BRUNO MUNARI
Bruno Munari era «quello» (come
diceva lui di sé) delle forme, delle invenzioni, delle immagini, delle fantasie
inaudite e mai viste. Nel 1930 inventa le «macchine inutili» che si scompongono
e si ricompongono continuamente. Nel 1945 progetta nuovi libri per bambini che
vengono ristampati ancora oggi. Nello stesso anno progetta l’ORA X. Nel 1947
inventa nuove scritture di popoli sconosciuti. Nel 1949 produce i primi «libri
illeggibili» . Nel 1950 dipinge «negativi-positivi» con i colori che si spostano
nello spazio ottico. Nel 1952 usa la luce polarizzata.Nel 1958 crea le sculture
da viaggio e le forchette animate. I fossili del duemila sono già pronti nel
1959. Le xerografie originali sono del 1964. La Flexy prende corpo nel 1968 e
cambia sempre forma. Inventa l’«Abitacolo» per la felicità dei bambini nel 1971.
Nel 1977 progetta laboratori per bambini che vengono ormai realizzati in molti paesi. Pittore, designer, maestro e artista gentile, il segreto di Munari era quello da dare l’idea che tutti potevano disegnare o creare come faceva lui, o capire subito quello che faceva lui.
Non è vero che ognuno di noi può essere un Munari, ma è probabile che tutti quelli che riescono a capire i segni dell’arte moderna si sentano, in milioni di modi rispecchiati nei colpi d’occhio di Munari, come in molte parole in libertà dei Futuristi, come in Picabia o in Man Ray, artisti che hanno formato le visioni di Munari.
Parlare di Munari, come è stato fatto, di un geniale «fanciullo mai cresciuto», mi sembra facile e anacronistico. E’ più vero invece pensare ad un adulto che è stato bambino come tutti, e che diventato adulto, ha perfezionato un esperanto visivo tutto suo, ma capace di interloquire con le tre età dell’uomo. Prendiamo uno dei suoi saggi Da cosa nasce cosa (Ed. Laterza 1996), dove si capisce il senso e le immagini in progressione di uno dei suoi libri più straordinari per bambini, le Rose nell’insalata: dove una fila di verdure, sezionate e timbrate riservano in sé altre forme incredibili: il cavolo che contiene un albero, il sedano che ospita astronavi o personaggi strani, la trevisana che fa «una rosa un poco strana» ... Chi di noi adulti ha mai pensato di fronte alle nostre insalate quotidiane di vedere e digerire altre forme familiari? Oppure quante volte da bambini lo abbiamo immaginato?
Abbiamo mai pensato a quanto generico sia il termine «genio» ? Per Munari sceglierei quello più italiano di artista leonardesco: che pochi italiani dopo Leonardo hanno meritato.
Bruno Munari, è morto a 91 anni, il 30 settembre a Milano dove era nato.
Nel 1977 progetta laboratori per bambini che vengono ormai realizzati in molti paesi. Pittore, designer, maestro e artista gentile, il segreto di Munari era quello da dare l’idea che tutti potevano disegnare o creare come faceva lui, o capire subito quello che faceva lui.
Non è vero che ognuno di noi può essere un Munari, ma è probabile che tutti quelli che riescono a capire i segni dell’arte moderna si sentano, in milioni di modi rispecchiati nei colpi d’occhio di Munari, come in molte parole in libertà dei Futuristi, come in Picabia o in Man Ray, artisti che hanno formato le visioni di Munari.
Parlare di Munari, come è stato fatto, di un geniale «fanciullo mai cresciuto», mi sembra facile e anacronistico. E’ più vero invece pensare ad un adulto che è stato bambino come tutti, e che diventato adulto, ha perfezionato un esperanto visivo tutto suo, ma capace di interloquire con le tre età dell’uomo. Prendiamo uno dei suoi saggi Da cosa nasce cosa (Ed. Laterza 1996), dove si capisce il senso e le immagini in progressione di uno dei suoi libri più straordinari per bambini, le Rose nell’insalata: dove una fila di verdure, sezionate e timbrate riservano in sé altre forme incredibili: il cavolo che contiene un albero, il sedano che ospita astronavi o personaggi strani, la trevisana che fa «una rosa un poco strana» ... Chi di noi adulti ha mai pensato di fronte alle nostre insalate quotidiane di vedere e digerire altre forme familiari? Oppure quante volte da bambini lo abbiamo immaginato?
Abbiamo mai pensato a quanto generico sia il termine «genio» ? Per Munari sceglierei quello più italiano di artista leonardesco: che pochi italiani dopo Leonardo hanno meritato.
Bruno Munari, è morto a 91 anni, il 30 settembre a Milano dove era nato.
Fotoritratto di Bruno Munari
Futurista, macchinista, sempre mutevole. E' Bruno Munari
Dagli anni Trenta, le ricerche di questo atipico protagonista della cultura figurativa europea dimostrano quanto siano forti e molteplici le connessioni tra arte, scienza e tecnologia. La perfezione è bella ma stupida, sostiene, perciò bisogna romperla.Artista tra i più interessanti del nostro tempo, presente da oltre mezzo secolo nelle più importanti manifestazioni nazionali e internazionali, Bruno Munari costituisce un caso singolare, se non atipico, nel panorama della cultura figurativa italiana del '900. Esordisce partecipando, dal '27, alle mostre futuriste della galleria "Pesaro" di Milano. Nel '32 crea fotogrammi ispirati ai rayogrammes di Man Ray; l'anno seguente espone a Milano le prime macchine inutili: strutture geometriche da appendere, mobili nello spazio e quindi in continua trasformazione, come oggettiva occupazione dell'air ambiant, ma anche come metafora fantastica dell'impulso dinamico che è al fondo della vita.
Nel '45 Munari progetta la prima opera cinetica a motore (Ora x) e, tre anni dopo, espone i Libri illegibili e partecipa con Soldati, Monnet e Dorfles alla fondazione del Movimento Arte concreta, tendente a una ricerca pittorica e plastica non-oggettiva completamente libera «da ogni imitazione e da ogni riferimento col mondo esterno». Nel '32 lancia il Manifesto del macchinismo, quindi si occupa di cinematografia astratta, effettuando esperimenti con luce polarizzata. Da allora Munari conduce un'incessante indagine sperimentale, volta a scandagliare le diverse forme della divisione, che per lui sono quasi sempre in relazione, con il readiniano problema del rapporto arte-industria.
Dopo le "suites" Ricostruzioni teoriche di oggetti immaginari (1970), Scritti illegibili di popoli sconosciuti (1974), Variazioni sulla curva di Peano (1975), Xerografie a colori (1976), Olio su tela (1980) e I filipesi (1981), Munari ha realizzato nel 1983 un gruppo di tessuti intitolati Prove d'autore, in cui un colore ora trasparente ora intenso si organizza secondo strutture geometriche che si stendono a larghe fasce verticali. Sebbene le cifre iconiche si carichino di una propria specificità di ordine propriamente visivo, tanto da poter essere considerate come veri e propri percettemi fenomenici nel senso indicato da Arnheim, nel procedimento di formazione dell'opera prevale il momento sintattico su quello semantico. In effetti l'attenzione si concentra soprattutto sui segni elementari e sulle regole di organizzazione dei segni medesimi piuttosto che sulla casualità materica del campo cromatico.
Abbiamo incontrato Munari nel suo studio milanese e gli abbiamo rivolto alcune domande sulla sua proteiforme koinè artistica.
A un osservatore frettoloso potrebbe sembrare che il tuo percorso creativo da diversi anni abbia avuto dei salti sul piano linguistico sin troppo rilevanti, se non addirittura dei cambiamenti radicali. Alla luce dell'esperienza di Prove d'autore, che ne pensi?
La costante di tutto il mio lavoro è la ricerca dell'essenzialità espressa nella semplicità e con i mezzi più adatti. In campi diversi, secondo l'interesse.
Proseguiamo a parlare della tecnica usata per Prove d'autore. Mi pare che il dripping, cioè lo sgocciolamento del colore sulla tela, sia adoperato in maniera molto diversa da Pollock. Lui lascia cadere la materia nell'asimmetria della composizione, tu, anziché condurla al dissolvimento e al disordine, la mantieni in uno stadio d'incredibile equilibrio. Quale significato ha per te il dripping?
Il cosiddetto dripping lo trovi anche nella antiche ceramiche popolari, prima di Pollock. Per realizzare questi tessuti stampati per arredamento ho fatto un'analisi sistematica (con schede) su tutti i tipi di gocce e sui liquidi più adatti per ottenere effetti diversi. Questo è un problema di semplice decorazione e non di tecnica artistica.
Sei senz'altro tra le più grandi personalità mondiali dell'arte cinetica e programmata. Ma già agli inizi degli anni '50 era sembrato a molti, pure per il continuo diffondersi nella scena internazionale dell'action painting e dell'informale, che il rapporto arte-scienza (tema della XLII Biennale di Venezia) fosse sul punto di finire. Senonché, come hanno ampiamente dimostrato le tue opere, quelle di Alberto Biasi, Garcia Rossi, Le Parc, Soto, Vasarely e altri ancora, tale rapporto ha continuato ad avere sviluppi impensati sul piano dell'invenzione. Oggi, dopo l'opinabile rassegna del 1983 "L'ultima avanguardia", sembra di essere riprecipitati in quel dubbio. E' così?
Finché ci sarà il progresso scientifico ci sarà anche quello estetico. Del resto, chi fa ancora i cerchi a mano libera dopo l'invenzione del compasso? La tecnologia ci offre ogni giorno di più strumenti formidabili che sarebbe sbagliato non considerare come mezzi di comunicazione e di espressione. L'importante è non fermarsi su una formula, ma stare in parallelo col progresso tecnologico.
Con la crisi del movimento moderno e dell'avanguardia le forme stesse del tempo paiono mutare profondamente insieme con i nostri modi di comprendere la storia. Taluni pensano che l'epoca moderna sia giunta al suo termine e si collocano in una prospettiva post-moderna; altri, al contrario, ritengono che il movimento moderno stia avviandosi a una stabilizzazione che durerà parecchi secoli e concepiscono una sorta di modernità permanente. Come collochi il tuo lavoro nel senso del tempo e della storia?
C'è un antico proverbio cinese, anzi è un'affermazione che dice: l'unica costante della realtà è la mutazione. Quindi pensare, affermare qualche cosa, è un errore.
Husserl sostiene che lo spazio quale si manifesta nel progetto tecnico-fisico, in qualunque modo si possa determinare, può essere considerato l'unico vero spazio. Come giudichi una simile asserzione alla luce della tua ricerca iconica, o meglio del tuo spazio artistico?
Adesso non so in che senso sia usata la parola spazio. Ma io non penso a questo tipo di spazio quando produco qualche cosa, perché ci sono delle opere che possono essere a due dimensioni, altre che possono essere a tre, altre a quattro, a cinque, a sei, a più dimensioni. Dunque qual è lo spazio? Lo spazio è quello che si sceglie per realizzare meglio un pensiero artistico e quindi, secondo me, sbagliano quelli che usano solo uno spazio per esprimere tutte le sensazioni, tutte le idee artistiche che possono avere.
In un tuo scritto hai spiegato la tua produzione recente con l'archetipo dei contrari: come la regola e il caso, la luce e il buio, il caldo e il freddo, il maschile e il femminile. Già dal principio del secolo scorso sembra non sia stato più possibile definire i linguaggi se non in concetti antitetici. Essi si chiamavano in Schiller ingenuo e sentimentale, in Goethe reale e ideale, in Nietzsche apollineo e dionisiaco, in Riegl tattile e ottico, in Wölfflin in piano e in profondità. Questa impostazione eccessivamente filosofica non contrasta con l'estrema libertà creativa della tua opera?
L'equilibrio dei contrari si trova, prima ancora dei filosofi citati, nell'antichissimo simbolo Yin-Yang, come definizione della realtà. Mentre quella che tu dici l'estrema libertà creativa deriva da un'altra regola che ho imparato in Giappone e che dice: la perfezione è bella ma è stupida, bisogna conoscerla ma romperla. La regola non deve uccidere la fantasia.
Il successo strepitoso delle tue antologiche in Italia e all'estero è il continuum della tua eterna giovinezza. Quali altri traguardi ti poni?
Sempre c'è una prospettiva, perché quando uno vive di progetti resta giovane, se uno vive di ricordi diventa vecchio.
1964 - "Falkland" lampada a
sospensione, Danese
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