sabato 13 luglio 2019

La via della bellezza nell'arte contemporanea , di Marko Ivan Rupnik




LA VIA DELLA BELLEZZA NELL'ARTE CONTEMPORANEA
di Marko Ivan Rupnik

 
Introduzione
 
Nel suo saggio La bellezza nella natura, Solov'ëv pone il problema fondamentale di quanto la bellezza apporti un "miglioramento effettivo della realtà". Per Solov'ëv, l'estetica della fine del XIX secolo – e dunque anche degli inizi del XX – vive una profonda crisi, sbandata tra due estremizzazioni: l'idealismo e l'utilitarismo. Intendere la bellezza come riflesso dell'idea assoluta nelle realia è certamente quella via che porta all'astrazione e dunque all'astrattismo della bellezza, senza una capacità di intervento nella realtà. Quest'intervento potrebbe essere solo una specie di moralismo con il quale si vuole applicare e realizzare nella realtà il grande ideale. Sulla scia dell'idealismo filosofico dell'estetica, nascono diversi ­– ismi che fanno deviare dal vero senso della bellezza. L’utilitarismo o il formalismo sono solo alcune delle più clamorose conseguenze delle quali Solov'ëv ci avverte.
 
«Il bene e la verità, per realizzarsi veramente, devono diventare nel soggetto una forza creatrice capace di trasfigurare la realtà e non solo di rifletterla»[1].
 
Questa affermazione è secondo Solov'ëv fondamentale per cogliere il che cos'è della bellezza. La bellezza è una realtà nella quale la verità e il bene prendono corpo, cioè diventano veramente esistenti nella loro con­cretezza sensibile. Dunque, è sulla base di un principio interattivo di sog­gettivo e oggettivo che la bellezza è intrinsecamente legata alla vita e alla forza creatrice della trasfigurazione della realtà.
La bellezza[2] non è solo riflesso di un'idea assoluta e nemmeno una semplice incarnazione di essa, ma è la realizzazione della verità e del bene. Per Solov'ëv la verità è la tutt'unità della vita nel senso assoluto. La tut­t'unità è infatti il bene per tutto ciò che esiste. Perciò la bellezza viene intesa come un tessuto penetrato dalla verità che è tutt'unità, e che è dun­que la realizzazione del bene.
L’arte, per Solov'ëv, s'inserisce a questo livello. Il suo discepolo Vjaceslav Ivanovic Ivanov spiega ancora più esplicitamente che nella sto­ria l'arte, la "grande arte", è proprio la creazione di questo tessuto comu­nionale dove si esprime la realtà colta nell'aspetto della tutt'unità, della vittoria sull'isolamento, la realtà svincolata dall'autoaffermazione, dove il principio ecclesiale della comunione vince sul principio soggettivo. Non si tratta di distruggere il soggettivo, ma di farlo vedere intrecciato in una trama di comunione.
Queste impostazioni squisitamente cristiane troveranno lungo gli ulti­mi secoli sempre meno spazio. Anzi, vedremo addirittura che l'arte finirà per non elaborarsi più intorno alla bellezza così come ne abbiamo ora parlato. Addirittura, man mano che la bellezza – in qualsiasi senso intesa – viene estraniata dall'arte, l'arte si costituisce ormai come una realtà con un compito molto meno impegnativo, dando spazio prevalentemente alla espressività soggettiva. Ciò che è accaduto nell'arte tra il Rinascimento e la fine del XX secolo non si può semplicemente definire un cambiamento o un'evoluzione: si tratta piuttosto di una radicale metamorfosi cbe coin­volge i fondamenti stessi. Avviene una specie di sganciamento dalla verità e dal bene, o almeno da un certo modo d'intendere sia il vero che il bene. L’arte si esclude dalla conoscenza, e dunque non è in grado di apportare qualcosa di significativo.
 
 
Un passaggio decisivo
 
Se prendiamo il Rinascimento come apertura di un'epoca nuova nel­l'arte, notiamo che in quest'epoca avviene un certo passaggio da un'esteti­ca che coincide con la teologia e la liturgia a un'estetica basata sul ragionamento umano, dunque su una visione umana. Questa si nutre prevalen­temente del recupero di un'intelligenza praticamente precristiana, greca e, in certi ambiti, anche latina. L’affermazione della terza dimensione espri­me anche un radicale cambiamento nell'impostazione globale. Il mondo è dipinto così come lo vede l'uomo e l'occhio dell'artista è la sua mente, l'intelletto. Anche se si raffigura qualcosa di religioso, a ispirare non è più semplicemente ciò che dice la Scrittura o la liturgia, ma prevale la com­prensione che l'uomo ha di questi fatti. In un certo senso, la terza dimen­sione fa vedere il mondo – anche quello religioso – secondo l'uomo. Il soggetto divino è sostituito dall'uomo. Mentre Dio è il soggetto che tiene uniti l'uomo e il mondo, quando l'uomo diventa ll soggetto assoluto que­sta unità non regge più. Anzi, a causa della frantumazione sempre cre­scente, si spezza il concetto stesso di persona, considerata sino ad allora anche come rete di rapporti ecclesiali, sociali, a vantaggio di una coscien­za inquieta di sé e della ricerca di libertà e responsabilità.
Una delle sfide più importanti che si apre in epoca rinascimentale è la relazione tra il particolare e la totalità. Un problema serio che si presente­rà sarà proprio quello dell'elaborazione di una visione unitaria, la ricerca del principio dell'unità. Ma, cercandolo nell'ambito dell'umano, lo si pro­pone nella forma dell'elaborazione di un sistema universale di idee e di una dettagliata legislazione del diritto dell'individuo. Comincia un'epoca di affermazione dell'uomo che alle volte si esprime anche aggressivamen­te contro il divino e il religioso, alle volte semplicemente li ignora. Questa nuova epoca potrebbe essere chiamata 1'epoca del "progetto uomo". E giungerà a un antropocentrismo radicale, con dei risvolti drammatici, sia per l'uomo che per la società.
Come si è detto, il Rinascimento presenta anche un'apertura a tutto ciò che ha rappresentato la creatività umana classica precristiana, sia del­l'antica Grecia sia di Roma. Per dar spazio all'umano, liberato dal divino, dalla religione cristiana, bisogna attingere all'antichità, alla mitologia clas­sica. Prendendo in considerazione un pittore che influenzerà per molto tempo la pittura occidentale come Poussin, è evidente che egli non accet­ta le soluzioni artistiche del barocco, ad esempio, proprio a motivo della debolezza razionale di quest'epoca culturale. Poussin respira ormai una razionalità moderna e dunque si aggancia all'antichità. Studia il Rinascimento, ma si ispira all'antico. Questa sua razionalità, filtrata dal classico, affascinerà più tardi tutto il movimento del neoclassicismo, soprattutto artisti come David, arrivando fino ad Ingres, un pittore com­plesso, in cui si vede una pittura talmente perfetta dal punto di vista for­male che persino l'aspetto tecnico, cioè il movimento del pennello, deve sparire senza lasciare tracce per esaltare la perfezione delle forme. Si arri­va a uno sfumato talmente raffinato che non si può negare la genialità anche manuale di questi artisti. La superficie è perfettamente chiusa. Nessuna pennellata imperfetta lascia intravedere la carne della pittura. In questo richiamo alla forma mentis classica che si cerca di far rivivere si determinano forme di sviluppo così radicali che in qualche modo la clas­sicità stessa viene contraddetta.
 
 
Il significato dell'antichità classica
 
Per comprendere il meccanismo mentale che sta a monte, bisogna in qualche modo recuperare il concetto dell'arte, dell'armonia, della bellezza della Grecia antica, dove senza dubbio tra le arti una certa preferenza era attribuita alla scultura e all'architettura, cioè al lavoro con una forte com­ponente materiale, all'intervento nello spazio come una sorta di divenire del cosmo, di cui l'architettura è come un prolungamento. Le forme idea­li, perfette, i corpi di un'armonia inesistente in natura, i templi di una precisione ottica impeccabile mostrano il dominio dell'idea, quell'idea nella quale è celata la natura delle cose. Il processo della conoscenza permette di attingere a quest'idea e dunque di arrivare a capire com'è il "progetto" del reale. Lo stesso primato dell'idea si afferma nella filosofia greca. Ma per i grandi greci Socrate, Platone, Aristotele l'idea non è ciò che per noi è diventata nell'età moderna, soprattutto da Cartesio in poi. Per Platone l'idea è viva, agisce, si fa sentire. Il pensiero greco ci testimonia un certo divario tra l'idea, che rappresenta l'armonia perciò 1'eternità , e la materia che è meno sicura, sia nella sua esistenza sia nella sua forma e nel suo senso.
Solo nella mitologia si è risolto il passaggio tra questi due mondi. In qualche modo, il pensiero greco rimane tragico, non riesce a superare il divario tra idea e realtà. Il corpo è tragicamente condizionato dal destino del cosmo, cioè dal tempo, dal cambiamento. Per evitare l'aspetto tragico, occorrerebbe rendere il corpo conforme all'idea, perfetto, strappato alla corruzione del divenire e dell'imperfezione. Ma questo è fuori dalla nostra portata e perciò non rimane che la via del disprezzo della morte, via per­corsa da tutti gli eroi greci che sfidano la morte, convinti che le loro idee rimangono. È proprio su questo divario abissale tra idea e realtà concreta che sorge l'arte. Se non si può passare da un mondo all'altro, tuttavia, sulla base della conoscenza si può intervenire sul mondo, conformandolo all'i­dea che di per sé giace in esso. Così come si distinguono diverse scuole di pensiero, ci sono anche diverse sottolineature nell'arte greca, ma la que­stione in sostanza è questa. Si idealizza, ossia si vede secondo l'idea. Non solo. Si corregge, si abbellisce, si perfeziona sulla base dell'idea conosciuta.
 
 
Il rischio dei modelli
 
Appaiono subito evidenti le trappole di questo modo di pensare. La prima sta nel fatto che quest'arte, di per sé, svolge il ruolo di modello, e il modello porta sempre inquietudine, sia nella società che nell'individuo: si è conformi al modello oppure no? E, a parte la conformità al modello, prima o poi nasce la domanda: chi ha stabilito il modello? Chi dice che la realtà sia veramente così? Sulla base di che cosa? Per Platone, infatti, la categoria incaricata della vera conoscenza è quella dei filosofi e non degli artisti, troppo soggettivi.
L’altra trappola sta nel fatto che, in un modo o in un altro, abbellen­do e perfezionando la materia mediante la forma, rimangono latenti due tentazioni: quella del formalismo e quella del potere della materia. Il for­malismo come criterio sempre più universale, ma basato semplicemente sull'elaborazione dell'esteriorità, con sempre meno attenzione all'interiore, cioè al contenuto, scivola ben presto nell'apparire. Rispetto al potere della materia, la trappola sta nel fatto che la forma più perfetta è il cerchio e quando io arrotondo la materia, la rendo forte, potente. Così infatti è la scultura della fine dell'ellenismo, dove si accentua la massa muscolare e allora, pian piano, il criterio scivola nella forza fisica.
 
 
L’idea diventa più importante della persona viva
 
Queste impostazioni di fondo trovano un terreno fertile nel neoclassi­cismo, dove la razionalità esercita un dominio sempre più esplicito e totale, trovando le sue facili traduzioni anche in una forma sociale, culturale e addirittura nel galateo. E il "buongusto", elaborato ed esplicitato anche in una norma, diventa espressione dell'estetica come scienza dell'opera d'ar­te. Si fa strada sempre di più la divisione tra genio e gusto, artista e spet­tatore, che da allora dominerà in maniera massiccia l'arte occidentale e la relegherà al ruolo di un oggetto che soddisfa una speciale facoltà della mente. L’unità originaria dell'opera d'arte si è lacerata tra giudizio esteti­co e soggettività artistica senza contenuto. Ormai l'idea e il ragionare si richiamano all'antichità, ma in realtà se ne distinguono radicalmente. L’idea non è più considerata una realtà viva, il ragionamento non è più inteso come la complessa attività di conoscenza delle idee eterne, con sbocchi persino spirituali, il pensare non ha più il senso di servizio alla verità, al contenuto, ma è sempre più inteso come ricerca dei mezzi al ser­vizio dei fini che si adottano in un determinato momento.
Possiamo veramente parlare di una sorta di cappa di piombo che comincia a calare su questo "progetto uomo" e sulla nuova epoca inaugu­rata dal Rinascimento, perché la scoperta dell'individuo, del soggetto, dell'uomo, è vittima di un cattivo uso dell'intelligenza e della razionalità, i cui esiti perversi si cominciano sempre più a vedere nel primato dell'idea sulla persona stessa. Un amore esasperato per la ragione porta a un uso riduttivo dell'intelligenza e l'uomo viene ridotto a semplice mezzo. Non è pos­sibile distinguere la struttura della cosa conosciuta da quella della cono­scenza e quest'ultima dall'attività dominatrice del soggetto conoscente. Ma una conoscenza vera
 
«postula tra il conoscente e il conosciuto un rapporto nel quale siamo uniti a vicen­da non in modo esteriore e casuale, non nel fatto materiale della sensazione e nella forma logica del concetto, ma in un nesso essenziale e interiore, nei fondamenti stessi del loro essere, ossia in ciò che è assoluto in ambedue. Questo assoluto non riducibile né al fatto della sensazione, né alla forma del concetto è necessario, e nell'oggetto della conoscenza, e nel soggetto conoscente»[3].
 
Ora il limite alla manipolabilità delle cose non sta più nella loro natu­ra che le regola e le ordina, ma è l'uomo che si arroga questa funzione regolatrice.
 
La modernità comincia allora a vivere in modo tragico le prime gravi contraddizioni. Il sogno di un'umanità riconciliata sia con se stessa che con il mondo, armonizzandosi spontaneamente con l'ordine universale, comin­cia a vedere sparso il sangue degli uomini in nome di grandi idee. Una razionalità passionale, nucleo dell'ideologia, schiaccia lo spazio di libertà che il Rinascimento ha certamente aperto. Idee addirittura umaniste fanno milioni di morti, a partire dalla Rivoluzione francese, questo primo grande tentativo di applicare al campo umano una pianificazione razionale, dove la società deve essere trasparente come il pensiero scientifico.
Una razionalità che vuole abbracciare tutto e gestire tutto secondo norme che essa stessa produce, evidentemente non concede troppi spazi a quanto in se stesso è legato alla libertà, come le relazioni interpersonali, l'amore, espressioni come il simbolo e la metafora.
Una razionalità passionale, riduttiva, che sfocia addirittura nel culto di se stessa, emargina intere dimensioni della vita ed esclude anche le per­sone che fanno appello a realtà che la norma e il sistema non prevedono. Una lunga lista di intellettuali e artisti europei sarà bandita e molti di loro addirittura si ammaleranno. Non è più possibile evitare la questione di fondo: in che cosa consiste realmente la nuova sensibilità, la scoperta del soggetto, l'intelligenza dell'umanesimo, il progetto uomo, se davanti a questo sviluppo non c'è più la possibilità di opporsi?
 
«[...] la richiesta di una libertà assoluta conduce l'uomo alla più dura servitù. Il padrone della macchina ne diventa lo schiavo e la macchina diventa nemica del­l'uomo. La creatura si rivolta contro chi l'ha creata: singolare replica del peccato di Adamo! L’emancipazione delle masse sfocia nel terrore della ghigliottina. Il nazio­nalismo porta inevitabilmente alla guerra. L’ideale assoluto della liberazione con­duce l'uomo all'autodistruzione. Alla fine della via per la quale ci si è incamminati con la rivoluzione francese si trova il nichilismo»[4].
 
 
Alcuni esempi significativi
 
Emblematico in questo contesto è certamente il dipinto di Delacroix La libertà che guida il popolo (1830), ispirato alla rivoluzione parigina del 1830 che portò alla destituzione di Carlo X e del suo regime assolutistico, instaurato dopo la messa al bando di Napoleone. La libertà è rappresen­tata in quest'opera come un'ideologia (la bandiera in primo piano, cioè un sistema ideale convenzionalmente accordato; il petto nudo, cioè la carica passionale con la quale viene sostenuto questo sistema) che avanza mar­ciando sui cadaveri. La costatazione è che non si tratta semplicemente di avere idee buone, ma che bisogna essere buoni, altrimenti, cercando di realizzare le idee, ci troviamo di fronte a una "eterogenesi dei fini" ina­spettata, dove la contraddizione tra la natura programmata e pianificata della propria strumentazione e quella incontrollata dei suoi esiti diventa insormontabile. La dittatura del bene a un livello ideale diventa dittatura sull'uomo in modo concreto.
 
«E poiché la nostra natura non è un bene in se stessa e la legge morale della nostra mente, benché buona per la sua qualità concepibile, è tuttavia impotente nel darci il bene in realtà, allora bisogna o separarsi del tutto dal bene, oppure riconoscere che esso esiste indipendentemente dalla nostra natura e dalla nostra ragione, cioè riconoscere che esso esiste per se stesso e da se stesso si comunica a noi. Questo Bene esistente, cioè 1'essere che possiede per se stesso la pienezza e la fonte della grazia, è Dio»[5].
 
È proprio questa la profonda contraddizione degli ultimi secoli: da un lato, l'affermazione del soggetto porta a scoperte importanti per la vita dell'uomo e favorisce una cultura che per certi versi è davvero “umanesi­mo”, ma, d'altra lato, l'assenza della spiritualità come unica luce e arte che riesce a garantire il discernimento tra intelletto e passione, fa sì che l'an­tropocentrismo radicale rischi di soffocare davanti ai cadaveri che esso stesso produce. E infatti qualche tempo più tardi, ma ancora nel XIX secolo, nella pittura simbolista e poi in quella che immediatamente prece­de l'impressionismo francese, comincerà a farsi strada la nostalgia dello "spirituale" e affioreranno diversi tentativi di creare delle spiritualità su uno sfondo pagano.
La zattera della Medusa di Géricault, nata sullo sfondo storico del naufragio di un'imbarcazione francese davanti alle coste africane, mostra che il pittore lascia spazio ad altre chiavi di lettura, vivendo ormai d'altra parte in un tempo in cui si cominciano a sentire nell'aria i flussi romantici, dov'è abituale che la natura divenga portavoce degli stati d'animo. E non è difficile immaginare quali stati d'animo possa esprimere una zattera in mezzo a un mare agitato, ormai prossima ad affondare con i naufraghi che già ricompongono i primi morti. La nave all'orizzonte che determina tutta la composizione piramidale, ma con un taglio in diagonale, esprime questa attesa spasmodica della salvezza che non arriva perché, in un mare così agitato, una nave di quell'epoca avrebbe impiegato troppo tempo per raggiungere la zattera e trovare i superstiti. Tante possibili letture vengo­no suggerite da questo dipinto. Una può essere l'irreversibilità della cata­strofe. La salvezza, che pure esiste, ormai non è più a portata di mano. Un'altra lettura potrebbe essere invece che quella barca lontana sull'oriz­zonte potrebbe ancora miracolosamente farci scampare alla tragedia.
Si tratteggia dunque uno sfondo all'utopia, che infatti trova posto nel pensiero europeo, e in quest'ambito maturerà il suo pensiero uno dei padri del più massiccio movimento della modernità: Engels. Nella parte posteriore della zattera sta seduto, rivolto indietro, un personaggio che tiene la mano sul corpo morto di un giovane che potrebbe essere suo figlio. Molte pagine sono state scritte su quest'opera, ma qui c'interessa solo un aspetto: evidentemente il periodo aperto dalla Rivoluzione france­se in qualche modo è un trauma, perché è il primo tentativo di una glo­balizzazione in senso laicista, quindi agli estremi antipodi di ciò che avrebbe voluto essere la globalizzazione medievale. La domanda se la direzione presa abbia un esito positivo oppure si vada incontro al naufra­gio è dunque legittima. Sono gli accenni all'inizio di una prima riflessione critica, forse addirittura il bisogno avvertito dell"'altro".
Veemente sarà la reazione contraria che sale dall'Olanda, con un doloroso richiamo a tutto ciò che nei secoli precedenti era stato soffocato e oppresso. Un forte richiamo al sentimento, al simbolo, alla metafora, alla libertà della persona umana. Van Gogh si fa portavoce drammatico di un'umanità senza cittadinanza nella compagine europea di quel tempo. Lui e Gauguin diventano certamente i padri del più clamoroso dissenso sull'andamento postrinascimentale. Ma sono da esso stesso condizionati. Senza la modernità, la coscienza del soggetto non sarebbe così viva. Ma allo stesso tempo essi la sperimentano come qualcosa di non considerato nella sua integralità. L’arte diventera sempre piu un'espressione diretta deuo stato d'animo dell'artista. L:artista esprimera se stesso. L’arte si avvia così sulla strada della multiformità di linguaggi perché multiformità di espressioni, ma tutto questo come un'esistenziale reazione al formalismo e al fondamentalismo razionalista che si è dimostrato una grave riduzione, sia dell'intelligenza sia dell'uomo stesso.
 
 
Un pendolo interessante
 
In Cézanne e van Gogh riconosciamo i due estremi di quel movimen­to pendolare che è cominciato con il Rinascimento e con il Barocco. Anche se in forme ormai molto derivate, vediamo in Cézanne una ricerca del classico, del razionale, dello strutturato, mentre in van Gogh l'indagi­ne si volge all'interiore, al personale, al sentito, al libero. Da un lato un principio più oggettivante, e dall'altro uno più soggettivo. Queste oscillazioni tra oggettivo e soggettivo, per come le conosciamo anche dall'ambi­to del pensiero filosofico, attraversano tutta la nostra storia negli ultimi secoli. In un certo senso, il XX secolo non superera i due estremi del pen­dolo. Piuttosto, il movimento diventerà sempre più serrato e frantumato. Se le prime due onde, come il fauvisme e il cubismo, sono ancora due realtà abbastanza circoscritte ed identificabili, in seguito il ritmo si farà sempre più veloce, impazzito, fino a una sorta di atomizzazione dell'e­spressione, del linguaggio e dei riferimenti.
 
 
Espressione del soggetto
 
Ma quello che il XX secolo ci fa costatare è che l'arte diventa comun­que prevalentemente un campo di espressione e di affermazione del sog­getto. Il motto "dipingo come mi sento, mi esprimo come mi sento" inglo­ba anche quei movimenti artistici che di per sé si rifanno a un principio più oggettivo. Il concettualismo arriva a un ermetismo forse addirittura meno comunicabile di un espressionismo informale.
E il cubismo con le sue evoluzioni, soprattutto in Picasso, non è meno ermetico di un action painting. Dunque, anche i movimenti che di per sé vorrebbero affermare un aggancio più al classico, al razionale, all'oggettivo come l'iperrealismo , lo fanno in modo soggettivo. Il mondo del soggetto riconosce praticamente come oggettività solo lo stato d'animo, e questo diventa un clima sempre più generale, lasciando che il sentimento interiore trovi degli sfoghi ancora più immediati.
Se nel manifesto surrealista si continua a fare appello a un percorso psicanalitico e l'arte diventa quasi una terapia di liberazione dalle angosce e dagli incubi di cui il soggetto è popolato perché la storia e la società glieli provocano , nella pittura di Mathieu la mano del pittore diventa quasi un sismografo e l'artista prende direttamente il tubo del colore, sal­tando il pennello o la spatola, proprio per poter esportare sulla tela, con più radicale immediatezza, la percezione di sé.
Nelle leggere pennellate di Hartung, che ricordano quasi l'antica gra­fica giapponese, ogni gesto, ogni espressione diventa un'opera d'arte.
Rauschenberg prende gli oggetti, perfino gli animali impagliati, e cerca di includerli in un'unica espressione artistica. Il colore rosso steso con la spatola su un animale diventa un'espressione del sentire dell'artista che sconfina di per sé il proprio mondo, ma dall'altro lato non fa altro che vedere tutto attraverso il suo stato d'animo, tanto da intervenire con questo sulle cose.
Jasper Johns prende degli oggetti poveri come una scopa, ad esempio, e li inserisce nella pittura. La pop art più tardi riempirà l'opera d'arte di oggetti di consumo. In qualche modo si entra in un circolo vizioso: l'uo­mo vive soprattutto le cose che si pubblicizzano, e la pubblicità fa sì che l'uomo senta costantemente le cose come desiderate.
Ecco allora l'opera di Hanson Donna con carrello della spesa  (Supermarket Lady), dove si mette in rilievo in modo quasi ironico la deca­denza e il degrado dell'uomo, del suo spirito, ma anche dell'arte stessa.
Allo stesso modo di una cultura da supermarket, si pubblicizzano la salute, il benessere, l'apparire in forma e giovani. Si crea tutta un'arte nel senso convenzionale, ma anche nel senso lato, della culinaria, delle diete, con un'attenzione particolare al benessere psicosomatico, alla linea. Si promuove così una sorta di "cultura dell'OK". Tutto deve essere OK e tutto deve godere di buona salute.
Forse, all'inizio del secolo, Duchamp aveva già intuito il destino di un'arte che si è sottomessa ad estetiche elaborate filosoficamente, sociolo­gicamente o psicologicamente, e fa vedere con ironia che ogni oggetto portato in galleria diventa automaticamente opera d'arte. Dopo che si è cercato di afferrare l'autentica realtà dell'opera d'arte con le regole dell'estetica e ci si è resi conto che questa non si fa definire, si demanda alla galleria la dichiarazione di ciò che è arte e di ciò che non lo è. La galleria dovrebbe così avere la straordinaria magia di cambiare le cose in arte. Ma, come Duchamp stesso ha mostrato, le cose hanno diversi significati e alla fine tutto diventa relativo: un orinatoio può stare in un museo e si può usare un Rembrandt come asse da stiro.
In Tàpies l'opera d'arte è il terreno dei segni, delle tracce che testi­moniano il passaggio dell'uomo. Negli spruzzi di Pollock, la sua voglia di esprimersi è quasi un fatto corporeo, fisico, che mette più l'accento nel gesto con il quale lancia il colore che in ciò che succede sulla tela.
 
 
Tentativi degli ultimi anni
 
Nella Biennale di Venezia del 1993 il padiglione spagnolo con Tàpies presenta un'opera concettualista, ma di sconvolgente eloquenza. Si tratta di un'intera parete, di bianco perfetto, davanti alla quale è posta una sedia, anch'essa bianca. Sulla parete un ipotetico spettatore trovava disegnato in nero, all'altezza della sua testa, uno scarabocchio, un segno inde­cifrabile. Si può intravedere un richiamo allo zen, quindi all'esercizio mentale di una contemplazione prolungata e ripetuta fino al dischiudersi di un qualche significato. Inquadrando quest'opera negli anni della creati­vità di Tàpies, penso che esplicito sia un altro messaggio: l'uomo si espri­me, lascia le sue tracce, segni, ma non c'è più nessuno che li accolga. La sedia rimane vuota e l'espressione dell'uomo, troppo soggettiva nel suo linguaggio, non è più una comunicazione ma semplicemente un'espressio­ne. Che cosa è l'uomo se non può più comunicare e se nessuno ascolta più la sua comunicazione? Come se fossimo giunti al capolinea di un cam­mino dell'espressione di se stessi. Si finisce in una pressante solitudine. Nella Biennale del 1990 Verjux presentava un'opera ancora più sconvolgente: lo spazio previsto per l'opera d'arte era vuoto, ma nel raggio del faro che illuminava lo spazio espositivo veniva inclusa una finestra sopra­stante, aperta. Ormai non esiste più l'opera d'arte, ma bisogna salire e uscire da sé, ci vogliono aperture, ci vuole un incontro con l'altro, con il quale si scopre il contenuto e si ha una voglia nuova di comunicarlo.
L’arte del XX secolo testimonia una profonda sconfitta dell'estetica prodotta dalla filosofia agli albori della modernità.
Di quale bellezza possiamo parlare, infatti, se si voleva creare un'ope­ra liberata dalla bellezza? La testimonianza del secolo appena concluso, per quanto riguarda la bellezza, è il grido della sua assenza. Tant'è vero che le grandi correnti e i grandi artisti del XX secolo nella stragrande maggio­ranza non cercavano di fare delle opere belle, ma cercavano di esprimere, ciascuno secondo la propria espressione, il disagio dell'uomo nella nuova situazione che in questi ultimi secoli si è andata a creare. Le arti nel senso convenzionale – per quanto sono sopravvissute –, sono nella loto creativi­tà una trama dolorosa e inquieta di una vera e diretta confessione del cuore umano in quest'ultimo scorcio della modernità. Sono una coscientizzazio­ne del dolore, del travaglio vissuto. Se questo viene riscoperto in un'ottica spirituale, potrebbe trattarsi di una vera apertura alla partecipazione al martirio di Cristo, fondamento della bellezza, perché realizzazione dell'u­nità del divino e dell'umano e dell'umanità intera.
Ma un'espressione feroce e violenta del dolore e del disagio non può essere automaticamente intesa come bellezza in un senso cristiano, Si può ideologizzare e teorizzare sugli stati laceranti dell'uomo e della sua espres­sione, ma quello che tocca a noi cristiani non è questo. Non lo è neanche, a ogni costo, con un'estetica elaborata nella modernità, cercare di svisce­rare le opere create nell'ultimo secolo. Non si tratta di appiccicare a ogni costo una realtà come la bellezza (che oggi è tornata di moda) a ciò con cui essa non voleva avere niente a che fare.
Attualmente, la stragrande maggioranza dell'arte è entrata nel mondo digitale e virtuale. Lì il senso del bello viene ormai costituito dagli effetti dell'informatica. Si crea una grande piattaforma comune dell'informazio­ne, ma la comunicazione è prevalentemente virtuale, dunque non reale, non coinvolgente. Ancora una grande illusione?
 
 
Conclusione
 
Considerando che il motto di tutta l'arte degli ultimi tempi è 1'espres­sione del soggetto, creando addirittura propri linguaggi con codici sogget­tivi, bisogna avere pure il coraggio di rendere avvertiti del rischio non solo che si tratta di frantumazione e di incomunicabilità, ma che si può presta­re il fianco alle tentazioni del male vero e proprio. E infatti non sono iso­lati gli esempi di un'arte che è un vero e proprio culto dello smembra­mento, della perversione, di un atteggiamento ludico sconfinato che gioca persino con i cadaveri umani. Una situazione così lacerata testimonia la perdita della visione dell'insieme, quella che era in grado di custodire anche l'integralità della persona umana. Come oggi la persona è smarrita nell'arte, lo è ancora più drammaticamente nella scienza. Forse è la mente stessa, cioè la ragione alla quale negli ultimi anni si vorrebbe fare appello, quella che rappresenta la patologia più grave. E l'incapacità di riorientar­si verso il vero. Ma se la bellezza è il vero e il bene realizzati, allora oggi non si può nascondere la preoccupazione di fronte a ciò che narrano le arti contemporanee. Anche in questo caso estremamente appropriate sem­brano queste parole di Solov'ëv:
 
«Ogni male può venir ridotto a una violazione della solidarietà reciproca e dell'e­quilibrio fra le parti e il tutto; e sostanzialmente si può operare la stessa riduzione anche per ogni menzogna e per ogni deformità. Quando un elemento particolare o singolo afferma se stesso nella propria singolarità cercando di escludere o di schiacciare 1'essere altrui, quando degli elementi particolari o singoli vogliono, insieme o separatamente, prendere il posto dell'intero escludendo e negando così la sua unità autonoma e, con ciò stesso, anche il nesso comune che li collega fra di loro, e quando, al contrario, in nome dell'unità viene compressa o eliminata la libertà dell'essere particolare, non abbiamo altro che un'autoaffermazione esclusiva (egoismo), un particolarismo anarchico e un'unità dispotica, cioè, in altre parole, ciò che deve essere definito un male […]. Le stesse caratteristiche essenziali che determinano il male nella sfera morale e la menzogna nella sfera intellettuale deter­minano la deformità nella sfera estetica. Deforme è tutto ciò in cui una parte si amplifica smodatamente e prevale sulle altre, ciò in cui non c'è unità e integrità e infine ciò che non possiede una libera varietà di forme»[6].
 
La scomposizione, la rottura, lo squilibrio, l'isolamento delle parti sono innegabilmente il linguaggio consolidato e acquisito in molte correnti dell'arte contemporanea. E parlare della bellezza all'interno di un tale ambito è più o meno come parlare della solidarietà e della carità all'inter­no di un mondo individualista, dove ognuno è preoccupato per il benesse­re di se stesso. L’arte contemporanea voleva essere una piena affermazione della libertà del soggetto, e ciò che annuncia è di fatto la tragedia del cuore umano se sgancia la libertà dall'amore che è la sua essenza e verità. Non esiste nessun bene per l'uomo, se esso non fa parte della verità dell'uomo.
 
«La pienezza di questa libertà esige che tutti gli elementi particolari trovino se stes­si gli uni negli altri e nell'intero, che ciascuno ponga se stesso nell'altro e l'altro in sé, e che senta nella propria particolarità l'unità dell'intero e nell'intero la propria particolarità: in una parola si tratta dell'assoluta solidarietà di tutto quanto esiste, di Dio che è tutto in tutte le cose. Una piena realizzazione sensibile di questa solidarietà universale o unitotalità positiva, cioè la bellezza perfetta intesa non soltan­to come idea riflessa dalla materia ma come idea effettivamente presente nella materia, presuppone innanzitutto un'interazione profondissima e strettissima fra 1'essere interiore o spirituale e 1'essere esteriore o materiale»[7].
 
Una piccola minoranza dell'arte contemporanea cerca di attingere alla memoria e alla tradizione, recuperando l'arte che ancora lavora sulla materia, cercando di dare alla propria espressione un linguaggio che coinvolge il per­sonale, ma allo stesso tempo è aperto a una reale condivisione con gli altri. Dunque, un'arte che recupera la missione del servizio, un'arte che tesse le relazioni tra le persone, perché comunica qualcosa che supera semplicemen­te uno stato d'animo del soggetto. Attraverso una tale arte, si riapre la possi­bilità di recuperare la bellezza come una realtà penetrata dall'amore. E, recu­perando una tale bellezza, si apre la possibilità di recuperare una grande parte dell'arte caratterizzata dal grido e dalla lacerazione dei nostri tempi.
Ma è necessario prima capire se i cristiani se la sentono d'impegnarsi in tale missione, in quanto anche noi, cioè la Chiesa, siamo in un certo senso entrati nella trappola soggettivista. Non è giunto forse il tempo in cui siamo chiamati a costruire delle chiese nelle quali si articoli in modo sensi­bile, attraverso l'architettura e l'arte, la grande memoria, la Sapienza e la vita spirituale della Chiesa che accoglie in ogni tempo chi varca la sua soglia? Non è forse il tempo stesso che mette in ridicolo i nostri spazi dis­abitati, vuoti, deformati, troppo spesso in perfetta conformità ai gusti delle correnti che non hanno e non la cercano la bellezza in senso teologico?
La vera bellezza non può essere confusa.
 
«Quindi andammo in Grecia, e i Greci ci condussero agli edifici dove adorano il loro Dio, e non sapevamo più se eravamo in cielo o in terra. Poiché in terra non c'è tale splendore o tale bellezza, e non sappiamo come descriverli. Sappiamo solo che Dio abita tra gli uomini, e la loro liturgia è più bella delle cerimonie delle altre nazioni. Perché non possiamo dimenticare una tale bellezza»[8].


 

[1] V. SOLOV'ËV, Il significato dell'amore e altri scritti, La Casa di Matriona, Milano 1983, 224.
[2] Riguardo alla bellezza, si rimanda a M. I. RUPNIK, "Bellezza", in Dizionario di teologia, a cura di G. BARBAGLIO ‑ G. BOFF ‑ S. DIANICH, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2002, 154‑179.
[3] V. SOLOV'ËV, La critica dei principi astratti, La Casa di Matriona, Milano 1971, 197.
[4] D. BONHOEFFER, Etica, tr. it. (orig. tedesco, München 1949), Milano 1969, 86‑7.
[5] V. SOLOV'EV, I fondamenti spirituali della vita, Lipa, Roma 1998, 33.
[6] V SOLOV'ËV, Il significato dell'amore e altri scritti, cit., 225‑226.
[7] Ivi, 226‑227.
[8] S. H. CROSS ‑ O. P. SHERBOWITZ‑WELTZOR, The Russian Primayy Chronicle. Laurention Text, Cambridge, Mass,: The Mediaeval Academy of America 1953, 110‑1.





Fonte :   http://www.azionecattolica.it/settori/ACR/Educatori/sezione/armad/NOVITA/CAMPI  






























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