venerdì 5 luglio 2019

La Trinità: alle sorgenti e all'estuario della storia della salvezza, di Papa Giovanni Paolo II


Papa GIOVANNI PAOLO II
   


La Trinità:
Alle sorgenti e all’estuario della storia della salvezza

UDIENZA GENERALE 
Mercoledì, 19 gennaio 2000

1. “Trinità sovraessenziale, infinitamente divina e buona, custode della divina sapienza dei cristiani, portaci al di là di ogni luce e di tutto ciò che è ignoto fino alla vetta più alta delle mistiche Scritture, là dove i misteri semplici, assoluti e incorruttibili della teologia si rivelano nella tenebra luminosa del silenzio”. Con questa invocazione di Dionigi l’Areopagita, teologo dell’Oriente (Teologia mistica I, 1), iniziamo a percorrere un itinerario arduo ma affascinante nella contemplazione del mistero di Dio. Dopo aver sostato negli anni scorsi su ciascuna delle tre persone divine - il Figlio, lo Spirito, il Padre - in quest’anno giubilare ci proponiamo di abbracciare con un unico sguardo la gloria comune dei Tre che sono un unico Dio “non nell’unità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza” (Prefazio della solennità della Santissima Trinità). Questa scelta corrisponde all’indicazione offerta dalla Lettera apostolica Tertio millennio adveniente, che pone come obiettivo della fase celebrativa del Grande Giubileo “la glorificazione della Trinità, dalla quale tutto viene e alla quale tutto si dirige, nel mondo e nella storia” (n. 55).
2. Ispirandoci ad un’immagine offerta dal Libro dell’Apocalisse (cfr 22,1), potremmo paragonare questo percorso al viaggio di un pellegrino lungo le rive del fiume di Dio, cioè della sua presenza e della sua rivelazione nella storia degli uomini.
Oggi, a sintesi ideale di questo cammino, sosteremo sui due punti estremi di quel fiume: la sua sorgente e il suo estuario, unendoli tra loro in un unico orizzonte. La Trinità divina sta infatti alle origini stesse dell’essere e della storia ed è presente nel loro traguardo ultimo. Essa costituisce l’inizio e il fine della storia della salvezza. Tra i due estremi, il giardino dell’Eden (cfr Gen 2) e l’albero di vita della Gerusalemme celeste (cfr Ap 22), corre una lunga vicenda segnata dalle tenebre e dalla luce, dal peccato e dalla grazia. Il peccato ci ha allontanati dallo splendore del paradiso di Dio; la redenzione ci riporta alla gloria di un nuovo cielo e una nuova terra, dove “non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno” (ibidem, 21,4).
3.  Il primo sguardo su questo orizzonte è offerto dalla pagina iniziale della Sacra Scrittura, che addita il momento in cui la potenza creatrice di Dio trae dal nulla il mondo: “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gen 1,1). Questo sguardo si approfondisce nel Nuovo Testamento, risalendo fin nel cuore della vita divina, quando Giovanni, all’inizio del suo Vangelo, proclama: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1). Prima della creazione e a fondamento di essa, la rivelazione ci fa contemplare il mistero dell’unico Dio nella trinità delle persone: il Padre e il suo Verbo, uniti nello Spirito.
Lo scrittore biblico che scrisse la pagina della creazione non avrebbe potuto sospettare la profondità di questo mistero. Tanto meno era in grado di raggiungerlo la pura riflessione filosofica, giacché la Trinità è al di sopra delle possibilità del nostro intelletto, e può essere conosciuta solo per rivelazione.
E tuttavia, questo mistero che infinitamente ci supera è anche la realtà più vicina a noi, perché sta alle sorgenti del nostro essere. In Dio infatti noi “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28), e a tutte e tre le divine persone va applicato quanto S. Agostino dice di Dio: Egli è “intimior intimo meo” (Conf. 3, 6, 11). Nelle profondità del nostro essere, dove nemmeno il nostro sguardo riesce ad arrivare, la grazia rende presenti il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo, l’unico Dio in tre persone. Il mistero della Trinità, lungi dall’essere un’arida verità consegnata all’intelletto, è vita che ci abita e ci sostiene.
4. Da questa vita trinitaria, che precede e fonda la creazione, prende le mosse la nostra contemplazione in quest’anno giubilare. Mistero delle origini da cui tutto sgorga, Dio ci appare Colui che è la pienezza dell’essere e comunica l’essere, come luce che “illumina ogni uomo” (cfr Gv 1,9), come Vivente e datore di vita. Ci appare soprattutto come Amore, secondo la bella definizione della Prima Lettera di Giovanni (cfr 1 Gv 4,8). Egli è amore nella sua vita intima, dove il dinamismo trinitario è appunto espressione dell’eterno amore con cui il Padre genera il Figlio ed entrambi si donano reciprocamente nello Spirito Santo. È amore nel rapporto con il mondo, giacché la libera decisione di trarlo dal nulla è frutto di questo amore infinito che si irradia nella sfera della creazione. Se gli occhi del nostro cuore, illuminati dalla rivelazione, si fanno abbastanza puri e penetranti, diventano capaci di incontrare nella fede questo mistero, in cui tutto ciò che esiste ha la sua radice e il suo fondamento.
5. Ma come s’accennava all’inizio, il mistero della Trinità sta anche davanti a noi, come il traguardo a cui la storia tende, come la patria a cui aneliamo. La nostra riflessione trinitaria, seguendo i vari ambiti della creazione e della storia, guarderà a questa meta, che il libro dell’Apocalisse con grande efficacia ci addita come suggello della storia.
È questa la seconda e ultima parte del fiume di Dio, che abbiamo poc’anzi evocato. Nella Gerusalemme celeste l’origine e la fine si ricongiungono. Appare, infatti, Dio Padre che siede sul trono e dice: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5). Accanto a lui è presente l’Agnello, cioè Cristo, sul suo trono, con la sua luce, col libro della vita che raccoglie i nomi dei redenti (cfr ibidem, 21,23.27; 22,1.3). E, alla fine, in un dialogo dolce e intenso, ecco lo Spirito che prega in noi e insieme con la Chiesa, la sposa dell’Agnello, dice: “Vieni, Signore Gesù” (cfr ibidem, 22,17.20).
Ritorniamo, allora, a conclusione di questo primo abbozzo del nostro lungo pellegrinaggio nel mistero di Dio, alla preghiera di Dionigi l’Areopagita che ci ricorda la necessità della contemplazione: “È nel silenzio, infatti, che s’imparano i segreti di questa tenebra... che brilla della luce più abbagliante... Essa, pur rimanendo perfettamente intangibile e invisibile, riempie di splendori più belli della bellezza le intelligenze che sanno chiudere gli occhi” (Teologia mistica I,1).




















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