Padre BEDE
GRIFFITHS (1906-1993)
un ponte
tra Oriente ed Occidente
«Giungiamo così a questa conclusione paradossale, ma teologicamente confermata, che non è attraverso la sua professione esteriore di fede che l'uomo si salva, sia egli cristiano o ebreo, indù, buddista, musulmano o agnostico o addirittura ateo, ma attraverso la sua risposta al richiamo della grazia che gli viene rivolto, segretamente, indipendentemente dal fatto che abbia o no delle convinzioni religiose» (in “Saggi per un dialogo indù-cristiano”).
Nato il 17 dicembre 1906, Alan Griffiths studiò alla Christ's Hospital (dove avevano studiato anche Coleridge e Charles Lamb) e al Magdalen College di Oxford. Lasciata Oxford, si unì a due amici nel condurre una vita d'estrema semplicità in un villaggio del Cotswold, dove incominciò a leggere seriamente la Bibbia e altre opere cristiane. A Oxford aveva abbandonato la pratica di qualunque religione, ma quest'esperienza in campagna lo guidò a una nuova comprensione del cristianesimo. In seguito fu accolto nella Chiesa Cattolica e, nel '32, si fece monaco benedettino nell'Abbazia di Prinknash, assumendo il nome monastico di Bede, da Beda il Venerabile. In seguito fu priore dell'Abbazia di Farnborough in Inghilterra. Nel 1955 si trasferì in India, nel Kerala, dove collaborò alla fondazione del Kurisumala Ashram, un monastero di rito siriaco. Nel 1968 si trasferì, con altri due monaci indiani, Swami Amaldas e Swami Christodas, al Saccidananda Ashram di Shantivanam, nello stato del Tamilnadu, vicino a Tiruchirappalli. L'ashram, fondato nel 1950 da due missionari francesi, Jules Monchanin e Henry Le Saux, era il primo tentativo di fondare in India una comunità cristiana che seguisse i costumi di un ashram e s'adattasse, nel modo di vivere e di pensare, allo stile indù. Padre Bede Griffiths diresse l'ashram di Shantivanam conformandosi in tutto e per tutto al costume vedico: vestiva la veste arancione del sannyasin e viveva in assoluta povertà. Gli indiani di religione induista che vivevano nei pressi dell'ashram lo consideravano il loro guru e gli portavano molto rispetto. Uomo di grande cultura e di profondissima spiritualità, soleva dire che la sua missione consisteva nel sensibilizzare gli occidentali all'importanza della religiosità orientale e nell'indicare la via del ritorno al Centro. Morì in odore di santità il 13 maggio 1993.
" Padre Bede viveva in
povertà, ma con grande eleganza, in un ashram sulle rive della Kaveri,
nell'India del Sud. Abitava una capannuccia di pochi metri quadri, possedeva
solo un cambio d'abito: due pezzi di tela arancione, uno per la parte inferiore
del corpo e uno per quella superiore e un paio di sandali; dormiva su un letto
di cemento reso appena confortevole da qualche stuoia. Unico lusso, una macchina
per scrivere. Sebbene le sue opere siano di grande valore teologico, il suo vero
capolavoro fu la sua vita. La sua santità era tale che anche gli indù gli
portavano figli e bestiame da benedire dai villaggi vicini. Padre Bede non volle
mai convertire nessuno. Diceva che l'unica conversione possibile è a ciò che già
si è. Ne ricordo l'alta figura ascetica e ieratica, il viso incorniciato
da barba e capelli lunghi e candidi, gli occhi azzurrissimi, innocenti come
quelli d'un bimbo. Ogni mattina celebrava la messa intercalando mantra sanscriti
alle preghiere cristiane e, alla fine, come benedizione, stampava, con
irriferibile delicatezza, un punto di polvere rossa tra le sopracciglia dei
presenti. Ebbene, non ho mai mancato una messa e, cosa da non crederci, ci
andavo solo per farmi toccare la fronte. " (Flavio Pelliconi) .
" Bede Griffiths, monaco benedettino
camaldolese, appare una figura di sintesi di cammini fatti da varie persone e da
vari monaci come Monchanin, Le Saux, Merton e altri. Ma anche diventa punto di
partenza per coloro che sono chiamati a impegnarsi nel dialogo interreligioso.
Dal Vaticano II ad oggi è stato fatto un grande cammino con momenti di
entusiasmo e con altri momenti attraversati da paure e da paralisi. Il pericolo
di questo momento è quello della stasi, quello di adagiarsi al bordo della
strada e fermarsi in attesa non si sa di che cosa, mentre siamo invitati a
guardare avanti per trovare nuove forze ed energie che rimettano in movimento il
cammino ." (B. Cozzarini).Un convegno per ricordarlo nel decennale della morte. (2003) . A cura della Comunità monastica di Camaldoli
Il monaco Bede Griffths vissuto in un eremo indiano coltivando il dialogo interreligioso.
SPIRITUALITÀ
La foresta della pace
Anche in altri momenti simili a questi che viviamo
ora, ci siamo chiesti perché si chiami “foresta della pace” (Shantivanam)
il luogo dove hanno vissuto qualche anno della loro vita il prete francese
Jules Monchanin insieme con il monaco benedettino Henri le Saux (Swami
Abhishiktananda), luogo ereditato in seguito dal nostro confratello
camaldolese Bede Griffiths (Swami Dayananda), che vi morì dopo
venticinque anni di permanenza, il 13 maggio 1993.
In quella località dello Stato del Tamil Nadu (India del Sud) Monchanin e Le Saux avevano fondato nel 1951 un ashram (dimora eremitica) dedicato alla Trinità, (Saccidananda: Essere-Coscienza-Beatitudine), che è tuttora meta di numerose visite e soggiorni da parte di cristiani occidentali e non. Per vivere nella “foresta della pace”, crediamo che occorra sentirsi chiamati alla costante esperienza di dialogo con Dio e con l’altro, nella rinunzia alla rivendicazione accanita dell’identità fino a quel momento riconosciuta dalla parte razionale di noi stessi: “C’è un centro interiore di preghiera in cui possiamo incontrarci gli uni con gli altri alla presenza di Dio. Questo centro interiore è la sorgente vera di tutta la vita, l’attività e l’amore. Se potessimo imparare a vivere a partire da quel centro, vivremmo nel cuore della vita e tutto il nostro essere verrebbe mosso dall’amore. Solo qui tutti i conflitti di questa vita possono essere risolti e possiamo sperimentare un amore che è al di là del tempo e dei mutamenti” (The Golden String, 1954: è l’autobiografia tradotta in italiano, ma ancora in cerca di editore). Bede Griffiths non parlava mai di ripudio della propria tradizione (era monaco benedettino professo di un’abbazia inglese quando si recò in India nel 1955), ma di “matrimonio” con ogni altro cammino che fosse aperto “ad andare oltre i confini” (da qui il titolo di un suo volume purtroppo esaurito: Matrimonio tra Oriente e Occidente, EDB 1983): “La gente tende a essere talmente coinvolta nell’essere personale, nei rapporti implicanti non solo amore ma anche odio e conflitto, che manifesta il grande bisogno di andare oltre tali rapporti. I filosofi indiani hanno provato ad andare oltre ciò, a trascendere tutti i conflitti umani e a procedere così verso il Nirguna Brahman, o Brahman ‘senza attributi’, il Nirvana, il Vuoto. Ma dobbiamo riconoscere che nel Vuoto, nel Nirvana, ciò che è pienamente autentico e profondo delle relazioni umane non viene perduto, bensì portato a compimento” (Una meditazione sul mistero della Trinità, in “Vita Monastica” L (1996) 204, 109-110).
Alla radice di questa prospettiva che si pone al di fuori di appartenenze sacrali, c’è la concezione non proprietaria della verità, condizione indispensabile per edificare la pace tramite il rivolgersi a tutti gli uomini e alle donne di buona volontà, nello stile inaugurato quarant’anni fa dalla Pacem in terris: “Il problema è che quando iniziamo a discutere la cosa all’interno di una situazione dialogica, dobbiamo usare parole e termini che sono un’inevitabile fonte di discordia e conflitto... Sviluppare una terminologia che tutti possiamo condividere è qualcosa a cui dobbiamo prestare molta attenzione e su cui dobbiamo fare molti sforzi” (ivi, 114).
Potremmo concludere in chiave ecclesiale l’esperienza monastica di Bede Griffitths, uomo di pace: aveva preso a cuore l’apertura ecumenica e interreligiosa del Concilio Vaticano II, che, in forza delle parole della lettera agli Efesini (2,1418), aveva cominciato lei stessa ad abbattere il muro di divisione con la forza dell’amore di Cristo nostra pace, affinché cessasse ogni ostilità fra sé e le altre religioni e prevalessero fra tutti i credenti i rapporti di comprensione, di pace e di amore.
In quella località dello Stato del Tamil Nadu (India del Sud) Monchanin e Le Saux avevano fondato nel 1951 un ashram (dimora eremitica) dedicato alla Trinità, (Saccidananda: Essere-Coscienza-Beatitudine), che è tuttora meta di numerose visite e soggiorni da parte di cristiani occidentali e non. Per vivere nella “foresta della pace”, crediamo che occorra sentirsi chiamati alla costante esperienza di dialogo con Dio e con l’altro, nella rinunzia alla rivendicazione accanita dell’identità fino a quel momento riconosciuta dalla parte razionale di noi stessi: “C’è un centro interiore di preghiera in cui possiamo incontrarci gli uni con gli altri alla presenza di Dio. Questo centro interiore è la sorgente vera di tutta la vita, l’attività e l’amore. Se potessimo imparare a vivere a partire da quel centro, vivremmo nel cuore della vita e tutto il nostro essere verrebbe mosso dall’amore. Solo qui tutti i conflitti di questa vita possono essere risolti e possiamo sperimentare un amore che è al di là del tempo e dei mutamenti” (The Golden String, 1954: è l’autobiografia tradotta in italiano, ma ancora in cerca di editore). Bede Griffiths non parlava mai di ripudio della propria tradizione (era monaco benedettino professo di un’abbazia inglese quando si recò in India nel 1955), ma di “matrimonio” con ogni altro cammino che fosse aperto “ad andare oltre i confini” (da qui il titolo di un suo volume purtroppo esaurito: Matrimonio tra Oriente e Occidente, EDB 1983): “La gente tende a essere talmente coinvolta nell’essere personale, nei rapporti implicanti non solo amore ma anche odio e conflitto, che manifesta il grande bisogno di andare oltre tali rapporti. I filosofi indiani hanno provato ad andare oltre ciò, a trascendere tutti i conflitti umani e a procedere così verso il Nirguna Brahman, o Brahman ‘senza attributi’, il Nirvana, il Vuoto. Ma dobbiamo riconoscere che nel Vuoto, nel Nirvana, ciò che è pienamente autentico e profondo delle relazioni umane non viene perduto, bensì portato a compimento” (Una meditazione sul mistero della Trinità, in “Vita Monastica” L (1996) 204, 109-110).
Alla radice di questa prospettiva che si pone al di fuori di appartenenze sacrali, c’è la concezione non proprietaria della verità, condizione indispensabile per edificare la pace tramite il rivolgersi a tutti gli uomini e alle donne di buona volontà, nello stile inaugurato quarant’anni fa dalla Pacem in terris: “Il problema è che quando iniziamo a discutere la cosa all’interno di una situazione dialogica, dobbiamo usare parole e termini che sono un’inevitabile fonte di discordia e conflitto... Sviluppare una terminologia che tutti possiamo condividere è qualcosa a cui dobbiamo prestare molta attenzione e su cui dobbiamo fare molti sforzi” (ivi, 114).
Potremmo concludere in chiave ecclesiale l’esperienza monastica di Bede Griffitths, uomo di pace: aveva preso a cuore l’apertura ecumenica e interreligiosa del Concilio Vaticano II, che, in forza delle parole della lettera agli Efesini (2,1418), aveva cominciato lei stessa ad abbattere il muro di divisione con la forza dell’amore di Cristo nostra pace, affinché cessasse ogni ostilità fra sé e le altre religioni e prevalessero fra tutti i credenti i rapporti di comprensione, di pace e di amore.
Fonti :
http://www.risveglio.net/persone/bede.html
http://www.camaldoli.it/web_it/editoria/monografie/i_04tronti.htm
http://italy.peacelink.org/mosaico/articles/art_1548.html
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