L'ASCESI NELLA LUCE DELL'INABITAZIONE
( in sinu Trinitatis )
di Itala
Mela
Tu, Lux
perennis,Unita Nostris, beata Trinitas, Infunde amorem cordibus.
Te mane laudum carmine
,Te
deprecarnur vespere; Digneris ut Te supplices
Laudemus inter caelites .(1)
Festa di S. Luca Evangelista, 1936
1)"Luce perenne, Trinità beata,
infondi ai nostri cuori, unico Dio, l'amore. Al mattino, alla sera, Ti lodiamo,
Ti preghiamo cantando e il cantico di lode un dì s'eterni in ciel coi Santi,
a Te"
INDICE
Gloria Tibi Trinitas
1. Il Peccato
2. La Preghiera
3. Il Raccoglimento
4. Il Silenzio
5. La S.Messa
6. La S.Comunione
7. L'Ufficio Divino
8. L'Orazione
9. La Carità
10. L'Umiltà
11.L'Abbandono
12.Le Virtù Religiose
13.La Mortificazione e il
Dolore
Preghiera alla SS.Trinità
"Gloria Tibi, Trinitas"
Vivere l'Inabitazione è vivere il proprio
Battesimo. Sarebbe un grave errore credere che il richiamare le anime a
nutrire di questo mistero adorabile la loro vita, sia il richiamarle ad una
"devozione" speciale: è piuttosto un invitarle a vivere della grazia che il
Battesimo ha loro donato, a penetrare la realtà divina promessaci da Gesù:
Veniemus et apud eum mansionem faciemus (2).
Noi dimentichiamo troppo che Gesù stesso ci ha
lasciato questo insegnamento ed ha istruito i discepoli su questo mistero
prima di lasciarli (3): non dimentichiamo che la grande "istruzione" religiosa
lasciata dagli Apostoli ai primi cristiani consisteva in un richiamo
incessante a questo dono divino che col Battesimo avevano ricevuto (4).
L'attingere nel seno della Trinità augusta la luce che ci illumina nell'ascesi
non è cosa nuova; anche in questo possiamo dire di Gesù: exemplum dedit nobis
(5). Sarebbe interessante ricercare nel Vangelo tutti i passi che ci
tramandano l'insegnamento "trinitario" del Maestro; ma basterà ricordare che,
quando Gesù volle esortare gli Apostoli alla perfetta carità, quando volle
ottenere a loro la grazia, attinse nel seno della Trinità SS. l'esempio: ut
unum sint, sicut ego et tu, Pater (6).
S. Paolo ripeteva incessantemente ai suoi
discepoli il suo mirabile templum Dei estis (7) e lo commentava nelle
sue Epistole, senza temere di illuminare le anime ‑pur indotte, appena
"iniziate" ‑ sul dogma più dolce, il possesso del Signore, uno e trino, nel
loro santuario spirituale. Il tono delle nostre istruzioni religiose s'è di
molto abbassato, in genere: si ha paura, si direbbe, a ricordare alle anime il
loro dono, e spesso si preferisce deviarle verso devozioni che, pur essendo
buone, non sono essenziali. Capita così che molti religiosi stessi, molte
persone piissime e starei per dire molti sacerdoti ignorino praticamente
l'Inabitazione. La loro conoscenza dei dogma è puramente teologica ed
astratta: non ignorano che Dio è in loro, con una presenza spirituale perenne
(finché possiedono la grazia), ma non pensano minimamente a mettere a frutto
nel loro sforzo ascetico questa ricchezza.
La loro "strategia" spirituale è spesso complicata; ma, mentre
compiono tante opere meritorie, dimenticano di rivolgere un semplice sguardo
di riconoscente amore a colui che della loro anima ha fatto il suo santuario
(8).
Dio ha voluto vivere nella intimità più
stretta con noi. Non si è accontentato di lasciarci nell'Eucarestia la
possibilità di ricevere per pochi istanti nel nostro cuore il Verbo umanato,
ma ha voluto che, scomparsa la presenza "fisica" del Cristo (9), l'anima non
restasse vuota o sola, ma godesse della presenza delle tre Persone senza
interruzione. E mentre Dio ci elargisce questa intimità, noi ci rifiutiamo a
gioirne, ad attingere in essa quei doni di luce e santità che essa invece è
destinata a portarci.
Illuminare le anime su questo grande mistero, renderlo loro
"sensibile" per così dire, è una grande opera. E' il continuare e il
commentare l'opera di Gesù, che ci ottenne il dono della grazia con la
sua morte e che l'Inabitazione promise come suprema ricompensa dell'amore per
lui, del nostro "innesto" a lui (10): "chi mi ama, il Padre l'amerà, e verremo
e faremo in lui la nostra dimora" (11). Forse attualmente nessuna delle
promesse di nostro Signore e delle realtà celesti della vita cristiana è più
di questa avvolta nel buio di un oblio pratico fra gli stessi fedeli.
(2) Giov. 14, 23.
(3) Nell'ultima Cena. Cfr. Giov. cc. 14‑17
(4)Rom. 5, 5; 8, 9‑27; 1 Cor. 2, 3; 3, 16 s.; 6, 19; 2 Cor.
1, 22; 5, 5; Gal. 4, 6;
5, 22; Ef. 1, 13; Tit. 3, 50; 1 Giov. 1, 1-4; 2, 20-27; 3, 24; 4, 16 ecc.
(5) "ci ha dato l'esempio‑ Cfr. Giov. 13, 15.
(6) Giov. 17, 21.
(7)"Siete tempio di Dio" Cfr. 1 Cor. 3, 16 s.; 6, 19; 2 Cor. 6, 16; ecc.
(8) Itala fa qui, più che un rimprovero, una
costatazione amara. Ella aveva fatto, agli inizi della sua vita spirituale, la
triste esperienza di S.Teresa d'Avila. Racconta la Santa (Autobiografia c. 18,
n. 15) di essersi presentata ad un teologo per esporre il "senso" di una
presenza di Dio in sé, onde avere consigli sul modo di comportarsi. Quel
teologo ("medio letrado", semidotto) sentenziò che Dio "non stava nell'anima
se non per mezzo della Grazia", e cioè che nell'anima c'era solo un effetto
dell'azione di Dio (la Grazia, appunto), non Dio personalmente. S.Teresa
commenta: "Io non lo potevo credere, perché mi sembrava che Dio fosse
veramente presente, e ne sentivo pena. Finalmente un gran teologo dell'Ordine
glorioso di S.Domenico mi tolse da questo dubbio, dicendomi che Dio è
effettivamente presente, e spiegandomi come si comunica a noi. E ne rimasi
consolata".
(9)"Presenza fisica", "Presenza spirituale": entrambe sono presenze reali e
personali, ma qui, per presenza "fisica" Itala intende presenza anche del
corpo, dell'umanità, di Cristo, presenza del Verbo Incarnato, in
contrapposizione alla presenza, reale anch'essa, della sola divinità quale si
ha nell'Inabitazione. E' chiaro che qui Itala non usa una terminologia tecnica
scolastica, ma adopera la parola della lingua italiana secondo l'uso corrente
per indicare un fatto: la presenza reale del Corpo di Cristo nell'Eucarestia,
che viene a cessare con la corruzione delle specie del pane, mentre la reale
presenza delle tre Persone divine in forza dell'Inabitazione rimane (cfr. il
periodo seguente e in seguito, al n. 3 Il Raccoglimento: per troppo
poco tempo possiamo adorare presente in noi il Verbo fatto carne, mentre
sempre possiarno adorare in noi presente il Verbo nella sua unità col Padre e
con lo Spirito Santo).
Itala non si pone il problema teologico del "modo" di essere presente del
Corpo di Cristo nell'Eucarestia.
(10) S.Paolo concepisce il Battesimo come una specie
di innesto che ci unisce vitalmente a Cristo, in modo da fare scorrere in noi
la "1infa" della vita divina (Cfr. Rom. 6, 5; 11, 17-24).
(11) Giov. 14, 23.
I. Il Peccato
L'anima che ha compreso di portare in sé
un dono ineffabile nel Dio uno e trino, giunge spontaneamente, non più per
timore, ma per amore, all'odio della colpa. Il peccato grave le appare come
una orribile profanazione del templum Dei vivi (12). Se la profanazione
del tabernacolo, in cui Gesù riposa, le si presenta come una spaventosa
follia, non meno grave le sembra lo strappare a se stessa, perdendo la grazia,
l'Ospite divino. Che la Trinità si ritiri da lei, che un abisso si frapponga
fra se stessa e colui che a lei s'è donato, e di lei ha fatto il suo
abitacolo, le appare una mostruosa ipotesi. L'anima comprende che è più
comprensibile sacrificare ogni desiderio umano, ogni affetto, ogni cosa più
cara, piuttosto che sacrificare il possesso di colui che la divinizza. Il
"piuttosto la morte che il peccato mortale" non le appare più come una frase
retorica e troppo facile a essere ripetuta senza convinzione, ma come
l'espressione di un convincimento profondo, d'una volontà incrollabile. Nelle
prove e nelle tentazioni l'anima si stringe a Dio, fa del suo centro la sua
roccaforte, cerca di penetrare nel mistero trinitario il segreto dell'amore
che l'ha redenta e che la vuole glorificata nei cieli e attinge in questo
contatto col segreto di Dio la forza per resistere al nemico. Essa contempla
il Padre che l'ha creata e l'ha donata al Figlio perché la redimesse;
contempla il Verbo che perpetua nel seno della Trinità la sua offerta al Padre
per la salvezza degli uomini; contempla lo Spirito Santo che la santifica, che
l'ha precedentemente arricchita del sacro
Settenario (13): sente d'essere oggetto d'un amore
incomprensibile, sente che, se lei sola esistesse al mondo, per lei sola si
consumerebbero nel mistero divino i misteri d'un amore infinito. E in
queste luci l'ipotesi d'una ribellione a Dio, d'un disprezzo della carità del
Padre, dei Figlio e dello Spirito Santo le sembra una terribile aberrazione.
Quando ignorava il suo dono, la spaventava forse meno l'ipotesi d'una
scissione fra lei e un Dio pensato lontano, nei cieli remoti, un Dio
col quale col tempo avrebbe potuto rimettersi in pace: il pensiero
stesso di Gesù eucaristico poteva essere cacciato (vi sono anime che non
entrano più in Chiesa, per evitare di trovarsi di fronte al Cristo fisicamente
(14) presente quando vogliono tradirlo). Ma se l'anima ha compreso che cosa è
la Grazia e l'Inabitazione, trema di più al pensiero di strappare a se stessa
la sua ricchezza divina e di ribellarsi a qualcuno che vive non solo accanto a
lei, ma in lei.
In questa luce lo stesso peccato veniale e
l'imperfezione avvertita (15) le appaiono molto più gravi di quello che
prima pensava. Anche un piccolo "no" all'amato, posseduto in ogni istante,le
sembra ben triste cosa.
Essa ha bisogno di stringersi al Verbo "in sinu Trinitatis " per rispondere
perennemente al Padre I`"Amen" che accetta ogni sua volontà. Ogni
resistenza è una dissonanza fra l'anima e il Signore, ogni "no" è una voce
discorde nel tempio in cui Dio eleva a se stesso un cantico di lode.
Per quanto i piccoli "no" non privino l'anima
dell'Ospite divino, la privano tuttavia d'un possesso più intimo di lui e del
suo amore, e risuonano come una voce irriverente nelle profondità santificate
dal
canticum gloriae.
Quanto più l'anima penetra il suo dono, tanto più è trascinata
non solo a disubbidire in nulla a Dio, ma ad essere docile
ad ogni ispirazione. La voce dello
Spirito Santo le si fa sentire di più in più: lo
Spirito dell'amore le chiede le opere dell'amore.
Piccole o grandi, non importa: esse hanno un valore infinito (16) in quanto le
sono suggerite da lui, e il più piccolo
"sì" dell'anima è un'offerta celeste in
sinu Trinitatis. L'anima lo pronuncia
stretta al Verbo negli ardori dello Spirito Santo; e
allora il piccolo "sì"si
perde nell` "Amen " perenne che a nome di tutti i redenti il Verbo fa risalire
al Padre. Il "si" diventa degno di essere presentato
al Padre stesso: il Padre si curva con amore immenso sull'anima che ha voluto
così testimoniargli la sua fedeltà, secondo le sue piccole forze. E perché
ogni si per quanto minimo, aumenta per l'anima la donazione della carità
divina, stabilisce fra lei e la Trinità rapporti più stretti d'amore e
d'ineffabile intimità.
(12)
2 Cor. 6, 26.
(13) Il "sacro settenario" (cfr. il testo latino della Sequenza di
Pentecoste, strofa 9), è costituito dai sette "doni dello Spirito
Santo", i quali sono disposizioni soprannaturali che lo Spirito Santo,
donandosi a noi nell'Inabitazione, infonde in noi, ci dona, perché noi
possiamo accogliere, senza resistenze, la sua azione santificatrice. Sono in
realtà il risultato di un profondo amore per Dio, infuso e accresciuto da Dio
stesso, che ci mette in "sintonia" con l'Amore infinito che è lo Spirito
Santo, e ci rende docili alle sue ispirazioni e mozioni, al di là delle
intuizioni e motivazioni puramente umane. In Itala questa realtà dei "doni"
dello Spirito Santo sembra trasparire nel suo atteggiamento e nel suo
comportamento costante, specialmente negli ultimi anni (cfr. "amore Supernae
Caritatis inclusa",pp.234-240).
(14) V. nota 9.
(15) L'imperfezione morale avvertita è l'omissione di un bene migliore che
percepiamo come tale, per noi, ora, mentre preferiamo scegliere un bene
minore. Nel dialogo d'amore tra Dio e noi, l'imperfezione è, in fondo, il
rifiuto di un dono più grande che il Signore ci offre, per sceglierne uno
minore, ma secondo il nostro gusto, è l'espressione della nostra volontaria
non disponibilità totale alle altezze divine.
(16) Itala stessa spiega il significato di quello che chiama "Valore
infinito": non siamo certo noi a conferire questo valore alle nostre azioni,
ma lo Spirito che è in noi. In forza dello Spirito Santo che ci anima la
nostra vita, anche nelle più umili manifestazioni, diventa "spirituale", e
partecipa della dignità, certamente infinita, dello Spirito Santo, che la
introduce così nella vita trinitaria.
2. La Preghiera.
Vi sono anime molto pie e anche anime religiose e
sacerdotali che ignorano completamente una delle esperienze
più dolci della vita interiore: la
preghiera messa in relazione col dogma dell'Inabitazione. Senza dubbio il
sentire in sé la Trinità, il contemplarla, il perdersi in essa nell'orazione
passiva, appartengono a grazie che l'anima riceve se e quando piace a Dio. Ma
non vi è dubbio che molte anime sarebbero più
disposte a riceverle, se fossero
più istruite sull'impostazione da dare alla loro
pietà in rapporto al dono che possiedono. Bisogna invitare le anime a uno
sforzo attivo di intimità con le tre Persone, perché
più facilmente giungano all'età felice in cui il
Signore si manifesta nel profondo al loro sguardo rapito.
3. Il Raccoglimento
Le anime pie, i religiosi, i sacerdoti,
che tanto spesso lamentano la dissipazione di una vita forzatamente
tumultuosa, troverebbero ineffabili consolazioni di raccoglimento, se la loro
conoscenza teorica dell'Inabitazione si tramutasse in un viverla
praticamente. Uno sguardo alla propria anima in mezzo alle agitazioni di un
congresso o di un'adunanza, un pensiero alla Trinità che nel profondo
dell'anima glorifica se stessa nella pace inalterabile della vita divina,
potrebbero aiutare un'anima, anche immersa nell'apostolato più ardente, a
conservare il contatto con Dio. Contatto, notiamo bene, non solo utile a
mantenere l'anima in una atmosfera di silenziosa adorazione pur fra il chiasso
di giornate faticose, ma efficacissimo a salvare l'anima da eccessi di
attività, da errori e da cadute, spesso frequenti anche nelle opere di zelo.
Questo rapido incontrarsi dell'anima col suo Dio, questo stringersi a Lui per
un istante ottiene inevitabilmente all'anima stessa una donazione di lumi.
L'anima vedrà che sta per fare o per dire qualcosa che dispiace al Signore
vivente in lei, vedrà un altro qualcosa da sostituire al suo, ed
eviterà i pericoli della dissipazione molto più facilmente che con
complicate strategie spirituali da lei escogitate. Questo contatto potrà
essere un semplice sguardo a Dio nel profondo, per anime non del tutto
inesperte della intimità con lui, potrà essere, per altre, più portate alla
preghiera vocale, un Gloria, una giaculatoria (anche tratta
dall'Ufficio della Trinità), una ispirazione, qualsiasi parola detta a Dio con
attenzione amorosa, mormorata come un atto di carità, d'implorazione e
d'offerta al Signore presente in noi. Quante volte, per esempio, nel
pronunciare il Gloria, pensiamo che la nostra lode è raccolta dal Signore così
vicino da essere il vivificatore dell'anima nostra? Quante volte il nostro
sguardo distratto s'eleva al cielo materiale, senza che mai l'anima lo fissi
in quel cielo che è lei stessa (caeli sumus) ? (17) Quante anime anche
piissime, si farebbero uno scrupolo di dimenticare certe particolari devozioni
(certo buone in sé e utili a loro, se le aiutano a salire a Dio),
ma non si fanno mai
un rimprovero di dimenticare completamente che la grazia del
loro Battesimo e dei sacramenti ha donato loro la Trinità, e che tale dono non
basta conoscerlo astrattamente ma è doveroso viverlo?
Quante anime che non perdonerebbero (giustamente) a
se stesse di abbandonare l'adorazione dei nostri tabernacoli, dove Gesù
perenna la sua presenza fisica fra gli uomini, non sanno neppure di dover
perdonare a se stesse di disprezzare praticamente
(anche se inconsapevolmente) una presenza
spirituale (18) di Dio in loro, non meno mirabile, non meno ricca di carità?
Quante anime pensano che, se noi possiamo stare normalmente troppo poco ai
piedi del Verbo fatto carne, sempre
noi possiamo adorarlo in noi nella sua unità col Padre e con lo
Spirito Santo?
(17) "Siamo il cielo" di Dio. Cfr. anche Sr. Elisabetta della
Trinità. (Cfr. Lettere 102, 107, 112, 134, 159, 217 e l'Elevazione
alla SS. Trinità in Scritti a cura della Postulazione Generale dei
Carmelitani Scalzi, Roma 1967).
L'idea si trova già nei Padri dei primi secoli, anche se questi insistono
più sull'anima come "immagine e somiglianza" di Dio, mentre Sr. Elisabetta e
Itala Mela insistono di più sull'Inabitazione come presenza abituale,
immediata, personale, di Dio in noi.
(18) Cfr. nota 9.
4. Il Silenzio
Da questo contatto con Dio il silenzio deriva con una
facilità relativa, che sorprenderebbe molti monaci, purtroppo talora abituati
a considerarlo come una penosa costrizione ascetíca. Questo immediato pensarlo
in sé porta l'anima, anche la meno sensibile, a una reverente adorazione. Come
qualsiasi persona, anche mediocremente formata sente
di mancare di riverenza con chiacchiere inopportune
dinanzi al tabernacolo, ciascuna anima che pensi all'Inabitazione seriamente,
è portata a tacere molte parole inutili e soprattutto a rispettare il
silenzio, nelle ore fissate dalla Regola conventuale o personale, per quanto è
possibile.
Sono queste le ore in cui l'anima può più
liberamente prendere contatto col Signore e abbandonarsi alla gioia
dell'intimità con lui, gioia non sempre sentita, ma sempre
voluta dall'anima consapevole del suo
dono.
Silentium tibi laus
(19). La fedeltà a tale mortificazione può
portare all'anima insospettate donazioni d'unione. E' possibile chiedere l'esercizio
del silenzio ad anime apostoliche? Senza dubbio
alcuno. Una domanda inutile trattenuta, una
curiosità mortificata, una conversazione interessante interrotta con garbo,
quando più ci avvince, una visita cara rimandata possono dare all'anima più
immersa nella vita attiva le grazie che l'esercizio di un silenzio rigoroso
conquista spesso ai claustrali. Dio compensa quello che ciascuno può dargli
nel suo stato. E se le
anime apostoliche perdono talora doni preziosi, possono imputarne la colpa
alla loro infedeltà a questo esercizio minimo del silenzio, che riproduce
quello regnante nel seno della Trinità SS. In questo
seno divino il silenzio e la lode si associano, la pace e l'attività creatrice
e santificatrice si disposano: lezione meravigliosa
per ogni anima che sappia e voglia
apprenderla.
S.Benedetto considera il silenzio non
solo come mezzo d'unione, ma come espressione dei gradi supremi di umiltà
(e quindi di perfezione)
raggiunti dal monaco (20). Il grande contemplativo non ignorava che il
contatto con il Signore riduce l'anima al silenzio.
Se essa si pone accanto a lui, istintivamente è portata a
moderare " la espressione di se stessa". Questa forma di abnegazione dell'io
sarà da principio solo esteriore, mentre l'anima
parlerà ancora a Dio.
Ma grado a grado il silenzio l'avvolgerà, procedendo dall'esterno all'interno,
fino all'età in cui la sua orazione stessa non sarà che un silenzio profondo.
Allora dall'anima salirà a Dio il maximum
della lode: essa vivrà nella pienezza
il "silentium tibi laus". Sarà questa l'età beata in
cui, notiamolo bene, il contatto con la Trinità inabitante avrà raggiunto
l'intensità massima, l'età in cui l'anima potrà non solo cercare Dio in sé con
uno sforzo attivo di raccoglimento, ma contemplarlo in sé, per una particolare
manifestazione concessale dal suo amore.
(19)
"Per te il silenzio è lode" o, come traduce liberamente Itala (cfr. lettera a
P.P. in Lucciardi, Itala Mela, Roma 1963 p. 234) "è il silenzio la
nostra lode". Qui Itala parla del silenzio come esercizio ascetico. Non si
tratta ovviamente di rifiuto di comunicare col prossimo, ma di un esercizio di
umiltà, frutto e coefficiente di raccoglimento, alimento della vita interiore,
e, in ultima analisi, condizione per una maggiore disponibilità a Dio e ai
fratelli. Ma Itala va oltre questa dimensione ascetica del silenzio per
coglierne la dimensione mistica: il "vuoto"che Dio stesso opera nell'anima per
aprirla alla sua invasione, cfr. S. Gregorio di Nissa e la sua "lode
silenziosa" (Hom. VII, P. G. 44, 728).
20) Cfr. Regola c. VI, Sull'amore al silenzio; c.VII, Sull' Umiltà: nono
e undecimo grado; c. XLII, Sul silenzio dopo Compieta; c. IL, Sull'osservanza
quaresimale.
Non si può trattare della grande liturgia eucaristica, senza
aver prima accennato all'atmosfera del silenzio che l'anima deve formarsi per
vivere l'Inabitazione. Si può presumere che nessuna anima potrebbe penetrare
nella luce trinitaria con la sua preghiera liturgica, se non avesse prima
cercato di cogliere, fra i mille echi della vita quotidiana che la pervadono,
l'eco della lode divina che in lei Dio eleva a se stesso.
Nella S.Messa l'anima vede sensibilmente riprodotti i misteri
d'amore che si celebrano in lei nel seno di Dio. Il Verbo rinnova la sua
Incarnazione e la sua Immolazione per intercedere dinanzi al Padre. Egli
consuma la sua oblazione nel fuoco dello Spirito Santo. E col Verbo, nella
S.Messa, si offrono e si presentano al Padre per essere sacrificati alla sua
gloria tutti i fedeli che penetrino il significato profondo della sacra
liturgia; Gesù non rinnova da solo il suo sacrificio: egli stringe a sé tutti
coloro che con lui vogliono diventare un'unica ostia, perché l'unità del Corpo
mistico col suo Capo non sia un'astrazione o una grazia ricevuta quasi
inconsapevolmente, ma una realtà vissuta da ciascuna anima. E' lo Spirito
Santo che illumina gli eletti su questi ineffabili misteri, che comunica alle
anime generose una scintilla di quella carità consumante che stringe il Verbo
al Padre nel seno della Trinità; e che spinge il Verbo a perpetuare sotto i
veli eucaristici gli annientamenti della sua Incarnazione e dei suo
Sacrificio. Quanto più una anima prende contatto con la Trinità in sé, tanto
più la liturgia eucaristica le apparirà luminosa espressione della liturgia
celeste e dei misteri di carità che nel seno di Dio si consumano ab aeterno.
La liturgia della Messa apparirà all'anima come l'attuazione perenne dell'
Ecce venio pronunciato dal Verbo in sinu
Patris.(21).
L'anima comprenderà in qualche modo l'amore infinito che
stringe il Padre all'Unigenito oblato alla sua gloria usque ad mortem e
le sarà dato anche di comprendere che tale amore è anche sua eredità, suo
possesso, perché il Padre la considera nell'unità col Capo del Corpo mistico:
tanto più quanto più generosamente essa si sarà identificata a questo Capo
divino attraverso l'amore e il dolore.
(21) Cfr. Ebr. 10, 9.
6. La S. Comunione
L'anima sentirà allora il bisogno di unirsi al Cristo
nella sua partecipazione eucaristica alla S.Messa. Essa comprenderà che solo
Gesù potrà svelarle gradualmente i misteri della vita divina: e che stretta a
lui le sarà dato scendere in sinu Trinitatis. Mai come negli istanti
della S.Comunione potrà sperare d'essere oggetto dell'amore del Padre e dei
doni dello Spirito Santo: mai come in questi istanti potrà osare di offrirsi
al Padre per glorificarlo nel compimento della sua volontà. Essa potrà
chiedere a Gesù di introdurla nel sacrario divino per amare con lui il Padre e
per essere avvolta dal suo amore. Gesù, attraverso il suo incruento
sacrificio e con la partecipazione alla sua mensa la renderà meno indegna di
questo ingresso nel seno della Trinità SS. Non voglio parlare di una grazia
"sensibile": ma della grazia reale
che ciascuna Comunione può dare all'anima che sappia chiederla
e che sia consapevole di riceverla.
Poiché Gesù non si può unire ad un'anima senza stringerla a sé
in sinu Patris, siamo noi che riceviamo tali grazie
senza comprenderle e che spesso non ci curiamo
neppure di penetrarle. Noi amiamo esprimere il nostro grazie a Gesù con
linguaggio spesso troppo retorico e non sappiamo bene quello che egli fa in
noi e per noi quando scende nel nostro cuore. Attraverso il velo della sua
umanità adorabile noi giungeremmo alla Trinità SS., se noi sapessimo
squarciare con la nostra fede tale velo. Noi contempleremmo allora il Verbo
incarnato nella sua unità col Padre e con lo Spirito Santo, e comprenderemmo
che stringersi al Cristo è anche stringersi al Padre e allo Spirito Santo:
"Chi ha visto me, ha visto anche il Padre" (22). Per questo una pietà
Cristocentrica è anche una pietà trinitaria. Siamo nel cuore del dogma e della
fede nei suoi cardini: "Unità e Trinità di Dio, Incarnazione, Passione e Morte
di N.S. Gesù Cristo".
Una tale pietà è eminentemente "sacerdotale". Chi mai, più dei
suoi sacerdoti, Gesù desidera introdurre nel mistero della vita divina? A chi
più verrà rivelato tale mistero che a coloro che lo rappresentano presso ì
fratelli? Alter Christus!
Se un sacerdote deve ricopiare in sé quanto è possibile il Maestro, non dovrà
forse penetrare in lui, il Verbo, nel santuario celeste, per prendere parte,
per così dire, alla sua vita in sinu Trinitatis?
Tale vita non offre meno della vita "umana" di Gesù
materia di meditazione. Il solo pensiero dell'annientamento (23) che la vita
umana rappresenta per il Verbo e dell'amore da cui ha avuto origine basterebbe
a nutrire di carità divina, di zelo e di sacrificio una intera vita
sacerdotale.
In sinu Trinitatis il sacerdote si
lascerà avvampare della carità che è Dio, sì lascerà compenetrare della azione
illuminante e consumante dello Spirito Santo, per comunicare ai fedeli i suoi
lumi e i suoi ardori In sinu Trinitatis,
stretto al Verbo, implorerà dal Padre il perdono per i
peccatori, il dono di una grazia crescente per i giusti:
in sinu Trinitatis contemplerà
l'opera della Redenzione, di cui è stato eletto dispensatore e ministro. In
questo abisso comprenderà che una sola cosa
è essenziale, la gloria di Dio, e imparerà a tutto convergere
verso questo fine supremo.
La sua vocazione gli
sembrerà veramente celeste, simile a quella che il Verbo fece sua per
ricondurre al Padre l'umanità. Di più in più il sacerdote vorrà diventare
unum col Cristo per la gloria dei Padre e la salvezza dei suoi fratelli. E
quanto più questo unum diverrà realtà, tanto più Cristo rivelerà al suo
sacerdote il mistero della sua vita divina, della sua unità col Padre e con lo
Spirito Santo.
(22) Giov. 14, 9.
(23) Cfr. Fil. 2, 6-8.
7. L'Ufficio
Divino.
L'Ufficio divino
diventa, per i sacerdoti e per i fedeli che vivono la Inabitazione, la
preghiera preferita dopo quella eucaristica. E' la preghiera divina stessa, la
preghiera che il Cristo eleva al Padre attraverso il suo Corpo mistico, la
preghiera suggerita dallo Spirito Santo.
Nei salmi, nelle orazioni,
nelle lezioni l'anima coglierà lo splendore delle verità eterne e delle
perenni aspirazioni degli uomini. In essi ora sentirà l'eco delle offerte e
delle impetrazioni del Verbo, ora l'eco delle promesse e della volontà del
Padre. Il Gloria ripetuto ad ogni passo richiamerà l'orante al pensiero del
Gloria eterno che risuona nei cieli e che Dio eleva a se stesso nell'anima
sua. L'Ufficio non è più allora un peso grave e sgradito, un compito da
sbrigare al più presto, ma il centro della propria pietà, il mezzo per unirsi
alla lode che tacitamente si perpetua negli abissi dell'anima santificata
dalla grazia. Il fedele sente, allora, che, se non sempre questa lode può
risuonare nel tempio materiale, sempre può effondersi nel tempio mistico della
sua anima per avvolgere come di un'incensazione spirituale il tre volte Santo.
Il fedele anelerà ripetere questo Sanctus mirabile che è l'Ufficio divino nel
profondo del suo cuore, come i Beati e i Cori angelici lo ripetono nell'alto
dei cieli (24). Lo ripeterà non solo a nome suo, ma a nome di tutti i
fratelli, cercando di immedesimare questo piccolo Sanctus umano al vero
Sanctus, quello che la Trinità ripete a se stessa, l'unico degno di esserle
presentato.
(24)
Cfr. Isaia 6, 2-3.
8. L'Orazione
E'
difficile dire quanta influenza può avere nello sviluppo dell'orazione il
culto della Trinità inabitante. L'anima che sa (e ricorda) di portare
in sé il Signore, è inclinata a cercare nel profondo la luce. Bisogna mettere
i fedeli a contatto con le
tre Persone, bisogna loro insegnare a fare
dell'orazione un colloquio intimo con loro, un riposo cuore a cuore
con Dio. Si può esigere che tutti possano "sentire" subito questo cuore a
cuore e fare orazione senza aiuto di testi? No, certamente. S.Teresa usò i
libri di meditazione per diciassette anni. Ma bisogna insegnare
ai fedeli a cercare più vicino a loro,
in loro, il Maestro. Lo Spirito
Santo, con i suoi doni di sapienza, di intelletto, di scienza, segna d'un
sigillo divino il nostro
spirito. Quanto ricordiamo che tali doni sono nostri?
(25) Quanto attingiamo a questa ricchezza per penetrare le cose celesti e le
cose terrene nell'orazione? Non è piuttosto una ricchezza abbandonata negli
abissi dell'anima, mentre ci lamentiamo di non essere capaci di comprendere le
cose divine? Quante volte l'amore di Dio per noi
ci sembra inafferrabile solo perché non pensiamo mai a coglierne nel
seno della Trinità il centro e la realtà ineffabile? Quante volte il Padre
del cielo ci sembra troppo lontano per raccogliere le nostre aspirazioni,
i nostri propositi, il nostro dolore, e non comprendiamo che egli
compenetra la nostra anima del suo amore e attende che noi gli parliamo come
il Figlio al Padre! Quante volte elemosiniamo conforto, luce, aiuto
da mille persone, senza che ci venga in mente di ricorrere
prima di tutto
a chi è in noi per essere l'Amico, il Sostegno, il Maestro,
oltre che il Santificatore! A chi solo può dare agli altri la grazia di
aiutarci e di illuminarci! Molte anime
semplificherebbero di colpo la loro meditazione e soprattutto la
vivificherebbero, se al termine della lettura cercassero in sé
l'oggetto dei loro sospiri e della loro ascesa: l'unico, il
vero Maestro. Molte anime vedrebbero presto cadere il
velo e chiuderebbero per sempre i
testi per ascoltare la lezione interiore, più efficace dei più sublimi
trattati. Dico "molte", non tutte : per
lo meno molte che, non illuminate,
perdono grazie preziose.
(25) Ci sono stati dati e perciò
sono divenuti nostri, ne possiamo disporre secondo la loro intrinseca
finalità, che è quella di renderci sempre più docili alla azione dello
Spirito, più disponibili alle sue esigenze di santità. (cfr. nota 13).
9. La Carità.
Ho già scritto
ripetutamente che non si può elevare lo sguardo alla Trinità SS. senza
cogliere l'essenza della vita divina: la carità, il dono che resterà in
eterno, quando la fede e la speranza stesse non avranno più ragione di
sussistere. Nei rapporti fra le tre Persone, l'orante coglie l'espressione e
la realtà suprema dell'amore. Come ho scritto per la S.Messa, è la
visione del Padre che si curva sull'Unigenito del Figlio che si offre alla
glorificazione del Padre con un ecce venio spinto fino alla
incarnazione e alla morte, dello Spirito Santo, il nodo stesso dell'amore che
trabocca dal seno divino sull'umanità: è il Padre che ama nel Figlio tutti gli
uomini, eletti a fratelli di Cristo; è il Verbo che ama le creature del Padre
fino alla morte, all'Eucarestía, ai Sacramenti tutti; è lo Spirito Santo che
lascia loro i doni supremi dell'amore e del Sacro Settenario.
Considerando il
mistero della vita trinitaria, l'anima non può più dubitare d'essere amata e
non può più esitare a contraccambiare l'amore con l'amore. Abyssus Abyssum
invocat (26): essa si stringerà con tenerezza filiale al Padre, con
riconoscenza inesprimibile al Verbo, con devozione profonda allo Spirito
Santo. A un amore senza misura vorrà rispondere con l'amore più grande di cui
sia capace un piccolo cuore umano. Questa carità porterà, come ho detto,
all'odio del peccato, alla docilità delle ispirazioni, all'offerta generosa di
sé, alla gloria di Dio. Il Verbo sarà in quest'ultima cosa il supremo Maestro.
Questa carità traboccherà dall'anima sui fratelli come
dalla Trinità stessa sul mondo. Noi
ameremo col Padre i suoi figli, i redenti di Gesù; con Gesù vorremo conoscere
le dedizioni più generose al Corpo mistico; con lo Spirito Santo vorremo
illuminare, confortare, irrobustire i fratelli. Saranno le tre Persone che
agiranno nell'Apostolo che vuole far sua,quanto è possibile, la loro vita;
sarà particolarmente il Cristo che sceglierà fra gli eletti coloro che vuole
specialmente deputati a "prolungare" la sua umanità e a continuare la sua
opera di Salvatore nella predicazione e nel sacrificio. Quante durezze, quante
ingenerosità, quante pigrizie cadrebbero se pensassimo a far nostra la vita
divina che è in noi, ed imparassimo, dal Signore uno e trino, ad amare senza
tregua, senza limiti, senza condizioni, a donarci anche se incompresi e
misconosciuti, come colui che è tanto misconosciuto, a perdonare e a ridonarci
senza posa, come colui che non si rifiuta al più piccolo cenno di
dolore e di desiderio e che previene spesso anche questo "cenno"! Quanto
rispetto per le anime santificate dalla grazia! Quanto desiderio di donare la
Trinità a chi è nel peccato, di rivelare la sua presenza a chi la ignora o la
dimentica! Quanto apostolato di vera vita interiore, di vera santità!
L'apostolo non ha che da affondare il suo sguardo in seno a Dio per
comprendere le ragioni supreme della sua opera e la perfetta donazione che
essa richiede, per attingere soprattutto in Dio stesso la carità, i lumi, la
fortezza che ogni conquista richiede. E se ogni fedele considerasse il mistero
della Trinità non come una astrazione, ma come una sorgente viva di luce e di
amore, ogni fedele diventerebbe un apostolo. Il Cristo stesso non può essere
compreso se non nei suoi rapporti col Padre e con lo Spirito Santo e nella sua
unità con loro.
Non bisogna dimenticare
che Gesù considerava un errore in loro l'amarlo e il pensarlo in sé, come
avulso dal Padre celeste; e Gesù cercò di correggere tale concezione errata,
richiamando i discepoli a vederlo nella sua unità, e nei suoi rapporti col
Padre e con lo Spirito Santo. Chi ama lui ama anche il Padre, chi ha visto lui
ha visto anche il Padre: al Padre nella preghiera suprema affida i redenti; è
necessario che egli sia glorificato nei cieli perché discenda il Paraclito: e
la promessa più grande per i discepoli è la venuta delle tre Persone nel loro
cuore: Veniemus (27). E' Gesù stesso che ci ha invitati ad attingere
nella Trinità il modello della carità: "Padre, che essi siano uno come io e te
siamo Uno" (28). Prima di lasciare gli Apostoli Gesù li ha invitati a levare i
loro occhi più in alto che non fossero nella considerazione di lui nella sua
umanità. Li ha condotti a fissarli nel mistero della sua vita divina perché
dalla sua unità col Padre imparassero ad essere una sola cosa nella
consumazione della carità. Questo è stato il testamento del Maestro a coloro
che per primi avrebbero dovuto amare i fratelli fino alla morte subita per
predicare loro la Verità. Uno dei più grandi alunni del Cristo, S.Paolo,
apprese mirabilmente la lezione del Maestro e tradusse con linguaggio divino
questa "unità" fra le membra del Corpo mistico, che ha il suo esempio nella
Trinità stessa. "Chi è ammalato che io non sia infermo? Chi è arso che io non
bruci? Gaudere cum gaudentibus, flere cum flentibus" (29). 1 fedeli
sono un unico corpo; il dolore di uno è il dolore di tutti, il merito di uno a
tutti appartiene. Ciascuno di noi non è isolato, ciascuno deve pregare, amare,
soffrire a nome di tutti i fratelli, perché il Signore ama considerarci
nell'unità, la perfezione dell'amore.
(26)
Salmo 42, 8. L'espressione: "un abisso chiama l'abisso" nel salmo fa parte di
una poetica descrizione del luogo dell'esilio, che coi suoi torrenti in piena
e colle sue cascate, accresce la tristezza del fedele costretto lontano dal
Santuario di Dio e dalle feste che vi radunano il popolo. Ma, divenuta
proverbiale, l'espressione può significare l'efficace richiamo dell'amore
(come qui) oppure anche il pericolo della sdrucciolevole china del vizio.
Itala, citandola, intende dire che l'infinito amore di Dio sollecita la nostra
risposta di un amore totale.
(27) Giov. 14, 23;
cfr. Giov. 8, 9; 12, 26. 44. 50; e i capitoli 14, 15, 16, 17; 1
Giov. 2, 22 ss.
(28) Giov. 17, 11. 21
s.
(29) Rom. 12, 15: "Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete
con quelli che sono nel pianto". La dottrina del "Corpo mistico", per cui la
Chiesa è come un soprannaturale organismo dove i fedeli sono intimamente e
vitalmente uniti a Cristo e tra loro, dove il principio unificante e
vivificante è lo Spirito Santo, è fondamentale in tutto l'insegnamento paolino:
cfr. p. e. 1 Cor. 10, 16 s.; 12, 12-30; Ef. 1, 22 s.; 2, 14-16; 5, 23-30; Col.
1, 18-24; 2, 19; Rom. 12, 4 ss. ecc. Vedi anche Pio XII, Mystici Corporis;
Vat. Il, Lumen Gentium n. 7.
10. L'Umiltà.
S.
Benedetto (30) pone a fondamento della scala dell'umiltà l'esercizio della
presenza di Dio: è il primo grado dell'ascesa. Noi non potremmo vivere meglio
questa presenza che adorando il Signore nella nostra anima. L'adorazione non
sarà soltanto un atto formale, ma una realtà vissuta, quando a Dio vivente in
lei l'anima imparerà a sacrificare l'io. L'io è fondamentalmente ammalato di
orgoglio: vuole "affermarsi" col suo pensiero, con la sua volontà, con
i suoi affetti. L'anima è santificata dalla presenza di colui che è perfezione
infinita. Ma l'io vorrebbe in qualche modo scindersi dal suo Signore, vivere
indipendentemente da lui, contro di lui; è la superbia della creatura accanto
al Creatore. La prima forma dell'umiltà è l'abnegazíone dell'io dinanzi a Dio.
S.Benedetto stesso fa salire il monaco dall'esercizio della presenza di Dio
all'accettazione della sua volontà in tutte le forme. E' l'io che cede il
passo al Signore. E' la creatura che si umilia dinanzi al Creatore. Piegare
dinanzi a lui, piegare anzitutto nel profondo: sacrificare il proprio
pensiero, la propria volontà, i propri affetti per far nostri quelli di lui.
L'anima sacrifica il suo modo di pensare, di volere, di amare, e fa suo quello
di Dio: atteggiamento fondamentale dell'umiltà. Essa attinge
in se stessa, in quanto tempio di Dio, questo "modo"
divino: o meglio in Colui che la inabita. Bisogna lasciare che l'io venga
trasformato da Dio: gettarlo nel seno della Trinità SS. perché il suo modo di
pensare, di volere e di amare diventi divino. Non vi è vera umiltà, senza
questa immolazione profonda dell'io sull'altare della liturgia celeste: questo
sacrificio è anzi l'essenza stessa dell'umiltà.(Chiedersi spesso: io considero
così questa persona, questo evento; Dio in me li considererebbe nello stesso
modo? Io amo questo altro come il Signore e con il Signore, o vi è dualità" La
dualità è l'io che vuol
vivere contro Dio, è l'orgoglio).
La virtù esterna non
è che una conseguenza di questo atto indispensabile di rinuncia interiore. Noi
non ci esalteremo di fronte ai fratelli se avremo riconosciuto l'infermità del
nostro io e la necessità di sacrificarlo al Signore perché non lo offenda.
Ogni esaltazione sarebbe una menzogna e un rinnegamento della verità che vive
in noi. (L'umiltà è verità non solo perché, come si dice abitualmente, è il
riconoscere la nostra vera debolezza, ma anche perché è il nostro
perderci in seno a colui che è il
vero stesso; è il nutrirci
di tale vero nel pensiero, nella volontà, negli affetti, fino a immedesimarci
a lui, fino a vivere di lui in lui nell'unità perfetta e nel
sacrificio completo dell'io).
Solo chi, avendo
riconosciuto la miseria della propria natura, ha abbandonato a Dio l'io
nell'umiltà della verità; solo chi riconosce tra i fratelli questa sua povertà
e insieme la ricchezza divina che può provenirgli da
tale abdicazione, può giungere a una unità
"sensibile" con la Trinità SS. Quanto più questo "riconoscimento" è profondo e
"convinto", tanto più la Trinità si manifesta
all'anima perché l'anima è più unita alla verità.
L'orgoglio pone un velo fitto fra l'anima e il Signore, anche se non è così
grave da separarli decisamente; perché l'orgoglio è opposto al vero e lo
rinnega. "Se non diventerete come fanciulli non entrerete nel regno dei cieli"
(31): non solo nel regno che è il Paradiso, ma nella
sua anticipazione che è l'intimità col Signore su questa terra.
Nessuna anima
potrà godere di una vera e tenace intimità col suo Dio, pur così vicino ad
essa e in essa vivente, se non sarà umile, almeno nella volontà, se non
nella realtà pratica (in essa la perfezione dell'umiltà è difficilmente
raggiungibile, per la tenacia dell'amor proprio).
Ma quando l'anima,
riconoscendo il suo nulla, la sua cecità, la sua inclinazione al male, avrà
chiesto a Dio di invaderla e di comunicarle le sue perfezioni,
quando avrà imparato a volere essere l'ultima dei suoi fratelli, come il
Figlio Prodigo, allora il Signore la introdurrà nel suo regno, manifestandosi
a lei nel profondo e rivelandole i più sublimi misteri della sua vita.
(30) Itala si rifà alla
regola di S.Benedetto (c.VII), ma per cogliervi delle indicazioni valide per
tutti i cristiani, e non solo per ì monaci, considerando la umiltà più che
come una virtù particolare, come l'atteggiamento base onnipresente dell'anima
davanti a Dio, in accordo con tutta la tradizione ascetica.
(31)
Mt. 18, 3.
11. L'Abbandono.
Dall'abbandono
dell'io interiore a Dio, è facile passare all'abbandono nella vita esteriore.
Anche questa è una forma di umiltà. Il Signore che vive in noi non può
volere per noi il male. L'anima che è il suo tempio gli è preziosa più che il
più ricco tempio materiale. Omnia cooperantur in bonum iis qui vocati sunt
sancti (32).
La "santità" non è forse
nel suo significato fondamentale il possesso della Trinità SS. nella grazia?
Dio tutto vuole o permette perché l'anima gli sia sempre più unita, perché sia
sempre più sua. Egli non desidera che comunicarsi di più in più alla sua
creatura, in questa donazione intima il cui valore comprenderemo solo in
cielo. Omnia cooperantur. Nei momenti difficili della vita non
cerchiamo sterili compatimenti e non perdiamoci d'animo. Il Padre dei cieli è
in noi: in noi è il Verbo che nella sua vita terrena ci ha preceduti nella via
del dolore, in noi è lo spirito di fortezza e di consiglio. Stretti al Verbo,
sotto l'impulso di questo Spirito d'amore, ripetiamo al Padre; "in capite
libri scriptum est de me ut facerem voluntatem tuam: Deus meus, volui" (33)"Omniapossum
in eo qui me confortat" (34)."In eo qui me
confortat". Che abisso di luce, se l'anima pensa che questo "conforto",
questo sostegno, è in lei stessa! Quanto più noi ci abbandoneremo a
lui, tanto più egli si abbandonerà a noi. E tale "abbandono" di Dio avviene
sempre, ricordiamolo, nel profondo. Molte sono le vie, ma la pienezza
dell'unione è sempre segnata dal regno incontrastato della Trinità
nell'anima; i germi del Battesimo raggiungono allora il loro massimo
sviluppo. E quando Dio si è abbandonato così a una creatura da lasciarsi
possedere mirabilmente su questa terra, l'abbandono della creatura a lui non è
più difficile. Allora il qui me confortat è pienamente vero,
perché nella luce piena l'anima vede che " tutto"veramente ha cooperato alla
sua santità. Tuttavia per giungere a questa età in cui l'abbandono è amore
e lode sensibile, dobbiamo prima esercitarlo nelle ombre della fede."Beato
chi non ha veduto e ha creduto" (35). Adiuvabit eam Deus vultu suo (36):
il Signore aiuterà l'anima nelle prove spesso terribili della sua ascesa
con la sua presenza adorabile: questa presenza sarà dapprima cercata
con uno sforzo attivo, creduta con la cima della volontà in certe ore buie:
noi ci abbandoneremo al Signore presente in noi ma nascosto: un giorno colui
che sarà stato fedele a cercare Dio nel buio e ad abbandonarsi nelle sue
braccia, senza sentire la sua stretta amorosa e rassicurante, potrà forse
avere il dono d'essere sorretto dalla contemplazione di lui nelle
manifestazioni supreme del suo amore.
(32) Rom. 8, 28. Il testo completo nella traduzione della vulgata è "Scímus
autem quoniam diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum, iis qui secundum
propositum vocati sunt sancti" - "Del resto, noi sappiamo che tutto concorre
al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati (Santi) secondo il
suo disegno". "Santi" è un'aggiunta esplicativa della vulgata: Gli "Eletti",
i "Chiamati" per S.Paolo sono cristiani chiamati alla fede e alla
giustificazione.
(33) Salmo 39 della vulgata, 40
dei testo Massoretico; cfr. Ebr. 10, 5-9.
(34)
Fil. 4, 13: "Tutto posso in colui che mi dà la forza".
(35)
Giov. 30, 29.
(36) Versetto liturgico che si
recitava, prima della riforma, p. e. a terza e a nona dell'Ufficio, delle
Vergini: "Dio l'aiuterà colla sua presenza", "mostrando il suo volto".
Riecheggia il Salmo 46 (Vulgata 45), 6.
12. Le Virtù Religiose (37).
a. La Castità.
L'esercizio dei voti
religiosi può divenire molto più luminoso se considerato nella realtà della
grazia. Non vi è bisogno di fermarsi sull'esercizio della purezza alla luce
dell'Inabitazione, sulla necessità di conservare la "consacrazione"
battesimale del templum Dei. Ogni profanazione di un tempio è sacrilegio.
Forse molte anime giovanili non conoscerebbero certe cadute, se fossero
illuminate convenientemente sulla ricchezza che il Battesimo ha deposto in
loro; non bisogna avere paura di predicare ai giovani e al popolo le verità
dogmatiche più grandi; non bisogna immiserire il dogma. L'esperienza prova che
anche i bambini, istruiti in forma elementare sul dono che possiedono nell'Inabitazione,
acquistano il senso della gravità di ogni profanazione del
templum Dei. S.Paolo non ammoniva
altrimenti i primi cristiani, e per sanarli dalle passioni depravanti, da cui
alcuni non riuscivano a liberarsi, li metteva a contatto con la realtà divina
della grazia, che il Battesimo aveva loro donato. Noi abbiamo immiserito la
nostra pedagogia; e dobbiamo accorgerci con spavento che gli appelli al
rispetto della natura, alla conservazione della salute, all'ubbidienza a un
Dio così poco "nostro" in certe predicazioni non scuotono più le anime. Ma a
parte l'esercizio della purezza, senza il quale non vi è grazia e quindi
Inabitazione, l'amore della castità si sviluppa alla luce della Inabitazione.
E' il conservare tutto per Dio il nostro essere fisico e spirituale, è il
voler conoscere solo il suo amore perché più profonda sia l'unione, più grande
e tranquilla l'intimità.
b. L'Obbedienza.
L'obbedienza ha il
suo grande esempio nel Verbo, disceso dal seno della Trinità SS. a prendere la
nostra carne per compiere la volontà del Padre. Nessuna anima che sia perduta
nella contemplazione di questo annientamento, sentirà come sgradito e
irragionevole il giogo dell'ubbidienza. Dalla contemplazione della Trinità
ogni monaco si sentirà sorretto nelle prove più dure che l'obbedienza
monastica può riserbargli. All'ecce venio
del Verbo farà eco l'ecce venio
dell'anima dinanzi a coloro cha rappresentano il Padre
celeste: omnis paternitas a Deo (38).
E' ancora lo Spirito Santo che suggerisce all'anima questo "sì"
perenne ad ogni ordine: perché il "si" deve scaturire da uno spirito di amore
e non di timore. Sarà lui che renderà l'anima assetata di ubbidienza, perché è
un unico spirito che fa
risalire il Verbo al Padre in un'incessante oblazione, e col Verbo tutti
coloro che a lui vogliono essere stretti.
Unus Spiritus, unum Baptisma (39).
Ogni esitazione svanisce, ogni ribellione si spegne, ogni
timore scompare, se il monaco riflette che il Padre celeste ha comunicato la
sua paternità a chi lo rappresenta e che come il Verbo si dona al Padre
perennemente e si é donato fino all'Incarnazione e alla morte; il religioso
deve abbandonare la sua volontà e tutta la sua vita nelle mani dei
rappresentanti di Dio, sotto l'impulso dello Spirito
d'amore. Abbandonarsi ad ogni esigenza, ad ogni
contraddizione, ad ogni incomprensione.
L'ubbidienza può
stritolare un'anima. Ma nessun annientamento sarà
paragonabile a quello non accettato, ma voluto dal Verbo nell'ardore
dello Spirito Santo.
c.
La Povertà
Bisogna elevare di tono
anche l'esercizio della povertà. Diamo alle anime la coscienza della ricchezza
divina che possiedono, la coscienza piena e pratica: immediatamente le
cose materiali verranno svalutate ai loro occhi. Quando si sa di possedere in
noi Dio uno e trino, il Creatore, il Redentore, il Santificatore; quando lo si
sa, non per una conoscenza astratta, ma per una prolungata meditazione su
questa realtà ineffabile, è difficile potersi attaccare tenacemente
alle cose terrene: rimarrà una sensibilità per esse, certo; ma sarà facile
sacrificarle, per non sacrificare a loro un'intimità più grande con Dio
(intimità, ricordiamolo, inconciliabile con ogni attaccamento).
Molte religiose non si smarrirebbero per l'affetto irriducibile alle loro
piccole cose, se riflettessero che possiedono nel loro cuore il Creatore di
tutte le cose: se comprendessero che tali affetti pongono un velo fra loro e
il Signore e che per rinunciare al possesso o al desiderio di oggetti caduchi,
rinunciano ad attingere più largamente al tesoro divino che la grazia pone non
accanto a loro, ma in loro.
Ma deve pur ricordarsi che
l'intimità col Signore distacca dal creato e pur insegna l'amore del
creato. L'anima che vive a contatto con Dio sente il "culto" di tutto ciò
che la circonda, perché tutto gli appartiene, tutto è reso sacro da questa
appartenenza. Ma questo amore, questo rispetto, questa cura di ogni cosa sono
del tutto soprannaturali. Il monaco che ha reciso ogni legame fra il suo cuore
e le cose create (40) ha stretto legami ineffabili fra il suo cuore e il
Creatore, il quale, nella sua liberalità divina, restituisce tutto al suo
amore: un amore celeste, che non è più separazione, ma unità con l'amore
essenziale.
(37)
Nei tre paragrafi seguenti Itala si rivolge ai monaci e ai religiosi, per
mostrare come nella realtà dell'Inabitazione sia più facile vivere i loro voti
specifici, ma quel che dice Itala può avere una utilità spirituale
anche per i laici: la castità, l'obbedienza, e la povertà sono virtù
cristiane, prima di essere oggetto di un particolare impegno religioso.
(38) Cfr. Ef. 3, 15, e Rom. 13, 1
(qui: potestas invece di paternitas): "ogni paternità è da Dio".
(39) "Un solo Spirito, un solo
battesimo" (cfr. 4, 4 e 5).
13. La Mortificazione e il Dolore.
Il Verbo è
ormai glorificato nella sua umanità alla destra del Padre. In nome del suo
sacrificio cruento di un giorno e dell'incruento sacrificio rinnovato sugli
altari incessantemente egli intercede per noi:
ad interpellandum pro nobis (41).
Ma la sua intercessione non può più essere accompagnata dall'oblazione della
sofferenza. E Gesù chiede alle anime generose di "completare" la sua passione,
di prolungare nella loro carne e nel loro cuore il suo doloroso sacrificio.
Adimpleo ea quae desunt passionibus Christi
(42). Se noi consideriamo l'Unigenito fatto carne e
immolato per la salvezza delle anime nostre, non possiamo sottrarci al
desiderio di partecipare a questa immolazione e di portare il peso del nostro
peccato: nostro, di
ciascuno di noi e di tutti noi. L'anima che vive a contatto con la Trinità,
trova nel mistero divino le ragioni fondamentali di ogni suo sacrificio. Con
la carità che attinge nel seno stesso di Dio, si stringe al Verbo e gli offre
la sua povera umanità, perché in essa egli possa espiare e meritare, non solo
per lei, ma per tutti i fratelli. Una "piccola" creatura porta nel seno della
Trinità augusta una "piccola" umanità, perché negli ardori dello Spirito Santo
essa sia presentata dal Verbo al Padre, a lui stretta, a lui disposata, e
divenga agli occhi del Padre un'unica ostia con l'Unigenito. Quanto più
l'anima è generosa nella sua offerta, tanto più lo Spirito d'amore la
stringerà al Verbo e nel braciere divino l'ostia sarà consumata per la gloria
di Dio. In proporzione del suo desiderio la creatura riceverà la grazia del
dolore; in proporzione della sua generosità le verrà accresciuta la forza di
cercare volontarie immolazioni e di subire le prove divine.
Ma proprio questo
bisogna insegnare alle anime: a portare nel seno della Trinità il loro
sacrificio. Là esse impareranno a consumarlo dinanzi al Padre, sotto l'impulso
dello Spirito Santo, in unione al Verbo; là impareranno a conoscere il segreto
di una gioiosa immolazione. Poiché in seno alla Trinità non vi è dolore: la
vita divina è pace inalterabile, è gaudio perenne, è lode di gloria,
laus gloriae. In questi abissi il
dolore, pure restando sensibile alla creatura, che altrimenti non sarebbe più
tale, diventa lode. L'anima
non lo subisce più, anelando ad esserne liberata, ma lo ama, lo vuole, perché
è l'eredità che il Verbo le ha lasciato ascendendo al cielo.
Egli ha portato
con sé l'umanità adorabile che per noi aveva assunta: noi non possiamo
ritrovarla che nel mistero eucaristico attraverso la fede. Ma qualcosa il
Verbo non ha potuto portare con sé: qualcosa ci ha lasciato: ciò che aveva
meritato alla sua Carne la glorificazione e a noi la grazia. E' il dolore che
Gesù ha deposto nelle nostre mani, perché sino alla fine dei secoli sia il
nostro orgoglio e la nostra ricchezza. Egli ce lo ha consegnato perché noi ne
ammantassimo la nostra povera umanità come di un manto regale: perché lo
facessimo nostro con umile gioia, tremando al pensiero che è stato suo,
eminentemente suo, perché da lui scelto come mezzo per la Redenzione. "Tutte
le cose mie sono tue" (43). Nostro, ma come tutte le cose, che appartengono
a lui e a noi insieme.
Noi prendiamo questo dono
supremo del Maestro e a lui lo riportiamo nel seno della Trinità, a lui, il
Verbo del Padre, uno con lui e con lo Spirito Santo: perché questo dono non
resti infruttuoso, ma per lui possa essere presentato al Padre e divenga
prezioso ai suoi occhi. Allora il dolore di una piccola anima diventa ancora
il dolore di Cristo, del Verbo umanato, e si trasforma in sorgente di grazia.
Per esso molti peccati vengono cancellati, molte donazioni di luce concesse.
L'anima che ha fatto dell'Inabitazione il centro della sua vita, ottiene a
mille altre anime la grazia suprema e il possesso e l'intimità col Padre, col
Figlio e con lo Spirito Santo. Per questo il dolore si trasforma nella lode ed
è una espressione della laus perennis, che risuona in seno a Dio. Esso
non interrompe, ma perfeziona il canto dell'anima che, perdendosi nella
Trinità SS., ha trasformato la sua vita in una perenne liturgia eucaristica:
Eucarestia significa, ricordiamolo,
rendimento di grazie.
"Vivere l'Inabitazione
non è una cosa straordinaria
ma la logica conseguenza dei nostro Battesimo"(ms. 39, 141).
(40) Il distacco della povertà non
è disprezzo o disinteresse per le realtà terrene, non è egoistica evasione, ma
un collocare ogni cosa e ogni valore al loro posto.
(41)
Cfr. Ebr. 7, 25: "essendo Egli sempre vivo per intercedere a loro favore".
Itala cita la vulgata: "per intercedere a nostro favore".
(42) "Completo nella mia carne
quello che manca ai patimenti di Cristo" (Col. 1,2 24). Non si tratta di
aggiungere qualcosa al valore redentivo della Passione di Cristo, ma di
associarsi all'opera redentiva di Cristo per cooperare alla attuazione del
disegno divino di salvezza, nel posto e nella misura prevista da Dio stesso.
(43)
Giov. 17, 10. Va Sottolineato come Itala riesca a trasfigurare la stessa
sofferenza che diviene "l'eredità" lasciataci da Cristo, "il nostro orgoglio e
la nostra ricchezza", il "manto regale" che riveste la povertà della nostra
natura umana. Cristo non ha eliminato il dolore quaggiù; ha fatto molto di
più: lo ha piegato a servire alla salvezza e ci ha dato la facoltà e la
capacità di fare altrettanto.
Itala Mela
PREGHIERA ALLA SANTISSIMA
TRINITA'
Mio
Dio, Trinità Beata, io Ti rendo grazie per la Luce e l'Amore di cui - con
misericordia infinita - hai colmato l'anima mia, per la vocazione e per i doni
che mi hai concesso nella Tua Chiesa, volendo che in Essa e per Essa fossi
illuminata e santificata dai miei primi passi nelle Tue vie fino alla Parola
confortatrice del Tuo Vicario.
Ma io Ti rendo grazie ancora, o Trinità Beata,
per tutte le spine che ho trovato sul mio cammino e per tutte le lacrime che
ho versato: grazie soprattutto per il presente annientamento della mia anima e
della mia vita. Per l'infermità e la povertà: per ogni dovere greve al mio
corpo e al mio spirito: per la solitudine, l'isolamento, i distacchi: per ogni
incomprensione e umiliazione: per le oscurità, le incertezze, le angosce, le
rinunce dell'anima: per la mia stessa miseria ed incapacità a donarti quell'amore
perfetto da cui vorrei essere consumata: per lo stroncamento umano di tutta la
mia vita e di tutte le mie aspirazioni: per ogni prova da Te scelta e inviata
alla mia piccola anima, io Ti ringrazio, o Signore.
Fa, o
Signore, che da questo profondo annientamento salga a Te la mia preghiera:
anzi che questo stesso annientamento esprima l'incessante adorazione del mio
essere completamente offerto e immolato dinanzi al Tuo Trono. Fa che io non
tenti sfuggire al Fuoco santificante del dolore, ma che in silenzio, immobile
sull'Altare del Sacrificio,unita all'Agnello immolato, mi offra al
Tuo volere nella
pienezza dell'abbandono e della carità, fino all'ultimo istante della mia
vita. Fa che questa oblazione sia il mio piccolo tributo allaTua Gloria, sia
la supplica che io Ti offro per me e per tutte le anime legate alla mia
vocazione, affinchè Tu ci custodisca nella Verità, che salva da ogni illusione
e da ogni errore, nella carità pronta ad ogni sacrificio e ad ogni opera. Dona
a noi la perfetta intelligenza del Tuo Volere e la Fortezza per compierlo
senza incertezze e senza deviazioni: custodiscici in quell'unità perfetta che
è pegno della Tua Presenza divina fra le anime.
Ascolta la preghiera che Ti rivolgiamo per la Tua
Gloria e concedi non ai nostri meriti, ma ai gemiti della Tua Chiesa quella
nuova donazione di Luce e di Grazia che Tu hai promesso per illuminare e
santificare le anime negli immani travagli dell'ora presente e dell'oscuro
avvenire.
Se è necessario per questo il sacrificio della
mia vita, in questa Festa di S.Pietro, che è festa del Tuo Vicario, io Te ne
rinnovo l'oblazione già a Te un giorno presentata per le mani di Maria
Immacolata. L'intercessione della Vergine Madre e degli Apostoli Pietro e
Paolo accompagni la mia offerta e ne renda meno povera la perfetta
consumazione. In quel giorno beato rinnova per me le Tue Misericordie e fa che
s'inizi la mia lode celeste, eco dell'inno di adorazione, di ringraziamento e
d'amore innalzato a Te, Uno e Trino, da tutte le anime che riceveranno la
grazia di possederTi consapevolmente in se stesse e di vivere di questo
possesso.
"... Non dobbiamo dimenticare che tradire la nostra vocazione alla santità è anche tradire tutti coloro la cui salvezza è legata alla nostra immolazione " (manoscritti. 39, 118)
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