastasio il Sinaita, ad esempio, voce dell’Oriente cristiano,
non esita a supplicare così la Chiesa: “Non eclissarti mai nell’oscurità del
novilunio, o sempre raggiante Luna! Rischiaraci il sentiero nell’impenetrabile
divina oscurità delle Scritture! Non cessare mai, o sposa e compagna di viaggio
del Sole Cristo, che qual consorte lunare t’avvolge con la sua luce, non
cessare mai di inviarci da lui i tuoi raggi luminosi, perché egli da sé e per
tuo tramite doni alle stelle la sua luce e le infiammi di te e per te” (Anagogica Contemplatio in Hexaemeron 4).
È su questo stesso registro che la meditazione patristica paragona la Chiesa a
Maria, la Vergine Madre, come lei contemplativa dell’Eterno per essere come lei
madre dei figli di Dio: “La verginità che Cristo voleva nel cuore della Chiesa,
la protesse prima nel corpo di Maria. La Chiesa non potrebbe essere vergine se
non avesse trovato lo sposo, al quale doveva essere data, nel Figlio della
Vergine” (S. Agostino, Sermo 178,4).
La Chiesa “oriens ex alto” si lascia coprire come Maria dall’ombra dello
Spirito nella perseveranza dell’ascolto e dell’accoglienza contemplativa
dell’amore: “Vergine è la madre di Cristo, vergine è la sua sposa, la Chiesa”
(S. Ambrogio, De Virginibus I, 5,
21s). Senza accoglienza contemplativa non c’è Chiesa, né grazia, né amore
ricevuto e donato!
In secondo luogo, la Chiesa si offre
come mistero: in quanto è opera di
Dio anzitutto, e non dell’uomo, la Chiesa è, nella sua natura più profonda,
inaccessibile a uno sguardo puramente umano, tale da non lasciarsi catturare
dalle coordinate di questo mondo. Anche se è vero, e sarà sempre vero, che la
Chiesa è una presenza fra le presenze della storia, resta pur vero che essa è
il luogo di un’altra Presenza, la vivente memoria di Colui, che, entrato nella
storia, non si lascia ridurre ad essa. La Chiesa viene da altrove: chi vuole
misurarla e definirla con gli schemi delle analogie di questa terra, chi non
vuol vedervi altro che una forza fra le forze della vicenda umana, non ne
conoscerà mai il cuore. Un altro mondo si affaccia in questo mondo: lo Spirito
entra nella carne, la uccide e la resuscita a nuova, impensabile vita. Questo
luogo dell’incontro fra i mondi, questa terra straniera eppure familiare,
quest’incrocio di un piano conosciuto con un altro a noi sconosciuto e potente,
è la Chiesa: “mistero”, tenda di Dio fra gli uomini, frammento di carne e di
tempo in cui lo Spirito dell’Eterno ha preso dimora! In quanto, poi, il mistero
è secondo l’idea biblico - paolina il disegno divino che va attuandosi nel
tempo, taciuto dai secoli e manifestato in Cristo Gesù (cf. Rm 16,25), la
Chiesa nella sua dimensione misterica va riconosciuta con gli occhi della fede:
la gloria nascosta e rivelata nella storia si lascia discernere da chi sa
leggerne i segni con intelligenza d’amore. Perciò la Chiesa è oggetto di fede -
“credo Ecclesiam”, recita il credo - e perciò il discernimento del mistero,
operato sotto l’azione dello Spirito, sarà sempre necessario alla vita e alle
scelte del popolo di Dio nel tempo.
Il discernimento, tanto a livello
spirituale personale, quanto a livello pastorale, implica tre momenti tra loro
strettamente connessi: l’assunzione della complessità; il confronto con la
Parola di Dio; l’indicazione di piste provvisorie e credibili. Assumere la
complessità significa riconoscere la mondanità del mondo in tutto il gioco dei
rapporti storici che la caratterizzano. Assume la complessità chi non legge la
storia a partire da uno schema ideologico precostituito, sforzandosi di
lasciarsi inquietare nei suoi pregiudizi, accettando di non avere diagnosi già
fatte e terapie predeterminate: la comunità dei credenti, sotto la guida dei
Pastori, dovrà vivere sulla breccia della storia, nel dialogo e nella compagnia
con gli uomini, che fanno la rete vitale di relazioni in cui la fede è vissuta
e sfidata. Questa assunzione della complessità porta con sé, naturalmente,
l’inevitabile rischio di aver a che fare con l’ambiguità della storia: la
possibilità di lasciarsi confondere è sempre incombente! È per questo che il
discernimento della fede deve riferirsi sempre al suo criterio di orientamento,
che è la Parola della rivelazione, trasmessa nella Chiesa: esperta della
complessità, la comunità ecclesiale non cercherà nella Scrittura soluzioni già
pronte o facili risposte; accetterà invece di ascoltarla religiosamente nella
pazienza di itinerari di comprensione non sempre brevi e luminosi.
Alla Parola il credente e la
comunità cristiana porteranno la storia reale, le domande aperte, le luci
intraviste, i doni riconosciuti, i sentieri interrotti, le cadute possibili: ad
essa chiederanno la luce per orientare il cammino, per discernere e giudicare
lì dove è necessario e possibile, per attendere e pazientare lì dove non c’è
ancora chiarezza. Nell’incontro fra la Parola e la storia - “fra la Bibbia e il
giornale”, come amava dire Karl Barth - il discernimento della fede avanza
proposte provvisorie e credibili: esso non conduce a soluzioni totali e
definitive, perché tutto quanto è legato alla storia resta segnato dalla
contingenza e dalla complessità della vita. E tuttavia, la fatica del
discernimento spirituale e pastorale tende a dare indicazioni sulle quali poter
fare affidamento, proprio perché radicate nella fedeltà all’uomo e
nell’esigente e normativa fedeltà alla Parola di Dio. Leggendo la storia nel
Vangelo, il discernimento viene a leggere analogamente il Vangelo nella storia:
esso propone il punto di vista della fede, non in una inquietudine perennemente
insicura, ma nella fiducia della fedeltà divina, che nella Parola parla anche
alla storia presente. È in tal modo che sono riconosciuti i “segni dei tempi”
(cf. Mt 16,3), quegli eventi in cui lo sguardo credente coglie l’immutato ed
insieme drammatico agire di Dio nella storia, in forza del quale il mistero
della Chiesa va manifestandosi nella complessità delle sue espressioni e delle
sue realizzazioni nel tempo degli uomini.
In terzo luogo, il richiamo
dell’origine porta a ripensare la Chiesa nel suo aspetto di comunità impegnata nella storia: come il Verbo si è fatto carne, entrando fino
in fondo nelle contraddizioni dell’esistenza umana e nella morte, così la
Chiesa dell’amore dovrà farsi presente fino in fondo a tutte le situazioni
umane, per contagiare in esse la forza e la pace del Redentore dell’uomo.
L’indole contemplativa dell’essere e dell’agire ecclesiale non significa in
alcun modo fuga dal mondo o paura di impegnarsi in esso: se il Dio della Chiesa
si è fatto totalmente dentro alla vicenda umana, la Chiesa di Dio non potrà
restare spettatrice della storia, chiamandosi fuori dalle sofferenze e dalle
speranze degli uomini. La gloria di Dio si celebra lì dove è promossa la vita
dell’uomo: “Gloria Dei vivens homo” - “La gloria di Dio è l’uomo vivente”
(Sant’Ireneo di Lione). Non c’è situazione umana, specialmente di dolore e di
miseria, dalla quale la Chiesa possa sentirsi estranea: il suo compito è di
rendersi presente in una solidarietà, che non sia né forzatura né supplenza. La
Chiesa sarà, allora, dalla parte dei poveri, perché solidale ad essi
nell’unione a Colui, che si è fatto solidale con loro: una Chiesa del primato
della carità, voce dei deboli, debole e povera essa stessa, fiduciosa
nell’unica forza che le è dato di dare, quella del suo Signore crocifisso e
risorto. Una Chiesa in cammino con gli uomini, capace di portarne a Dio le
lacrime e la protesta ed insieme capace di annunciare loro l’altra dimensione,
l’orizzonte del Regno che viene, contestazione e sovversione della miopia dei
calcoli e delle presunzioni di questo mondo. È l’“Ecclesia de caritate”, che
vive della fede “caritate formata”, di cui parla San Tommaso d’Aquino: la
Chiesa che riconosce nella carità non un’attività fra le altre, ma
l’espressione propria del suo essere e della sua vocazione più profonda di
popolo adunato dalla Trinità a gloria del Dio che è Amore.
La
contemplazione del mistero della Chiesa, scaturente dalle sorgenti della carità
divina, interroga così il nostro discernimento di discepoli. Dinanzi
all’“Ecclesia Mater” ci chiediamo: amiamo la Chiesa, la amiamo veramente,
riconoscendola Madre nella grazia, verso cui siamo debitori del dono più
grande, la fede? Scrutando il mistero del suo realizzarsi nel tempo secondo il
disegno divino ci domandiamo: viviamo il continuo discernimento dei segni di
Dio nella vita e nella storia per riconoscere le vie lungo le quali il Signore
ci chiama ad edificare e far crescere la Sua Chiesa? Sul piano personale
l’interrogativo ci riguarda da vicino tutti, in prima persona: esercito questo
discernimento della fede nell’ambito della mia vocazione e del ministero cui
sono stato chiamato? Do sempre, in tutto, il primato alla dimensione
contemplativa della vita, da cui la Chiesa dell’amore è sempre di nuovo
generata? Mi riconosco relativo totalmente a Cristo, mio Signore e mio Dio? Do
spazio nella mia giornata all’esperienza spirituale della Trinità Santa,
attingendo vita alla Parola di Dio, alla preghiera liturgica , all’adorazione
prolungata, all’esercizio della carità? Mi sforzo di vivere tutti i rapporti
nell’amore, agendo da testimone credibile della Chiesa dell’amore, di cui sono
figlio? In particolare, mi sento responsabile nell’edificare per la parte che
mi è data la Chiesa della carità, voluta dal Signore Gesù? Che spazio do nel
mio tempo e nel mio cuore alla carità vissuta verso i più poveri e i più deboli
dei miei compagni di strada? Infine, sul piano personale come su quello da esso
inseparabile del nostro essere e volerci insieme Chiesa dell’amore, ci
chiediamo con umiltà e verità: siamo credibili nelle scelte e nei comportamenti
della nostra vita, dando ragione in essi del nostro essere discepoli del
Signore Crocefisso, che si è consegnato alla morte per noi e ha effuso lo
Spirito della carità di Dio nel nostro cuore? Consapevoli della fragilità delle
nostre realizzazioni davanti alle esigenze della sequela di Gesù, come Chiesa
dell’amore sentiamo il bisogno di rivolgerci al Padre suo e nostro con la
fiducia degli amati in Colui, che è l’Amato, il Cristo Signore...
2. Che cos’è la
Chiesa? La coscienza del “frattempo”: “communio sanctorum” (Lumen Gentium cap. II-VI)
Nell’orizzonte del tempo
“penultimo”, che precede l’ultimo tempo in cui Cristo consegnerà ogni cosa al
Padre e Dio sarà tutto in tutti, la Chiesa si presenta come il popolo di Dio,
la comunità che nasce dall’alto e tende verso l’alto nel cammino dei giorni: ricevendo
lo Spirito di Cristo, che fa di essa la comunione della vita nuova in Lui, la
Chiesa è “icona” della Trinità, strutturata a immagine della vita trinitaria.
Analogamente a come nella Trinità le Persone divine si in-abitano
reciprocamente l’una nell’altra, pur senza perdere la loro distinzione -
secondo quello scambio vitale che viene chiamato dai Padri greci “pericóresi”
-, nella Chiesa la molteplicità delle persone e delle Chiese locali partecipa
dell’unità della vita secondo lo Spirito, che fa di essa l’unico Corpo di
Cristo, pur senza perdere la distinzione dei doni e dei servizi nella varietà
delle realizzazioni storiche particolari, secondo una vera e propria
“pericóresi” ecclesiale. In questa luce si comprende perché sin dalle più
antiche professioni di fede la Chiesa - “icona della Trinità” - sia chiamata
“communio sanctorum”: l’espressione fa parte della terza sezione del Simbolo
Apostolico, quella dedicata allo Spirito Santo. Già questa collocazione mostra
come la formula contenga un riferimento pregnante alla Terza Persona divina: la
Chiesa “communio sanctorum” manifesta l’azione dello Spirito Santo nel popolo
di Dio pellegrino nel tempo. L’espressione ha pertanto vari livelli di
significato: raggiunti e trasformati dall’unico Spirito (“communio Sancti”),
attraverso la partecipazione ai beni della salvezza (“communio sanctorum” nel
senso del genitivo plurale neutro), i battezzati esprimono nella loro vita e
nelle relazioni reciproche la meravigliosa varietà dei suoi doni, orientati
all’utilità comune (“communio sanctorum” nel senso del genitivo plurale
personale).
Secondo il primo livello di
significato, la formula “communio sanctorum” rimanda all’azione dello Spirito
Santo, che vivifica e santifica la Chiesa (communio
Sancti Spiritus), facendone la comunione dei santi: essa dice così da una
parte la ricchezza carismatica del popolo di Dio, dall’altra la profonda unità
nel tempo e nello spazio operata in esso dal Consolatore. Come è sceso sul
Verbo incarnato, l’Unto, il Messia, così lo Spirito scende sui singoli
battezzati, arricchendo ciascuno dei doni o carismi in cui si esprime l’unica
vocazione alla santità nella varietà delle vocazioni particolari. La Chiesa è
tutta “carismatica”, tutta pervasa dal soffio creatore dello Spirito divino,
che non cessa di suscitare in essa una meravigliosa molteplicità di possibilità
in cui vivere la carità divina, alle quali occorre sempre restare aperti e
disponibili, in un discernimento vigile e credente. In forza dell’unicità dello
Spirito di Cristo, questa molteplicità non solo non danneggia, ma arricchisce
l’unità della Chiesa, perché una sola è l’unzione che viene dal Santo: “Vi sono
poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di
ministeri, ma uno solo è il Signore... E in realtà noi tutti siamo stati
battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci,
schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito” (1 Cor 12,4s.
11-13: cf. Lumen Gentium 4 e 12).
Così, tutta la Chiesa è chiamata ad
annunciare il Vangelo ad ogni creatura.
Non è però solo nell’oggi che lo
Spirito edifica la Chiesa, comunione dei santi: la Sua azione abbraccia
l’intero cammino del popolo di Dio nella storia, realizzando quell’unità dei
tempi in Cristo, centro e Signore della storia, che assicura alla Chiesa la
permanenza in essa del suo principio vitale trascendente in ogni situazione. Lo
Spirito è così il garante della dimensione storica del mistero, Colui che ne
assicura la realizzazione nel tempo, il Soggetto trascendente, sempre vivo e
operante, dell’economia della salvezza. Grazie allo Spirito l’esperienza del
Risorto, fatta dalla comunità delle origini, potrà essere vissuta sempre di
nuovo, perché sarà resa attuale da Lui nella fede, nel culto e nella comunione
del popolo di Dio pellegrino nel tempo. Questa trasmissione fedele dei beni
della salvezza, che fa della comunità dei discepoli l’attuazione permanente
della comunione dell’età apostolica in Cristo e con Lui, è la Tradizione
apostolica della Chiesa, che nasce dalla testimonianza degli Apostoli e ad essa
continuamente si rapporta come alla sua norma e al suo fondamento. La
Tradizione è - in questo senso - la storia dello Spirito nella storia della Sua
Chiesa. Di questa Tradizione apostolica è segno, garanzia e strumento privilegiato
la successione apostolica del ministero, in cui viene ad attuarsi la presenza
costante del Cristo, Capo del Corpo ecclesiale, che opera la raccolta
dell’Israele finale: la trasmissione del ministero è, così, tanto espressione
della comunione dello Spirito Santo, quanto totalmente al servizio di essa. Ad
essa è legata in particolare, la fedele trasmissione dei mezzi della salvezza,
che sono i segni efficaci, mediante i quali lo Spirito comunica la grazia
secondo la promessa del Signore. Questi segni, sorgenti della santità della
Chiesa, luoghi dell’incontro con Dio nel tempo, sono - in forma diversa, ma
complementare - la Parola di Dio e i Sacramenti.
Veniamo così al secondo livello di
significato dell’espressione “communio sanctorum”, quello che considera il
genitivo plurale come neutro e indica perciò la comunione delle realtà sante (i
“sancta”), la comunione cioè ai mezzi e ai doni della salvezza data da Dio in
Cristo, che costituiscono l’economia dei sacramenti (communio sanctorum sacramentorum). Questa economia sacramentale è
tutta relativa alla Parola di Dio, di cui il sacramento non è che la massima
attuazione: fra Parola e Sacramenti il rapporto è così stretto, che i Padri
definivano la Parola della rivelazione “sacramento udibile” (“sacramentum
audibile”) e il Sacramento “parola visibile” (“verbum visibile”). Ad agire
tanto nella Parola di Dio, quanto nei Sacramenti è in realtà l’unico Spirito,
che raggiunge i cuori e li trasforma. La relazione fra Parola e Sacramenti,
perciò, non sarà mai abbastanza sottolineata sul piano esistenziale e
nell’azione pastorale: mai la celebrazione del sacramento dovrà prescindere
dalla Parola proclamata, che suscita la fede e apre le coscienze alla
profondità del dono; mai la proclamazione della Parola dovrà escludere il
mistero celebrato, in cui la grazia si fa evento investendo la totalità dei
sensi dell’uomo. L’unità del mistero proclamato, celebrato e vissuto è
l’espressione piena della cattolicità della Chiesa, del suo essere cioè in
pienezza la comunione che partecipa della vita divina della Trinità nella
varietà dei doni e dei servizi. Tutta la Chiesa annuncia così tutto il Vangelo, nella fedeltà al dono
ricevuto e trasmesso nel tempo di testimone in testimone, senza cedere alla
tentazione di ridurre il Vangelo alla storia (secolarismo) o di dedurre
astrattamente le soluzioni storiche dal Vangelo (spiritualismo disincarnato).
Giungiamo così al terzo livello di
significato dell’espressione “communio sanctorum”, quello che riguarda gli
uomini e le donne raggiunti e trasformati dallo Spirito: nel linguaggio del
Nuovo Testamento essi sono i “santi” (cf. ad esempio Rm 12,13; 15,26. 31;
ecc.). La Chiesa, suscitata e vivificata dallo Spirito, è perciò detta la comunione dei santi, di coloro, cioè,
che fanno parte del popolo adunato nell’unità del Padre e del Figlio dallo
Spirito Santo. La “communio sanctorum”, nel senso del genitivo plurale
personale, è anzitutto la comunione dei discepoli del Signore, nella varietà
dei carismi e dei ministeri in essi suscitata dallo Spirito e nella loro
convergenza in vista della crescita comune: perché questa comunione sia
effettivamente vissuta, è necessario che siano detti con la vita tre “no” e tre
“sì”. Il primo “no” è al disimpegno, cui nessuno ha diritto, perché ognuno è per
la sua parte dotato di doni da vivere nel servizio e nella comunione: ad esso
deve corrispondere il “sì” alla corresponsabilità, per cui ognuno si faccia
carico per la propria parte del bene comune da realizzare secondo il disegno di
Dio. Il secondo “no” è alla divisione, che parimenti nessuno può sentirsi
autorizzato a produrre, perché i carismi vengono dall’unico Signore e sono
orientati alla costruzione dell’unico Corpo, che è la Chiesa (cf. 1Cor 12,4-7):
il “sì” che ad esso corrisponde è quello al dialogo fraterno, rispettoso della
diversità e volto alla costante ricerca della volontà del Signore. Il terzo
“no” è alla stasi e alla nostalgia del passato, cui nessuno può acconsentire,
perché lo Spirito è sempre vivo ed operante nello svolgersi dei tempi: ad esso
deve corrrispondere il “sì” alla continua, necessaria purificazione e riforma,
per la quale ognuno possa corrispondere sempre più fedelmente alla chiamata di
Dio, e la Chiesa tutta possa celebrarne pienamente la gloria. Attraverso questo
triplice “no” e questo triplice “sì”, in maniera dunque dinamica e mai del
tutto compiuta, la Chiesa si presenta come icona viva della Trinità,
partecipazione nel tempo alla “pericóresi” della vita divina, impegnata ad
annunciare tutto il Vangelo a tutto
l’uomo, ad ogni uomo.
Lo stesso Cristo e lo stesso Spirito
fondano, poi, l’unità di ciascuna Chiesa locale con tutte le altre nell’unica
Chiesa Cattolica, la comunione, cioè, universale delle Chiese, generate dalla
stessa Parola, dallo stesso Pane, dall’unico Spirito del Signore Gesù. Perciò,
ogni Chiesa locale riconosce se stessa in ogni altra Chiesa generata
dall’eucaristia presieduta dal Vescovo, e partecipa così dell’unità della
“Catholica”, prodotta dall’unico Cristo presente nel Suo Spirito per
riconciliare il mondo in sé. Le singole Chiese locali, in cui e da cui si
realizza l’unità della Chiesa universale, esprimono allora nella loro comunione
un ulteriore aspetto della “pericóresi” ecclesiologica: esse manifestano la
“communio sanctorum” in quanto cooperano attraverso l’unione collegiale dei
loro Vescovi sotto la guida del Vescovo della Chiesa, “che presiede
nell’amore”(“prokatheméne tès agápes”: S. Ignazio di Antiochia, Ad Romanos, Inscriptio), alla testimonianza irradiante dell’unica fede,
dell’unico Signore, dell’unico Spirito. Ogni Vescovo, segno e servo dell’unità
della Chiesa particolare, partecipa perciò alla sollecitudine per tutte le
Chiese nella comunione col Vescovo di Roma, che è nella pienezza della
“Catholica” il segno e il servo dell’unità di tutti i discepoli del Signore
(“servus servorum Dei”), colui che nella comunione della Chiesa annuncia
profeticamente la Parola del Signore, offre il sacrificio e si offre in
sacrificio per il bene di tutte le Chiese, ponendosi come criterio ultimo della
loro unità nella fede, in continuità col ministero svolto da Pietro nel
collegio apostolico. Perciò, secondo l’ininterrotta tradizione della fede
cattolica la “communio” è piena ed autentica quando è vissuta “cum Petro et sub
Petro”.
Anche nella relazione fra le Chiese
nell’unica Chiesa dell’amore vige allora l’esigenza di pronunciare un triplice
“no” e un triplice “sì”: il primo “no” è al disimpegno, perché nessuna Chiesa
particolare può disinteressarsi delle altre o dissociarsi da essa in una
presunta autonomia; il “sì” alla corresponsabilità riguarda tutte le Chiese, ed
esige la sollecitudine fraterna dei loro Vescovi con Pietro e sotto Pietro,
nella comunione viva e responsabile dello stesso servizio all’unica causa del
Vangelo dell’amore. Il secondo “no” è alla divisione, perché a nessuna Chiesa è
concesso di sentirsi “tutto”, quasi che in essa si possa esprimere isolatamente
la totale ricchezza della “Catholica”: il “sì” al continuo dialogo della
comunione, la passione per l’unità visibile e organica del Corpo di Cristo fa
parte della natura più profonda della Chiesa dell’amore in tutte le sue
manifestazioni. Si avverte qui il profondo scandalo della divisione dei
cristiani e l’urgenza dell’impegno ecumenico come dovere di tutti al fine di
realizzare l’unità che Cristo vuole, come egli la vuole, in vista dell’unità
dell’intera famiglia umana secondo il disegno dell’unico Padre di tutti. Il
terzo “no” è alla stasi e alla paura davanti alle sfide del nuovo: nessuna
Chiesa può vivere del passato, evadendo dal presente e chiudendosi alla
necessità della lettura dei “segni dei tempi”. Tutte le Chiese, nella comunione
dell’unità cattolica intorno al Vescovo della Chiesa che presiede nella carità,
sono chiamate al “sì” del costante rinnovamento in ascolto dello Spirito che
soffia dove vuole: in questo senso, la comunione universale della Chiesa è
stimolo alla perenne docilità al Signore, scuola di comunione per le singole
Chiese locali e forza per sostenere l’impegno nel raccogliere le sfide sempre
nuove del tempo in cui ci è dato di vivere, in obbedienza alla Verità che
libera e salva.
La
meditazione della Chiesa “communio sanctorum” ci stimola così a riscoprire la
nostra più profonda identità ecclesiale. Ci chiediamo pertanto: come vivo
l’impegno a cui sono stato chiamato nella Chiesa e per la Chiesa che amo? Come
mi faccio carico della responsabilità e della sollecitudine per la Chiesa
intera, nella comunione ai carismi e ai ministeri altrui? Come mi rapporto al
ministero di unità cui sono chiamato a collaborare, in primo luogo a quello del
Successore di Pietro? Mi apro alla novità dello Spirito, impegnandomi
docilmente nel discernimento di ciò che egli dice al suo popolo, in ascolto
responsabile e attento della Parola di Dio trasmessa nella Chiesa, cui devo
fiducia e obbedienza? Nutro fedelmente la vita secondo lo Spirito,
partecipatami dalla Parola di Dio e dai Sacramenti? Riconosco con gli occhi
della fede la Chiesa come icona della Trinità, nel cui seno sono stato e sono
di continuo generato per celebrare in tutto la gloria della Trinità divina?
Nella risposta a queste domande, se ci coglie la trepidazione delle nostre
realizzazioni incompiute, ci sostiene il “nugolo dei testimoni” (Eb 12,1), che
ci hanno preceduto e ci accompagnano nella fede: da essi, per bocca di San
Giovanni Crisostomo ci giunge l’invito accorato: “Non separarti dalla Chiesa!
Nessuna potenza ha la sua forza. La tua speranza, è la Chiesa. La tua salvezza,
è la Chiesa. Il tuo rifugio, è la Chiesa. Essa è più alta del cielo e più
grande della terra. Essa non invecchia mai: la sua giovinezza è eterna”
(Homilia De capto Eutripio, c. 6). Amandola, ci assicura Sant’Agostino, si
possiede lo Spirito, si incontra Cristo e si vive di lui: “Tanto si ha lo
Spirito Santo, quanto si ama la Chiesa di Cristo” (In Iohan. Evang. Tract.,
32,8). Chiediamo allora al Signore di avere in noi i fiumi d’acqua viva
sgorganti dal Suo fianco, segno e frutto della nostra partecipazione viva e
profonda alla comunione della Chiesa, icona della Trinità.
3. Dove va la
Chiesa? La profezia della Patria: “Ecclesia viatorum” (Lumen Gentium VII)
Come viene dalla Trinità ed è strutturata a immagine
della comunione trinitaria, così la Chiesa va verso la
Trinità nel cammino del tempo,
pellegrina verso la “patria” (come la descrive il
capitolo VII della Lumen Gentium
dedicato appunto all’indoel escatologica della
Chiesa pellegrinante). Nello Spirito, per Cristo essa va verso il Padre: nella
tensione verso questa meta, la Chiesa si riconosce inviata ad estendere la potenza
della riconciliazione pasquale di Cristo a tutte le situazioni della storia
fino a che egli torni, protesa continuamente verso l’alto, verso la gloria del
Signore del cielo e della terra, che è anche la piena realizzazione della creatura. Nata sempre nuovamente
dalla memoria viva degli eventi salvifici, la Chiesa è spinta da essi sempre
nuovamente ad aprirsi al futuro: il dono “già” ricevuto è anticipo e promessa di un
dono più grande, “non ancora” compiuto. È dono che non sazia l’attesa, ma che la sovverte e
la cambia, rendendola più viva e struggente: è segno della “patria” intravista, eppure non
posseduta, rifiuto di ogni idolatria del presente per aprirsi alle cose
venienti e nuove. Il futuro promesso è la qualità dell’essere e dell’agire ecclesiale, la
dimensione che tutto raggiunge e vivifica, il richiamo della fine, che dà il vero senso e valore di
ogni passo dell’incessante cammino. Tre
conseguenze ne derivano per l’esistenza della Chiesa.
In primo luogo, il richiamo della fine insegna alla Chiesa
a relativizzarsi: essa scopre di non
essere un assoluto, ma uno strumento, non un fine, ma un mezzo, non “domina” , ma povera e serva. Essa
sente di essere in cammino, pellegrina verso la terra promessa, pronta, come il
vecchio Simeone, ad aspettare nella fedeltà che passi la notte e spunti la luce che illuminerà per sempre le genti.
Nessuna acquisizione, nessun successo deve temperare in lei l’ardore dell’attesa: ogni “estasi dell’adempimento” va vista come evasione e
tradimento. Ogni presunzione di essere arrivati, di possedere la meta va
contestata: la Chiesa è “semper reformanda”, chiamata a continua
purificazione e ad incessante rinnovamento, inappagata ed inappagabile da
qualsiasi conquista umana. Ella sa di non “possedere” la verità, ma di esserne come “posseduta”: e nello stupore del
mistero divino che la possiede, intuisce di doversi lasciare sempre più possedere dal suo Sposo. Niente è più lontano dallo stile di una
Chiesa non dimentica della fine, che un atteggiamento di trionfalismo, di cedimento
di fronte all’abbagliante seduzione del
potere e del possesso in questo mondo. La Chiesa, nata ai piedi della Croce e
pellegrina in questo lungo Venerdì Santo che è la storia dell’uomo, non dovrà mai scambiare le pallide
luci di qualche onore terreno, con la luce sfolgorante che le è stata promessa nella
vittoria di Pasqua. Contro ogni logica di questo mondo, finalità della Chiesa di Gesù Cristo è scomparire, quando il Regno
di Dio, in essa solo incoativamente presente, si stabilirà nella gloria.
In secondo luogo, il richiamo della fine insegna alla
Chiesa a relativizzare le grandezze di
questo mondo: tutto è per lei sottoposto al
giudizio della Croce e della Resurrezione del Suo Signore. In nome della sua
meta più grande, essa dovrà essere sovversiva e critica
verso tutte le miopi realizzazioni di questo mondo: presente ad ogni situazione
umana, solidale con il povero e con l’oppresso, non le sarà lecito identificare la sua
speranza con una delle speranze della storia. Beninteso, questo non potrà significare disimpegno o
critica a buon mercato: la vigilanza che è chiesta alla Chiesa è ben più costosa ed esigente. Si
tratta contemporaneamente di assumere le speranze umane e di verificarle al
vaglio della Resurrezione, che da una parte sostiene ogni impegno autentico di
liberazione dell’uomo, dall’altra contesta ogni
assolutizzazione di mete terrene. In questo duplice senso, la speranza della
Chiesa, la speranza della resurrezione è la resurrezione della speranza: essa dà vita a quanto è prigioniero della morte, e
spezza implacabilmente quanto presume di farsi idolo della vita. Sta qui l’ispirazione profonda della
presenza cristiana nei differenti contesti culturali, politici e sociali: in
nome della sua “riserva escatologica” , che è la sua speranza più grande, la Chiesa non può identificarsi con alcuna
ideologia, con alcuna forza partitica, con alcun sistema, ma di tutti deve
saper essere coscienza critica, richiamo dell’origine e della fine,
stimolo affinché in tutto si tenda a
sviluppare tutto l’uomo in ogni uomo. Una
Chiesa scomoda o inquietante, libera e serva: non la Chiesa del sistema, del
compromesso o dell’apparente disimpegno, che si
potrebbe essere tentati di costruire. La “patria” , che fa stranieri e
pellegrini in questo mondo, non è il sogno che aliena dal reale, ma la forza stimolante e critica dell’impegno per la giustizia e
per la pace nell’oggi del mondo.
Infine, il richiamo della fine riempie la Chiesa di gioia: essa esulta già nella speranza, che la
promessa ha acceso in lei. Essa sa di essere l’anticipazione militante di
quanto è stato promesso nella
Resurrezione del Crocifisso. Non c’è sconfitta, non c’è vittoria della morte, che
possa spegnere nella comunità dei credenti la forza della
speranza: l’ultima parola è garantita nella vicenda di
Pasqua come parola di gioia e non di dolore, di grazia e non di peccato, di
vita e non di morte. Come i pellegrini di Sion, i cristiani sanno di essere in
cammino verso una meta che è bella, e alla quale
giungeranno per la grazia del Signore: “Quale gioia, quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore!” (Sal 122,1). La loro gioia
non nasce dalla presunzione di edificare essi, con le loro mani, una scala
verso il cielo, una specie di nuova torre di Babele, di un mondo prigioniero di
se stesso. La loro pace e la loro forza sta nella certezza che lo Spirito del
loro Signore è all’opera nel tempo degli
uomini. Dio ha tempo per l’uomo e costruisce con lui la
sua casa! La Gerusalemme, sospirata ed attesa, scende già dal cielo: ai credenti
resta il compito di vivere il mistero dell’Avvento nel cuore della vicenda umana. Verrà l’ora della prova ed anche
dell’apparente trionfo della
morte: ma la Chiesa sa che, dietro le nuvole della tempesta, resta vivo il sole
dorato, e già vince. Nonostante tutto e
contro tutto, dietro le tenebre del presente Cristo è vivo e operante. È Lui che ha vinto il mondo: è Lui la fonte, inesauribile
e vittoriosa di ogni prova, della gioia della Chiesa. Verso di Lui essa
sospira: “Lo Spirito e la sposa
dicono: Vieni!”. A lei egli risponde: “Sì, vengo presto” (Ap 22,17.20).
Da
questa riflessione sulla condizione sempre pellegrinante della Chiesa nel suo
cammino verso la gloria della Trinità, nascono alcune domande per il
discernimento spirituale e pastorale dei credenti: vivo senza risparmio il mio
impegno al servizio della missione confidata da Cristo al suo popolo? Lo vivo
in comunione responsabile con tutti nella comunione articolata della Chiesa
dell’amore? annuncio tutto il Vangelo, senza cedere a riduzioni secolarizzanti
o a spiritualismi evasivi? Mi sforzo di raggiungere tutto l’uomo in ognuna
delle creature cui sono inviato in forza del ministero che mi è affidato? Cerco
di vivere in costante rinnovamento sotto il soffio dello Spirito, sostenendo il
continuo rinnovamento di tutta la Chiesa? Vigilo di fronte al rischio sempre
possibile di lasciarmi sedurre dalle misure del potere o della grandezza di
questo mondo? Cerco e testimonio al di sopra di tutto la gioia e la pace di chi
si riconosce pellegrino verso la patria e ad essa tende nel conforto dello
Spirito e della comunione fraterna della Chiesa?Sono queste le domande che
spingono il discepolo ad invocare il secondo avvento dell’Amato, chiedendo a
Lui di operare nei cuori il miracolo della speranza teologale, capace di tirare
nel presente degli uomini il domani della promessa di Dio.
Conclusione:
Maria, icona della Chiesa(Lumen Gentium VIII)
Maria è la donna icona del Mistero: già la scena
dell'annunciazione, densa anticipazione della Pasqua, rivela la Trinità come il
grembo adorabile che accoglie la Vergine santa, al tempo stesso in cui
manifesta Maria come il grembo di Dio. Avvolta dal disegno del Padre, Maria
viene coperta dall'ombra dello Spirito che fa di lei la madre del Figlio eterno
fatto uomo. Come sottolinea il capitolo conclusivo della Lumen Gentium, fra Maria e la Trinità è stabilito un rapporto di
profondità unica: “Redenta nel modo più sublime in vista dei meriti del Figlio
suo e a lui unita da uno stretto e indissolubile vincolo, è insignita del sommo
compito e della dignità di madre del Figlio, e perciò è la figlia prediletta
del Padre e il tempio dello Spirito Santo” (Lumen
Gentium 53), Maria è “il santuario e il riposo della santissima Trinità”,
come dice S. Luigi M. Grignion da Montfort (Trattato
della vera devozione alla Santa Vergine, n. 5), l'immagine o icona della
Trinità divina. In quanto Vergine,
Maria sta davanti al Padre come recettività pura, e si offre perciò come icona
di Colui che nell'eternità è puro ricevere, puro lasciarsi amare, il Generato,
l'Amato, il Figlio. In quanto Madre
del Verbo Incarnato, Maria si rapporta a Lui nella gratuità del dono, quale
sorgente di amore che dona la vita, ed è perciò l'icona materna di Colui che da
sempre e per sempre ha iniziato ad amare, ed è sorgente pura, puro donare, il
Generante, l'eterno Amante, il Padre. In quanto arca dell'alleanza nuziale fra
il cielo e la terra, Sposa in cui
l'Eterno unisce a sé la storia e la ricolma della sorprendente novità del suo
dono, Maria si rapporta alla comunione fra il Padre e il Figlio e fra loro e il
mondo, e si offre perciò come icona dello Spirito Santo, che è nuzialità
eterna, vincolo di carità infinita ed apertura permanente del mistero di Dio
alla storia degli uomini. Nella Vergine Madre, umile serva dell'Onnipotente,
viene così a specchiarsi il mistero stesso delle relazioni divine: nell'unità
della sua persona viene a riposare l'impronta della vita piena del Dio uno e
trino.
La comunione trinitaria si riflette,
però, anche come abbiamo visto nel mistero della Chiesa: icona della Trinità
essa stessa, la comunione ecclesiale trova nel mistero divino la sua origine,
il suo modello e la sua patria. Icona della Trinità Maria, icona della Trinità
la Chiesa, il loro rapporto non può essere che di una identità simbolica,
intuita già dalla testimonianza della fede delle origini: Maria è la donna Chiesa, la figlia di Sion del
tempo messianico giunto al suo inaudito compimento. La grande tradizione della
fede applica gli stessi simboli biblici, alternativamente o simultaneamente,
alla Chiesa ed alla Vergine: novella Eva, Paradiso, Scala di Giacobbe, Arca
dell'Alleanza... Nella figura concreta della Madre del Signore la Chiesa
contempla il suo proprio mistero, non solo perché vi ritrova il modello della
fede verginale, della carità materna e dell'alleanza sponsale, cui è chiamata,
ma anche e profondamente perché riconosce in lei il proprio archetipo, la
figura ideale di ciò che deve essere, tempio dello Spirito, madre dei figli
generati nel Figlio e Corpo di Lui, popolo di Dio, pellegrino nella fede sui
sentieri dell'obbedienza al Padre. Il Vaticano II, situando Maria nel mistero
di Cristo e della Chiesa, ha potuto confessarla con S. Agostino quale “vera
madre delle membra (di Cristo... ) perché ha cooperato con la sua carità alla
nascita dei fedeli nella Chiesa, i quali di quel Corpo sono le membra” (De Sancta Virgintate, 6: PL 4O,399). “Per questo - aggiunge il
Concilio - è anche riconosciuta quale sovraeminente e del tutto singolare
membro della Chiesa e sua immagine ed eccellentissimo modello nella fede e
nella carità, e la Chiesa cattolica, edotta dallo Spirito Santo, con affetto di
pietà filiale la venera come una madre amatissima” (Lumen Gentium 53). La Vergine-Madre-Sposa, icona del mistero di
Dio, è dunque analogamente icona del mistero della Chiesa.
Quanto più allora la Chiesa venererà
Maria e si affiderà alla Sua intercessione, tanto più sarà se stessa:
nell’icona della Vergine accogliente nell’ascolto e della Madre generosa nel
dono la comunità dei discepoli riconoscerà come la sua vocazione al primato
della contemplazione e della lode sia inseparabile da quella a dare il giusto
primato alla carità. In Maria Sposa dell’alleanza la Chiesa si sentirà chiamata
a cantare come Lei il “Magnificat” delle sorprendenti meraviglie
dell’Altissimo, ed a farlo non solo con la voce, ma con le opere e l’eloquenza
della vita. La mediazione materna di Maria aiuterà la Chiesa a essere quello
che in Lei le è indicato in icona per partecipare un giorno pienamente a quanto
in Lei assunta in cielo è compiuto per sempre. In Maria l’oggi della Chiesa
pregusta già la bellezza del domani di Dio tutto in tutti, e si affida con Lei
alla promessa di Colui che è fedele in eterno…
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