lunedì 5 agosto 2019

MARIA GORETTI GAHIMBARE, Volontaria nello Zambia



MARIA GORETTI GAHIMBARE
Volontaria nello Zambia
Un’altra Maria Goretti, rwandese, africana esperta di dolore,
generosa e serena solidale con gli esuli, con le vittime dell’odio razziale e delle ingerenze internazionali.
Collabora con lo S.V.I. (Servizio di Volontariato Internazionale) con indefessa dedizione, seminatrice di speranza e di pace.
 

Premio Cuore Amico, "Nobel missionario", 2005
figura esemplare di missionaria  a favore dei poveri del terzo mondo.
 
Scappare da un Paese in cui la vita quotidiana diventa guerra civile e inabissarsi nel viaggio buio della paura: la fuga in massa di esseri braccati e torturati, decimati dalla fame e dalle bestie feroci. Attraversare per due anni e 5.000 chilometri Rwanda, Burundi, Congo, Angola ed approdare con i superstiti in un campo profughi dello Zambia. Ricominciare, in nome di una speranza che è più forte di ogni orrore. Hutu e tutsi: due parole.
È questa l’esperienza di Maria Goretti Gahimbare che, persi il marito e il figlio, abbandonata la propria casa, si ritrova ad essere punto di riferimento per 3.500 rifugiati e fonda una cooperativa (MRCU) in collegamento con il Servizio di Volontariato Internazionale (SVI). Con grande impegno raggruppa e motiva le persone. Insieme riescono a strappare alla savana dei terreni da coltivare, allevano pollame, capre e maiali, costruiscono abitazioni con mattoni cotti da loro stessi. La vita cambia. La gente impara da Maria Goretti che, al di là degli aiuti internazionali, la forza per rinascere sta dentro. Il campo di Maheba che li “ospita”, pur circondato dai soldati, diventa quasi casa.
Il nome di questa donna desta curiosità. Ci aiuta a conoscerla meglio un volontario italiano, che l’ha incontrata di recente: la notte in cui è morto il Papa. «Pioveva che Dio la mandava – la lettera comincia così – e io me ne stavo da Maria Goretti. Non la santa, un’altra. Una, tra le tante, che vive una vita così dura che se poi, quando muore, la fanno santa davvero non le regalano niente [...].
Al Maheba Camp, un centinaio di chilometri dopo Solwezi, lungo una stradina poco battuta, che porta in Angola c’è una fetta di savana lunga 60 chilometri e larga una decina che è stata occupata da tutti i disgraziati che scappano dalle guerre dell’Africa. Sono fuggiaschi, arrivati a piedi. Ho saputo che Maria Goretti, membro dello SVI, vive qui con loro nel settore G. Ho avuto il suo indirizzo dall’Ufficio missionario di Brescia e così dai primi di marzo ho cominciato a pensare di visitare questa persona che, ingannato dal nome, io pensavo fosse una suora [...].
Il Campo ha una struttura ad albero: una grande strada in terra battuta corre dritta per oltre 60 km da nord a sud in mezzo all’erba altissima: la Main Road. Da questa partono, ortogonalmente, quelle che vengono chiamate strade secondarie. Non sono altro che sentieri. Entrano nell’erba così alta che spesso non li si vede neanche. Sono 106 e portano ad altrettanti “villaggi” che – per onestà verso la lingua italiana – sarebbe meglio chiamare gruppi di baracche. Maria Goretti vive nel penultimo settore, quello dei rwandesi. Raggiungiamo tre casette misere, come tutte le casette del terzo mondo, ma in muratura e con tetti di paglia, tenute con cura.
Siamo arrivati. Scendo dalla macchina e un donnone in corsa mi travolge, mi stampa due baci sulle guance e mi dice: “Benvenuto, sono Maria Goretti”. Ricambio i baci e sorrido. In realtà sono sbigottito: Maria Goretti è nera!».
Il nostro volontario incontra i membri della cooperativa e poi visita la porcilaia, che grazie al sistema del microcredito, ha fatto sì che qualche decina di famiglie abbia i maiali. Funziona così: la cooperativa affida una scrofa ad un capofamiglia; una volta nati i maialini, la famiglia ne restituisce uno alla comunità e l’allevamento si diffonde.
Sono molte le “meraviglie” da vedere: «Hanno una macchina “preistorica” per la lavorazione del riso, una falegnameria con sega, pialla, martello, lima e poco altro. Notare che – seguita la lettera – vivendo senza corrente elettrica, sono tutti strumenti a mano...».
Poi Maria Goretti parla dei campi di riso, del mais, delle piante di banane, del forno dove cuociono i mattoni. Ma è ora di cena.
«Ci sediamo in soggiorno. Poco dopo una ragazza porta in tavola patate, verdura cotta e qualche pezzo di carne. Aprono un sacchetto di plastica con del pane tipo pancarré. Aprono una bottiglia di acqua sigillata. È ben evidente che hanno attinto alla dispensa per me. Normalmente non avrebbero bevuto quell’acqua, né consumato quel pane e quella carne. È tutto buonissimo e ne mangerei a sazietà ma, per rispetto, mi limito ad assaggiare poco di tutto. Anche loro si servono e non mettono nel piatto più di quanto ho preso io. Si assicurano che non ne voglia ancora. Ringrazio e dico che per me è abbastanza. Allora aprono la porta. L’oscurità della notte non permette di vedere assolutamente niente. A due mani, che prontamente appaiono, affidano quel che è avanzato. Quasi tutto, visto che abbiamo mangiato come canarini. Ho sentito dei bisbigli e dei passi che si allontanavano. Non so in quanti abbiano banchettato.
A tavola si parla. Nel 1994 Maria Goretti viveva in Rwanda quando i tutsi hanno iniziato l’offensiva contro gli hutu. Lei hutu, insieme ad altre migliaia di persone inizialmente è stata portata in un campo profughi all’interno. Qui ha conosciuto dei membri dello SVI italiano con cui ha cominciato a collaborare in aiuto delle persone che soggiornavano nel campo. Ma la guerra è diventata sempre più cruenta e i tutsi hanno attaccato anche i campi profughi. Allora, non sapendo più dove stare, hanno iniziato una fuga infinita dalla loro terra. Hanno camminato attraverso la foresta e la savana, per non essere intercettati da polizia e militari. In mezzo al nulla di una savana tranquilla e spopolata, dopo mesi e mesi di cammino e molti morti lasciati per strada, hanno deciso di fermarsi. Dopo qualche tempo che abitavano lì, gli zambiani si sono accorti della loro presenza. In seguito a pressioni internazionali - l’attenzione dei mass-media era puntata sui massacri che ancora avvenivano in Rwanda - fu deciso di accoglierli come rifugiati...».
Il racconto continua. Maria Goretti riferisce dei vari aiuti, dell’UNHCR e soprattutto del metodo di cooperazione impostato con lo SVI. Molte sarebbero le notizie da riferire sui progetti avviati, ma un particolare restituisce forse per intero il senso di quell’incontro: «Inizia a piovere. La candela si consuma inesorabile. Maria Goretti parla e non la molla con lo sguardo. Sul suo volto leggo una leggera preoccupazione. Le dico che, visto che abbiamo finito di mangiare, la candela non serve più. Per me possiamo spegnerla. Mi guarda incredula. “Davvero non ti spiace?”. “No, a che serve – aggiungo – anzi col buio si parla meglio”. Lo so che è una idiozia ma non so come giustificare la mia frase senza offenderla. Spegne al volo. Non se lo fa ripetere, poi mi spiega: “E’ la penultima, meglio conservarla se dovesse servire”». Nella notte una candela forse è un po’ poco, ma è una luce nel buio e ti riscalda.

  

Zambia
La maggior parte del Paese è formata da un elevato altopiano che si estende dalla fossa geologica del Malawi fino alla regione paludosa ai confini dell’Angola. Il clima è tropicale mitigato dall’altitudine. E’ storico il percorso coraggioso di Davide Livingstone a metà dell’’800, che si spinse fino alle cascate Vittoria sul fiume Zambesi, il quale scorre da nord a sud e fornisce energia idroelettrica nella diga di Kariba. Le risorse minerarie, rame in particolare, costituiscono la base dell’economia; lo sfruttamento minerario ha esercitato tuttavia effetti negativi sull’ambiente. La precarietà degli stanziamenti si associa a problemi sanitari quali la mancanza di acqua potabile e la scarsa assistenza medica, fattori che contribuiscono alle epidemie, in particolare quella dell’AIDS. La popolazione (quasi 11 milioni, 9.500.000 dei quali nella capitale Lusaka) discende da migrazioni di popoli bantu, suddivisi in 73 gruppi etnici; vi sono minoranze europee (circa 70 mila persone) e asiatiche (15 mila). Si praticano religioni tradizionali africane; vi sono cristiani, minoranze islamiche e indu. Lingua ufficiale è l’inglese; delle lingue bantu, cinque sono parlate a livello ufficiale. Il peso del debito estero soffoca le possibilità di sviluppo dello Zambia, anche se la Banca Mondiale si è già espressa con un largo condono.






Fonte :  www.cuoreamico.org








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