STORIA DELLO
SCISMA ORIENTE - OCCIDENTE
Alcune note di introduzione a cura del traduttore.
Lo
studio che presentiamo è costituito da due conferenze tenute dai Proff.
P.Ranson e M. Terestchenko presso una scuola superiore di Parigi.
Quello che colpisce il lettore in questi studi è l’assoluta novità
dell’impostazione data alla questione “scisma” per troppo tempo sconosciuta
agli studiosi ed anche agli occidentali che fossero semplicemente interessati
a questa storia, soprattutto a causa di storici in malafede che hanno
preferito tenere molti risvolti di questa storia artatamente celati al fine di
non permettere in alcun modo la messa in discussione delle origini del papato
e del Sacro Romano Impero.
Non possiamo dimenticare, a questo proposito, come tutte le case regnanti
dell’Europa occidentale originassero dall’Impero carolingio e dal sistema
feudale la propria ragione di esistere e che l’eventuale messa in discussione
della validità, sul piano del diritto storico dell’Impero carolingio, avrebbe
messo conseguentemente in discussione anche la loro sussistenza.
Per ciò che riguarda il Papato, la cosa è anche più evidente, in quanto la
tesi difesa da Ranson e Terestchenko è quella della ”usurpazione” del trono
ortodosso dell’antica Roma da parte di vescovi eretici germano-franchi aventi
come scopo primario il mantenere prima il potere carolingio e poi, da Gregorio
VII in poi, il proprio potere politico da veri e propri imperatori romani (cfr.
il “Dictatus Papae”del 1075).
In un primo momento, il lettore italiano, abituato alla manualistica storica
scolastica, potrà rimanere veramente colpito, se non quasi traumatizzato, da
questa “Storia dello Scisma Oriente-Occidente”, e arriverà fors’anche a
rifiutarla quasi visceralmente tanto tutti noi siamo abituati alle nostre
cognizioni di base e le riteniamo comode e tranquille anche per la nostra
coscienza un po’ forse sonnolenta rispetto al nuovo, ma, una volta fatto lo
sforzo di operare in noi stessi una vera e propria “metanoia” intellettuale ed
accettando con serietà ed equanimità delle interpretazioni diverse da quelle
alle quali abbiamo sempre dato credito, allora dovremo concludere col dare
ragione ai nostri autori.
Ciò potrebbe dare origine ad una metanoia senz’altro un po’ più grande di
quella culturale, ma questa è competenza di un Altro.
***
Lo studio che segue è
tratto, per fraterna concessione del suo direttore L.Motte, dai nn. 1 e 2
della rivista “LA LUMIERE DU THABOR” edita a cura della FRATERNITE’ ORTHODOXE St. GREGOIRE PALAMAS
che ne detiene i diritti letterari.
Daniele Gandini
1 – Il quadro politico e religioso: la
Romanità.
Per affrontare con serietà la
questione dello scisma, bisogna, in primo luogo, schivare un primo ostacolo e
cioè quello di vedersi negato il fondamentale ruolo dogmatico di questa
questione oggi. Codesta questione rischia di essere rifiutata immediatamente
da un punto di vista storico poiché gli specialisti in ecumenismo hanno fatto
tanto per ridurne la portata fino al renderla una banale “questione di
campanile” la cui sussistenza oggi è del tutto anacronistica. Non abbiamo
forse visto qualche anno fa il Patriarca Atenagora dichiarare di aver perduto
il suo diploma in teologia manifestando così il suo disinteresse per gli
aspetti dogmatici dello scisma?
Per il padre Congar sono stati dei malintesi
storici a provocare l’allontanamento reciproco : “Lo scisma di Oriente ci
appare consistere nell’accettazione di uno stato di cose in cui ogni parte
della cristianità, vive, si comporta e giudica senza tener conto dell’altra.
Allontanamento quindi, provincialismo, situazione di non rapporti, stato di
ignoranza reciproca. Lo scisma d’oriente, si è realizzato a causa di un
progressivo estraniarsi delle parti e consiste oggi nell’accettazione di tale
estraniarsi.“ Secondo questa interpretazione, questo allontanamento ha avuto
delle cause geografiche, linguistiche e morali.
La principale causa geografica, si afferma
seguendo lo storico belga Pirenne, è la rottura delle vie di comunicazione tra
oriente e occidente dovuta alle invasioni musulmane.
La causa linguistica di questa misconoscenza
reciproca è l’ignoranza del greco in occidente e del latino in oriente.
Culturalmente le due tradizioni che non si capiscono più tra loro, sviluppano
ciascuna autonomamente dall’altra due visioni peraltro possibili del
Cristianesimo. In Oriente, a forza di risettaciare continuamente i Padri
greci, la teologia diventa “Bizantina” ; in Occidente, grazie ai carolingi, il
dogma progredisce approfondendo le “intuizioni originali” della Patristica
latina.
Congar che vuol tirare tutte le conseguenze della
sua analisi nell’ottica dell’unione delle Chiese, ne deduce che il reciproco
allontanamento può essere superato dato che le condizioni sociologiche sono
cambiate : la società moderna è più “civilizzata”, più capace di amore di
quanto lo fossero quelle di “Bisanzio” e dell’Occidente medioevale. Congar
afferma ugualmente che la grande scoperta di oggi, del tutto ignorata nel
passato dalla Chiesa, sarebbe l’amore : “Diciannove secoli di Cristianesimo si
sono interessati quasi unicamente a Dio. Oggi conosciamo il mondo e questo si
impone talmente a noi che certe affermazioni cristiane ci sembrano se non
vacillare, almeno essere surclassate dalle evidenze che ci vengono dalle
cose... Nulla è più significativo a questo riguardo del ritorno dell’amore,
anche se solo della parola amore, nella letteratura religiosa”.
Il fondo di questa posizione “ecumenista” sulla
storia dello scisma è l’affermazione che i Padri abbiano ignorato, del tutto o
in parte, l’amore e che conseguentemente ogni vivente oggi si trovi, su questo
punto, ad un livello più alto di Sant’Atanasio, l’intransigente lottatore per
la fede di Nicea, di san Cirillo d’Alessandria, il “persecutore” di Nestorio,
o di San Massimo il Confessore che rifiutava ogni compromesso di fronte ai
cinque patriarchi diventati per un momento eterodossi.
Si vede dunque fino a che punto queste tesi sono
dei veri e propri insulti alla Teologia dei Padri quando si afferma che
l’amore è “una scoperta recente” e che è stata una mancanza di amore ad essere
la causa delle grandi polemiche dei padri contro gli eretici.
* * *
Questo concetto, ammesso oggi da numerosi
cattolici e anche da molti “ortodossi”, si fonda su di una visione della
storia completamente falsa e su tre postulati che ci proponiamo di discutere
nel modo che segue :
A) Per prima cosa “Bisanzio” non esiste, è
un’impostura o almeno una polemica indegna di storici seri, il chiamare
“bizantini” coloro che fino alla caduta di Costantinopoli, Nuova Roma, e anche
oltre, si sono sempre chiamati “romani”. Il Patriarca di Costantinopoli porta
ancora oggi il titolo di “Arcivescovo di Costantinopoli Nuova Roma”.
B) Secondariamente l’opposizione culturale
tra i Padri greci e latini si giustifica solo col fatto che i germano-franchi
hanno dato ad Agostino d’Ippona un’autorità esclusiva a spese degli altri
numerosissimi padri latinofoni anteriori. Questa sedicente opposizione dunque
è in gran parte falsa e in luogo di distinguere tra padri latini e padri
greci, bisogna riconoscere l’unità della Fede tra padri latinofoni ed
ellenofoni, tranne Agostino, nell’interno del quadro geopolitico della
romanità.
C) Infine non c’è stato scisma nel senso di
separazione di due mondi, poiché una cosa del genere sarebbe contraria alla
definizione stessa di Chiesa, una per natura, ma l’usurpazione
della sede ortodossa di Roma da parte della frazione francofila che ha dovuto
agire per molti secoli prima di vincere la Romanità in occidente.
* * *
La scienza storica europea chiama
generalmente “bizantino” l’Impero Romano del santo Imperatore Costantino il
Grande attribuendo all’Impero questo aggettivo a partire dalla fondazione di
Costantinopoli, o a volte, a partire da Giustiniano. L’origine di questa nuova
civiltà sarebbe legata ad una cosiddetta “orientalizzazione” dell’Impero
Romano. In ogni caso tutti affermano che l’Impero Romano diventa “bizantino”
verso il V-VI secolo, perché si ellenizza e perde la sua latinità originaria.
D’altro canto questa stessa scienza storica chiama “bizantino” il quadro
culturale e teologico dell’Impero, perché esso perde la sua specificità greca
per modellarsi su di una “mentalità bizantina” assai problematica. Già i due
termini “Greci” e “Bizantini” sono recenti e peggiorativi.
Il termine “greco” non viene in verità impiegato
prima dell’VIII – IX secolo , nel particolare clima politico e ideologico
dell’epoca carolingia : Carlo Magno vuole restaurare l’impero romano e a
questo scopo gli è necessario negare ogni legittimità al “Basileus” Ortodosso
col fine precipuo di spezzare il legame profondo esistente fra le popolazioni
gallo-romane e italo-romane da un lato e Costantinopoli dall’altro. Chiamare
“greci” i popoli dell’Impero è, per mezzo di un’impresa ideologica di notevole
ampiezza, rigettarli fuori dall’Occidente e praticamente identificarli con i
“Gentili”, con i Greci antichi e cioè con i pagani di cui parla la scrittura.
Alcuni anni più tardi, Nicola I, il primo papa
germanofilo attaccato dai vescovi italo-romani del sud dell’Italia e da quelli
gallo-romani in conflitto con il clero franco, tentò di raccogliere intorno a
sé tutto l’episcopato germanico e franco. Fece comporre dei trattati “contro
gli errori dei greci” che si rivelarono delle vere e proprie minacce nei
confronti della Fede cristiana. Nella mente di Hincmar e egli altri teologi
franchi di quest’epoca che pensavano di poter far progredire nel sottile la
teologia analizzando l’essenza di Dio con le categorie di Aristotele, il
termine “greco” è un insulto pieno di disprezzo : i “greci“ sono insieme
indegni del nome di “cristiani”, ignoranti in teologia e perfidi come degli
“orientali”. Basta consultare i numerosi trattati “Contro gli errori dei
greci”, da quello di Ratramno di Corbia fino a quello di Tommaso d’Aquino, che
queste raccolte di citazioni false e menzognere appaiono col chiaro ed
evidente scopo di presentare la sottigliezza diabolica del “Filioque” come un
segno di grande superiorità intellettuale dell’Occidente sui “greci”. Tra gli
ortodossi romani dell’Impero quel termine era considerato una vera e propria
ingiuria; nel secolo XV anche un partigiano dell’unione con Roma al Concilio
di Firenze, quale l’Imperatore Giovanni Paleologo, rifiutò come ingiurioso
l’epiteto di “greco”.
Ugualmente è da dirsi per il termine “bizantino”;
nessuno si sognerebbe oggi di chiamare i parigini “luteziani” dal nome
dell’antico villaggio sul quale è costruita l’attuale città così come noi
facciamo usando quel vocabolo per gli abitanti di Costantinopoli Nuova Roma.
Il termine d’altronde è piuttosto tardivo perché è solo nel XV secolo che un
latinizzante uniata, Niceforo Gregoras, l’utilizzò per la sua storia dei
Romani intitolata “Storia dei “Bizantini”. Nei secoli XVI e XVII viene
impiegato più frequentemente soprattutto dagli Illuministi Francesi che ad
esso diedero un valore dispregiativo. Montesquieu e Voltaire parlano
rispettivamente di “un’indegna raccolta di declamazioni e di miracoli” e di
“un tessuto di rivolte, di sedizioni e di tradimenti” per descrivere l’Impero
Romano di Costantinopoli. Fino ad oggi questo termine ha conservato tale
connotazione negativa e abbiamo potuto vedere persino un professore della
Sorbona arrabbiarsi al solo nome del grande e Santo Fozio.
Quale che sia l’impronta di
mille anni di passioni antiortodosse, resta il fatto che la storia, nel suo
sforzo necessario di rigore e di obbiettività, non ha assolutamente il diritto
di usare una terminologia uscita dalle polemiche più violente dell’epoca
carolingia o del XVIII secolo. Non ne verrebbe di conseguenza la liceità di
trattare i “tempi lunghi “ della storia universale partendo da concetti
apparsi in momenti ben precisi di lotte per lo più “provinciali” ? Non sarebbe
più giusto chiamare i bizantini col loro nome di Romani e di utilizzare gli
aggettivi e i sostantivi propri della loro Romanità? Non è forse ciò che fanno
ancora oggi gli Arabi che li chiamano “Rom” e “Romis”?
Innumerevoli sarebbero le sorgenti
testuali di queste affermazioni e gli storici potrebbero analizzare più
adeguatamente il sentimento profondo di unità culturale che avevano i Romani
della Nuova Roma nei confronti del passato sia “romano” (latino) sia “greco”,
sia antico sia cristiano. Per esempio la Biblioteca di san Fozio
sconcerta spesso il critico occidentale che vi vede soltanto un prezioso libro
di erudizione che evidenzia la curiosità intellettuale del santo patriarca,
quando invece i libri di Storia Romana o di Filosofia greca gli erano così
poco estranei quanto per un francese del XX secolo lo sarebbero le opere di
Racine o quelle di Moliere. La storia antica era tanto vicina culturalmente a
san Fozio quanto ne era tenuta lontana, sul piano dei valori cristiani, come
ne è testimonianza il suo rifiuto all’intrusione del razionalismo umanista
carolingio nell’interno della dogmatica. Gli “umanisti” latini o greci non
avevano un carattere di esemplarità per un romano di Costantinopoli, più di
quanto la nostra infanzia lo abbia per l’adulto che siamo diventati.
Prendiamo un altro esempio più recente : qualcuno
potrebbe obbiettarci il fatto che la Grecia continentale, una volta liberata
dal giogo dei Turchi, non ha scelto il nome di “Romanità”. Nei fatti questa è
l’eccezione che conferma la regola : sono state le potenze occidentali a
imporre il termine “greci” per tagliare via gli ortodossi continentali dai
loro fratelli dell’Anatolia ed impedire così ogni rivendicazione dell’Asia
minore, in quanto i Turchi dovevano essere risparmiati e protetti per ragioni
di politica internazionale. Le conseguenze di questa politica furono più tardi
i massacri di Asia minore del 1923 durante i quali truppe francesi ed inglesi
assistettero indifferenti allo sterminio delle popolazioni cristiane. Nel XIX
secolo, in ogni caso, la scelta dei termini greci ed elleni fu combattuta
dagli Ortodossi ostili alla rinascita di un neo-paganesimo elleno ; il grande
poeta Costis Palamas fu il cantore della romanità di fronte alle tesi del
gruppo neo-greco di Korais incapace di dimostrare l’esistenza di una coscienza
nazionale neo-greca autonoma. Oggi il teologo di fama mondiale Giovanni
Romanidis, professore all’Università di Tessalonica, è diventato il difensore
dell’idea e della coscienza romana ortodossa.
Il Padre Giovanni Romanidis ha in particolare
denunciato la grande contraddizione della scienza storica europea che
presentiamo di seguito : da un lato si afferma che l’impero è diventato
“bizantino” perché è diventato “elleno” o “greco”; dall’altro si spiega il
passaggio dalla civilizzazione ellenica dell’impero romano – quella ad esempio
dei grandi Cappadoci – alla civilizzazione bizantina con la perdita del
carattere propriamente elleno di questa civilizzazione. Così l'Impero Romano
diventa "bizantino" perché si ellenizza e la civilizzazione ellenica diventa
“bizantina” perché cessa di essere ellena.
Si vede così quanto sia grande la confusione
presso gli storici e i teologi occidentali che parlano ora di “bizantini” ora
di orientali ora di greci per indicare un impero che si è sempre chiamato
nella stessa maniera : Romano.
Sarebbe dunque un vero progresso il rifiutare
questi termini dispregiativi di “greci” e di “bizantini” che non hanno nemmeno
il merito di chiarire i fatti storici. Se si ritornasse alla denominazione di
“romano” e di romanità ortodossa”, l’efficacia scientifica sarebbe grande
almeno su tre punti:
1] Lo storico avrebbe un filo conduttore coerente
per considerare la storia del mondo mediterraneo nella sua totalità : l’impero
romano viene invaso da popolazioni barbare che impongono il loro dominio in
modo piuttosto differente ; in occidente questa dominazione consiste in una
sorta di imitazione parodistica e nell’usurpazione delle antiche strutture
romane e cristiane ; presso i musulmani si stabilisce invece un modello di
dominazione non parodistico e le due culture, cristiana e musulmana, restano,
seppure in una certa misura parallele ed ostili. I punti d’incontro essenziali
sono particolarmente interessanti e sono incomprensibile al di fuori di questa
unità culturale romana, in particolare quando si parla del periodo carolingio,
delle crociate e del Concilio di Firenze. Quest’ultimo avvenimento è spesso
trascurato dagli storici quando invece riveste un’importanza quasi
paradigmatica. Bessarione inventa e diffonde ben presto l’umanesimo insieme
pagano e papista; San Marco d’Efeso rifiuta assolutamente, in nome della
Romanità Ortodossa, l’infallibilità del papa e dell’uomo europeo; Pletone
riscopre una ellenicità fondata sul ritorno dei culti pagani, ritorno ostile
tanto alla romanità quanto all’Europa.
2] La storia non dovrebbe cercare una “latinità”
che non esiste sempre. Le differenti costruzioni della latinità in Occidente –
Carlo Magno e successori – sarebbero meglio comprese se fossero studiate come
utopie o come ideologie nate per facilitare il dominio sull’antica Romanità
Ortodossa.
3] La lotta patetica dei Romani d’Occidente
contro i Barbari potrebbe infine essere studiata in una prospettiva di lunga
durata invece di svanire curiosamente dopo i Merovingi. In particolare la
volontà degli Italo-Romani del sud d’Italia o della Sicilia, dei provenzali,
degli aquitani, degli spagnoli romanizzati, tutti ortodossi, di preservare la
loro cultura e la loro fede potrebbe essere studiata in quest’ottica.
Infine la storia delle idee scaturirebbe dalla
storia degli avvenimenti, poiché il senso di infallibilità che caratterizza,
secondo il padre Justin Popovic, l’uomo europeo, progredirebbe nello stesso
tempo delle forze politiche e religiose proprie all’Occidente medioevale e
classico : il papato e la monarchia assoluta.
La storia di ciò che si denomina lo ”scisma” del
1054 sarebbe da questo punto di vista un archetipo, lo studieremo nel prossimo
capitolo e vedremo come l’abbandono dei termini antiscientifici di
“bizantini” e di “greci” permette di modificare le opinioni tradizionali o
ecumeniste sullo “scisma”.
2 - Lo scisma del 1054
Nel primo capitolo abbiamo mostrato brevemente che
la necessità del “Dialogo Ecumenico” conducevano a dare una spiegazione
insoddisfacente sia per la teologia sia per la storia dello scisma del 1054.
Sul piano teologico il dibattito è stato
impoverito perché è stato ridotto ad essere soltanto una disputa di parole; in
particolare il filioque è presentato come il frutto fortunato di
un approccio puramente latino ed occidentale alla teologia che, dati i
postulati, non mette in pericolo la teologia classica dei padri. Si impiega
allora il vocabolario vago dei sentimenti e delle emozioni , come fa, ad
esempio Olivier Clement quando parla della “grandezza propriamente religiosa
del filioque” e delle “intuizioni originali del Filioquismo”.
Brevemente, in mancanza di un vocabolario concettuale sufficientemente
elaborato, l’Oriente, meno speculativo, e l’Occidente, troppo razionalista
forse, non si sarebbero capiti.
Si è allora andati alle cause puramente storiche
che presto sembrano essere soltanto una serie di casi sfortunati; prevale
allora l’interpretazione psicologica: a ciascuno si fa un dovere, dopo aver
messo tra parentesi tutti i problemi, di trovar scortese la propria parte.
Così Clement scrive del patriarca Michele Cerulario : “Il patriarca bizantino
Michele Cerulario era uno spirito rozzo, incapace di discernere l’essenziale
dall’accessorio e di elevarsi ad una concezione ecumenica della Chiesa”; e
Congar dice del cardinale Umberto che era “un uomo rigido e combattivo” e la
sua Bolla di scomunica è un monumento di inimmaginabile incapacità di
comprensione”. A forza di “dialogo”, è la storia che rischia di diventare
incomprensibile se si resta sulle alte sfere della “casualità psicologica”.
In realtà l’aspetto storico e
l’aspetto teologico sono legati, soprattutto a partire dall’ VIII secolo
quando la teologia del filioque, della redenzione e generalmente il
metodo teologico uscito dall’agostinismo appaiono come l’ideologia dei Franchi
e dei Germani i cui antenati hanno invaso la romanità occidentale e che hanno
avuto bisogno di tre secoli per costituirsi in Stato. Lo “scisma” non è
soltanto una rottura, uno strappo nel tessuto cristiano dovuto ad una
separazione teologica tra Roma e l’Oriente, ma piuttosto l’usurpazione della
sede ortodossa dell’antica Roma operata dai Germano-Franchi e tendente al
rapimento dell’ultimo Papa Ortodosso ed alla sua sostituzione con un papa
germanico filioquista, Sergio IV.
Descriveremo ora in breve le grandi tappe di
questa usurpazione che sono le tappe di una lotta tra l’elemento romano,
gallo-romano e italo-romano, da un lato e i barbari goti, longobardi, vandali
o franchi dall’altro.
L’origine lontana, il dato fondamentale che celava
in germe le divisioni ulteriori, sono le invasioni barbariche, non tanto per
il carattere eretico ariano della religione di questi popoli, quanto per la
loro incapacità di costituirsi in stato o almeno di modellare una religione
capace di rimpiazzare quella che volevano distruggere. Dopo i primi massacri e
grazie alla resistenza eroica dei vescovi, dei preti e di tutto il popolo
martire gallo-romano, dal momento della morte del re Eurico, il progetto di
sostituire la “Romanità” con una “Goticità” dovette essere abbandonato. Anzi
al contrario numerosi capi barbari presero gli abiti e i titoli romani per
guadagnare un po’ di legittimità presso le popolazioni. Ciò però non vuol dire
che il sentimento nazionale delle popolazioni asservite sia scomparso
rapidamente, come hanno affermato certi storici (Fustel de Coulange). In
realtà, dopo il naufragio del potere politico romano, la rappresentanza legale
così come l’autorità morale sul popolo romano viene ad essere assunta dalla
Chiesa che diventa il luogo di resistenza di tutti coloro che vogliono
conservare la tradizione e l’identità romane. In questo tormentato periodo,
oltre al ruolo dei grandi vescovi del V e del VI secolo come Fausto di Riez o
Cesario d’Arles, il patriarca dell’Antica Roma assume la funzione di
Etnarca del popolo Romano d’Occidente. E’ lui infatti che resta in
contatto con l’Imperatore di Costantinopoli. Si sa quanto Gregorio il Grande
seppe preservare i diritti dei Romani in quell’epoca così tormentata e
drammatica, al punto che non esitava, nei suoi Moralia a paragonare la
Romanità occidentale con Giobbe. Certamente l’Impero Romano d’Oriente non
aveva mai cessato di rivendicare, malgrado le difficoltà , la sua parte
occidentale. I Romani d’Oriente e d’Occidente erano solidali, ma da
Giustiniano a Basilio I la fortuna militare di Costantinopoli non fu sempre
favorevole. Le divisioni interne dei barbari e quel periodo oscuro che fu
l’epoca merovingia, assicurarono tuttavia alla Chiesa una molto relativa
tranquillità: i barbari non potevano accedere facilmente allo stato
ecclesiastico e la sinodalità della Chiesa, conforme ai Canoni Apostolici, era
rispettata grazie alla grande maggioranza di Romani liberi nelle città
gallo-romane. Sarà necessario l’immenso sistema di deportazione e di messa in
schiavitù dei Romani che si chiama feudalesimo, perché i Franchi diventino
maggioritari nell’elezione dei Vescovi.
Già le scuole monastiche che, fondate un tempo dai
discepoli di San Giovanni Cassiano, di Onorato di Arles e di Fausto di Riez,
formavano i vescovi romani, erano state annientate ad opera di Carlo Martello
e di Pipino il Breve. A causa dell’anarchia politica merovingia, il carattere
sinodale della Chiesa fu parzialmente soppresso per essere ristabilito solo a
favore dell’episcopato franco. La grande crisi iconoclasta che lacerò l’Impero
in Oriente, permise ai Franchi di godere delle divisioni interne dei romani
d’Oriente e dell’Italia meridionale. In effetti, dopo l’inizio dell’VIII
secolo, l’Italia romana e la Chiesa Ortodossa dell’Antica Roma restarono
pericolosamente isolate, nel momento in cui, sotto il principato di Leone
Isaurico e poi sotto i suoi successori, le icone furono distrutte e gli
iconofili perseguitati. Poiché il papa Gregorio II rifiutava di promulgare gli
editti imperiali che ordinavano la distruzione delle Icone, l’Italia fu
isolata dall’Oriente e presa come in una tenaglia fra gli imperatori eretici
e i Franchi. I Franchi erano iconoclasti, fondamentalmente, e ugualmente lo
erano i Longobardi e certi vescovi dell’Italia del nord come Claudio di
Torino. Tuttavia gli Ortodossi partigiani delle Icone erano numerosi in Gallia,
nel clero e nell’episcopato di tradizione romana. In Oriente, grazie alla
imperatrice Irene, essi riusciranno a prevalere e a imporre il VII Concilio
Ecumenico che i vescovi franchi di Carlo Magno non riconosceranno e contro il
quale si leveranno.
La questione del filioque fu altrettanto
grave. Il filioque non è una formulazione antica, come generalmente si
afferma, che risalirebbe al III Concilio di Toledo. Data invece dalla fine del
secolo VII o dall’inizio dell’VIII ed era contestato molto in Occidente
all’inizio del IX dai vescovi gallo-romani: al contrario i franchi ne facevano
il simbolo di una rinascita intellettuale che in realtà appariva ben modesta.
Il Concilio di Aix la Chapelle è una notevole testimonianza di questa lotta
tra l’elemento romano e l’elemento franco. Per prima cosa questo Concilio
mette in evidenza il carattere recente del filioque. In effetti i
rappresentanti del Concilio di Aix informarono il Papa che il Simbolo della
fede cominciava ad essere cantato con il filioque nel palazzo di
Carlo Magno e che si trattava di un dogma nuovo. Il Concilio di Aix non poté
concludere nulla e si divise in due partiti contrari. Carlo Magno, il campione
del filioque, non poté in realtà imporre la sua opinione e il
Concilio si sciolse prima della sua fine. Così scrive Adam Zernicaw: “Gli
incontri sullo Spirito Santo furono numerosi con gli uni che dicevano che lo
Spirito santo procedeva anche dal Figlio e gli altri che li contraddicevano”.
Ciascuno dei due partiti fece appello al Papa Leone III che non solo si oppose
all’aggiunta del filioque, ma in più ordinò che il Credo di
Nicea–Costantinopoli fosse inciso su due piastre d’argento, in greco ed in
latino, nella chiesa di San Pietro. Questa sconfitta di Carlo Magno dimostra
che il potere dei Franchi cadeva di fronte all’autorità del Papa Ortodosso
dell’Antica Roma. Bisogna ben comprendere che per Carlo Magno il contenuto
dogmatico non era essenziale, ma il filioque era per lui il
simbolo del progresso compiuto nei confronti dei “Greci” in teologia grazie
all’applicazione delle categorie razionali alla Santa Trinità. Era per lui la
prova della superiorità culturale dei Franchi su coloro che chiamava
spregevolmente i “Greci”.
Il vecchio Leone III, sebbene fosse riuscito a
resistere sulla Fede, aveva tuttavia permesso a Carlo Magno di riportare una
vittoria definitiva sul piano politico facendosi incoronare “Imperatore dei
Romani” e cioè lo aveva lasciato usurpare il potere legittimo dell’Imperatore
di Costantinopoli sulle popolazioni romane di Occidente. La versione
germano-franca dell’incoronazione di Carlo Magno che si trova sui manuali di
storia occidentali è una vera mistificazione, poiché essa è fondata unicamente
sul racconto dell’ideologo franco Eginardo che afferma che sarebbe stato Leone
III ad aver voluto di sua iniziativa incoronare un Carlo Magno piuttosto
reticente. In realtà con questa cerimonia in cui la potenza del re franco fece
violenza al Papa Ortodosso Leone III, Carlo Magno voleva instaurare una nuova
concezione della legittimità del potere. Il racconto di Eginardo che non osa
addossare a Carlo Magno la responsabilità dell’avvenimento, prova al contrario
che nel IX secolo i barbari non erano riusciti ad instaurare altra legittimità
che quella del popolo romano. Invece la pretenziosa teologia del filioque
e la concezione carolingia del potere aggiunte al fatto che la dottrina
agostiniana sulla predestinazione sembrava poter far considerare predestinata
la razza dei Franchi, gettarono le fondamenta principali del Medio evo
occidentale.
La necessità di lottare contro gli Arabi
nell’Italia meridionale e l’occupazione militare franca della Roma Antica vi
aveva fatto nascere, come in un microcosmo, una situazione simile a quella
dell’Occidente: un partito franco ed un partito romano vi lottavano.
Dalla morte di Leone III all’anno 858, il popolo
ortodosso di Roma riuscì ad imporre un suo candidato , malgrado le minacce
dell’imperatore germanico. Già dal momento dell’elezione di Leone III grandi
furono l’ansietà ed anche il terrore per una rappresaglia franca. L’elezione
di Benedetto III fu interrotta dal partito germanico che impose per un momento
il proprio candidato Anastasio, ma la folla assediò le porte della basilica
costantiniana ove si teneva il sinodo incaricato di eleggere il nuovo papa.
Alla morte di Benedetto fu eletto il primo papa germanofilo Nicola I.
L’imperatore germanico Ludwig accorse e fece svolgere l’elezione alla sua
presenza. Prestissimo Nicola I volle imporre la sua autorità su tutta la
chiesa e applicò alla sua tiara e al suo regno la dottrina della
predestinazione. Scrisse al patriarca della Nuova Roma, San Fozio il Grande,
che “la Chiesa di Roma aveva meritato il diritto al potere assoluto ed aveva
ricevuto il governo di tutte le pecorelle di Cristo”. Un po’ più tardi,
furioso di non aver ottenuto il riconoscimento delle sua innovazioni da San
Fozio, scrisse direttamente al popolo, al clero e all’Imperatore di
Costantinopoli delle lettere piene di ostilità e di odio in cui il patriarca è
chiamato “Signor Fozio” , “adultero”, “omicida” ed “ebreo”. In Bulgaria
benediceva la missione del vescovo Formoso, uno dei capi del partito
filogermanico, ed autorizzava l’aggiunta del filioque al Credo
nonché altre riforme o pratiche tipiche delle chiese franche.
Questo atteggiamento provocò la reazione della
Chiesa di Costantinopoli e San Fozio, d’accordo con il suo Sinodo, inviò
un’enciclica a tutte le Chiese nella quale denunciava la situazione creata in
Bulgaria e il dogma del filioque. Un concilio si tenne a Costantinopoli
nell’867, alla presenza dei delegati dei patriarchi orientali, che
anatematizzò le dottrine denunciate da san Fozio, in particolare l’eresia del
filioque e la sua aggiunta al Credo di Nicea-Costantinopoli in Bulgaria. Più
di mille firme testimoniarono contro il dogma franco che, come afferma San
Fozio, scinde la Santa Trinità in due, poiché instaura due sorgenti nella
Divinità, finendo così nel paganesimo. Dopo la partenza per l’esilio del
patriarca Fozio, il papa Nicola I fece organizzare a Costantinopoli nell’869
un concilio di 18 vescovi nel quale la persona di San Fozio fu condannata,
senza che nessuna eresia gli potesse essere rimproverata. Bisogna dire che
Nicola I in Roma non osò mai imporre il filioque per paura del popolo romano
fedele alla Fede Ortodossa. Nicola I d’altronde non cessava di trovare
difficoltà con i romani dell’Italia del Sud e anche con quelli delle Gallie
che erano rimasti scossi dalla sua concezione totalitaria dell’antica “etnarchia”.
Quando morì, era ormai sostenuto solo dai teologi franchi filioquisti che egli
aveva mobilitato contro il patriarca e l’imperatore di Costantinopoli, senza
peraltro fare il nome di San Fozio la cui scienza e santità erano note ai
romani ortodossi della Gallia.
Dopo un papa di transizione, Adriano, il partito
romano ebbe nuovamente il sopravvento e l’arcidiacono Giovanni, divenuto
Giovanni VIII, salì al trono patriarcale di Roma. Giovanni VIII
che la storiografia occidentale ha lasciato per molto tempo da parte – e
ciò in parte a causa della falsificazione delle fonti, ormai ammessa dagli
storici -, fu un grande papa della Romanità, della statura dei Leone Magno e
dei Gregorio Magno. Gerarca attento e prudente, fino alla morte
dell’imperatore Ludwig II nell’875, seppe utilizzare il partito germanico,
senza pur dare ad esso un ruolo decisionale. Al momento però nel quale la
minaccia germanica scomparve con la morte dell’imperatore, depose, scomunicò e
anatematizzò i vescovi “nicolaiti” che avevano aggiunto il filioque in
Bulgaria ed in particolare il vescovo Formoso. Scelse un candidato all’impero
tra i carolingi, il re di “Francia” Carlo il Calvo che era il più moderato e
il più lontano dall’Italia e gli impose una “donazione” che liberava le
elezioni dei papi dalla presenza dei legati imperiali. Così tentava di
preservare Roma da un nuovo Nicola imposto dal partito germanofilo. Dopo la
disfatta e la morte di Carlo il Calvo, lasciò in sospeso la successione che
egli cercava di controllare, muovendo i vari candidati gli uni contro gli
altri. Fallì alla fine perché il re Carlo il Grosso invase Roma e fece
avvelenare Giovanni VIII che fu poi finito a colpi di scure. Questo periodo
di tempo che Giovanni VIII riuscì a dare al trono dell’antica Roma, se da un
lato fece entrare la capitale in un periodo di disordini e di incertezze,
dall’altro doveva contribuire a cambiare l’aspetto delle cose. Da una parte la
disorganizzazione politica in Italia provocata dalla vacanza del trono
imperiale occidentale permise alle truppe di Basilio I di avanzare in modo
decisivo in Italia e di liberare momentaneamente i romani della regione ;
dall’altra parte i legati di Giovanni VIII poterono assistere e riconoscere le
decisioni del Concilio dell’879 presieduto da San Fozio, di nuovo in possesso
del suo trono patriarcale.
A questo concilio tutti patriarchi vennero
rappresentati e San Fozio fu riconosciuto da tutto il mondo quale Patriarca
della Nuova Roma. Così colava a picco tutta l’opera di Nicola I.
L’inalterabilità del Simbolo della fede e la condanna di ogni aggiunta furono
proclamate ufficialmente benché Giovanni VIII avesse domandato che i franchi
non venissero nominati e ciò per prudenza. I legati della Chiesa di Roma
chiamarono l’aggiunta del filioque un “inqualificabile insulto ai Padri”,
Giovanni VIII scrisse una lettera a San Fozio nella quale condannava in
termini velati, ma fermi, i germano–franchi e l’aggiunta del filioque: “Noi
li mettiamo dalla parte di Giuda, poiché essi hanno lacerato le membra del
Cristo”. Questo concilio dell’879 che riconobbe l’ecumenicità del VII
Concilio ebbe tutti i caratteri di un Concilio Ecumenico e la chiesa Ortodossa
lo riconosce ormai come l’VIII Ecumenico.
Il pontificato di Giovanni VIII segna dunque un
momento decisivo e mal conosciuto della storia dello “scisma”, perché
rappresenta l’ultima grande resistenza dei romani dell’antica Roma e
dell’Occidente nei confronti della spinta germano-franca contro il trono
ortodosso di Roma.
Il periodo che va dalla morte di Giovanni VIII
all’inizio del secolo IX è sistematicamente rappresentato in Occidente come un
periodo di corruzione e di anarchia a causa del ruolo che in quest’epoca hanno
avuto i laici nella scelta dei papi. I soli papi che trovano grazia agli occhi
degli storici, sono quelli rivolti verso i regni sorti dai carolingi. In
realtà questo periodo è presentato come un periodo particolarmente turbolento
perché i romani dell’antica Roma conservavano un controllo relativo sulla loro
Chiesa. Come scrive G. Romanidis : “Per due secoli, dagli anni tra il 784 e
l’809, quando i Franchi condannarono il VII Concilio Ecumenico, fino al 1019 o
1014 quando il Filioque fu definitivamente introdotto nel simbolo a Roma, gli
Ortodossi Latini lottarono duramente in Italia per conservare la Fede del VII
e dell’VIII Concilio Ecumenico”. Effettivamente fino all’inizio del secolo XI
il Filioque non fu mai aggiunto al Credo e, finchè Roma riconobbe il VII e l’VIII
Concilio Ecumenico , la comunione non fu rotta fra le sedi orientali e
l’antica Roma. Durante questo periodo i Franchi che temevano una rivolta di
tutti i Romani dell’Occidente non osarono attentare direttamente al Patriarca
dell’antica Roma. Quando però l’impero germanico fu ristabilito, l’ultimo Papa
Ortodosso Giovanni XVIII fu deportato in un monastero dell’Italia meridionale
e Sergio IV che doveva il suo trono all’Imperatore tedesco Enrico II, professò
il Filioque nella lettera di intro-nizzazione che indirizzò al Patriarca di
Costantinopoli Sergio II. Quest’ultimo, per decisione conciliare, cancellò
allora il nome del papa dai dittici della Grande Chiesa e non vi fu mai
rimesso. A Roma il filioque fu ufficialmente aggiunto dal papa
Benedetto VIII che era nipote dell’Imperatore tedesco. Ancora una volta il
clero ed il popolo reagirono ma dovettero questa volta inchinarsi di fronte
all’autorità di Benedetto VIII perché fu durante l’incoronazione di Enrico II
di Germania che il Credo fu letto con l’aggiunta.
L’usurpazione del Trono
ortodosso dell’antica Roma così si compiva e il popolo romano d’Occidente,
senza né capo, né difese, dovette sopportare le persecuzioni che fecero ad
esso subire i grandi papi del feudalesimo come Gregorio VII.
Ciononostante ci furono per molto tempo ancora in
maniera sparsa delle resistenze e si sa da un testo di Alessandro di Hales che
nel 1240 e cioè 226 anni dopo l’aggiunta del filioque di Benedetto VIII
si cantava ancora in certe chiese il Credo senza l’aggiunta. Si può dire
tuttavia che nel 1014 la resistenza di quattro secoli dei Romani di Occidente
si conclude e che così una nuova struttura ecclesiale, totalmente estranea
all’antica e che porta tutte le caratteristiche del feudalesimo, sostituisce
totalmente il Papato ortodosso di Leone, di Gregorio e di Giovanni VIII.
L’incidente del 1054 a
Costantinopoli che dà il suo nome allo “scisma”, non è dunque, come si è
detto, che un permesso di inumazione. Si sa che il 15 Luglio 1054 durante la
Liturgia celebrata alla presenza del patriarca Michele Cerulario, Umberto,
legato del Papa Leone IX, fece irruzione in Santa Sofia e pose sull’altare un
libello in cui rimproverava gli “orientali” di aver tolto il Filioque dal
Credo. Accusava inoltre il Patriarca Michele di essere nemico dello Spirito e
nemico di Dio. Il patriarca riunì un Concilio e anatematizzò “questo scritto
empio e stupido”. Il Patriarca Pietro di Antiochia al quale il Cerulario
scrisse, confermò la decisione della Chiesa di Costantinopoli e tutti gli
altri Patriarchi Orientali fecero la stessa cosa seguendo in ciò quanto
avevano deciso al momento del Concilio dell’879.
Gli avvenimenti ulteriori confermano che il
termine usurpazione è il più adeguato per descrivere la politica
ecclesiastica dei Franchi e dei Germani. Le crociate sono infatti in un modo
ancora più chiaro dei tentativi di rimpiazzare i Vescovi Ortodossi delle sedi
orientali con dei Vescovi “latini”, cioè Franchi. L’uniatismo fu ugualmente la
continuazione con mezzi più o meno diretti della stessa politica e solo
recentemente la conoscenza e lo studio dei testi hanno permesso
un’interpretazione sfavorevole all’Occidente dello “scisma”. E’ questo
ristabilimento dei fatti che l’Ecumenismo tenta di relativizzare,
appoggiandosi sull’ostilità o sul disprezzo quasi ereditario nei confronti di
tutto ciò che è “bizantino” o “greco”, ma esso, lasciando
nell’oblio la resistenza dei suoi antenati romani ortodossi, non può
giustificare codesta relativizzazione se non nascondendo dei fatti storici e
disprezzando in maniera quasi totale la lotta politica e teologica dei Romani
Orientali durante le Crociate e durante i secoli XIV e XV quando san Gregorio
Palamas e San
Marco d’Efeso si presentarono come i campioni della Tradizione Romano
Ortodossa di fronte alla Teologia orgogliosa dei Franchi prodotto di
elucubrazioni razionali e fantastiche.
Ai nostri tempi in cui la civiltà sorta dal
preteso “Rinascimento” è in molte parti contestata, l’ecumenismo viene
considerato da molti ortodossi come un ultimo tentativo del Papato, isola
feudale in mezzo al mondo moderno, di salvare “l’infallibilità” dell’uomo
europeo ed impedire il ritorno dei “Romani d’Occidente” alla teologia
tradizionalmente romana degli ortodossi e cioè alla teologia dei Tre Dottori.
Versione italiana su
La Pietra
nn.3-4 1999
Fonte: http://www.cristianiortodossi.it/71183.php
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