LA VIA DELLA BELLEZZA NELL'ARTE CONTEMPORANEA
di Marko Ivan Rupnik
Introduzione
Nel suo saggio La bellezza
nella natura, Solov'ëv pone il problema fondamentale di quanto la
bellezza apporti un "miglioramento effettivo della realtà". Per Solov'ëv,
l'estetica della fine del XIX secolo – e dunque anche degli inizi del XX – vive
una profonda crisi, sbandata tra due estremizzazioni: l'idealismo e
l'utilitarismo. Intendere la bellezza come riflesso dell'idea assoluta nelle
realia è certamente quella via che porta all'astrazione e dunque
all'astrattismo della bellezza, senza una capacità di intervento nella realtà.
Quest'intervento potrebbe essere solo una specie di moralismo con il quale si
vuole applicare e realizzare nella realtà il grande ideale. Sulla scia
dell'idealismo filosofico dell'estetica, nascono diversi – ismi che
fanno deviare dal vero senso della bellezza. L’utilitarismo o il formalismo sono
solo alcune delle più clamorose conseguenze delle quali Solov'ëv ci
avverte.
«Il bene e la verità, per
realizzarsi veramente, devono diventare nel soggetto una forza creatrice capace
di trasfigurare la realtà e non solo di rifletterla»[1].
Questa affermazione è secondo
Solov'ëv fondamentale per cogliere il che cos'è della bellezza. La bellezza è
una realtà nella quale la verità e il bene prendono corpo, cioè diventano
veramente esistenti nella loro concretezza sensibile. Dunque, è sulla base di
un principio interattivo di soggettivo e oggettivo che la bellezza è
intrinsecamente legata alla vita e alla forza creatrice della trasfigurazione
della realtà.
La bellezza[2]
non è solo riflesso di un'idea assoluta e nemmeno una semplice incarnazione di
essa, ma è la realizzazione della verità e del bene. Per Solov'ëv la verità è la
tutt'unità della vita nel senso assoluto. La tutt'unità è infatti il bene per
tutto ciò che esiste. Perciò la bellezza viene intesa come un tessuto penetrato
dalla verità che è tutt'unità, e che è dunque la realizzazione del bene.
L’arte, per Solov'ëv, s'inserisce
a questo livello. Il suo discepolo Vjaceslav Ivanovic Ivanov spiega ancora più
esplicitamente che nella storia l'arte, la "grande arte", è proprio la
creazione di questo tessuto comunionale dove si esprime la realtà colta
nell'aspetto della tutt'unità, della vittoria sull'isolamento, la realtà
svincolata dall'autoaffermazione, dove il principio ecclesiale della comunione
vince sul principio soggettivo. Non si tratta di distruggere il soggettivo, ma
di farlo vedere intrecciato in una trama di comunione.
Queste impostazioni squisitamente
cristiane troveranno lungo gli ultimi secoli sempre meno spazio. Anzi, vedremo
addirittura che l'arte finirà per non elaborarsi più intorno alla bellezza così
come ne abbiamo ora parlato. Addirittura, man mano che la bellezza – in
qualsiasi senso intesa – viene estraniata dall'arte, l'arte si costituisce ormai
come una realtà con un compito molto meno impegnativo, dando spazio
prevalentemente alla espressività soggettiva. Ciò che è accaduto nell'arte tra
il Rinascimento e la fine del XX secolo non si può semplicemente definire un
cambiamento o un'evoluzione: si tratta piuttosto di una radicale metamorfosi cbe
coinvolge i fondamenti stessi. Avviene una specie di sganciamento dalla verità
e dal bene, o almeno da un certo modo d'intendere sia il vero che il bene.
L’arte si esclude dalla conoscenza, e dunque non è in grado di apportare
qualcosa di significativo.
Un passaggio decisivo
Se prendiamo il Rinascimento come
apertura di un'epoca nuova nell'arte, notiamo che in quest'epoca avviene un
certo passaggio da un'estetica che coincide con la teologia e la liturgia a
un'estetica basata sul ragionamento umano, dunque su una visione umana. Questa
si nutre prevalentemente del recupero di un'intelligenza praticamente
precristiana, greca e, in certi ambiti, anche latina. L’affermazione della terza
dimensione esprime anche un radicale cambiamento nell'impostazione globale. Il
mondo è dipinto così come lo vede l'uomo e l'occhio dell'artista è la sua mente,
l'intelletto. Anche se si raffigura qualcosa di religioso, a ispirare non è più
semplicemente ciò che dice la Scrittura o la liturgia, ma prevale la
comprensione che l'uomo ha di questi fatti. In un certo senso, la terza
dimensione fa vedere il mondo – anche quello religioso – secondo l'uomo. Il
soggetto divino è sostituito dall'uomo. Mentre Dio è il soggetto che tiene uniti
l'uomo e il mondo, quando l'uomo diventa ll soggetto assoluto questa unità non
regge più. Anzi, a causa della frantumazione sempre crescente, si spezza il
concetto stesso di persona, considerata sino ad allora anche come rete di
rapporti ecclesiali, sociali, a vantaggio di una coscienza inquieta di sé e
della ricerca di libertà e responsabilità.
Una delle sfide più
importanti che si apre in epoca rinascimentale è la relazione tra il particolare
e la totalità. Un problema serio che si presenterà
sarà proprio quello dell'elaborazione di una visione unitaria, la ricerca del
principio dell'unità. Ma, cercandolo nell'ambito dell'umano, lo si propone
nella forma dell'elaborazione di un sistema universale di idee e di una
dettagliata legislazione del diritto dell'individuo. Comincia un'epoca di
affermazione dell'uomo che alle volte si esprime anche aggressivamente
contro il divino e il religioso, alle volte semplicemente li ignora. Questa
nuova epoca potrebbe essere chiamata 1'epoca del "progetto uomo". E giungerà a
un antropocentrismo radicale, con dei risvolti drammatici, sia per l'uomo che
per la società.
Come si è detto, il
Rinascimento presenta anche un'apertura a tutto ciò che ha rappresentato la
creatività umana classica precristiana, sia dell'antica
Grecia sia di Roma. Per dar spazio all'umano, liberato dal divino, dalla
religione cristiana, bisogna attingere all'antichità, alla mitologia classica.
Prendendo in considerazione un pittore che influenzerà per molto tempo la
pittura occidentale come Poussin, è evidente che egli non accetta
le soluzioni artistiche del barocco, ad esempio, proprio a motivo della
debolezza razionale di quest'epoca culturale. Poussin respira ormai una
razionalità moderna e dunque si aggancia all'antichità. Studia il Rinascimento,
ma si ispira all'antico. Questa sua razionalità, filtrata dal classico,
affascinerà più tardi tutto il movimento del neoclassicismo, soprattutto artisti
come David, arrivando fino ad Ingres, un pittore complesso,
in cui si vede una pittura talmente perfetta dal punto di vista formale
che persino l'aspetto tecnico, cioè il movimento del pennello, deve sparire
senza lasciare tracce per esaltare la perfezione delle forme. Si arriva
a uno sfumato talmente raffinato che non si può negare la genialità anche
manuale di questi artisti. La superficie è perfettamente chiusa. Nessuna
pennellata imperfetta lascia intravedere la carne della pittura. In questo
richiamo alla forma mentis classica che si cerca di far rivivere si
determinano forme di sviluppo così radicali che in qualche modo la classicità
stessa viene contraddetta.
Il significato dell'antichità
classica
Per comprendere il
meccanismo mentale che sta a monte, bisogna in qualche modo recuperare il
concetto dell'arte, dell'armonia, della bellezza della Grecia antica, dove senza
dubbio tra le arti una certa preferenza era attribuita alla scultura e
all'architettura, cioè al lavoro con una forte componente
materiale, all'intervento nello spazio come una sorta di divenire del cosmo, di
cui l'architettura è come un prolungamento. Le forme ideali,
perfette, i corpi di un'armonia inesistente in natura, i templi di una
precisione ottica impeccabile mostrano il dominio dell'idea, quell'idea nella
quale è celata la natura delle cose. Il processo della conoscenza permette di
attingere a quest'idea e dunque di arrivare a capire com'è il "progetto" del
reale. Lo stesso primato dell'idea si afferma nella filosofia greca. Ma per i
grandi greci
– Socrate,
Platone, Aristotele
– l'idea non è
ciò che per noi è diventata nell'età moderna, soprattutto da Cartesio in poi.
Per Platone l'idea è viva, agisce, si fa sentire. Il pensiero greco ci
testimonia un certo divario tra l'idea, che rappresenta l'armonia
–
perciò 1'eternità
–, e la materia
che è meno sicura, sia nella sua esistenza sia nella sua forma e nel suo senso.
Solo nella mitologia si è
risolto il passaggio tra questi due mondi. In qualche modo, il pensiero greco
rimane tragico, non riesce a superare il divario tra idea e realtà. Il corpo è
tragicamente condizionato dal destino del cosmo, cioè dal tempo, dal
cambiamento. Per evitare l'aspetto tragico, occorrerebbe rendere il corpo
conforme all'idea, perfetto, strappato alla corruzione del divenire e
dell'imperfezione. Ma questo è fuori dalla nostra portata e perciò non rimane
che la via del disprezzo della morte, via percorsa
da tutti gli eroi greci che sfidano la morte, convinti che le loro idee
rimangono. È proprio su questo divario abissale tra idea e realtà concreta che
sorge l'arte. Se non si può passare da un mondo all'altro, tuttavia, sulla base
della conoscenza si può intervenire sul mondo, conformandolo all'idea
che di per sé giace in esso. Così come si distinguono diverse scuole di pensiero,
ci sono anche diverse sottolineature nell'arte greca, ma la questione
in sostanza è questa. Si idealizza, ossia si vede secondo l'idea. Non solo. Si
corregge, si abbellisce, si perfeziona sulla base dell'idea conosciuta.
Il rischio dei modelli
Appaiono subito evidenti le
trappole di questo modo di pensare. La prima sta nel fatto che quest'arte, di
per sé, svolge il ruolo di modello, e il modello porta sempre inquietudine, sia
nella società che nell'individuo: si è conformi al modello oppure no? E, a parte
la conformità al modello, prima o poi nasce la domanda: chi ha stabilito il
modello? Chi dice che la realtà sia veramente così? Sulla base di che cosa? Per
Platone, infatti, la categoria incaricata della vera conoscenza è quella dei
filosofi e non degli artisti, troppo soggettivi.
L’altra trappola sta nel
fatto che, in un modo o in un altro, abbellendo
e perfezionando la materia mediante la forma, rimangono latenti due tentazioni:
quella del formalismo e quella del potere della materia. Il formalismo
come criterio sempre più universale, ma basato semplicemente sull'elaborazione
dell'esteriorità, con sempre meno attenzione all'interiore, cioè al contenuto,
scivola ben presto nell'apparire. Rispetto al potere della materia, la trappola
sta nel fatto che la forma più perfetta è il cerchio e quando io arrotondo la
materia, la rendo forte, potente. Così infatti è la scultura della fine
dell'ellenismo, dove si accentua la massa muscolare e allora, pian piano, il
criterio scivola nella forza fisica.
L’idea diventa più importante
della persona viva
Queste impostazioni di
fondo trovano un terreno fertile nel neoclassicismo,
dove la razionalità esercita un dominio sempre più esplicito e totale, trovando
le sue facili traduzioni anche in una forma sociale, culturale e addirittura nel
galateo. E il "buongusto", elaborato ed esplicitato anche in una norma, diventa
espressione dell'estetica come scienza dell'opera d'arte.
Si fa strada sempre di più la divisione tra genio e gusto, artista e spettatore,
che da allora dominerà in maniera massiccia l'arte occidentale e la relegherà al
ruolo di un oggetto che soddisfa una speciale facoltà della mente. L’unità
originaria dell'opera d'arte si è lacerata tra giudizio estetico
e soggettività artistica senza contenuto. Ormai l'idea e il ragionare si
richiamano all'antichità, ma in realtà se ne distinguono radicalmente. L’idea
non è più considerata una realtà viva, il ragionamento non è più inteso come la
complessa attività di conoscenza delle idee eterne, con sbocchi persino
spirituali, il pensare non ha più il senso di servizio alla verità, al contenuto,
ma è sempre più inteso come ricerca dei mezzi al servizio
dei fini che si adottano in un determinato momento.
Possiamo veramente parlare
di una sorta di cappa di piombo che comincia a calare su questo "progetto uomo"
e sulla nuova epoca inaugurata
dal Rinascimento, perché la scoperta dell'individuo, del soggetto, dell'uomo, è
vittima di un cattivo uso dell'intelligenza e della razionalità, i cui esiti
perversi si cominciano sempre più a vedere nel primato dell'idea sulla persona
stessa. Un amore esasperato per la ragione porta a un uso riduttivo
dell'intelligenza e l'uomo viene ridotto a semplice mezzo. Non è possibile
distinguere la struttura della cosa conosciuta da quella della conoscenza
e quest'ultima dall'attività dominatrice del soggetto conoscente. Ma una
conoscenza vera
«postula tra il conoscente
e il conosciuto un rapporto nel quale siamo uniti a vicenda
non in modo esteriore e casuale, non nel fatto materiale della sensazione e
nella forma logica del concetto, ma in un nesso essenziale e interiore, nei
fondamenti stessi del loro essere, ossia in ciò che è assoluto in ambedue.
Questo assoluto non riducibile né al fatto della sensazione, né alla forma del
concetto è necessario, e nell'oggetto della conoscenza, e nel soggetto
conoscente»[3].
Ora il limite alla
manipolabilità delle cose non sta più nella loro natura
che le regola e le ordina, ma è l'uomo che si arroga questa funzione regolatrice.
La modernità comincia
allora a vivere in modo tragico le prime gravi contraddizioni. Il sogno di
un'umanità riconciliata sia con se stessa che con il mondo, armonizzandosi
spontaneamente con l'ordine universale, comincia
a vedere sparso il sangue degli uomini in nome di grandi idee. Una razionalità
passionale, nucleo dell'ideologia, schiaccia lo spazio di libertà che il
Rinascimento ha certamente aperto. Idee addirittura umaniste fanno milioni di
morti, a partire dalla Rivoluzione francese, questo primo grande tentativo di
applicare al campo umano una pianificazione razionale, dove la società deve
essere trasparente come il pensiero scientifico.
Una razionalità che vuole
abbracciare tutto e gestire tutto secondo norme che essa stessa produce,
evidentemente non concede troppi spazi a quanto in se stesso è legato alla
libertà, come le relazioni interpersonali, l'amore, espressioni come il simbolo
e la metafora.
Una razionalità passionale,
riduttiva, che sfocia addirittura nel culto di se stessa, emargina intere
dimensioni della vita ed esclude anche le persone
che fanno appello a realtà che la norma e il sistema non prevedono. Una lunga
lista di intellettuali e artisti europei sarà bandita e molti di loro
addirittura si ammaleranno. Non è più possibile evitare la questione di fondo:
in che cosa consiste realmente la nuova sensibilità, la scoperta del soggetto,
l'intelligenza dell'umanesimo, il progetto uomo, se davanti a questo sviluppo
non c'è più la possibilità di opporsi?
«[...] la richiesta di una
libertà assoluta conduce l'uomo alla più dura servitù. Il padrone della macchina
ne diventa lo schiavo e la macchina diventa nemica dell'uomo.
La creatura si rivolta contro chi l'ha creata: singolare replica del peccato di
Adamo! L’emancipazione delle masse sfocia nel terrore della ghigliottina. Il
nazionalismo
porta inevitabilmente alla guerra. L’ideale assoluto della liberazione conduce
l'uomo all'autodistruzione. Alla fine della via per la quale ci si è incamminati
con la rivoluzione francese si trova il nichilismo»[4].
Alcuni esempi significativi
Emblematico in questo
contesto è certamente il dipinto di Delacroix La libertà che guida il popolo
(1830), ispirato alla rivoluzione parigina del 1830
che portò alla destituzione di Carlo X e del suo regime assolutistico,
instaurato dopo la messa al bando di Napoleone. La libertà è rappresentata
in quest'opera come un'ideologia (la bandiera in primo piano, cioè un sistema
ideale convenzionalmente accordato; il petto nudo, cioè la carica passionale con
la quale viene sostenuto questo sistema) che avanza marciando
sui cadaveri. La costatazione è che non si tratta semplicemente di avere idee
buone, ma che bisogna essere buoni, altrimenti, cercando di realizzare le idee,
ci troviamo di fronte a una "eterogenesi dei fini" inaspettata,
dove la contraddizione tra la natura programmata e pianificata della propria
strumentazione e quella incontrollata dei suoi esiti diventa insormontabile. La
dittatura del bene a un livello ideale diventa dittatura sull'uomo in modo
concreto.
«E poiché la nostra natura non è
un bene in se stessa e la legge morale della nostra mente, benché buona per la
sua qualità concepibile, è tuttavia impotente nel darci il bene in realtà,
allora bisogna o separarsi del tutto dal bene, oppure riconoscere che esso
esiste indipendentemente dalla nostra natura e dalla nostra ragione, cioè
riconoscere che esso esiste per se stesso e da se stesso si comunica a noi.
Questo Bene esistente, cioè 1'essere che possiede per se stesso la pienezza e la
fonte della grazia, è Dio»[5].
È proprio questa la
profonda contraddizione degli ultimi secoli: da un lato, l'affermazione del
soggetto porta a scoperte importanti per la vita dell'uomo e favorisce una
cultura che per certi versi è davvero “umanesimo”,
ma, d'altra lato, l'assenza della spiritualità come unica luce e arte che riesce
a garantire il discernimento tra intelletto e passione, fa sì che l'antropocentrismo
radicale rischi di soffocare davanti ai cadaveri che esso stesso produce. E
infatti qualche tempo più tardi, ma ancora nel XIX secolo, nella pittura
simbolista e poi in quella che immediatamente precede
l'impressionismo francese, comincerà a farsi strada la nostalgia dello "spirituale"
e affioreranno diversi tentativi di creare delle spiritualità su uno sfondo
pagano.
La zattera della Medusa
di Géricault, nata sullo
sfondo storico del naufragio di un'imbarcazione francese davanti alle coste
africane, mostra che il pittore lascia spazio ad altre chiavi di lettura,
vivendo ormai d'altra parte in un tempo in cui si cominciano a sentire nell'aria
i flussi romantici, dov'è abituale che la natura divenga portavoce degli stati
d'animo. E non è difficile immaginare quali stati d'animo possa esprimere una
zattera in mezzo a un mare agitato, ormai prossima ad affondare con i naufraghi
che già ricompongono i primi morti. La nave all'orizzonte che determina tutta la
composizione piramidale, ma con un taglio in diagonale, esprime questa attesa
spasmodica della salvezza che non arriva perché, in un mare così agitato, una
nave di quell'epoca avrebbe impiegato troppo tempo per raggiungere la zattera e
trovare i superstiti. Tante possibili letture vengono
suggerite da questo dipinto. Una può essere l'irreversibilità della catastrofe.
La salvezza, che pure esiste, ormai non è più a portata di mano. Un'altra
lettura potrebbe essere invece che quella barca lontana sull'orizzonte
potrebbe ancora miracolosamente farci scampare alla tragedia.
Si tratteggia dunque uno
sfondo all'utopia, che infatti trova posto nel pensiero europeo, e in
quest'ambito maturerà il suo pensiero uno dei padri del più massiccio movimento
della modernità: Engels. Nella parte posteriore della zattera sta seduto,
rivolto indietro, un personaggio che tiene la mano sul corpo morto di un giovane
che potrebbe essere suo figlio. Molte pagine sono state scritte su quest'opera,
ma qui c'interessa solo un aspetto: evidentemente il periodo aperto dalla
Rivoluzione francese
in qualche modo è un trauma, perché è il primo tentativo di una globalizzazione
in senso laicista, quindi agli estremi antipodi di ciò che avrebbe voluto essere
la globalizzazione medievale. La domanda se la direzione presa abbia un esito
positivo oppure si vada incontro al naufragio
è dunque legittima. Sono gli accenni all'inizio di una prima riflessione critica,
forse addirittura il bisogno avvertito dell"'altro".
Veemente sarà la reazione
contraria che sale dall'Olanda, con un doloroso richiamo a tutto ciò che nei
secoli precedenti era stato soffocato e oppresso. Un forte richiamo al
sentimento, al simbolo, alla metafora, alla libertà della persona umana. Van
Gogh si fa portavoce drammatico di un'umanità senza cittadinanza nella compagine
europea di quel tempo. Lui e Gauguin diventano certamente i padri del più
clamoroso dissenso sull'andamento post‑rinascimentale.
Ma sono da esso stesso condizionati. Senza la modernità, la coscienza del
soggetto non sarebbe così viva. Ma allo stesso tempo essi la sperimentano come
qualcosa di non considerato nella sua integralità. L’arte diventera sempre piu
un'espressione diretta deuo stato d'animo dell'artista. L:artista esprimera se
stesso. L’arte si avvia così sulla strada della multiformità di linguaggi perché
multiformità di espressioni, ma tutto questo come un'esistenziale reazione al
formalismo e al fondamentalismo razionalista che si è dimostrato una grave
riduzione, sia dell'intelligenza sia dell'uomo stesso.
Un pendolo interessante
In Cézanne e van Gogh
riconosciamo i due estremi di quel movimento
pendolare che è cominciato con il Rinascimento e con il Barocco. Anche se in
forme ormai molto derivate, vediamo in Cézanne una ricerca del classico, del
razionale, dello strutturato, mentre in van Gogh l'indagine si volge
all'interiore, al personale, al sentito, al libero. Da un lato un principio più
oggettivante, e dall'altro uno più soggettivo. Queste oscillazioni tra oggettivo
e soggettivo, per come le conosciamo anche dall'ambito del pensiero filosofico,
attraversano tutta la nostra storia negli ultimi secoli. In un certo senso, il
XX secolo non superera i due estremi del pendolo. Piuttosto, il movimento
diventerà sempre più serrato e frantumato. Se le prime due onde, come il
fauvisme e il cubismo, sono ancora due realtà abbastanza circoscritte ed
identificabili, in seguito il ritmo si farà sempre più veloce, impazzito, fino a
una sorta di atomizzazione dell'espressione, del linguaggio e dei riferimenti.
Espressione del soggetto
Ma quello che il XX secolo
ci fa costatare è che l'arte diventa comunque
prevalentemente un campo di espressione e di affermazione del soggetto.
Il motto "dipingo come mi sento, mi esprimo come mi sento" ingloba
anche quei movimenti artistici che di per sé si rifanno a un principio più
oggettivo. Il concettualismo arriva a un ermetismo forse addirittura meno
comunicabile di un espressionismo informale.
E il cubismo con le sue
evoluzioni, soprattutto in Picasso, non è meno ermetico di un action
painting. Dunque, anche i movimenti che di per sé vorrebbero affermare un
aggancio più al classico, al razionale, all'oggettivo
–
come l'iperrealismo
–, lo fanno in
modo soggettivo. Il mondo del soggetto riconosce praticamente come oggettività
solo lo stato d'animo, e questo diventa un clima sempre più generale, lasciando
che il sentimento interiore trovi degli sfoghi ancora più immediati.
Se nel manifesto
surrealista si continua a fare appello a un percorso psicanalitico e l'arte
diventa quasi una terapia di liberazione dalle angosce e dagli incubi di cui il
soggetto è popolato
– perché la
storia e la società glieli provocano
–,
nella pittura di Mathieu la mano del pittore diventa quasi un sismografo e
l'artista prende direttamente il tubo del colore, saltando
il pennello o la spatola, proprio per poter esportare sulla tela, con più
radicale immediatezza, la percezione di sé.
Nelle leggere pennellate di
Hartung, che ricordano quasi l'antica grafica
giapponese, ogni gesto, ogni espressione diventa un'opera d'arte.
Rauschenberg prende gli
oggetti, perfino gli animali impagliati, e cerca di includerli in un'unica
espressione artistica. Il colore rosso steso con la spatola su un animale
diventa un'espressione del sentire dell'artista che sconfina di per sé il
proprio mondo, ma dall'altro lato non fa altro che vedere tutto attraverso il
suo stato d'animo, tanto da intervenire con questo sulle cose.
Jasper Johns prende degli
oggetti poveri come una scopa, ad esempio, e li inserisce nella pittura. La
pop art più tardi riempirà l'opera d'arte di oggetti di
consumo. In qualche modo si entra in un circolo vizioso: l'uomo
vive soprattutto le cose che si pubblicizzano, e la pubblicità fa sì che l'uomo
senta costantemente le cose come desiderate.
Ecco allora l'opera di
Hanson Donna con carrello della spesa (Supermarket Lady), dove si mette
in rilievo in modo quasi ironico la decadenza
e il degrado dell'uomo, del suo spirito, ma anche dell'arte stessa.
Allo stesso modo di una cultura
da supermarket, si pubblicizzano la salute, il benessere, l'apparire in forma e
giovani. Si crea tutta un'arte nel senso convenzionale, ma anche nel senso lato,
della culinaria, delle diete, con un'attenzione particolare al benessere
psicosomatico, alla linea. Si promuove così una sorta di "cultura dell'OK".
Tutto deve essere OK e tutto deve godere di buona salute.
Forse, all'inizio del
secolo, Duchamp aveva già intuito il destino di un'arte che si è sottomessa ad
estetiche elaborate filosoficamente, sociologicamente
o psicologicamente, e fa vedere con ironia che ogni oggetto portato in galleria
diventa automaticamente opera d'arte. Dopo che si è cercato di afferrare
l'autentica realtà dell'opera d'arte con le regole dell'estetica e ci si è resi
conto che questa non si fa definire, si demanda alla galleria la dichiarazione
di ciò che è arte e di ciò che non lo è. La galleria dovrebbe così avere la
straordinaria magia di cambiare le cose in arte. Ma, come Duchamp stesso ha
mostrato, le cose hanno diversi significati e alla fine tutto diventa relativo:
un orinatoio può stare in un museo e si può usare un Rembrandt come asse da
stiro.
In Tàpies l'opera d'arte è
il terreno dei segni, delle tracce che testimoniano
il passaggio dell'uomo. Negli spruzzi di Pollock, la sua voglia di esprimersi è
quasi un fatto corporeo, fisico, che mette più l'accento nel gesto con il quale
lancia il colore che in ciò che succede sulla tela.
Tentativi degli ultimi anni
Nella Biennale di Venezia
del 1993 il padiglione spagnolo con Tàpies presenta un'opera
concettualista, ma di sconvolgente eloquenza. Si tratta di un'intera parete, di
bianco perfetto, davanti alla quale è posta una sedia, anch'essa bianca. Sulla
parete un ipotetico spettatore trovava disegnato in nero, all'altezza della sua
testa, uno scarabocchio, un segno indecifrabile.
Si può intravedere un richiamo allo zen, quindi all'esercizio mentale di una
contemplazione prolungata e ripetuta fino al dischiudersi di un qualche
significato. Inquadrando quest'opera negli anni della creatività
di Tàpies, penso che esplicito sia un altro messaggio: l'uomo si esprime,
lascia le sue tracce, segni, ma non c'è più nessuno che li accolga. La sedia
rimane vuota e l'espressione dell'uomo, troppo soggettiva nel suo linguaggio,
non è più una comunicazione ma semplicemente un'espressione.
Che cosa è l'uomo se non può più comunicare e se nessuno ascolta più la sua
comunicazione? Come se fossimo giunti al capolinea di un cammino
dell'espressione di se stessi. Si finisce in una pressante solitudine. Nella
Biennale del 1990 Verjux presentava un'opera ancora più sconvolgente: lo
spazio previsto per l'opera d'arte era vuoto, ma nel raggio del faro che
illuminava lo spazio espositivo veniva inclusa una finestra soprastante,
aperta. Ormai non esiste più l'opera d'arte, ma bisogna salire e uscire da sé,
ci vogliono aperture, ci vuole un incontro con l'altro, con il quale si scopre
il contenuto e si ha una voglia nuova di comunicarlo.
L’arte del XX secolo testimonia
una profonda sconfitta dell'estetica prodotta dalla filosofia agli albori della
modernità.
Di quale bellezza possiamo
parlare, infatti, se si voleva creare un'opera
liberata dalla bellezza? La testimonianza del secolo appena concluso, per quanto
riguarda la bellezza, è il grido della sua assenza. Tant'è vero che le grandi
correnti e i grandi artisti del XX secolo nella stragrande maggioranza
non cercavano di fare delle opere belle, ma cercavano di esprimere, ciascuno
secondo la propria espressione, il disagio dell'uomo nella nuova situazione che
in questi ultimi secoli si è andata a creare. Le arti nel senso convenzionale –
per quanto sono sopravvissute –, sono nella loto creatività
una trama dolorosa e inquieta di una vera e diretta confessione del cuore umano
in quest'ultimo scorcio della modernità. Sono una coscientizzazione
del dolore, del travaglio vissuto. Se questo viene riscoperto in un'ottica
spirituale, potrebbe trattarsi di una vera apertura alla partecipazione al
martirio di Cristo, fondamento della bellezza, perché realizzazione dell'unità
del divino e dell'umano e dell'umanità intera.
Ma un'espressione feroce e
violenta del dolore e del disagio non può essere automaticamente intesa come
bellezza in un senso cristiano, Si può ideologizzare e teorizzare sugli stati
laceranti dell'uomo e della sua espressione,
ma quello che tocca a noi cristiani non è questo. Non lo è neanche, a ogni costo,
con un'estetica elaborata nella modernità, cercare di sviscerare
le opere create nell'ultimo secolo. Non si tratta di appiccicare a ogni costo
una realtà come la bellezza (che oggi è tornata di moda) a ciò con cui essa non
voleva avere niente a che fare.
Attualmente, la stragrande
maggioranza dell'arte è entrata nel mondo digitale e virtuale. Lì il senso del
bello viene ormai costituito dagli effetti dell'informatica. Si crea una grande
piattaforma comune dell'informazione,
ma la comunicazione è prevalentemente virtuale, dunque non reale, non
coinvolgente. Ancora una grande illusione?
Conclusione
Considerando che il motto
di tutta l'arte degli ultimi tempi è 1'espressione
del soggetto, creando addirittura propri linguaggi con codici soggettivi,
bisogna avere pure il coraggio di rendere avvertiti del rischio non solo che si
tratta di frantumazione e di incomunicabilità, ma che si può prestare
il fianco alle tentazioni del male vero e proprio. E infatti non sono isolati
gli esempi di un'arte che è un vero e proprio culto dello smembramento,
della perversione, di un atteggiamento ludico sconfinato che gioca persino con i
cadaveri umani. Una situazione così lacerata testimonia la perdita della visione
dell'insieme, quella che era in grado di custodire anche l'integralità della
persona umana. Come oggi la persona è smarrita nell'arte, lo è ancora più
drammaticamente nella scienza. Forse è la mente stessa, cioè la ragione alla
quale negli ultimi anni si vorrebbe fare appello, quella che rappresenta la
patologia più grave. E l'incapacità di riorientarsi
verso il vero. Ma se la bellezza è il vero e il bene realizzati, allora oggi non
si può nascondere la preoccupazione di fronte a ciò che narrano le arti
contemporanee. Anche in questo caso estremamente appropriate sembrano
queste parole di Solov'ëv:
«Ogni male può venir
ridotto a una violazione della solidarietà reciproca e dell'equilibrio
fra le parti e il tutto; e sostanzialmente si può operare la stessa riduzione
anche per ogni menzogna e per ogni deformità. Quando un elemento particolare o
singolo afferma se stesso nella propria singolarità cercando di escludere o di
schiacciare 1'essere altrui, quando degli elementi particolari o singoli
vogliono, insieme o separatamente, prendere il posto dell'intero escludendo e
negando così la sua unità autonoma e, con ciò stesso, anche il nesso comune che
li collega fra di loro, e quando, al contrario, in nome dell'unità viene
compressa o eliminata la libertà dell'essere particolare, non abbiamo altro che
un'autoaffermazione esclusiva (egoismo), un particolarismo anarchico e un'unità
dispotica, cioè, in altre parole, ciò che deve essere definito un male
[…]. Le stesse caratteristiche essenziali che determinano il male nella
sfera morale e la menzogna nella sfera intellettuale determinano
la deformità nella sfera estetica. Deforme è tutto ciò in cui una parte si
amplifica smodatamente e prevale sulle altre, ciò in cui non c'è unità e
integrità e infine ciò che non possiede una libera varietà di forme»[6].
La scomposizione, la
rottura, lo squilibrio, l'isolamento delle parti sono innegabilmente il
linguaggio consolidato e acquisito in molte correnti dell'arte contemporanea. E
parlare della bellezza all'interno di un tale ambito è più o meno come parlare
della solidarietà e della carità all'interno
di un mondo individualista, dove ognuno è preoccupato per il benessere
di se stesso. L’arte contemporanea voleva essere una piena affermazione della
libertà del soggetto, e ciò che annuncia è di fatto la tragedia del cuore umano
se sgancia la libertà dall'amore che è la sua essenza e verità. Non esiste
nessun bene per l'uomo, se esso non fa parte della verità dell'uomo.
«La pienezza di questa
libertà esige che tutti gli elementi particolari trovino se stessi
gli uni negli altri e nell'intero, che ciascuno ponga se stesso nell'altro e
l'altro in sé, e che senta nella propria particolarità l'unità dell'intero e
nell'intero la propria particolarità: in una parola si tratta dell'assoluta
solidarietà di tutto quanto esiste, di Dio che è tutto in tutte le cose. Una
piena realizzazione sensibile di questa solidarietà universale o unitotalità
positiva, cioè la bellezza perfetta intesa non soltanto
come idea riflessa dalla materia ma come idea effettivamente presente nella
materia, presuppone innanzitutto un'interazione profondissima e strettissima fra
1'essere interiore o spirituale e 1'essere esteriore o materiale»[7].
Una piccola minoranza
dell'arte contemporanea cerca di attingere alla memoria e alla tradizione,
recuperando l'arte che ancora lavora sulla materia, cercando di dare alla
propria espressione un linguaggio che coinvolge il personale,
ma allo stesso tempo è aperto a una reale condivisione con gli altri. Dunque,
un'arte che recupera la missione del servizio, un'arte che tesse le relazioni
tra le persone, perché comunica qualcosa che supera semplicemente
uno stato d'animo del soggetto. Attraverso una tale arte, si riapre la possibilità
di recuperare la bellezza come una realtà penetrata dall'amore. E, recuperando
una tale bellezza, si apre la possibilità di recuperare una grande parte
dell'arte caratterizzata dal grido e dalla lacerazione dei nostri tempi.
Ma è necessario prima
capire se i cristiani se la sentono d'impegnarsi in tale missione, in quanto
anche noi, cioè la Chiesa, siamo in un certo senso entrati nella trappola
soggettivista. Non è giunto forse il tempo in cui siamo chiamati a costruire
delle chiese nelle quali si articoli in modo sensibile,
attraverso l'architettura e l'arte, la grande memoria, la Sapienza e la vita
spirituale della Chiesa che accoglie in ogni tempo chi varca la sua soglia? Non
è forse il tempo stesso che mette in ridicolo i nostri spazi disabitati,
vuoti, deformati, troppo spesso in perfetta conformità ai gusti delle correnti
che non hanno e non la cercano la bellezza in senso teologico?
La vera bellezza non può essere
confusa.
«Quindi andammo in
Grecia, e i Greci ci condussero agli edifici dove adorano il loro Dio, e non
sapevamo più se eravamo in cielo o in terra. Poiché in terra non c'è tale
splendore o tale bellezza, e non sappiamo come descriverli. Sappiamo solo
che Dio abita tra gli uomini, e la loro liturgia è più bella delle cerimonie
delle altre nazioni. Perché non possiamo dimenticare una tale bellezza»[8].
[1]
V. SOLOV'ËV, Il significato dell'amore e altri scritti,
La Casa di Matriona, Milano 1983, 224.
[2]
Riguardo alla bellezza, si rimanda a M. I. RUPNIK, "Bellezza",
in Dizionario di teologia, a cura di G. BARBAGLIO ‑ G. BOFF ‑ S.
DIANICH, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2002, 154‑179.
[3]
V. SOLOV'ËV, La critica dei principi astratti, La Casa
di Matriona, Milano 1971, 197.
[4]
D. BONHOEFFER, Etica, tr. it. (orig. tedesco, München
1949), Milano 1969, 86‑7.
[5]
V. SOLOV'EV, I fondamenti spirituali della vita,
Lipa, Roma 1998, 33.
[6]
V SOLOV'ËV, Il significato dell'amore e altri
scritti, cit., 225‑226.
[7]
Ivi,
226‑227.
[8]
S. H. CROSS ‑ O. P. SHERBOWITZ‑WELTZOR, The Russian
Primayy Chronicle. Laurention Text, Cambridge, Mass,: The Mediaeval
Academy of America 1953, 110‑1.
Fonte : http://www.azionecattolica.it/settori/ACR/Educatori/sezione/armad/NOVITA/CAMPI
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