WILHELM KLEIN :
il più significativo teologo
cattolico del Novecento ?
24. 3. 1889 in Traben an der Mosel, + 7. 1. 1996 in
Münster in Westfalen
di Giuseppe Trentin
La domanda, che il titolo di questo contributo rilancia, potrà sembrare alquanto sconcertante, se non addirittura provocatoria. Nessuno, infatti, almeno in Italia, conosce o sa chi sia Wilhelm Klein. Non appena però si viene a sapere che a porsi per primo questa domanda è stato che Karl Rahner, uno dei teologi cattolici più noti e accreditati del XX secolo, lo sconcerto lascia il posto ad una legittima curiosità di saperne di più, di conoscere meglio la figura e il pensiero di questo teologo, pressoché ignoto, che tanta ammirazione ha suscitato in quanti lo hanno incontrato e conosciuto personalmente. Tanto più se si pensa che da quando Karl Rahner ha posto quella domanda la sua eco non si è più affievolita, ma semmai rafforzata, rimbalzando di bocca in bocca all'interno di un certo ambito accademico tedesco, formato da una ristretta cerchia di amici ed ex-alunni del collegio germanico-ungarico di Roma, dove Wilhelm Klein, negli anni’ 50, è stato padre spirituale e mentore di tanti studenti che sarebbero poi diventati famosi in Germania e oltre i confini della Germania.
A portare a conoscenza di un pubblico più vasto le considerazioni di K. Rahner è stato il teologo Gisbert Greshake, docente di teologia sistematica ed ecumenica nella Facoltà di teologia cattolica dell’Università di Friburgo, in Germania. Nell’ultima edizione del Lexikon für Theologie und Kirche, alla voce “Klein, Wilhelm”, il teologo di Friburgo riporta una notizia in base alla quale si può ritenere che K. Rahner fosse personalmente convinto che il teologo cattolico più significativo del Novecento sia stato proprio Wilhelm Klein. La notizia, ovviamente, non poteva e non può non destare meraviglia e perplessità ed anche portare qualche scompiglio nel campo della storia della chiesa e della teologia cattolica. In effetti, se non fosse avvalorata e autenticata dalla firma e dalla fama dello stesso Gisbert Greshake, si potrebbe pensare ad una boutade, una battuta di spirito, oppure ad uno scoop giornalistico o alla trovata di uno storico dilettante in vena di facili revisionismi. La verità è che Gisbert Greshake ha scritto in uno dei lessici teologici più prestigiosi queste testuali parole: “Karl Rahner, in diverse conversazioni ebbe modo di chiedersi se con le sue stimolanti riflessioni teologiche W. Klein non fosse il più significativo teologo cattolico di questo secolo (il Novecento)” (1).
1. Il caso “Klein”
Siamo forse di fronte ad un caso “Klein”? Probabilmente sì, e lo si deduce dal fatto che si contano sulle dita gli storici e i teologi che conoscono la figura e il pensiero di questo teologo. Non certo per ignoranza, e tanto meno per colpa, ma per un motivo più semplice che è bene chiarire subito. Wilhelm Klein, pur essendo vissuto a lungo, ben 107 anni, non ha mai pubblicato una riga durante la sua vita: nessuna opera, nessun saggio, nessun articolo, nessuna voce o lemma lessicale, nulla di nulla. E non per fervore mistico o peggio per snobismo, ma per una convinzione profonda alla quale egli rimase fedele per tutta la vita. A questo si deve aggiungere che lui stesso non si sarebbe mai definito teologo nell’accezione comune del termine, per cui viene spontaneo chiedersi (ma qui il caso si complica un po’): come si fa a parlare di lui come teologo? È corretto attribuire questo titolo ad uno studioso che non ha mai insegnato teologia e non ha nemmeno messo a disposizione dei colleghi libri o pubblicazioni che documentassero in qualche modo il suo pensiero?
Ma vi è di più nella vicenda di questo originale, quanto sconosciuto, pensatore. Non solo egli non ha mai pubblicato nulla durante la vita, nemmeno la sua tesi di dottorato (cosa, questa, che ad una generazione di scriventi quale stiamo diventando potrà apparire singolare, se non stravagante, quanto meno strana), ma ha sempre difeso la sua scelta con una tenacia e una determinazione tali da mettere sotto accusa la stessa scrittura, denunciandone ambivalenze e rischi, che ne costituiscono - osservava peraltro molto acutamente - il fascino “diabolico”. “Finché si parla pazienza! - diceva - “verba volant”, le parole volano. E se volano vuol dire che sono vive ed è anche difficile catturarle. È quando si scrive che le parole muoiono. Dapprima vengono per così dire catturate, poi torturate, quasi crocifisse, nel momento in cui vengono incise su pietra, pergamena o carta, quindi uccise. Una volta morte le parole diventano cose, strumenti, di cui ci serviamo, a volte - molto raramente - per comunicare, il più delle volte per mortificare o uccidere chi non la pensa come noi, anzi come pensavamo noi nel momento in cui scrivevamo quelle parole. Parole che diventano idoli, feticci di un mondo senza vita e senza storia”. Questo, secondo Klein, pensava e rimuginava anche Paolo di Tarso, quando, peraltro contraddicendosi, scriveva alla comunità di Corinto: “La lettera uccide, solo lo Spirito dà la vita” (2 Cor 3,6). “Se proprio si vuole scrivere - questa era la sua ricetta - si abbia almeno il coraggio di ritrattare, prima o poi, quanto si è scritto. Come hanno fatto molti grandi, da Agostino a Tommaso d’Aquino, per non parlare di Socrate o di Gesù, che non hanno avuto bisogno nemmeno di ritrattare per il semplice fatto che non hanno mai scritto”.
Fedele e conseguente con questa sua convinzione, se qualche volta, per comodità o consiglio, metteva per iscritto i suoi pensieri, mandava subito al macero ciò che aveva scritto. Solo dopo la sua morte, e quasi per caso, si scoprirà che alcuni suoi scritti si erano fortunosamente salvati, a sua insaputa, dalla distruzione cui erano fatalmente destinati. Venuti a conoscenza dell’esistenza di questi manoscritti, due noti teologi tedeschi, Gisbert Greshake e Karl Lehmann, che non solo conobbero personalmente Wilhelm Klein, ma furono anche suoi discepoli, si preoccuparono di recuperarli e consigliarono due amici e colleghi, Wilhelm Ott e Klaus Wyrwoll, redattori di “Correspondenzblatt”, bollettino di collegamento degli alunni ed ex-alunni del collegio germanico-ungarico di Roma, di pubblicarli “ad usum privatum” e di farli circolare all’interno della ristretta cerchia di amici e discepoli di Wilhelm Klein, in attesa di decidere se procedere o meno, in seguito, ad una pubblicazione ufficiale. Non fosse stato, quindi, per delle circostanze assolutamente fortuite, di cui parlerò più avanti, e per l’interessamento di alcuni ex-alunni, diventati nel frattempo autorevoli teologi e uomini di chiesa (Karl Lehmann è cardinale e presidente della Conferenza episcopale tedesca) quei manoscritti sarebbero finiti, al pari di chissà quanti altri, “in den Müll”, nella spazzatura, come lo stesso Wilhelm Klein amava non solo dire, ma fare (2).
Nel presente contributo non prenderò in esame, se non per accenni e citazioni, il contenuto dei manoscritti, fatti circolare per ora solo privatamente. La mia intenzione è più modesta e mira ad illustrare brevemente la vita e il pensiero di un pensatore senz’altro originale e anche, se si vuole, discutibile, degno comunque di essere discusso o quanto meno conosciuto (3). Helmut Feld, che per primo ha pubblicato un saggio sul pensiero di Wilhelm Klein, in riferimento all’iniziativa di pubblicare i suoi manoscritti, non ha esitato a scrivere: “Difficile sottovalutare per la storia della chiesa e la storia della teologia del XX secolo l’importanza di una simile iniziativa” (4).
2. Filosofo, teologo, maestro spirituale
La storia della vita, del pensiero, ma soprattutto dell’influenza che questa originale figura di pensatore e commentatore della bibbia ha esercitato su tutta una generazione di teologi e uomini di chiesa, a loro volta molto influenti nella cultura del nostro tempo, è ancora da scrivere e penso che non sarà un compito facile per chi si accingerà a farlo. Siamo di fronte ad una personalità talmente ricca e complessa, ma anche talmente povera e semplice nella sua radicalità, che non è facile riportarla dentro ad uno schema interpretativo tradizionale. Una cosa, forse, si può subito dire e personalmente mi sento di dirla, avendolo conosciuto e anche frequentato a lungo: era un vero uomo di Dio. Ogni volta che lo incontravo avevo la netta sensazione di trovarmi di fronte ad un credente che viveva, e addirittura vedeva, ciò di cui parlava. Parlava di Dio, della creazione, della redenzione, della santificazione, con la stessa spontaneità e naturalezza con la quale si parla fra noi delle persone che incontriamo, degli eventi che accadono, delle cose che facciamo o progettiamo di fare. “Qualcuno dice - mi confidò una volta - che Dio non si vede; o se si vede, non è Dio. Ma come? Io lo vedo sempre e ovunque. Certo non con gli occhi della carne, ma con quelli della fede”. Sta forse in questa sua capacità di vedere l’invisibile il segreto della sua vita e delle visioni, sempre originali e nuove, che apriva agli occhi di chi lo ascoltava?
Era nato il 24 marzo 1889 a Traben (Mosel), non lontano da Treviri, in Germania. Figlio di un modesto ferroviere, rivelò molto presto la sua straordinaria intelligenza e versatilità. Frequentò il liceo Friedrich-Wilhelm di Treviri dove conseguì la maturità classica con il massimo dei voti (5). Dopo la maturità fu scelto dal suo vescovo e inviato a Roma per continuare gli studi. Accolto nel collegio germanico-ungarico, studiò filosofia e teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Ordinato sacerdote nel 1912 (aveva appena 23 anni e fu necessaria la dispensa del Papa) maturò la decisione di farsi gesuita. Entrò quindi nella Compagnia di Gesù (6).
Ancora molto giovane - aveva appena 25 anni - fu nominato parroco militare (“Divisionspfarrer”) durante la prima guerra mondiale. Svolse il ministero pastorale su diversi fronti. Nel 1918, mentre si trovava sul fronte Ovest, venne gravemente ferito: alcune schegge di granata gli penetrarono nel cervello e nella spina dorsale. Le sue condizioni erano disperate. Più tardi racconterà di aver udito i medici militari passargli accanto e mormorare: questo lo possiamo lasciare, tanto non sopravviverà (7). Fu invece salvato, quasi per caso, da un suo confratello, Josef Grisar, che lo aiutava come cappellano militare. Mentre passava a benedire le salme lo vide per terra tutto insanguinato: “Ma quello è padre Klein - gridò ai soldati che l’accompagnavano - presto tiriamolo su e portiamolo al pronto soccorso”. Lo sollevarono con grande precauzione e lo portarono al più vicino ospedale da campo, dove venne immediatamente caricato su un treno in partenza per Colonia (8). Siccome non vi era posto su quel treno e il treno già era in movimento, un’infermiera fermò il convoglio e non permise che partisse finché non sistemò in qualche modo il ferito. Quell’infermiera che lo assistette tanto amorevolmente, racconterà più tardi Wilhelm Klein, era Edith Stein: viaggiava proprio su quel treno, organizzato dagli ebrei di Berlino, come infermiera volontaria (9).
Finita la guerra, Wilhelm Klein fu avviato alla carriera accademica. Era già laureato in filosofia e teologia a Roma, ma quei diplomi non bastavano per insegnare in Germania, era necessario un diploma di dottorato rilasciato da una università tedesca. Fu quindi inviato a Friburgo dove in quegli anni insegnava un filosofo famoso in Germania e nel mondo, Edmund Husserl. Dopo due anni, nel 1921 conseguì “summa cum laude” il dottorato in filosofia, avendo come relatore della tesi Josef Geyser e correlatore lo stesso Edmund Husserl. Presentò e discusse una tesi di filosofia della conoscenza medievale molto apprezzata sia dal relatore che dal correlatore (10). Il suo talento e la sua preparazione filosofica erano tali che gli permisero di dettare la tesi direttamente ad una dattilografa in soli tre giorni (11). Durante quegli anni incontrerà e conoscerà molti studenti che insieme a lui seguivano i corsi di Husserl, ma che a differenza di lui divennero filosofi e teologi famosi in Germania e nel mondo (12). A Friburgo incontrò e conobbe personalmente Edith Stein e Martin Heidegger, a quel tempo collaboratori di Husserl e incaricati dal maestro a leggere, fra l’altro, la sua tesi di dottorato (13).
Conseguito il dottorato, Wilhelm Klein fu nominato professore nella Ordenshochschule dei gesuiti di Valkenburg, in Olanda, ai confini con la Germania, dove insegnò filosofia dal 1922 al 1929 (14). Gli fu assegnato il trattato di critica della conoscenza, denominato, nel sistema neoscolatico di allora, “Critica” o “Logica maior”. Un trattato che i professori gesuiti non gradivano molto perché si doveva passare al vaglio della critica neoscolastica più o meno tutta la filosofia moderna, dal razionalismo all’idealismo, al positivismo all’esistenzialismo, allo strutturalismo, ecc., allo scopo di dimostrare come queste correnti di pensiero fossero viziate da contraddizioni interne e finissero tutte per sfociare in una forma di “scetticismo universale” (15).
Negli anni seguenti Wilhelm Klein fu chiamato a ricoprire all’interno dell’ordine cariche più alte. Dal 1929 al 1932 fu rettore della “Hochschule” St. Georgen di Francoforte. Quindi, dal 1932 al 1938, assunse la carica di provinciale dei gesuiti della provincia del Nord Europa che lo porterà a intraprendere numerosi e lunghi viaggi in tutto il mondo, particolarmente in Giappone e in Cina (16). Ritorna quindi a Valkenburg, dove viene nominato rettore dal 1938 al 1942 ed ha modo di sperimentare, in prima persona, l’ostilità dei nazisti (17). Tra il 1942 al 1945 svolge il ministero pastorale a Paderborn, dopo di che assume l’incarico di padre spirituale nel seminario di Hildesheim (Hannover), dove rimane fino al 1948, anno in cui viene chiamato a Roma a fare da padre spirituale nel collegio germanico-ungarico. A Roma rimane dal 1948 al 1961 e sarà il periodo più fecondo della sua vita. Durante questo periodo, infatti, stimolato anche dalle domande dei suoi numerosi alunni che frequentavano l’università Gregoriana, nella quale insegnavano i più insigni maestri dell’ordine dei gesuiti, avrà modo di sviluppare più compiutamente il suo pensiero e di aprire ai suoi alunni i grandi orizzonti degli autori biblici, in particolare di Paolo e Giovanni (18). Dal 1961 al 1965 è superiore della residenza Paulus-Haus dei gesuiti di Bonn, dove rimane fino al 1988, svolgendo un’intensa attività di consigliere spirituale. Gli ultimi anni della sua vita li trascorrerà a Münster, nella casa di riposo per gesuiti anziani di Sentmaringen, dove per diversi lustri ancora guiderà e predicherà diversi corsi di esercizi e continuerà a svolgere il suo ministero di padre spirituale di molti ex-alunni e confratelli gesuiti. Morirà il 7 gennaio 1996, alla bella età di 107 anni.
3. La singolare storia dei manoscritti
Prima di illustrare alcuni temi o filoni del suo pensiero ritengo utile raccontare la storia singolare del ritrovamento dei manoscritti, anche perché si tratta di una storia che può aiutare a conoscere meglio la personalità dell’autore (19). Contrariamente alle sue convinzioni Wilhelm Klein negli ultimi anni del suo ministero a Roma (sono gli anni che vanno dal 1958 al 1961) decide improvvisamente di scrivere per intero o quasi i suoi interventi: prediche, meditazioni, esortazioni, commenti biblici, ecc., tutto ciò che egli veniva predicando ed esponendo agli alunni del collegio germanico durante quegli anni. I motivi di tale decisione non sono ancora del tutto noti e sarebbe opportuno indagare più a fondo sulle cause che hanno determinato questa decisione improvvisa e relativamente strana (20).
Una cosa è comunque certa: prima della sua partenza per Bonn, nell’estate 1961 (21), alcuni alunni del collegio, fra i quali Karl Lehmann, mentre lo aiutavano a sgomberare e a ripulire la stanza, notarono fra le altre cose che avrebbero dovuto portare via quattro scatoloni con sopra la scritta: “da bruciare e gettare nella spazzatura”. Intuendo che forse si trattava dei suoi manoscritti, decisero, a sua insaputa, di conservarli e di consegnarli a suo fratello Karl, gesuita pure lui e rettore del Germanico. Karl fu ben contento di ricevere in consegna e custodire quei manoscritti che successivamente porterà sempre con sé, prima ad Aachen, in Germania, dove nel frattempo era stato nominato rettore del seminario di quella città, e successivamente a Bonn. Ultimato il suo mandato di rettore ad Aachen, chiese ed ottenne dai superiori di andare ad abitare nella residenza Paulus-Haus dei gesuiti di Bonn per rimanere vicino al fratello, di cui aveva un’enorme stima, quasi una venerazione. Fu così che gli scatoloni con i manoscritti di cui era depositario arrivarono clandestinamente a Bonn e finirono in un ripostiglio dove nessuno avrebbe potuto trovarli (22).
Karl Klein morì improvvisamente il 2 febbraio 1974 portando con sé il suo segreto, che durerà fino al 28 febbraio 1987, giorno in cui Heinrich Dunkel, un fratello gesuita, mentre faceva le pulizie della casa inciampò su uno di quegli scatoloni. Accertatosi che si trattava di manoscritti di Wilhelm Klein e dovendo d’altra parte procedere alla pulizia dello scantinato, chiese a Wilhelm Klein se poteva depositarli momentaneamente nella sua stanza. Wilhelm Klein venne così a scoprire che i suoi scritti non erano stati distrutti come aveva ordinato prima di partire da Roma. Diede pertanto nuovamente ordine ad Heinrich Dunkel di bruciarli immediatamente e di gettarli nella spazzatura, come aveva fatto venticinque anni prima in occasione della sua partenza da Roma. Ma quel giorno era un sabato e il fratello gesuita aveva altro da fare, per cui chiese ed ottenne di lasciare gli scatoloni nella sua stanza. Li avrebbe bruciati e gettati nella spazzatura il lunedì successivo. Il giorno dopo, domenica 1 marzo, passò di lì per caso Hans-Karl Rechmann († 1998), ex-alunno del collegio germanico, che di tanto in tanto faceva visita al suo vecchio padre spirituale. Mai Hans-Karl Rechmann era passato a salutare Wilhelm Klein di domenica o si era presentato senza avergli prima preannunciato la visita (23). Quella volta, chissà perché, arrivò di domenica e senza preavviso. Vide gli scatoloni in un angolo della stanza e si informò di che si trattasse: temeva che Wilhelm Klein fosse in partenza per una nuova destinazione. Venuto a sapere dallo stesso padre Klein che gli scatoloni contenevano alcuni suoi manoscritti, che peraltro sarebbero stati bruciati il giorno dopo, cercò dissuaderlo. Ma Wilhelm Klein un po’ bruscamente rispose: “In un modo o nell’altro quegli scatoloni devono sparire dalla stanza. O li porti via tu o finiranno nella spazzatura”. Hans-Karl Rechmann, che oltretutto aveva problemi alla schiena, non tergiversò un istante. Se li caricò uno ad uno sulle spalle e se li portò a casa in macchina, convinto di aver recuperato qualche prezioso appunto del suo padre spirituale.
Una volta a casa, si rese conto che gli scatoloni contenevano ben più di qualche appunto o annotazione estemporanea del suo vecchio padre spirituale. Si consigliò allora sul da farsi con un suo caro amico, Gerard Gruber, altro ex-alunno del collegio germanico e vicario generale della diocesi di Monaco, il quale lo invitò a custodire quei manoscritti e nel frattempo, se ne avesse avuto l’occasione, a recarsi a Bonn e chiedere a padre Klein conferma scritta della consegna. Ciò avvenne il 22 maggio 1987. Hans-Karl Rechmann si recò nuovamente a Bonn e pregò padre Klein di confermare per iscritto la consegna di quei manoscritti. Wilhelm Klein accondiscese e scrisse su un foglietto: “Confermo di avere consegnato il 1° marzo di questo anno e messo a disposizione del signor H.-K. Rechmann note ed appunti risalenti al tempo che ho trascorso a Roma e a Bonn”.
I manoscritti sopravissero così una seconda volta al destino che li attendeva. Successivamente un altro discepolo di padre Klein, il cardinale Friedrich Wetter, attuale arcivescovo di Monaco, venuto a sapere della cosa dal suo vicario generale, si assunse l’impegno di finanziare la trascrizione su dischetti di tutto il materiale. Nel frattempo la notizia del ritrovamento dei manoscritti di Wilhelm Klein si era diffusa fra gli altri ex-alunni, molti dei quali manifestarono il desiderio di averne una copia. Si decise pertanto di pubblicarli, ma solo ad uso privato. Prima di una pubblicazione ufficiale - questo fu il parere autorevole di Karl Lehmann e Gisbert Greshake - sarebbe stata opportuna un’ulteriore rielaborazione e revisione di tutto il materiale da parte di uno che conoscesse molto bene il modo di pensare e di esprimersi di Wilhelm Klein e avesse anche una grande dimestichezza con i testi greci e latini, abbondantemente citati nei manoscritti. Il giorno del funerale di Wilhelm Klein nella cattedrale di Münster, al quale parteciparono un gran numero di ex-alunni, Albert Rauch, pure lui suo discepolo e direttore dell’Istituto di studi orientali di Regensburg, si dichiarò disponibile e pronto ad affrontare l’impresa. Si arrivò cosi alla duplice decisione di pubblicare “ad usum privatum” i manoscritti e di inviarne una copia a quanti ne avessero fatto richiesta, in attesa di verificare le loro reazioni. In base ad esse si sarebbe poi deciso se procedere o meno ad una edizione critica e alla ricerca di un editore per una pubblicazione ufficiale (24).
4. Intuizioni e impulsi teologici
Le reazioni degli ex-alunni, ma anche di altri, non tardarono ad arrivare e furono tutte positive, molte addirittura entusiastiche (25). Ciò che colpiva e in parte commuoveva i discepoli era il fatto di poter risentire attraverso quei manoscritti le idee e quasi la voce di Wilhelm Klein scendere nuovamente come balsamo nel loro cuore e risvegliare emozioni e sentimenti che nel frattempo si erano assopiti. In alcuni di loro insieme alle idee si risvegliarono anche perplessità e dubbi che quelle idee avevano suscitato in loro fin dagli anni del collegio. Nel rileggere quegli appunti ebbero quindi l’impressione di urtare ancora una volta contro quella che può essere considerata la matrice di tutti i pensieri di Wilhelm Klein, quel “Mariengeheimnis”, o “mistero di Maria”, che secondo molti costituiva una specie di punto fermo, quasi una fissazione, affascinante fin che si vuole, ma molto discutibile. Wilhelm Klein era convinto che tutta la bibbia, dalla prima parola della Genesi fino all’ultima invocazione dell’Apocalisse, non parlasse d’altro che di questo “Mariengeheimnis” (26). Nella bibbia, diceva, non si parla d’altro. Gli autori biblici parlano di Maria anche quando non la nominano. “E del resto - spiegava - di che cosa possiamo parlare noi se non della creazione e quindi implicitamente di Maria, tipo e figura della creazione, nella quale Dio si è creato, si crea, e sempre si creerà quella natura creata che gli permette di superare la distanza tra infinito e finito così da poter incarnarsi e diventare uomo? La bibbia in fondo non fa che esprimere e riesprimere questa unica fondamentale verità rappresentandola in forma storica e simbolica attraverso un’infinità di parole, figure, eventi, immagini. A volte lo fa in modo diretto, esplicito, evidente; il più delle volte in forma indiretta, implicita e quasi riservata, come del resto farà in seguito la chiesa nel trasmettere questa verità lungo i secoli” (27).
4.1 Il “mistero di Maria”
Coerentemente con questa sua visione, e per quanto strano e persino stravagante ciò possa sembrare a molti esegeti, Wilhelm Klein conclude il commento alla lettera ai Romani riassumendolo in un capitolo dal titolo alquanto sorprendente: “Maria in Römerbrief”, Maria nella lettera ai Romani. Secondo Klein infatti Paolo, nel quale egli amava rispecchiarsi (etimologicamente Paolo significa “klein”, “piccolo”) parla di Maria in modo discreto e casto fin dai primi versetti della lettera (28). Ma non è solo questo o quel versetto che parla di Maria, tutta la lettera sarebbe un grande commento all’ineffabile “mistero di Maria”. In essa, infatti, non si parla che della creazione, di quella creazione o creatura nella quale Cristo, “Dio in Maria”, vince il peccato e trasforma tutto ciò che esiste in una “nuova creazione”. “E chi è - si chiede Klein - quella “nuova creazione” se non Maria? In Maria tutti gli uomini vengono purificati, giustificati, santificati, per mezzo di Gesù nello Spirito”. Così egli può concludere il suo lungo e minuzioso commento alla lettera ai Romani invitando a fissare lo sguardo su Maria e a individuare nella sua figura la chiave interpretativa di tutta la lettera. “E ciò - egli osserva - nonostante che il nome di Maria non ricorra mai nelle parole di Paolo” (29).
Per comprendere una conclusione tanto strabiliante sarebbe necessario ripercorrere le analisi e il commento di tutta la lettera. Ma è sufficiente per il momento soffermarsi su quello che Wilhelm Klein considera il suo punto più alto, Rom 8,30, in cui Paolo proclama in modo solenne e quasi perentorio: “Quelli che ha predestinati li ha anche chiamati, quelli che ha chiamati li ha anche giustificati, quelli che ha giustificati li ha anche glorificati”. In questo testo, commenta Klein, “si parla della gloria di Dio nella forma di una creatura personale del suo amore nella quale egli stesso ha creato la sua gloria: una creatura pura, mai caduta, sempre incolume, senza macchia. Solitamente voi provate qualche disagio e reagite quando vi parlo in questo modo. Se però vi dico che la gloria creata di Dio è la gloria di Gesù Cristo, l’unigenito del Padre, nonostante qualche resistenza, non avete difficoltà a seguirmi. Se viceversa proseguo e vi dico: questa gloria, che appartiene all’umanità creata di Gesù Cristo e viene assunta nella sua persona eterna e creatrice, è creata nella persona creata della madre di Dio, vi inquietate un po’. E quello strano “cagnolino” (“Pudel”) che è in voi comincia ogni volta ad agitarsi e a ribellarsi” (30).
In proposito, a supporto della sua interpretazione, Wilhelm Klein amava citare un testo, secondo lui alquanto trascurato nella sua pregnanza teologica, delle Confessioni di Agostino. Dopo aver parlato di Dio creatore Agostino, nelle sue confessioni, parla della creazione e chiede ai suoi interlocutori: “Forse che negate l’esistenza di una creatura sublime, stretta al Dio vero e veramente eterno da così casto amore che, pur non essendogli coeterna, non si distacca da esso mai per defluire nelle varie vicende dei tempi, ma nella veracissima contemplazione di esso solo riposa, poiché tu, o Dio, se uno ama quanto gli imponi, ti riveli a lui e basti a lui, e perciò non devia da te né da sé? Questa è la casa di Dio...O casa luminosa e bella, io ho amato la tua bellezza e il luogo dove abita la gloria del mio Signore che t’ha fabbricata e ti possiede. Sii tu il mio sospiro durante questo mio pellegrinaggio. Ecco io dico a colui che ti costruì che possieda anche me in te, perché anch’io sono opera sua” (Conf., XII, 15). “Certo - spiega Klein - anche questa gloria rimane velata sotto il velo sponsale umano. Nel tempo della chiesa, però, la sposa poco a poco si svela. Nel ventesimo secolo molto di più che nel tredicesimo secolo o nel secolo quinto o primo. Quei fedeli testimoni del vangelo del primo secolo si spaventerebbero se vedessero come la Immacolata, la Infallibile, la Assunta gloria del Dio creatore comincia ad apparire nel nostro tempo. Così come si spaventano quei nostri contemporanei che volessero artificialmente spostarsi nel primo secolo e aggrapparsi testardamente alla lettera morta di quel tempo” (31).
4.2 Un nuovo metodo esegetico
Vi è chi ha visto in questo svelarsi progressivo del “mistero di Maria” nella storia un influsso di Hegel e della sua filosofia. Secondo Hegel la verità, anche la verità cristiana, non può che svelarsi storicamente. Ad Hegel non importa molto l’origine, né il significato originario di un tema. Egli infatti non indaga affatto, o molto poco, su questi aspetti della verità. Si può dire però altrettanto di Wilhelm Klein? Certamente no (32). E non solo perché si è chiaramente e ripetutamente distanziato dall’intepretazione hegeliana del cristianesimo (33), ma anche perché, più che ad Hegel, egli si ispira, nella ricerca della verità, ai testi biblici e patristici, in particolare a sant’Agostino: attinge quindi a fonti storiche (34).
Oltretutto Wilhelm Klein non si è quasi mai allineato con lo spirito del tempo. Egli è sempre, si può dire, in anticipo sui tempi. Si pensi in particolare alla sua esegesi biblica e al metodo che adottava nei commenti della bibbia. Non era entusiasta del metodo storico-critico, ormai definitivamente approvato dal magistero della chiesa. Non per questo però andava d’accordo con quanti vedevano in questo metodo rischi e pericoli di ogni genere per l’ortodossia della fede e del dogma cristiano. Il suo era un metodo che attingendo al passato, soprattutto alla bibbia e ai padri della chiesa, prefigurava fin dagli anni’ 50 quel metodo sincronico che si imporrà progressivamente molto tempo dopo e si dimostrerà come il più utile e adatto a cogliere l’intenzione vera, profonda, degli autori biblici (35).
Nell’introduzione al commento della lettera ai Romani Wilhelm Klein spiega e fonda la sua scelta affrontando subito e con grande chiarezza quella che può essere considerata la vera questione dell’ermeneutica biblica contemporanea, la questione dell’ispirazione e dei molteplici sensi ed usi della Scrittura: “Si può dire - si chiede - che i cristiani di Roma, quando la lettera arrivò e fu loro letta sapessero che si trattava di una lettera ispirata dallo Spirito santo? Che era dunque parola di Dio? E che lo Spirito Santo, il Dio eterno, indirizzava quella lettera attraverso Paolo ai cristiani di Roma, della Roma di allora e di oggi, e a l’umanità tutta e di tutti i tempi? Certamente no. Noi cristiani di oggi conosciamo questa verità della nostra fede attraverso la testimonianza infallibile della chiesa. Si può dire che Paolo nello scrivere la lettera abbia visto tutte le grandi verità della fede che la chiesa, allora e nel corso dei secoli, ha letto e leggerà fino alla fine dei tempi? Sant’Agostino pensa che ciò sia possibile, ma non è necessario che lo accettiamo. Secondo lui la chiesa può comprendere un’affermazione della sacra Scrittura molto più profondamente di quanto non la comprendessero gli autori del passato, compresi Mosé e Paolo. In forza dello Spirito santo la chiesa può comprendere questi due autori in modo più chiaro di quanto essi comprendessero se stessi. Nel capitolo 32 del libro XII delle Confessioni leggiamo: “Da ultimo, o Signore, che sei Dio, non carne e sangue, anche se quell’uomo, per la cui penna parlasti, ebbe in mente un’unica verità fra le molte e non vide le altre, forse che allo Spirito tuo buono che mi guiderà in terra di rettitudine poterono sfuggire tutte quelle altre verità che tu eri per rivelare con quelle parole ai futuri leggitori? Se è così, concediamo pure che quella verità che Mosé ebbe in mente sia la più profonda. Per quel che riguarda noi, o Signore, mostraci quella o un’altra che sia vera e a te piaccia, per modo che qualunque sia quella che tu ci apri con l’opportunità delle stesse parole, la stessa ch’ebbe in mente il tuo servo o un’altra, ci fornisca il tuo nutrimento e non ci gabbi l’errore. Ecco, o Signore mio Dio, quante pagine ho io scritto per poche parole, quante pagine! Se continuerò a cotesta maniera, quali forze o qual tempo mi sarà bastevole per commentare tutti i tuoi libri? Concedimi, perciò, di esaltarti in essi più brevemente, scegliendo una fra le molte interpretazioni vere che si presentano laddove possono presentarsene molte: quella che tu mi avrai inspirato, certa, sicura e utile; e di assicurare che, se nell’esaltarti esprimerò quello che fu il pensiero del tuo servo, tanto meglio (chè a questo debbo mirare); se no, esporrò quello che per mezzo delle sue parole avrà voluto dirmi la tua verità, la quale anche a lui disse quello che volle” (36).
4.3 Il creatore nella creatura
Leggendo e rileggendo la Scrittura alla ricerca dei sensi più reconditi Wilhelm Klein intuisce in essi una convergenza verso una verità profonda che innerva tutto il corpo dei racconti e delle narrazioni bibliche. Si tratta di un’intuizione che rimanda, in parte, ad Agostino e alla sua idea di “creatura intellettuale”, attorno a cui ruotano gli ultimi capitoli delle “Confessioni” (37). In parte però riflette anche quella sottile vena di scetticismo sulla capacità del linguaggio umano, anche biblico, di esprimere adeguatamente il “mistero di Maria” che caratterizza la figura e il pensiero di Wilhelm Klein.
La creatura di cui parla Agostino, ma prima di lui tutta la bibbia, non è, né può essere,secondo Klein, Gesù Cristo: “Gesù non è una creatura come molti ariani fino ad oggi si esprimono. È il creatore che ha assunto da Maria vergine una natura creata” (38), ma non per questo cessa di essere il creatore, per cui laddove egli è presente ciò avviene sempre per mezzo di una creatura pura, che nella bibbia, e in particolare nel Nuovo Testamento, porta il nome di Maria (39). “Mai uomo ha potuto sperimentare realmente l’epifania (di Dio) senza Maria. Il simbolo della stella che porta a Cristo porta anche a Maria, a Cristo in Maria” (40).
Non si può pensare a Cristo senza pensare a Maria. Viceversa non si può pensare a Maria senza pensare a Cristo. In un caso come nell’altro solo la fede ci permette di cogliere il senso profondo di ciò che viene detto e scritto nella bibbia: “Senza fede non possiamo vedere Maria, creatura senza macchia, Madre di Dio. Vediamo una ragazza a Nazareth, come ce n’erano tante altre, una madre a Betlemme, una donna a Cana o sul monte Calvario. Questo lo possono vedere anche i non credenti, i quali però non vedono Maria, l’Immacolata Concezione, la Madre di Dio, la Sposa dello Spirito santo. I non credenti non possono vedere colei che il Signore possedette all’inizio delle sue vie, fin da principio, prima che egli creasse le cose; così come non possono vedere colei che dice di sé: da tutta l’eternità io sono, fin dall’inizio, prima che la terra fosse. Non c’erano ancora gli abissi ed io ero già concepita. Ancora non erano scaturite le sorgenti delle acque, e la massa impetuosa dei monti non era ancora emersa....io ero presso di lui che a tutto dava un ordine. Era per me una delizia giocare tutto il giorno davanti a lui e per tutta l’estensione della terra. E la mia gioia è stare presso i figli degli uomini... No, tutto questo un non credente non lo può vedere... Solo il credente vede colei che dice di sé nel libro del Siracide 24: “Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo e ho ricoperto come nube la terra. Ho posto la mia dimora lassù, il mio trono era su una colonna di nubi... chi mi obbedisce non si vergognerà, chi compie la mie opere non peccherà... Il non credente può vedere l’amante del re Salomone, può anche ascoltare il Canto dei cantici del re, ma non può immaginare chi sia veramente la sposa, “quae est tota pulchra”, né ciò che nel Cantico dei cantici si dice: tutta bella tu sei e macchia non c’è in te... Solo il credente può vedere Maria” (41).
Pensiero e linguaggio di Wilhelm Klein ruotavano sempre, in una serie impressionante di variazioni nuove e a volte sorprendenti, attorno alla stessa fondamentale verità. “In fondo - diceva - ripeto sempre la stessa cosa” (42). E la “cosa” che egli ripeteva e sulla quale non si stancava mai di richiamare l’attenzione era il fatto che stava parlando e cioè tentando di dire e di esprimere attraverso parole ed espressioni inadeguate il “mistero di Maria”, della creazione, nella quale il creatore ha creato, crea e continuerà sempre a creare “das Wesen”, la natura creata (43). Un mistero che egli formulava anzitutto in forma negativa per contrastare - diceva - l’opinione di quanti erano tentati di considerare lo stato di peccato, di “natura lapsa” o decaduta, come dicono i teologi (egli preferiva chiamarla “de-cadente”) come se fosse uno stato o uno stadio storico determinato in cui gli uomini vivevano in attesa della redenzione: “no - precisava - un ordine del peccato senza un ordine della redenzione non è mai esistito” (44). E commentava: “Dio non ha creato il peccato. La sua creazione non è impura, ma pura, senza macchia, fin dal principio (Gen 1,1), prima che la terra fosse (Sir.8,22; 24,9)”. Così mentre molti teologi insegnavano (siamo negli anni’ 50!) che la grazia creata è un “accidens”, quasi un elemento aggiunto alla natura, Klein vedeva in essa la persona di Maria. “È lei la “charis”, la grazia creata, la “pistis” creata, l’“agape” creata, la “dikaiosyne” creata, il “pneuma” creato” (45). Maria dunque è “il mistero meraviglioso, il nostro personale mistero. Diventiamo “syn-eikon” di questa “eikon”, “symmorfoi” di questa immagine creata dell’eterna immagine” (46). Da tutta l’eternità Dio “ci vuole come Maria” (47). Così parla la Parola di Dio attraverso la bibbia. Così dovremmo parlare anche noi, se vogliamo che il linguaggio biblico ci aiuti a superare le profonde divisioni che dividono i cristiani proprio in riferimento al “mistero di Maria”.
4.4 Il principio che divide
In riferimento, invece, alla sottile vena di scetticismo che attraversa il pensiero e le parole di Wilhelm Klein vale forse la pena di richiamare e chiarire due prospettive che ci permettono di comprenderlo e valutarlo più correttamente. La prima riguarda la chiara consapevolezza che egli aveva di parlare sempre un linguaggio storico, determinato. Non esiste un linguaggio universale. Chi pensa o parla si avvale sempre di un linguaggio particolare. Meglio esserne consapevoli e non presumere mai di essere compresi da tutti. D’altra parte il linguaggio biblico che in quanto cristiani parliamo ci permette di comprendere ed essere compresi da quanti conoscono o parlano questo linguaggio. Di qui il valore e l’importanza, non solo da un punto di vista storico o letterario, della bibbia, “uno dei libri più seducenti, ma anche più realisti” che conosca, diceva. Ciò che la bibbia mette in scena è il più grande teatro della storia, un teatro divino e umano nel quale vengono rappresentate, e per certi aspetti anticipate e prefigurate la “divina commedia” di Dante Alighieri e l’“umana tragedia” del Faust di Goethe. Non si finirà mai di scavare in questo libro, dai significati reconditi e in parte misteriosi, tracce di una verità che si s-vela e subito si ri-vela sotto il velo del linguaggio. La seconda prospettiva riguarda il valore, l’importanza dell’ermeneutica, dell’interpretazione, che da una parte non può essere letterale, dall’altra però non può ignorare il “gramma”, la lettera, che il “pneuma”, lo spirito, vivifica e in-spirando in un certo senso risuscita (2Cor 3,6). È sempre lo stesso Spirito che in-spira. lo scrittore e il lettore, lo Spirito che in Maria ha concepito e dato forma umana al “Logos”, al Verbo, alla Parola di Dio. “La bibbia, se ne comprendiamo il senso, ci conduce a Maria. Viceversa, se rimaniamo attaccati alla parola, come ci inducono a fare gli anticristi, i quali gridano: Signore, Signore, ma rimangono nella parola, questa ci sbarra la strada che porta a Maria. Lasciar crescere in noi la parola è la morte” (48).
Su questo punto Wilhelm Klein è determinato, quasi intransigente. Il problema cruciale dell’ermeneutica contemporanea, egli osserva , è che si rischia, quando si parla o scrive, di “rimanere attaccati alla parola” e magari di scambiare la parola umana con la Parola di Dio, il Verbo incarnato, il Verbo della vita, che la bibbia chiama il Messia, il Cristo. È lui la figura centrale della bibbia, il protagonista della storia della salvezza. Ma chi è, secondo la bibbia, il Messia, il Cristo, se non “Dio in Maria”? In Maria Dio si dona alla nostra umanità e la nostra umanità si dona a Dio. Noi però siamo al tempo stesso “figli di Maria” e “figli di Eva”. In quanto “figli di Maria” veniamo redenti e abitiamo nella “città di Dio”, nella “Gerusalemme celeste”, nella “creazione nuova”. In quanto “figli di Eva” siamo la “creazione che geme” e abitiamo nella “città degli uomini”, in “questa valle di lacrime”. Ma Dio non abbandona gli uomini: come li crea, così li redime e li santifica in continuazione. In continuazione? “Sì, in una «continua-azione»”. Dio non agisce ad intermittenza, diceva scherzando. Certo, è difficile esprimere tutto questo a parole. Quando si parla di Dio nella storia si dovrebbero usare sempre tre tempi: il passato, il presente, il futuro. Il motivo è semplice: viviamo nel tempo. E il tempo ci espone al divenire, al mutare, alla caducità delle parole, degli eventi, della stessa lingua (49). “In fondo quando parliamo non facciamo che usare pezzi caduti e infranti di lingua: “loquebar ut parvulus”, parlavo da bambino, come dice Paolo in 1Cor 13,11, consapevole com’era del significato del nome che portava: piccolo, il piccolo, il meschino, uno che vale poco o niente” (50).
Al pari di Paolo Wilhelm Klein non era meno consapevole della sua pochezza e della pochezza del suo linguaggio che lo portava a sfiorare - ma solo a sfiorare - lo scetticismo. “Quando i nostri antenati si sono posti il problema di tradurre in tedesco la parola greca “leghein”,, parlare, dissero che “leghein” equivale a “lügen”, dire bugie, e “logos”, parola, equivale a “Lüge”, bugia. Chi parla dice bugie. Parlare è dire bugie. “Logos” è “Lüge”, bugia. È così per ogni lingua? “Omnis homo mendax”? “Sì, risponde, così almeno afferma il salmista (S. 115,11; Rom 3,4)” (51).
Non disprezzava la lingua, il sapere, la ragione, le esperienze. Non dimentichiamo però - osservava - che esse altro non sono che “preambula fidei”, preamboli della fede, dell’essenziale, che in nessun modo è univocamente compreso e comprensibile (52). Insisteva affinché l’appello della Parola più alta camminasse mano nella mano con l’atteggiamento dell’umiltà più profonda. E l’amore, l’attenzione per ciò che è piccolo, minimo, insignificante, si accompagnasse con l’apertura alla cattolicità che sorpassa ogni barriera o confine. “L’evangelo di Gesù Cristo è grande quanto il mondo - predicava ai suoi discepoli. Aprite, dilatate il vostro cuore. Respirate l’aria fresca del vangelo di Gesù Cristo!” (53). Li esortava quindi a progredire, a crescere, a diventare cristiani: “Crescete e andate oltre gli angusti confini. Diventate cristiani!” (54).
Nulla era più contrario al suo spirito della superbia o della pretesa di essere o diventare - magari in nome della fede - più grandi o importanti degli altri. Non negava la diversità dei carismi e dei ministeri, quello che gli premeva era comunicare ai futuri presbiteri il senso di una diversità che non è mai titolo di potere. Nella festa di san Giovanni apostolo, commentando l’ultima pagina del quarto vangelo, in cui si allude alla morte del discepolo a cui Gesù aveva conferito il potere di pascere il gregge, padre Klein affronta un anno il problema cruciale degli stati di vita cristiana, in particolare del rapporto tra comandamenti e consigli che tanti interrogativi ed equivoci ha sollevato e solleva nella chiesa. Il suo contributo, fortemente ancorato al sacramento del battesimo e al mistero della morte e risurrezione di Cristo, che nel battesimo si celebra e si rinnova, è di una radicalità e di una limpidezza straordinaria, soprattutto se si pensa al tempo in cui affrontava questo problema. Superava d’un colpo tante dispute e controversie nella misura in cui illustrava il senso escatologico del messaggio di Gesù e spiegava che “tutti i cristiani nel momento della morte devono riconoscere i tre consigli evangelici e imparare ad essere poveri come un “Kirchenmaus”, un topo di chiesa; vergini, in quanto nel regno di Dio “neque nubent neque nubentur”, non ci si sposa, né si viene sposati; obbedienti “wie ein Kadaver”, come un cadavere” (55).
Era sconcertante e al tempo stesso affascinante, nella sua radicalità, il modo in cui mostrava ai discepoli come i vari libri della bibbia girassero sistematicamente attorno a quella che riteneva il nucleo centrale, ma ancora in ombra, della rivelazione cristiana: la figura di Maria. Una figura che né la riforma protestante della chiesa (56), né la riforma degli studi biblici (57), secondo lui avevano contribuito ad illuminare, semmai ad oscurare. E sempre a causa di quel principio che divide, il “diabolos”, che è menzognero fin da principio e lotta contro colei che da sempre è la sua avversaria più irriducibile. Egli quindi vede nel “diabolos”, in questa figura misteriosa che appare fin dalle prime pagine della bibbia nella forma di un serpente che parla e seduce Adamo ed Eva, colui che attraverso il “logos”, il pensiero, la parola, l’azione, tenta di dividere, di separare, nella forma di molteplici assolutizzazioni, la creazione dal suo creatore: “Ad opporre la più grande resistenza al sorgere luminoso della verità di Maria è il tentatore, il menzognero fin da principio, il quale tenta di mordere e di tenere legati in modo cocciuto e testardo noi uomini del nostro tempo, unilateralmente formatisi nello spirito dell’Illuminismo, della ragione, che indaga scientificamente quel “gramma apokteinon”, di cui parla in modo molto energico l’apostolo in 2Cor 3,6. La “sola scriptura” così intesa è il nemico mortale della verità di Maria e corrisponde a sua volta a quella “sola fides” che pone ultimamente sullo stesso piano la salvezza per grazia con la sua impotente e morente forma scientifica. L’attacco nei confronti della chiesa cattolico-romana visibile è stato in fondo un attacco di professori, i quali, impregnati com’erano di spirito illuministico, derivante a sua volta da un umanesimo ancora fiorente, caddero nella tentazione di sopravalutare il loro straordinario sapere fino al punto da dichiarare, sospinti dal soffio unilaterale dello spirito scientifico del loro tempo, che i dogmi della chiesa cattolico-romana visibile altro non erano che robavecchia” (58).
4.5 Il principio che unisce
Nonostante questa sua visione fortemente critica nei confronti della riforma protestante Wilhelm Klein era l’uomo più ecumenico che si potesse immaginare. Soffriva molto per la divisione dei cristiani: “È mai possibile - si chiedeva - che nell’era dei voli spaziali che sta per iniziare i cristiani continuino a rimanere divisi appellandosi alla fede o proclamando, in nome della fede, una giustificazione delle opere che nasconde spesso dietro alla parola “amore” niente altro che un odio ben camuffato?” (59). Ma la sofferenza per la divisione dei cristiani non lo paralizzava il suo spirito, semmai lo stimolava. Si adoperava infatti per dare corpo ad una sua intuizione che può essere considerata una specie di invenzione ecumenica: far sì che rappresentanti di tutte le confessioni e religioni del mondo si unissero a lavorare insieme per la pace. A tale scopo sollecitò ripetutamente Maria Lücker, una sua figlia spirituale, a dare vita insieme ad altri al cosiddetto movimento delle “Religioni per la pace” (60).
Intendeva in tal modo trasferire nel movimento ecumenico le sue intuizioni e i suoi impulsi teologici, convinto com’era che la figura di Maria, immagine e simbolo della creazione, fosse o potesse diventare punto di convergenza nella molteplicità dei linguaggi e delle interpretazioni non solo per i cristiani, ma più in generale per tutti i credenti, i “fedeli” sparsi per il mondo. “Non identifichiamo - ripeteva - cristiani e credenti. I veri cristiani non possono che essere credenti: questo è ovvio. Non è detto però che i credenti siano o debbano diventare sempre e necessariamente cristiani. Vero cristiano è chi, sull’esempio di Maria, accoglie nel suo cuore la Parola di Dio e la incarna nella sua vita (61). Forte di questa intuizione tenta improvvisamente una sortita ecumenica e scrive una lettera di grande spessore al grande teologo riformato Karl Barth, suo amico, nella speranza di trovare o quanto meno stimolare in lui un ripensamento della fede cristiana, e conseguentemente di tanti problemi ecumenici, a partire dal “mistero di Maria”, il principio che unisce o potrebbe unire, al di là delle interpretazioni teologiche o forme di devozione personali e popolari, non solo i cristiani, ma tutti gli uomini.
Ecco la lettera: oltre ad essere un documento storico ed ecumenico prezioso, essa testimonia la capacità di Wilhelm Klein di esporre in modo sintetico e teologicamente preciso il suo pensiero e la sua visione della storia.
“Illustrissimo Professor Karl Barth, ricambiamo ancora una volta tutti, di gran cuore e con riconoscenza, i Suoi cari auguri (62). Il Suo libro e la Sua predica di Natale mi trovano profondamente d’accordo con Lei. Mi convinco sempre più che nella condizione creaturale nella quale, sia pure con espressioni diverse dalle Sue, noi esprimiamo la verità del nostro creatore incarnato non dovrebbe esserci “nulla che divide le chiese”.
In fondo ci troviamo d’accordo sul fatto che tutte le nostre espressioni sono ambivalenti e l’uomo, nella carne, non è in grado di esprimere “univocamente” la verità della propria redenzione, nemmeno nella bibbia. Noi confessiamo nello stesso modo la nostra fede dicendo: quell’uomo che è la nostra unica salvezza è Dio stesso, non una creatura, è il nostro creatore, il quale si crea una natura creata, nella quale viene nella nostra perdizione per liberarci da ogni perdizione e ambivalenza.
Diciamo inoltre, anche qui forse in modo non completamente diverso, che questa natura creata, in lui, il creatore stesso, non è supportata da un “portatore” creato (63). Del resto, come si dice nel credo, il nostro redentore e signore non si divide in due - uno che crea e uno che è creato - ma è il solo Signore, la sola eterna persona-creatrice (64), il Verbo del Padre. Così, se la sua natura creata non è pura rappresentazione o illusione, ma realtà, si deve supporre, in base alla Scrittura, che vi sia un portatore creato. Tale portatore creato della natura creata del nostro redentore non è Dio, né Cristo. Questi infatti è il creatore, non una creatura. Secondo san Tommaso è corretto dire: Cristo è uomo, non è corretto dire: Cristo è creatura (65).
Riteniamo che l’antico artista, quando ha lavorato alla colonna del duomo di Basilea dedicato a Maria, pur rappresentando dei miti greci, doveva avere l’idea del compimento di quella mediazione creata nella storia di Gesù e di sua Madre, manifestata storicamente nella bibbia, nell’AT e nel NT, presagita con espressioni indicibilmente ambigue nella mitologia , ecc., indagata dal sapere della filosofia, laddove questa, di fronte all’“oblio dell’essere”, sottolinea che bisogna fare attenzione allo smarrimento nei molti enti dell’essere mediatore (creato) dell’ente (creato) non identificabile, certo, con Dio. (Questo però non lo sappiamo, né possiamo dimostrarlo). D’altra parte, se il tanto vituperato da Heidegger (ma non solo da lui) oblio dell’essere (in Jaspers troviamo espressioni analoghe) non è pura fantasia, si può vedere in esso un preambolo filosofico di quello che nell’autocomprensione della fede cristiana è l’oblio di Maria. Che a sua volta costituisce un ostacolo alla nostra espressione della verità di Cristo che tutto abbraccia e tutto decide. È possibile che in tutto questo entri in gioco colui che tutto manda all’aria (dobbiamo forse citarlo col nome greco?) (66), ma che non possiamo vedere nella forma di un oggetto, così come non possiamo vedere nella forma di un oggetto quella mediazione creata di fronte alla quale e contro la quale egli si pone. Nella bibbia ci sono sufficienti espressioni - per quanto nella forma del frammento, dell’immagine, della parabola - che potrebbero aiutarci ad esprimere, certo ambiguamente, ma pur sempre restando nel mondo, ciò che è reale, vale a dire ciò che Gesù è in Maria.
Se tali connessioni fossero espresse in modo appropriato ne deriverebbe che noi non potremmo esprimere in modo adeguato la verità increata di Cristo senza prendere in considerazione al tempo stesso la verità creata di Maria e comunque falliremmo nell’impresa se tentassimo di farlo.
Mi perdoni se ho buttato giù un paio di frasi senza molti collegamenti o spiegazioni che avrebbero bisogno di uno spazio maggiore di quello che una lettera permette.
Confido che se anche non andiamo d’accordo nelle “es-pressioni” possiamo comunque andare d’accordo, io direi, nelle “im-pressioni” (67) (lei direbbe: nel compimento (68)).
Vi è ancora molto da lavorare anche “nella filosofia”, in quanto scienza dell’espressione, per rielaborare quelle espressioni nelle quali i credenti cristiani, che per secoli non si sono parlati, potrebbero nuovamente trovare modi di esprimersi comuni.
Da questo lavoro potrebbe emergere qualcosa di ciò che è stato dimenticato e risale ai tempi “oscuri” nei quali ancora si andava insieme al duomo di Basilea dedicato a Maria o ci si riuniva in concilio, ecc.
Di nuovo, caro professore, i miei più cordiali auguri di felicità, oltre i “muri” che sono stati innalzati e che prima o poi crolleranno o andranno in rovina, con o senza il nostro intervento. Suo P. Wilhelm Klein SJ”.
5. Un nuovo “padre della chiesa”?
A quanto risulta Karl Barth non ha accolto questo invito a ripensare teologicamente la fede cristiana a partire dal “mistero di Maria”.. Forse la provocazione era troppo forte? O forse non era stata adeguatamente preparata o elaborata? Difficile rispondere (69). Del resto come poteva una simile sfida essere raccolta da un teologo protestante, se non è stata raccolta nemmeno dagli stessi discepoli di Wilhelm Klein, molti dei quali hanno occupato ed occupano tuttora prestigiose cattedre di teologia, soprattutto in Germania? In effetti non sembra proprio che il pressante invito a ripensare la fede cristiana alla luce del “Mariengeheimnis”, il mistero di Maria, da lui lanciato, abbia trovato echi significativi nella teologia cattolica contemporanea (70). La cosa può trovare una spiegazione nel fatto che, oltre a non pubblicare nulla, Wilhelm Klein non è mai stato un teologo di professione, né ha mai inteso esserlo o diventarlo, pur essendo laureato in filosofia e in teologia (71). Ma si tratta di una spiegazione parziale. I suoi alunni, infatti, non potevano non essere al corrente delle sue idee: come mai non le hanno riprese e rielaborate nei loro scritti? La risposta, molto plausibilmente, va individuata nella resistenza della teologia cattolica contemporanea ad accogliere non tanto le sue intuizioni ed istanze mariologiche, quanto la sua forte critica cristologica allo spirito “nestoriano” o “neo-nestoriano” che secondo Klein porta molti teologi contemporanei a parlare della “singolarità” di Cristo in termini puramente individuali. La sua affermazione, secondo la quale Cristo è sì uomo, veramente uomo, ma non è un individuo umano, come siamo noi (e come peraltro lo rappresenta - e non potrebbe non rappresentarlo - la bibbia) non ha trovato finora una eco, né molti approfondimenti. Forse perché si intravede in questa sua critica radicale il rischio, peraltro reale e sempre in agguato, di un certo spiritualismo che edulcora o non prende in seria considerazione la storia, le sue contraddizioni, i suoi conflitti, il problema del male che affligge l’umanità. Niente di più contrario, invece, alle intenzioni di Wilhelm Klein, il quale, quando parla dello Spirito, non intende certo chiudere gli occhi sui mali della storia. E tanto meno pensa che tali mali si possano risolvere idealisticamente o storicisticamente negando la storia o la trascendenza di Dio. Lo Spirito di cui parla Klein è lo Spirito del Verbo incarnato, quello Spirito che dopo aver risuscitato Gesù Cristo risuscita anche noi, impedendoci di rinchiuderci dentro ai sepolcri vuoti dell’individualismo, delle belle parole, dei grandi ideali, in un parola delle ideologie, anche teologiche, che il “diabolos” intesse e astutamente diffonde per tentare di dividere la creazione dal suo creatore, Maria da Gesù, la chiesa da Cristo, l’umanità da Dio. Sotto questo profilo più che un filosofo o un teologo Wilhelm Klein è stato un solerte pastore, attento ai pericoli che minacciavano e minacciano i credenti e la stessa teologia. Ed è questa, secondo me, la vera chiave di lettura e di interpretazione della sua figura e dei suoi manoscritti.
In effetti, se si eccettuano alcuni testi nei quali Klein dimostra una straordinaria capacità di adattarsi al linguaggio, anche teologicamente elaborato, dei suoi interlocutori (72), il tono, il taglio, lo stile dei suoi manoscritti è chiaramente e intenzionalmente pastorale, o se si vuole, teologico-spirituale: mai noioso, tortuoso o difficile da comprendere; sempre lineare, semplice, spesso brillante, senza essere o diventare enfatico o retorico. Nella formulazione dei suoi pensieri egli non è mai banale, scontato, né si perde in lunghe disquisizioni o speculazioni, anche se non manca di precisione e rigorosità. Ha sempre di mira i suoi destinatari, che egli accompagna amorevolmente e con dovizia di riflessioni e di esortazioni ad abbeverarsi alla Parola di Dio. Più che un teologo, mi disse una volta un suo discepolo, egli mi è sempre parso come un nuovo “padre della chiesa” (73), un grande commentatore della bibbia, come lo furono Paolo e Giovanni, o appunto i padri della chiesa, che erano insieme esegeti, filosofi, teologi, omileti, catechisti, educatori, ma soprattutto padri capaci di generare alla fede quanti li ascoltavano.
Ecco perché non risultava mai difficile a Wilhelm Klein identificarsi con questa o quella figura di autore biblico o padre della chiesa. In riferimento all’apostolo Paolo, ad esempio, egli se lo raffigurava così: “L’apostolo non tiene delle lezioni (che non bagnano nemmeno i peli della pelle di chi ascolta). A lui importa, come anche a Gesù, che mettiamo dentro al sacco del nostro sapere, sia esso profano o religioso, sempre qualcosa di nuovo, di interessante. E nemmeno si limita a fare delle semplici esortazioni, ma fa parlare in noi la Parola di Dio” (74). E a scanso di equivoci precisa: “Io sono il vostro padre spirituale, non il vostro professore” (75). Negli alunni più che la conoscenza della teologia presupponeva la conoscenza del catechismo: “Detto fra noi, magari qualcuno pensa che io presupponga in voi la teologia o la ritenga un presupposto per comprendere la lettera ai Romani. Affatto. Gli schiavi di Roma, che non sapevano leggere né scrivere, comprendevano benissimo ciò che Paolo scriveva loro. Ciò che io presuppongo in voi è il catechismo, sì proprio il catechismo, quel catechismo dei bambini che purtroppo alcuni di voi forse neppure conoscono bene o si preoccupano di leggere” (76).
Il suo famoso metodo di fare esegesi “parola per parola”, era sempre attento ai suoi ascoltatori e alla loro capacità di comprendere, ma non per questo era filologicamente ingenuo o poco rigoroso. Il commento era sempre fatto sui testi originali, che egli traduceva immediatamente e con grande competenza e precisione, non mancando di tanto in tanto di introdurre nel commento, citandole nella lingua originale, parole o frasi che riteneva più importanti o utili alla comprensione del testo. A queste parole o frasi appendeva poi, come ad un chiodo, l’idea o il concetto che stava esponendo ed illustrando (77).
Nel commento al capitolo 6 del vangelo di Giovanni egli tocca e chiarisce quello che forse è il punto più delicato e controverso della sua esegesi. Erano note agli alunni, studenti della Gregoriana e dell’Istituto Biblico di Roma, le accuse che più o meno velatamente gli venivano rivolte. Una, forse la principale, riguardava la scarsa importanza che egli attribuiva alla storia. Al punto - si diceva - che le stesse figure di Gesù e Maria diventavano nei suoi commenti evanescenti, quasi effimere, senza fondamento storico, pure e vuote espressioni di quell’unica eterna verità esposta a continui ed inevitabili fraintendimenti. Ed ecco come si difendeva, nemmeno tanto velatamente, da questa accusa. Non si appellava tanto a fonti storiche, ma affrontava di petto quella che riteneva la questione radicale, logica e teologica insieme, dell’esegesi. Nel suo commento alla disputa dei giudei circa l’impossibilità di comprendere le parole di Gesù scrive: “Nella carne non abbiamo altra lingua nella quale parlare se non quella che parliamo comunemente e nella quale anche la bibbia parla: una lingua dura, non adatta a uomini molli come siamo noi, a meno che la grazia di Cristo non ci renda forti. Il fatto è che con la logica possiamo chiarire e spiegare solo il “logos” del mondo, che non ci rende né retti, né giusti, ma non possiamo chiarire il “logos” eterno, che nella sua espressione creata si può spiegare unicamente da se stesso in quello Spirito per opera del quale si è incarnato nella vergine Maria. Non è possibile altrimenti. La morte non genera la vita e le tenebre, per quanto noi le chiamiamo luce, non rischiarano e non illuminano. Così è, così stanno le cose. Ciò che nasce dalla carne è e rimane carne, ciò che nasce dallo Spirito è spirito. Questa è l’univocità assoluta, ma non nella sua espressione carnale. Ecco in che consiste quella impossibilità di cui parlavano i giudei disputando fra di loro. Non è possibile trasformare lo spirito, l’amore, in un sapere e men che meno in una disputa fredda e scortese. Non si può certo commutare la terza persona della divinità nella seconda. Impossibile negare in Dio creatore la mediazione infinita dello Spirito, così come è impossibile negare nella creazione la mediazione finita dello spirito creato dell’essere senza macchia” (78).
E continua in un tono più personale: “A volte di fronte a questa impossibilità sono tentato anch’io di tacere per sempre e di non dire più una parola. Ma il cristiano non può farlo, nemmeno se fosse un certosino, eccetto che nel momento della morte, quando risorgeremo in Gesù Cristo e saremo finalmente e definitivamente redenti da questo mondo delle ambivalenze. Per ora bisogna aver pazienza. Io e voi dobbiamo crescere nella pazienza. Contro l’intenzione stessa del tentatore la tentazione genera costanza, la costanza supera la prova, la “dokime”, e il superamento della prova, della “dokime”, esige speranza. E la speranza non inganna, non delude, perché l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori attraverso il “pneuma” santo che ci è stato dato. Che cosa risponde Gesù ai giudei che disputavano circa la loro “impossibilità” di capire? Rinnega forse quello che aveva detto? Smentisce una sola parola del “durus sermo” che viene fatto anche a Monaco o altrove? (79) Certamente no. Semmai ribadisce le sue parole e le rende ancora più dure, come aveva fatto dopo la purificazione del tempio, nonostante intuisse che i discepoli avrebbero compreso tutto solo dopo la sua morte e resurrezione. Allo stesso modo si comportò con la samaritana e in tante altre circostanze” (80).
La questione del linguaggio, anche del linguaggio biblico, è sempre stata, si può dire, il suo cruccio, la sua croce. Ma in fondo non era questo anche il cruccio, il problema cruciale degli autori biblici? Dell’autore del quarto vangelo dice: “Fin dalla prima frase del vangelo l’evangelista parla del parlare. Egli inizia il suo vangelo così: parleremo del parlare” (81). Ma non per ammaliare o incantare, i suoi ascoltatori. Guai se pensassimo che la ricerca della bella parola, dell’espressione forbita, della frase rotonda, dello stile brillante o accattivante, fosse la preoccupazione esclusiva o anche solo la principale di Wilhelm Klein. Egli era sì un maestro della parola, ma la parola che fu oggetto costante dei suoi pensieri e delle sue riflessioni non era certo la parola umana, bensì la Parola di Dio, il Verbo incarnato. Non a caso egli chiarisce subito, fin dalla prima riga del suo commento al vangelo di Giovanni: “L’evangelista, alla scuola linguistica di Gesù, ci insegna a percorrere la strada che porta alla comprensione del Verbo incarnato” (82).
Il suo timore che gli alunni, ammaliati dal linguaggio biblico, o anche dal suo stesso linguaggio, o dal linguaggio di altri illustri esegeti, smarrissero la strada che porta al Verbo incarnato lo induceva a metterli in guardia perfino dai mostri sacri dell’esegesi: “Ciò vale - precisava - anche per Bultmann, per le sue acrobazie impossibili, veramente impossibili, per le quali viene fin troppo ammirato anche da esegeti non protestanti come un mostro di erudizione. Se anche voi volete cibarvi di questi mangimi, state bene attenti ai trucchi del diavolo. Personalmente non ve lo raccomando, così come non ve l’ho mai raccomandato in passato. Se proprio volete un consiglio, per ogni volume dei padri della chiesa prendete da questi bultmanniani non più di un cucchiaino da te della loro esegesi. Il fatto è che la lingua del mondo è oggi più sviluppata che in passato. Mi raccomando, però, non avvenga il contrario, come purtroppo invece a me sembra stia avvenendo con effetti disastrosi sulla digestione di questo cibo” (83).
Verso la fine della sua vita i pensieri giravano costantemente attorno ad un altro tema fondamentale della vita cristiana, che peraltro si distingueva dai precedenti solo terminologicamente: il tema dell’agape, dell’amore operoso, unica prova e dimostrazione - diceva - della vera fede e della speranza autentica. Citava in proposito due testi biblici che nelle sue intenzioni avrebbero dovuto chiarire ulteriormente il suo pensiero. Il primo era un testo della prima lettera di Giovanni: “Nell’amore non c’è paura”(1Gv 4,18). A partire da questo testo spiegava che cosa era la paura e dove nasceva, ma soprattutto educava ed esortava chi lo ascoltava a non aver paura. Nemmeno della paura, soggiungeva, in puro stile hegeliano (84). Il secondo testo era un passo della prima lettera ai Corinti in cui si parla dei carismi, dello Spirito, dove fra l’altro si dice che “Dio opera tutto in tutti” (1Cor 12, 6). A partire da questo testo faceva intravedere a chi lo ascoltava il fondamento ultimo di tutto ciò che pensiamo, diciamo, facciamo (85). E quasi a giustificazione delle sue ardite riflessioni precisava che in fondo anche lui, come Paolo, stava parlando “attraverso parole che non sono parole” (2Cor 12,4). In tale contesto citava un altro testo a lui caro: “In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto:” (Atti 17,28) (86). Si soffermava in particolare sull’espressione “come alcuni dei vostri poeti hanno detto” e osservava: “Paolo in questo testo non si appella alla bibbia, ma ai poeti, e per di più pagani”. Che in questa semplice annotazione sia racchiuso il messaggio più profondo che Wilhelm Klein ha voluto lasciare ai suoi discepoli e a quanti lo hanno incontrato e conosciuto?
Conclusione
A questo punto, alla domanda iniziale se Wilhelm Klein sia stato o possa essere considerato il più significativo teologo cattolico del Novecento penso sia molto difficile, se non impossibile, rispondere. Personalmente ritengo che la domanda non sia poi neanche tanto rilevante. Wilhelm Klein stesso non avrebbe certo gradito e apprezzato discorsi del genere. D’altra parte non si può nemmeno ignorare l’opinione di un teologo della statura e della fama di Karl Rahner, che oltretutto lo ha conosciuto personalmente e si è spesso confrontato con lui. A me pare dunque che la cosa più saggia da fare in questo momento sia partire dall’apprezzamento di Karl Rahner e stimolati da un po’ di sana curiosità conoscere meglio la figura e il pensiero di un teologo certamente meritevole di essere conosciuto.
Finora sono pochi quelli che lo conoscono, anche perché nulla o ben poco è stato scritto su di lui. Agli studiosi (e finora anche al sottoscritto) mancava la materia prima per una ricerca documentata. Da qualche anno le cose sono cambiate. Sono stati ritrovati e pubblicati i suoi manoscritti, per quanto non ancora nella forma di un’edizione critica alla quale peraltro (a quanto se ne sa) si sta lavorando. In base al parere di due autorevoli teologi, Gisbert Greshake e Karl Lehmann, che furono suoi discepoli, si farebbe un torto a Wilhelm Klein se i suoi scritti venissero pubblicati così come stanno (87).
In attesa di tale pubblicazione vorrei concludere questo iniziale profilo nello stile semplice e piacevole di Wilhelm Klein riportando un aneddoto e un detto a lui caro. L’aneddoto era solito raccontarlo lui stesso a chi gli poneva qualche domanda - e capitava spesso - sul mistero della morte. E magari gli chiedeva anche, con la impertinenza che solo la confidenza poteva giustificare, se egli avesse mai avuto paura di fronte alla morte. “No - rispondeva serenamente - quella che noi chiamiamo morte è in realtà la fine del morire”. E raccontava che un medico, scherzando sulla sua ragguardevole età, una volta gli chiese: “Ma padre, quanto a lungo vuole vivere? Cento anni?”. Ed egli rispose: “Non cento anni, ma eternamente. Lei no, forse, dottore?” (88).
A a chi poi gli chiedeva - anche questo capitava spesso - perché mai non avesse scritto nessun libro, rispondeva con una battuta divenuta famosa fra i suoi discepoli: “Meine Bücher - das seid ihr!” - “I miei libri siete voi!” (89)
Così era e parlava padre Wilhelm Klein, filosofo, teologo, padre spirituale, credente cristiano e cattolico, come amava definirsi, un uomo che si sforzava di vivere e di praticare quel “tätige Liebe”, quell’amore operoso e concreto di cui parla la bibbia. Non mancando mai, peraltro, di osservare, non senza ironia, che anche le sue, in fondo, erano o potevano rimanere belle parole. L’amore, che la bibbia definisce con il termine “agape”, si può esprimere, e di fatto si esprime, in infiniti modi, osservava. A chi gli chiedeva un criterio per distinguere l’amore vero da quello falso rispondeva che l’amore è il criterio di se stesso. Una rivoluzione culturale? “No - rispondeva - molto di più”.
Anmerkungen:
- Ecco le parole testuali: “K. Rahner erwog in versch. Gesprächen, ob K. mit seinen theol. Anstössen nicht viell. der bedeutendste kath. Theologe dieses Jh. sei”: cf. Lexicon für Theologie und Kirche, alla voce “Klein, Wilhelm”, B. 6, s. 122. Per la verità l’opinione di K. Rahner circolava già da anni in Germania. Io stesso, negli anni 1967-68, ho avuto l’opportunità di sentire riportare tale opinione nella cerchia dei dottorandi che partecipavano al seminario di F. Böckle nella università di Bonn. Non solo, ma ho anche avuto l’opportunità di parlarne direttamente con l’interessato. A partire dal 1961 W. Klein viveva e abitava proprio a Bonn, dove in quegli anni studiavo e dove molti suoi discepoli tornavano ad incontrarlo e a parlare con lui. Una delle prime volte che lo incontrai, ricordo, gli riferii proprio il giudizio di K. Rahner, che avevo udito dalla viva voce del dott. W. Kalesse, allora dottorando a Bonn. “Sì, conosco il giudizio di K. Rahner - mi rispose con la consueta e un po’ ironica semplicità che lo contraddistingueva - alcuni studenti me lo hanno riferito. Mi chiedo però: dove fonda K. Rahner il suo giudizio se io non ho mai pubblicato nulla?”. La verità è che K. Rahner conosceva fin troppo bene il pensiero di W. Klein. Anzitutto era gesuita come lui, in secondo luogo lo frequentava personalmente. Lo stesso Klein mi confidò di conoscere bene la famiglia Rahner, in particolare i due fratelli Hugo e Karl, entrambi gesuiti e teologi molto noti: “Sono molto bravi e intelligenti - mi disse sorridendo - ma il più intelligente di tutti era un fratello dentista, che però è morto”. Che a sua volta K. Rahner conoscesse molto bene W. Klein e il suo pensiero e si confrontasse con lui è confermato da un saggio di H. Feld: Der bedeutendste katholische Theologe des 20 Jahrhunderts, pubblicato in appendice al volume Wilhelm Klein in Rom, Bonn und Münster (Vorträge, Aufzeichnungen), Hildesheim 2001, 488.
- I manoscritti salvati dalla “spazzatura” sono stati raccolti in quattro volumi per un totale di più di 2000 pagine e pubblicati, per ora, solo “pro-manuscripto”. Si tratta di scritti di varia natura: meditazioni, esortazioni, omelie, commenti biblici, discorsi vari, appunti, ecc., tutti risalenti agli anni 1958-1961, gli ultimi della sua permanenza al collegio germanico-ungarico di Roma. Accenneremo più avanti ai motivi che hanno indotto Klein a mettere per iscritto i suoi pensieri. Per ora citiamo i volumi nell’ordine in cui sono apparsi: Gottes Wort im Römerbrief (Vorträge im Kolleg 1958-1961), Tübingen 1998, pp. 528; Gottes Wort im Kirchenjahr (Vorträge im Kolleg 1957-1961), Tübingen 1999, pp. 603; Gottes Wort bei Johannes (Vorträge im Kolleg 1959-1960), Tübingen 2000, pp. 623; Wilhelm Klein in Rom, Bonn und Münster (Vorträge, Aufzeichnungen), Hildesheim 2001, pp. 513. I volumi si possono richiedere via internet consultando il sito http://home.t-online.de/home/niko.wy/klein.htm.
- Le fonti a cui ho attinto per questo contributo sono: la voce “Klein, Wilhelm” del Lexikon für Theologie und Kirche, a cura di G. Greshake; i manoscritti dell’autore; una registrazione della radio tedesca, 100 Jahre Frömmigkeit. Der 106 alte Jesuit P. W. Klein errinert sich, della serie Erlebten Geschichten; un saggio di H. Feld, Der bedeutenste katholische Theologe des 20. Jahrhunderts, pubblicato in calce al volume Wilhelm Klein in Rom, Bonn und Münster, cit., 476-490; una ricerca di Berrnard Casper, Pater Klein in Freiburg (1919-1921), pubblicata in calce al medesimo volume Wilhelm Klein in Rom, Bonn und Münster,cit., 454-457; due recensioni di B. Hallensleben, riportate rispettivamente nei volumi Gottes Wort im Kirchenjahr, cit., 595-601, e Gottes Wort bei Johannes, cit., 613-617. Oltre a queste fonti mi permetto di rimandare ad una serie di ricordi e appunti personali che riporterò prevalentemente in nota. Ho infatti conosciuto e frequentato a lungo W. Klein, a partire dagli anni ormai lontani 1967-68 in cui lo incontravo quotidianamente e lo accompagnavo nella consueta passeggiata pomeridiana lungo le rive del Reno o lungo i viali dell’Hofgarten proprio di fronte all’università di Bonn. È stata una frequentazione assidua durata praticamente fino a pochi mesi dalla morte avvenuta nel 1996. Quasi ogni anno trascorrevo le vacanze estive soggiornando a Bonn, dove, terminati gli studi, mi recavo per svolgere un po’ di attività pastorale, consultare la biblioteca, ma soprattutto incontrare W. Klein, il quale mi guidava personalmente nella pratica ignaziana degli esercizi spirituali. Fu durante questi soggiorni nella bella cittadina renana che ebbi modo di conoscere più profondamente il suo pensiero e di intessere con lui un’intensa relazione spirituale. Di lui mi affascinavano l’umiltà, la povertà, la fedeltà alla chiesa, unitamente alla sua sbalorditiva cultura in molti campi del sapere. Oltre a parlare correttamente le principali lingue moderne conosceva perfettamente le lingue antiche, soprattutto il greco. Citava e recitava a memoria scrittori e poeti tedeschi, ma anche italiani, soprattutto Dante. Faceva esegesi sempre sul testo originale, citando a memoria e in greco lunghi brani del Nuovo Testamento. Conosceva, come pochi altri, la filosofia e la teologia antica e moderna. Sapeva tutto di Hegel e su Hegel. Si diceva di lui che fosse uno dei pochi grandi conoscitori e interpreti di Hegel. Io stesso ho avuto modo di conoscere studiosi che venivano da Heidelberg e da altre università tedesche per confrontarsi con lui sul pensiero di Hegel, in particolare su quello che egli considerava il libro più difficile, ma anche più determinante della modernità, la Fenomenologia dello Spirito. Aveva amici dai nomi famosi, ma ne contava molti anche fra la gente umile, semplice, che spesso incontravo insieme a lui durante le passeggiate pomeridiane.
- H. Feld, Der bedeutendste katholische Theologe, 476.
- Insieme a lui l’unico ad ottenere il massimo dei voti (in Germania la nota 1) fu Peter Wust (1884-1940), insigne filosofo dell’università di Münster.
- Dopo di lui entreranno nella Compagnia di Gesù altri quattro suoi fratelli. Di questi ho avuto modo di conoscere bene il fratello Karl, che fu rettore del collegio germanico-ungarico di Roma e successivamente del seminario di Aquisgrana. Portato a termine il mandato ad Aachen, egli venne ad abitare a Bonn nella residenza Paulus-Haus dei gesuiti, dove lo incontrai più volte. Nel 1968 lo stesso padre Klein, che allora era superiore della casa, mi chiese se una volta rientrato in Italia potevo lasciare il mio posto di cappellano della casa di riposo di Königswinter, nei pressi di Bonn, a suo fratello Karl, che in tal modo avrebbe avuto l’opportunità di svolgere un po’ di ministero, ma al tempo stesso di rimanere vicino a lui, come desiderava. Fu così che attraverso Karl venni a conoscenza di molti episodi della vita di Wilhelm, soprattutto in riferimento al periodo romano e agli ultimi anni di pontificato di Pio XII. Karl mi confidò, fra l’altro, che suo fratello Wilhelm era molto amico di A. Bea, illustre professore all’Istituto biblico di Roma e confessore di Pio XII (più tardi diventerà cardinale e sarà uno dei protagonisti del concilio Vaticano II). Era intimo amico anche di padre Robert Leiber, segretario personale di Pio XII, tanto che alla morte del papa lo chiamò a collaborare nel collegio germanico-ungarico. Karl Klein non mi confidò mai, invece, il segreto più importante di cui era depositario e cioè che custodiva, a insaputa del fratello, molti suoi manoscritti.
- Ne parlerà nel commento alla lettera ai Romani: Gottes Wort im Römerbrief, 129. A me aveva più volte raccontato questo episodio drammatico che tanto influirà sulla sua vita. Ovviamente sopravvisse alle ferite riportate, anche se non fu mai possibile estrargli tutte le schegge che gli si erano conficcate nel cervello. “Così - diceva - ho un cuore ma anche un cervello che pulsa”. E mi mostrava la pelle liscia del cranio che effettivamente pulsava in quanto la placca d’argento che gli era stata inserita al posto del pezzo di cranio mancante gli fu poi tolta a causa dei disturbi che procurava. Doveva certo soffrire molto, ma non ne parlava mai. Dormiva molto poco. “In compenso - diceva - ho più tempo per pensare e soprattutto pregare”.
- In un primo momento si pensò che a salvarlo fosse stato Hartmann Grisar (1891-1942), famoso storico della chiesa e studioso di Lutero. Poi si scoprirà che si trattava di suo nipote.
- Su questa circostanza si è aperto recentemente un dibattito. Un biografo di Edith Stein, sulla base di ricerche d’archivio, ha messo in dubbio questo fatto di cui W. Klein era invece convinto: cf. in proposito la registrazione di un colloquio nel quale egli parla di questo episodio in occasione del 75° della sua ordinazione presbiterale: Gespräche 28.10. 1987 in Wilhelm Klein in Rom, Bonn und Münster, 404-406. Una cosa sembra comunque certa: W. Klein doveva conoscere molto bene E. Stein, se più tardi, come egli stesso mi ha più volte riferito, in occasione della caccia agli ebrei da parte dei nazisti, ebbe modo di interessarsi di lei, che nel frattempo si era convertita e fatta suora carmelitana, e di procurarle due visti per la Svizzera, onde sottrarla, insieme alla sorella, alla deportazione nel campo di concentramento di Auschwitz. Ma dalla Svizzera, non si sa perché, arrivò un visto solo ed Edith Stein, che non volle abbandonare la sorella, finì insieme a lei ad Auschwitz, dove venne uccisa. Su questa vicenda, oltre al resoconto del colloquio citato, cf. W. Lentzen-Deis in “Paulinus”, Trierer Bistumblatt, pubblicato in Wilhelm Klein in Rom, Bonn und Münster, 443, e soprattutto la cassetta della registrazione di un programma trasmesso dalla radio tedesca in cui W. Klein parla, in prima persona, di tutta questa vicenda. Per la disputa, invece, riguardante la non coincidenza di certe date cf. la nota aggiuntiva inviata in redazione da H. Feld il 23.1.2001 e pubblicata in Wilhelm Klein in Rom, Bonn und Münster, 405-406.
- La tesi presentata, Die erkenntnistheoretische Kontroverse zwischen Nikolaus d’Autrecourt und Bernard von Arezzo, non fu mai pubblicata e giace tuttora negli archivi dell’università di Friburgo. Ad una mia precisa domanda come fosse stato possibile conseguire il dottorato senza pubblicare la tesi W. Klein mi spiegò che in quell’anno, il 1921, a causa delle cattive condizioni economiche in cui versava la Germania, il governo tedesco concesse alle università la facoltà di rilasciare il diploma di dottorato senza l’obbligo della pubblicazione. Mi raccontava questo particolare con evidente soddisfazione. Vi vedeva infatti un segno della provvidenza, tanta era la sua riluttanza a scrivere, ma soprattutto a pubblicare ciò che aveva scritto. E pensare che, a sentire quanti lo conoscevano, aveva una tale facilità di parola e di scrittura da essere definito un vero e proprio maestro della lingua tedesca: cf. H. Feld, Wilhelm Klein in Rom, Bonn und Münster., 477. Suo fratello Karl, pure lui laureato, mi assicurò che avrebbe potuto scrivere una biblioteca di libri, tale e tanta era la sua cultura, la sua bravura.
- Questo particolare ha dell’inverosimile, ma è confermato da molti discepoli. Una volta gli chiesi anch’io se ciò fosse vero. Egli non solo confermò (non certo per vantarsi: niente di più alieno e contrario al suo modo di essere), ma arricchì la circostanza di ulteriori particolari. Era venuto a sapere che una dattilografa aveva bisogno di soldi per curare il figlio malato. La fece chiamare e in tre giorni le dettò la tesi, che poi consegnò all’università senza nemmeno averla letta e corretta. Che le cose siano andate così viene testimoniato anche da una ricerca d’archivio, Pater Wilhelm Klein in Freiburg (1919-1921), pubblicata da Bernard Casper e apparsa in appendice al volume Wilhelm Klein in Rom, Bonn, Münster, 454-457. In questa ricerca si racconta, fra l’altro, che in occasione del suo 99° compleanno i confratelli di Bonn pensarono di fargli un omaggio e gli offrirono una fotocopia della tesi. Meravigliato e anche un po’ contrariato padre Klein si limitò a dire: “Non l’ho letta allora, non la leggerò nemmeno ora”. E che non l’avesse letta - annota Casper - lo si può facilmente desumere dalla presenza di alcuni errori di scrittura tipici di chi ascolta o non comprende bene le parole di chi detta, come ad esempio lo scambio di nome fra “Nikolaus” e “Nikodemus” oppure lo scrivere “Fehlschuss” (colpo sbagliato) al posto di “Felhschluss” (conclusione sbagliata).
- B. Casper, nella ricerca citata, è andato a curiosare in archivio e cita fra gli altri i nomi di Max Horkheimer, Karl Löwith, Hans Jonas, Franz Josef Brecht, Oskar Becker, Hans Reiner, Fritz Kaufmann, Friedrich Stegmüller, e altri: cf. Wilhelm Klein in Rom, Bonn und Münster, 455.
- Questa, almeno, è l’opinione di H. Feld, Wilhelm Klein in Rom, Bonn und Münster, 478. Non tutti, peraltro, condividono questa opinione, almeno per quanto riguarda E. Stein: cf. la nota n. 9.
- In riferimento a questo incarico mi raccontò di essere diventato professore per caso. I superiori, visto com’era ridotto dopo la guerra a causa delle ferite, un giorno gli dissero: “Cosa possiamo fare di te, se non un professore?”. Raccontava questo lasciando intendere che se fosse stato per lui non sarebbe mai diventato professore. “Arme professoren!, poveri professori!”, ripeteva spesso. Io pensavo che scherzasse, invece lo diceva molto sul serio. “Sono costretti “spiegava - a parlare, a scrivere. E d’altra parte se non parlassero o scrivessero che professori sarebbero? Ti immagini un professore che non parla? E se non scrive come farebbe a vincere un concorso?”. E concludeva sorridendo: “In ogni caso meglio essere filosofi che teologi! I filosofi, almeno stando alla parola, sono ‘amanti’ della sapienza, i teologi invece devono ‘parlare’ di Dio”. E qui riprendeva le sue solite considerazioni: “Chissà mai cosa intendeva Hegel quando ‘parlava’ del ‘Geist’”!? Era più teologo, come lui stesso amava considerarsi, o filosofo? Forse intuiva - ma chi lo può dire? - che nel mondo del “logos”, del concetto, della parola, della cosa (sì, perché anche la “cosa” viene mediata dal “logos” e per questo diventa “rea-le”) non tutto è frutto del “logos”, non tutto è logico, razionale. E si chiedeva: “Vi è differenza fra filosofia e teologia?”. “Certo che vi è differenza - rispondeva - ma non è così grande come pensano i filosofi: anch’essi infatti ‘parlano’, così come i teologi ‘amano’. La vera differenza non passa tra il pensare e il parlare, e nemmeno, come a volte si sente dire, tra il dire e il fare, (anche le azioni sono ‘parole’!), ma tra il pensare, il dire, il fare, e il credere, tra il ‘logos’ e la ‘fides’ o meglio l’‘agape’ (la fede di cui parla la bibbia è sempre “fides quae per caritatem operatur”). I teologi, questo, dovrebbero capirlo meglio dei filosofi, in quanto in base al dogma cristiano (che è “regula fidei”, ma anche “regula verbi”, almeno per i cristiani) in Dio il Logos, il Verbo, non si identifica con lo Spirito, l’Amore. Il Verbo e lo Spirito santo sono due persone distinte.
- Da buon gesuita, W. Klein non rifiutò l’incarico. Conosceva benissimo la filosofia scolastica e neo-scolastica, ma anche quella moderna. E altrettanto si può dire della teologia. Era un logico rigoroso, anche se sapeva usare altrettanto bene l’arte del paradosso. Cosa che faceva sempre con spirito costruttivo, mai distruttivo. O meglio, come avrebbe detto lui stesso, con spirito sia distruttivo che costruttivo: “Si tratta infatti, quando si pensa o si parla, di avere o quanto meno percepire la falsa coscienza che abbiamo di noi stessi, del mondo, di Dio (la cosiddetta coscienza ‘diabolica’), come anche di acquisire progressivamente la coscienza vera (la cosiddetta coscienza ‘simbolica’) che solo la fede, peraltro, può generare in noi a partire dalla evidenza del nostro limite, della nostra natura mortale. Che cosa vi è di più evidente nella natura (non solo umana) del fatto che si nasce e si muore tutti, indistintamente? D’altra parte cosa implica tale evidenza? Il nulla, come qualcuno pensa? Certamente no. Implica tras-formazione, il mutare delle forme, il passare da una forma all’altra. Il nulla assoluto è una specie di illusione ottica necessaria e dipende dal fatto che si pensa per immagini (‘per fantasmata’, dicevano gli scolastici). Il rischio che si corre quando si pensa o si parla per immagini è di scambiare la realtà con le immagini. La bibbia parla di idoli, noi di ideologie, ma il concetto è sempre lo stesso. Alla base del pensiero vi è un processo di immaginazione in un certo senso inevitabile. Usando il linguaggio biblico si direbbe che il nulla, oltre che un’illusione ottica, è anche un’illusione logica, l’illusione del “diabolos”, il quale tenta, senza riuscirvi, di separare attraverso il “logos”, il pensiero, la parola, l’azione, la creazione dal creatore. Ma il creatore che vive nella creazione (di cui nel linguaggio biblico la figura è Maria) ci libera da questa illusione, non però dalla “tentazione” e nemmeno dal peccato (nel linguaggio biblico si parla del peccato come di un’illusione “diabolica” che induce Adamo ed Eva, figure dell’umanità, a pensare di essere come Dio). In un linguaggio più filosofico tutto questo può venire espresso attraverso le categorie dell’essere e del divenire, della materia, della grande ‘madre’ di ciò che esiste, e della forma, degli individui di volta in volta esistenti”. E a proposito di individui W. Klein osservava che gli scolastici, un tempo, definivano l’individuo “quod est indivisum in se et divisum a quocumque alio”. “Noi oggi - osservava - dovremmo rivedere questa definizione e dire che l’individuo è “quod est divisum in se et indivisum a quocumque alio”. L’idea di fondo è sempre la stessa: siamo soggetti e oggetti di un processo di immaginazione, di formazione del pensiero, di cui troviamo traccia anche nelle parole della liturgia cristiana: “transit figura huius mundi”, passa la figura di questo mondo, di ogni mondo, individuale, sociale, economico, politico, religioso. Ciò che rimane è la creazione nella quale vive il creatore, ma nella quale opera anche il “diabolos”, questa figura biblica misteriosa che tenta di separare, dividere la creazione dal creatore servendosi del “logos”, del pensiero, della parola, dell’azione che si assolutizza, e assolutizzandosi cancella nell’uomo la coscienza della differenza tra creatore e creatura, infinito e finito”.
- Parlava spesso di questi suoi viaggi in estremo Oriente. Aveva notato, fra l’altro, che i gesuiti inviati in Giappone ad insegnare nella “Hochschule” dell’ordine erano troppo vecchi per apprendere gli oltre 20 mila caratteri della scrittura giapponese che un intellettuale doveva conoscere e usare. Decise quindi di inviare in Giappone gesuiti molto più giovani e al tempo stesso favorire l’invio di giovani studenti giapponesi in Germania. Ancor oggi in Giappone lo ricordano come un grande innovatore dell’ordine. Oltre a ciò diede nuovo impulso alle missioni in Cina. Toccante, in proposito, è la vicenda di un giovane studente cinese, Dominik Tang, che lo aveva accompagnato come interprete nel suo primo viaggio. Divenuto vescovo di Macao fu arrestato per spionaggio e passò oltre 20 anni nelle prigioni di Mao all’interno di una cella non più grande di una “lavatrice”, come egli stesso racconterà a P. Klein dopo la sua liberazione: cf. Gespräche P. Klein und Albert Rauch, in W. Klein in Rom, Bonn, Münster, 414-415. Visitando la Cina W. Klein aveva avuto modo di osservare come i malati mentali venissero spesso rinchiusi in gabbie come animali. Non vi era chi si prendesse cura di loro. Essendo venuto a sapere che i Fatebenefratelli di Treviri avevano deciso di aprire una missione in Cina prese contatto con loro e collaborò intensamente al loro progetto missionario: cf. in proposito il suo racconto, quanto mai vivo, nella registrazione radiofonica mandata in onda nella serie Erlebten Geschichten, cit. Durante quei viaggi incontrò e conobbe numerosi e importanti personaggi della cultura e delle religioni orientali, fra i quali - ma non sono in grado di riferire le circostanze - il Dalai Lama, che diventerà suo amico fraterno, al punto che dopo la cacciata dal Tibet, nei suoi numerosi viaggi in Occidente e particolarmente in Europa, non mancherà mai di incontrarlo e, se le circostanze lo permettevano, lo andava anche a salutare personalmente.
- Nella serie radiofonica Erlebten Geschichten racconta qualche episodio di intolleranza nei confronti dei gesuiti, considerati insieme ad ebrei e framassioni i veri nemici del nazismo. Racconta pure che fin dalla ascesa di Hitler al potere nel 1933 egli aveva invitato - a quel tempo era provinciale dei gesuiti - un suo confratello di Monaco, P. Maier, che più tardi sarà vittima dei nazisti, ad adoperarsi e fare qualcosa, finché si era in tempo, per impedire la catastrofe che stava per abbattersi sulla Germania e sul mondo.
- La sua passione è sempre stata l’esegesi, il commento della bibbia. Da giovane era stato inviato dal suo vescovo a Roma per perfezionarsi negli studi biblici. Non a caso divenne presto amico di P. Fonk, fondatore e primo rettore del Pontificio Istituto Biblico di Roma. Racconterà più tardi che fu proprio P. Fonk a determinare in lui la scelta di farsi gesuita, con grande dispiacere, ovviamente, del suo vescovo diocesano che lo aveva destinato a diventare professore di esegesi del Nuovo Testamento a Treviri. Diventerà, a sua volta, modello e amico di una generazione di studenti che lo definirono un po’ scherzosamente il nostro “Sprit”, che in tedesco vuol dire ciò che dà spirito, slancio. Può essere interessante in proposito conoscere qualche nome di questi suoi discepoli. H. Feld, in riferimento agli anni 1956-61, ricorda fra gli altri in ordine alfabetico: G. Bachl, W. Beinert, H. Biesel, K. Braun (arcivescovo di Bamberg), H. Büsse, B. Casper, M. Eichinger, H. Feld, F. Furger (” 1997), G. Greshake, G. Hasenhüttel, H. Heinz, P. Hünermann, R. Kaczynski, K. Krenn (vescovo di St. Pölten), H. Küng, J. Kuhlman, O. Langer, K. Lehmann (cardinale, arcivescovo di Mainz), P. Lengsfeld, W. Lentzen-Deis, O. Loretz, R. Mosis, F. Nikolasch, W. Ott, S. Ott, H. Petri, H.J. Pottmeyer, A. Rausher, H.-K. Rechmann (1998), W. Schulz (1995), H. Swedt, W. Seibel, A. Sigfried, M. Seyboldt, J. Speigl, F.-J. Steinmetz, E. Suttner, A. Vagedes, H.-J. Vogt, H. Weber, F. Wetter (cardinale, arcivescovo di Monaco), N. Wyrwoll, E. Zenger. Non vengono citati gli alunni gesuiti, in quanto non vivevano nel collegio germanico che era riservato ai soli studenti provenienti dalle diocesi di lingua tedesca. Ciò che impressiona in questo elenco non è tanto la lunga schiera di alunni, nella quale non mancano, come si può notare, nomi noti anche oltre i confini della Germania, ma è l’ammirazione e quasi la devozione che questi alunni avevano nei confronti del loro “Sprit”: cf. in proposito lettere, appunti, ricordi, impressioni, pubblicate in calce ad alcuni volumi dei manoscritti.
- A. Rauch, curatore dei manoscritti, vede in questa storia una traccia del destino. Non a caso la sottotitola: “habent sua fata manuscripta” Come a dire: siamo forse di fronte a degli scritti destinati in qualche modo a giungere fino a noi? Nella ricostruzione di questa storia seguirò quasi integralmente il resoconto che ne fa lo stesso A. Rauch, Zur Geschichte der Manuskripte - habent sua fata manuscripta, in Gottes Wort im Römerbrief, 522-524. Il resoconto verrà ripreso e pubblicato, con qualche variazione, nella presentazione dei successivi volumi.
- L’ipotesi più accreditata è che a Roma circolassero voci poco benevole nei confronti di W. Klein. È probabile, quindi, che i superiori lo abbiano invitato a scrivere integralmente i suoi interventi in modo da potersi difendere più facilmente nella eventualità di un richiamo ufficiale, che peraltro, a quanto se ne sa, non è mai arrivato. H. Feld precisa che le voci riguardavano in particolare il suo metodo di interpretazione della bibbia, che secondo alcuni avrebbe portato in direzione o nelle vicinanze di un certo gnosticimo od origenismo. Vi era anche chi parlava di lui come di un “bultmanniano” cf. H. Feld, W. Klein in Rom, Bonn und Münster, 489. In riferimento a queste voci W. Klein stesso, in un colloquio registrato in occasione del suo 75mo di ordinazione presbiterale, riferisce di un suo confratello, padre Tromp, insigne ecclesiologo della Gregoriana, che si meravigliava del fatto che egli commentasse in collegio l’apocalisse di Giovanni: Cf. Gespräche, cit., 403. Per quanto concerne invece l’accusa rivolta a Klein di essere “bultmanniano”, vale la pena di andare a rileggersi le critiche puntuali, e a volte severe, che egli stesso rivolgeva a Bultmann, soprattutto in riferimento ad un punto che gli stava particolarmente a cuore, la differenza tra il creatore e la creatura, Dio e l’uomo, la parola Dio e la parola umana, anche quella della bibbia. “Bultmann non è sufficientemente chiaro su questo punto “, spiegava. “La bibbia, per quanto ispirata, è e rimane un libro, una creatura, e la salvezza degli uomini non può certo fondarsi sulla bibbia, come qualcuno pensa o lascia intendere. Abramo era un credente, anzi il padre di tutti i credenti, ma non conosceva la bibbia, che a quel tempo non era ancora stata scritta, Si può dire per questo che Abramo non fosse credente?”. Nonostante le sue riserve nei confronti di Bultmann esortava a leggere il suo commento al vangelo di Giovanni: “il più bel commento spirituale al quarto vangelo che sia stato scritto in questo secolo”, diceva. Per una analisi più puntuale e precisa delle critiche che W. Klein rivolgeva a Bultmann si legga ciò che egli scrive in Gottes Wort bei Johannes, 147-154.
- Questa partenza - osserverà più tardi H. Feldt nel saggio citato - non solo interruppe il suo commento alla lettera ai Romani (fermo al cap. 11, 9-12), ma fu “una vera e propria sciocchezza dell’ordine, che in tal modo sottrasse ad un’intera generazione di teologi la sua sapienza e la sua esperienza”: Willhelm Klein in Rom, Bonn und Münster, 486.
- Una volta chiesi a bruciapelo a Karl Klein: “Ma è mai possibile che padre Wilhelm non abbia scritto niente? Lei non ha proprio nessun appunto?” Karl non mi rispose, né mi rivelò il segreto dei manoscritti che custodiva. Forse temeva che glieli richiedessi, o molto più probabilmente che suo fratello venisse a saperlo. Si scoprirà più tardi che egli, all’insaputa di tutti, oltre che di suo fratello, aveva nascosto i manoscritti, alquanto imprudentemente, nella cella della caldaia della casa.
- Hans Karl Rechmann fu alunno del Germanico dal 1951 al 1953. Per motivi di salute dovette interrompere gli studi e non fu ordinato prete. Ultimati gli studi di teologia all’università di Bonn, diventò insegnante di religione. Non abbandonò però mai lo studio della teologia, ma continuò a lavorare con passione ad una ricerca su un tema a lui caro, che lo stesso padre Klein molto probabilmente gli aveva consigliato: L’amore forma della fede in San Tommaso e nel concilio di Trento. Morì, purtroppo, prima di pubblicare il suo lavoro. Due suoi cari amici, il prof. A. Winter, docente di teologia fondamentale a Fulda, e il dr. G. Gruber, vicario generale della diocesi di Monaco, ne stanno attualmente curando la pubblicazione, dopo aver ottenuto l’approvazione dal prof. H. Döring, dell’università di Monaco, il quale decise di inserirla nella collana, da lui diretta insieme ad A. Greiner, Beiträge zur Fundamentaltheologie und Religionsphilosophie. Cf. in proposito in Wilhelm Klein in Rom, Bonn und Münster, 512-513, la lettera che il dott. G. Gruber ha inviato agli ex-alunni del collegio germanico degli anni 1945-52 per ricordare l’amico defunto che aveva avuto la ventura di salvare i manoscritti di W. Klein.
- Finora i manoscritti non sono stati pubblicati ufficialmente e circolano solo in forma privata nella edizione curata da A. Rauch. Sui criteri adottati per questa edizione si vedano i vari resoconti, gli Arbeitsbericht, che il curatore ha inserito nella presentazione dei singoli volumi: Gottes Wort im Römerbrief, 525-26; Gottes Wort im Kichenjahr, 593-94; Gottes Wort bei Johannes, 611-12. A questo primo difficile lavoro di revisione dei manoscritti hanno contribuito con osservazioni e proposte varie molti ex-alunni, fra cui G. Greshake e K. Lehmann: cf. in proposito una lettera di G. Greshake, Brief an Albert Rauch vom 22. November 1997, in Gottes Wort im Römerbrief, 527-28. In questa lettera Greshake propone, fra le altre cose, di formare una commissione in vista di una edizione critica e di una pubblicazione ufficiale. Di questa commissione dovrebbero far parte Rauch, Lentzen-Deis, oltre allo stesso Greshake, da una parte, Wetter, Lehmann, Gruber e Ulrich dall’altra.
- Esse sono state riportate in calce ai volumi. Se a qualcuno interessasse, in Gottes Wort im Kirchenjahr (1999) può trovare le reazioni al volume Gottes Wort im Römerbrief (1998), un originale e stimolante commento teologico-spirituale alla lettera ai Romani. Hanno manifestato la loro opinione su questo commento H. Meier, parroco, M. H.-J. Weisbender, ex-alunno, B. Hallensleben, teologa (di cui viene riportata anche una lunga recensione apparsa su Theologie und Glaube 88, 1998, 412-416), Benz (manca il nome), ex-alunno, D. Tjaden, casalinga, F.-J. Steinmetz, ex-alunno, K. Stock, parroco, J. Voss, vescovo, R. Pünder, vescovo, J. Graf, ex-alunno. Dopo la pubblicazione del terzo volume, Gottes Wort bei Johannes (2000), un commento teologico-spirituale al vangelo di Giovanni, cap.1-12, sono invece intervenuti: S. Bongenberg (di cui viene riportata una reazione alla recensione di B. Hallensleben), O. Wüst, ex-alunno, vescovo, H.-G. Koitz, vescovo, F. König, ex-alunno, cardinale, K. Neuber, ex-alunno, H. Folkers, parroco luterano, A. Rebic, ex-alunno, W. Bunz, ex-alunno, K. Lehmann, ex-alunno, cardinale, H.-P. Heinz, ex-alunno, J. Keppeler, ex-alunno, A. Lesch, ex-alunno. E infine dopo la pubblicazione del quarto volume, W. Klein in Rom, Bonn und Münster (2001), hanno inviato annotazioni e appunti vari un direttore scolastico (di cui non viene riportato il nome), A. Lesch, la contessa Metternich, F.-J. Steinmetz, H. Feld. Questo volume è alquanto composito e contiene la continuazione del commento teologico-spirituale al quarto vangelo, cap.13-21, un commento alle tre lettere di Giovanni, alcune lettere di W. Klein ad alcuni suoi ex-alunni, A. Rauch, L. Kada, T. Schipflieger, M. Karger, K. Wyrwoll, A. Lesch, H.-K. Rechmann. Sempre nel medesimo volume vengono pubblicate anche lettere di ex-alunni a W. Klein: ricordiamo quelle di J. Kuhlmann, H. Küng, T. Beirle, G. Gruber, F.-J. Steinmetz, B. Casper, H. Biesel, H. Weber, W. Lentzen-Deis, A. Gajary, W. Sanders, J. Singer, L. Kada, W. Hagemann, G. Greshake. Altri scritti raccolti in questo volume sono l’omelia del vescovo A. Slembach in occasione del 75mo anniversario dell’ordinazione presbiterale di W. Klein, la trascrizione di un colloquio di W. Klein con A. Rauch, un indirizzo di saluto di F. Schilling, rettore della casa Sentmaringen, in occasione dell’80mo anniversario dell’ordinazione presbiterale, l’omelia del vescovo L. Kada, nunzio apostolico e suo ex-alunno, la trascrizione di un secondo colloquio di W. Klein con A. Rauch, l’omelia di F.-J. Steinmetz in occasione del suo funerale nella cattedrale di Münster, due commemorazioni di W. Klein, una a firma di W. Lentzen-Deis per il giornale diocesano di Treviri, e l’altra, anonima, in “Canisius”, bollettino della provincia dei gesuiti della Germania. Sempre in calce al volume si possono trovare alcuni frammenti sparsi dei manoscritti di W. Klein, oltre ad alcuni appunti di W. Freter.
- Mi è stato riferito da alcuni discepoli, diventati nel frattempo teologi famosi (cf. nota 18), che fin dai tempi del collegio questa sembrava a loro effettivamente una specie di fissazione di W. Klein e costituiva il punto su cui si concentravano più frequentemente le discussioni e le critiche al suo pensiero.
- W. Klein scrive testualmente: “Die ganze Hl. Schrift spricht vom Mariengeheimnis, weil sie von Christus spricht, von der Genesis bis zur Apokalypse. In keuscher Zurückhaltung liest die Kirche dieses Geheimnis, von den apostolischen Vätern...bis in unsere Tage” (Tutta la Sacra Scrittura, dalla Genesi all’Apocalisse, parla del mistero di Maria, poiché parla di Cristo. La chiesa legge questo mistero con casta discrezione a partire dai padri apostolici...fino ai nostri giorni): Gottes Wort im Römerbrief, 504.
- Parlando del “seme di David” Paolo sfiora fin dai primi versetti, ma in silenzio e quasi con venerazione, il mistero della “donna”, della “gyné”, di cui parla nella lettera ai Galati 4,4: Gottes Wort im Römerbrief, 504.
- Impossibile riportare tutte le considerazioni sviluppate in Gottes Wort im Römerbrief, 504-512. Ciò su cui vale la pena di richiamare l’attenzione è il fatto che queste considerazioni interrompono improvvisamente il commento alla lettera. Che pensare di questa interruzione? Vi è chi congettura una partenza da Roma. Ma il testo porta la data del 10.2.1958, sappiamo invece che W. Klein è partito da Roma nel 1961. E allora come mai il commento si ferma al cap. 11? Per rispondere a questa domanda è bene tener presente due cose: primo, che i commenti biblico-spirituali di Klein non seguono mai un ordine preciso, dovendosi conformare al ritmo della vita di collegio, oltre che al calendario degli anni accademici. È possibile, quindi, che il capitolo “Maria nella lettera ai Romani” sia stato scritto per qualche festa mariana o per un’altra circostanza che non conosciamo. In secondo luogo non si deve dimenticare, come peraltro ho avuto modo di sperimentare io stesso nella pratica degli esercizi spirituali, che W. Klein non è mai preoccupato di concludere un determinato commento, consapevole e convinto com’era - e lo diceva espressamente - che in forme e modalità diverse gli autori biblici non fanno che ripetere e illustrare sempre la stessa fondamentale verità. Che a sua volta egli formulava e riformulava parlando del “creatore che vive nella creazione” o della “creazione che vive nel creatore”; o, in termini cristologici, del “Dio che vive nell’umanità” o dell’“umanità che vive in Dio”; o ancora, in termini ecclesiologici, di “Cristo che vive nella chiesa” o della “chiesa che vive in Cristo”. In tutte queste formulazioni si intravede sempre la figura di Maria raffigurata rispettivamente nella creazione (Maria è la creatura pura, senza macchia), nell’umanità (in Maria Dio assume la nostra umanità), nella chiesa (Maria è madre di Cristo, ma anche della chiesa).
- Gottes Wort im Römerbrief, 388.
- Ivi, 389.
- Che Klein abbia subíto un certo influsso di Hegel e ne ammirasse l’interpretazione profonda della religione è fuori dubbio. Che a sua volta fosse egli stesso un grande interprete di Hegel gli venne riconosciuto da quanti ebbero modo di confrontarsi direttamente con lui sulla filosofia di Hegel. Tra i filosofi vi era chi sosteneva che fosse uno dei pochi ad aver letto e compreso veramente Hegel. Fra i teologi invece chi si è più a lungo confrontato con lui sull’interpretazione hegeliana della religione e del cristianesimo è stato certamente H. Küng, uno dei suoi discepoli più devoti e riconoscenti, tanto che in occasione del suo centesimo compleanno gli dedica un libro, Conservare la speranza, Rizzoli, Milano 1990. In questo libro si legge: “A Wilhelm Klein S.J., mio padre spirituale al Collegium Germanicum di Roma (1948-1955), che mi ha insegnato a conservare la speranza, con immutata cordiale gratitudine nel suo centesimo compleanno”. Non è un caso che proprio su Hegel, forse stimolato dallo stesso Klein, H. Küng abbia scritto uno dei suoi libri più coraggiosi, ma anche problematici, Incarnazione di Dio. Introduzione al pensiero teologico di Hegel, prolegomeni per una futura cristologia (1970), Queriniana, Brescia 1972. In proposito ricordo il giudizio benevolo, ma al tempo stesso netto, di Klein su questo libro: “Hans non è sufficientemente radicale”. Poi però soggiungese: “Ma nemmeno Hegel lo è. Certo Hegel ha visto le cose più in profondità di tutti gli altri filosofi. Sarebbe interessante sapere cosa egli intendesse quando parlava o scriveva del ‘Geist’. Già, il ‘Geist’, lo Spirito. Come si fa a parlare o scrivere lo ‘Spirito’? Si può parlare o scrivere la ‘parola’ Spirito, ma questa è un’altra cosa. Come cristiani dovremmo saperlo. Diciamo infatti che lo Spirito non è il Verbo, il Figlio, ma è lui stesso, al pari del Padre e del Figlio, una persona della Trinità, cui attribuiamo l’operazione dello ‘spirare’ (e qui Klein emetteva un piccolo soffio come per dire: altra cosa è ‘spirare’, altra ‘parlare’ “ E commentava: “quando si respira non si parla; quando si parla non si respira...”).
- Gottes Wort im Römerbrief, 73-74; 283. Il punto di maggior dissenso tra Hegel e Klein riguardava una verità che non interessava molto ad Hegel, mentre costituiva un punto fermo nel pensiero di Klein: la differenza fra Spirito santo e spirito della storia, creatore e creatura, o, se si vuole, tra spirito creatore e spirito creato. Su questo punto il pensiero di Klein è agli antipodi del pensiero hegeliano. La sua interpretazione dell’‘arché’ e del ‘telos’, del principio e del fine, è quanto di più originale e stimolante vi sia nella sua interpretazione della storia, a partire dal primo versetto del prologo di Giovanni: cf. Gottes Wort bei Johannes, 17-33. Il suo pensiero al riguardo è preciso, ortodosso: né separazione, né confusione. Egli parlava del “creatore nella creatura”, di “Dio nell’uomo”, di “Cristo nella chiesa”, ecc. Spesso, magari, rovesciava questo suo modo di dire e parlava della “creatura nel creatore”, dell’“uomo in Dio”, della “chiesa in Cristo”, sempre però senza confusioni, né separazioni, e in ogni caso sempre appellandosi al modo di esprimersi degli autori biblici, dei padri, dei grandi concili della chiesa.
- Considerava fondamentali gli ultimi tre libri delle Confessioni di Agostino, “il più bel trattato di ermeneutica biblica che io conosca”, diceva. Nei suoi commenti biblico-spirituali citava spesso e a memoria brani interi di questi libri. I suoi alunni ricordano ancora la “indimenticabile” esegesi, parola per parola, di questi tre libri nel parco del Buon Pastore, residenza estiva del collegio germanico nei pressi di Roma: cf. HELD, Wilhelm Klein in Rom, Bonn und Münster, 481. Di questa sua esegesi delle Confessioni è rimasto ben poco, solo frammenti, citazioni sparse, rimandi. Oltre ad Agostino, altra fonte importante del suo pensiero sul “mistero di Maria” sono sempre stati gli scritti di san Luigi Maria Grignon de Monfort, un santo, diceva, “che io cito spesso esplicitamente o implicitamente”: cf. Gottes Wort im Römerbrief, 354.
- È stata, come tutti sanno, l’enciclica Divino afflante Spiritu di Pio XII [AAS 35(1943), 297-326] a sdoganare, per così dire, il metodo storico-critico e a metterlo in circolazione e a disposizione degli esegeti cattolici, che proprio in quegli anni se ne avvalsero con grande, forse eccessivo, entusiasmo. W. Klein, da parte sua, ne intravedeva già i limiti.
- Questa lunga citazione ci permette di comprendere, oltre al contenuto, il metodo di analisi e di commento della bibbia di W. Klein: cf. Gottes Wort im Römerbrief, 12-13. È il metodo che usa Agostino nei suoi commenti alla Scrittura. Nelle Confessioni, in particolare, Agostino parla della sua intenzione di indagare tutta la Scrittura. In realtà non andrà oltre al commento del primo versetto della Genesi. Per la traduzione della pagina delle “Confessioni” (XII, 32) citata nel testo tedesco, seguo la traduzione italiana a cura di Onorato Tescari, Sei, Torino 1958. Oltre a questa pagina, W. Klein rimanda anche al capitolo 30 dello stesso libro XII delle “Confessioni”.
- In questi capitoli Agostino prosegue il suo commento alla Genesi. È sempre fermo, però, al primo versetto della bibbia, Gen 1,1: “In principio Dio creò il cielo e la terra”. In riferimento a questo versetto egli si chiede che cosa voglia dire l’autore del salmo 113 quando parla del “cielo del cielo”. E risponde: “Gli è che il cielo del cielo, da Te creato in principio, è una qualche creatura intellettuale, che, sebbene non coeterna a te, trinità, partecipa tuttavia della tua eternità e, per la dolcezza della beatissima contemplazione tua, arresta validamente la propria mutabilità, talché, senza punto trapassare, stringendosi a te, rimane fuori, da che è stata fatta, da ogni vicenda volubile dei tempi” (Confessioni, XII, 9).
- Gottes Wort im Kirchenjahr, 73. Cf. in proposito la bella recensione di B. Hallensleben, pubblicata nel volume Gottes Wort bei Johannes, 613-617.
- Su questo punto W. Klein insisteva molto. Era infatti convinto che la teologia cristiana fosse ancora ferma ad una visione nestoriana o neo-nestoriana di Cristo e di Maria. “Li pensiamo - diceva - come individui umani. Anche la bibbia ce li presenta così: non a caso Nestorio si appella continuamente alla bibbia. Ma intendevano questo gli autori biblici? Certamente essi parlavano in modo storico, come del resto non possiamo non fare anche noi quando pensiamo e parliamo di loro. Guai però a confondere o, peggio, assolutizzare il nostro modo di parlare della realtà. Pensando o parlando creiamo immagini, ‘individuiamo’ ciò di cui parliamo. Questo non è male. Il rischio è di pensare o parlare di Cristo come se egli fosse un individuo umano come siamo noi. Forse un giorno ci capiterà quello che san Girolamo racconta dei cristiani del IV secolo: ad un certo punto si svegliarono e scoprirono di pensare tutti più o meno come pensava Ario [‘Ohne sie (Maria) werden wir Arianer, heute wie damals’: senza di lei (Maria) diventeremo tutti ariani, oggi come allora: cf. Gottes Wort im Kirchenjahr, 73]. Allo stesso modo anche noi scopriremo di pensare tutti più o meno come Nestorio. Ma Cristo non è individuo umano. È Dio in Maria, Dio nell’umanità, il creatore nella creatura: cf. Gottes Wort im Römerbrief, 280, 290. Di Gesù Cristo si può e si deve dire che è uomo, non si può e non si deve dire che è creatura”. E qui W. Klein citava un articolo, per lui fondamentale, di san Tommaso, nel quale il grande Aquinate si chiede: “Utrum haec sit vera: Christus, secundum quod homo, est creatura” (È vero che Cristo, in quanto uomo, è creatura?). E rispondeva con grande chiarezza: no, egli non è una creatura: cf. Summa Theologiae, IIIa, q. XVI, a. 10.
- Gottes Wort im Kirchenjahr, 197.
- Gottes Wort im Kirchenjahr, 443-444. Vale la pena di introdurre qui due precisazioni che aiutino a comprendere meglio il pensiero di W. Klein. La prima riguarda la distinzione tra credenti e non credenti. In riferimento a questa distinzione è opportuno ricordare che nel linguaggio di W. Klein ‘credente’ non si identifica con ‘cristiano’. ‘Credente’, secondo Klein, è colui che ama, e cioè fa il bene, rispetta gli altri. ‘Non credente’ è colui che non ama, non fa il bene, non rispetta gli altri. Sotto questo profilo la fede, secondo lui, era primariamente intenzionalità di amore, di bene, di rispetto. Alla luce di questa distinzione egli chiariva due problemi. Il primo riguarda la definizione di cristiano. Alla domanda: “chi è il cristiano?” W. Klein rispondeva anzitutto in forma descrittiva e diceva: “Il cristiano è un uomo che parla o si esprime attraverso il linguaggio della bibbia”. “In quanto tale - spiegava - può essere credente, ma anche non credente. La fede non dipende dal linguaggio che si parla od usa. La stessa cosa vale ovviamente anche per il non cristiano. Il non cristiano è un uomo che non parla un linguaggio biblico. Ma anche per lui la fede non dipende dal linguaggio che parla: in quanto tale quindi egli può essere non credente, ma anche credente”. In termini più valutativi rimandava a quella che con linguaggio biblico noi cristiani definiamo fede, “fides quae per charitatem operatur”, fede che opera nella carità. Il secondo problema che la distinzione tra credenti e non credenti permetteva di chiarire riguarda la salvezza. Alla domanda: “chi si salva?” W. Klein rispondeva con disarmante semplicità, sempre citando la bibbia: “Non chi dice Signore, Signore, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21). Ancora una volta il criterio della salvezza non è, né può essere - osservava - una professione o una pratica formale, esteriore, della fede, bensì l’adesione interiore alla volontà di Dio. Con questo non intendeva negare rilevanza alla forma storica in cui si esprime la fede: umanamente parlando è il solo criterio che possiamo controllare e verificare, ma non è il criterio ultimo. Guai a separare la professione o la pratica della fede (nel senso dell’andare in chiesa) dall’adesione alla volontà di Dio. Ciò vale anche per le professioni e pratiche di fede che troviamo nella bibbia. La bibbia è senz’altro uno dei libri più belli ed affascinanti che siano mai stati scritti, ma rimane pur sempre un libro, e quindi un’opera umana. Come può un’opera umana essere posta a fondamento della salvezza? Solo il creatore, che vive nelle creature, e pertanto anche negli uomini, può salvarci, non certo la bibbia, come qualcuno sembra pensare. La seconda precisazione che può aiutare a comprendere il pensiero di W. Klein, soprattutto in riferimento al “mistero di Maria”, riguarda il concetto di creazione elaborato dalla bibbia stessa, in particolare dagli autori dei libri sapienziali. A proposito dell’interpretazione di questi libri biblici W. Klein osservava con un certo rammarico, e a volte anche con una punta polemica, che la sapienza di cui si parla in quei libri è la sapienza creata, non quella increata. E citava il piccolo ufficio della madonna in uso nei seminari e nei conventi prima del concilio Vaticano II, nel quale molti testi che parlavano della sapienza venivano chiaramente riferiti a Maria, non a Cristo. “E giustamente - osservava - in quanto si tratta di testi nei quali si parla esplicitamente della sapienza creata e in base alla rivelazione cristiana Cristo non è sapienza creata, bensì increata. È il creatore che nel seno della creazione, cioè in Maria, si fa carne e diventa uomo. È vero che alcuni autori, si pensi al Siracide, identificano la sapienza con la ‘torah’, ma anche la ‘torah’ è parte della creazione e non si identifica certo con il creatore. Con ciò non si vuole certo negare che si possa parlare della sapienza creata anche in riferimento a Cristo: in quanto uomo, infatti, figlio di Maria, anch’egli veniva educato in base alla sapienza, alla saggezza comune che veniva trasmessa ai suoi tempi.
- Gottes Wort im Kirchenjahr, 57. Spesso al termine di una meditazione, di una predica, di una conversazione, la sua conclusione era questa: “Jetzt könnte ich diese Exorte noch einmal von vorne vorlesen und alle Punkte und Exhorte wiederholen” (“Ora potrei riprendere da capo il discorso e ripetere tutti i punti e le esortazioni fatte”). Era un maestro della parola e sapeva modulare come pochi altri il suo pensiero, la sua visione dell’uomo e del mondo, attingendo a fonti bibliche, ma anche a fonti storiche e letterarie, o citando fatti ed eventi della cronaca, della vita della chiesa e della società civile del tempo. Il suo tono poteva essere serio, profondo, ma anche leggero, ironico, ricco di “humor”. Nei manoscritti vi sono in proposito molti esempi di questa sua capacità e abilità retorica.
- In riferimento al ‘Wesen’ usava spesso l’aggettivo sostantivato ‘Das Wesentliche’, l’‘essenziale‘, che abbinava di solito ad un altro aggettivo sostantivato a lui caro, ‘das Un-ausprechliche’, l’‘in-esprimibile’, per richiamare il limite delle sue parole in riferimento a ciò che intendeva dire. Fondava biblicamente questa sua convinzione citando spesso l’esperienza di Paolo, il quale, rapito in paradiso, affermò di avere udito ‘arreta remata’, ‘parole che non sono parole’ (2Cor 12,4).
- Gottes Wort im Kirchenjahr, 163.
- Gottes Wort im Römerbrief, 290.
- Ivi, 342.
- Ivi, 242. Secondo B. Hallensleben (cf. recensione pubblicata in Gottes Wort im Kirchenjahr, 599) tocchiamo qui il punto di svolta o, se vogliamo, di frizione con la teologia contemporanea. Secondo Klein il ‘Logos’, il Verbo, la Parola di Dio, ha accesso all’umanità solo attraverso Maria. È in lei, creatura pura, senza macchia, che il Verbo ha assunto quella natura umana (das ‘Wesen’) che egli stesso, in quanto creatore, si crea. Pertanto non è Maria ad essere creata ad immagine del Verbo incarnato, ma al contrario è il Verbo che in quanto incarnato, uomo, è immagine di Maria. Le conseguenze di questa visione cristologica e mariologica, per quanto sottili e nascoste, non sono da sottovalutare. Ad esempio nel suo commento alla lettera ai Romani W. Klein non parla mai o quasi degli eventi storici della vita, morte e resurrezione di Cristo. Come mai? Il motivo è semplice: nella sua interpretazione l’‘uomo nuovo’, il ‘secondo uomo’, quello che ‘viene dal cielo’ (1Cor 15,47) non è Cristo, bensì Maria: cf. Gottes Wort im Römerbrief, 132.
- Gottes Wort im Kirchenjahr, 449. Klein non disprezza la parola, tanto meno la considera un male. Egli intende più semplicemente dire che se la parola non è ispirata dallo spirito conduce alla morte. Sullo sfondo di questa interpretazione si intravede la sua visione teologica della Parola, il Verbo di Dio, concepito in Maria per opera dello Spirito santo, per cui Maria, accogliendo nel suo grembo lo Spirito creatore, incarna e dà forma umana alla Parola di Dio. Solo così si possono comprendere le espressioni bibliche che parlano di Maria come sposa dello Spirito, madre del Verbo, figlia del Padre, tutte espressioni di cui gli autori biblici si servono per parlare del ‘mistero di Dio’ in riferimento al ‘mistero di Maria’ e viceversa.
- La parola tedesca “Vieldeutigkeit” è molto più espressiva e si dovrebbe tradurre letteralmente “multivalenza”, “plurivalenza”, nel senso che le parole hanno tutte, per lo meno, due significati e quindi sono ambivalenti; solitamente però ne hanno molti di più e sono “plurivalenti”. “Conosco una sola parola - diceva scherzando - che ha un significato solo ed è ‘Nichts’, niente”. Un modo per dire che tutto è ambivalente, multivalente, plurivalente. Di qui il suo atteggiamento critico, pronto a vedere sotto la crosta di ogni discorso tracce di “ipo-crisia”, “mancanza di giudizio”, che deriva dalla difficoltà di discernere tra parole e cose.
- Gottes Wort im Kirchenjahr, 33. Scherzava spesso sulla parola Paolo, in latino “Paulus”, “parvulus”, in italiano “piccolo”, in tedesco “klein”.
- Gottes Wort im Römerbrief, 391.
- A volte, giocando con le parole, creava anche il neologismo: “post-ambula fidei”, “post-amboli della fede”. Tutto, secondo lui, era preparazione o conseguenza della fede, in quanto la fede non è primariamente dottrina, ma cammino, e credere significa “ambulare”, camminare.
- Gottes Wort im Kirchenjahr, 232.
- Ivi, 483.
- Ivi, 143. Secondo la tradizione invece la sequela di Gesù comporta l’abbandono del matrimonio, della famiglia, della proprietà; il che implica che la sequela è sì un comandamento , ma non una possibilità per tutti, per cui si realizza in forma compiuta solo nella vita religiosa. Klein interverrà più volte su questo punto, soprattutto in occasione degli esercizi che precedevano, negli anni’ 50, l’ordinazione suddiaconale, poi abolita dalla riforma liturgica: cf. Gottes Wort im Kirchenjahr, 209-216; 286-288; 304-325; 361-365; Römerbrief, 230-241. Per una critica a questi commenti nei quali molti alunni vedevano una specie di ideologizzazione della verginità e del celibato cf. H. Feld, Der bedeutenste katholische Theologe, cit., 484ss.
- Egli parlava, in tale contesto, della “cosiddetta” riforma della chiesa: cf. Gottes Wort im Kirchenjahr, 546.
- Si intende la rivalutazione, ad opera dell’Illuminismo, del metodo storico-critico, applicato anche alla bibbia, dapprima in ambito protestante, successivamente in ambito cattolico, soprattutto a partire dall’enciclica di Pio XII “Divino afflante spiritu” (1943).
- Gottes Wort im Römerbrief, 337. In questa pagina e in molte altre del commento alla lettera ai Romani (91, 98, 174) Klein porta un vero e proprio attacco frontale alla riforma protestante, in particolare a Lutero, cui imputa di aver ceduto alla tentazione “diabolica” di dividere la chiesa. H. Feld ritiene che il punto debole di queste pagine sia la assoluta mancanza di senso della storia: cf. H. Feld, Der bedeutenste katholische Theologe, cit., 483-484. In effetti la sua concezione della storia avalla l’impressione di un certo dualismo di matrice agostiniana. Barabara Hallensleben parla di un “sublime dualismo”, di cui W. Klein sarebbe peraltro ben consapevole, tanto è vero che rimanda esplicitamente ad una duplice dimensione della creazione simboleggiate rispettivamente dalle figure di Maria e di Eva. A voler essere precisi, nella terminologia di W. Klein, la creazione pura, simboleggiata da Maria, non si contrappone simmetricamente alla creazione simboleggiata da Eva, bensì alla “terra”. Su questo punto W. Klein scrive: “Im Anfang schuf Gott Maria, und die (fallende) Erde” [In principio Dio creò Maria, e la (de-cadente) terra: Gottes Wort im Römerbrief, 132]. Ma era anche consapevole - si chiede Barabara Hallensleben - del problema sotteso a questa specie di mariologia cosmica? Maria infatti non è e non rimane figlia di Eva? Ed Eva, viceversa, non è e non rimane figlia di Maria? (Cf. in proposito Gottes Wort im Kirchenjahr, 599). In forme e con parole diverse anch’io ho posto questo problema a padre Klein. La sua risposta era invariabilmente la stessa: non si possono collocare sullo stesso piano Maria ed Eva, così come non si possono collocare sullo stesso piano Cristo e Adamo. Il parallelo Cristo-nuovo Adamo, Maria-nuova Eva, può essere fuorviante, in quanto Maria si può definire “nuova Eva”, ma Cristo non può essere visto unicamente come “nuovo Adamo”. Egli è sì il “nuovo Adamo”, ma solo in quanto “figlio di Maria”. Maria, a sua volta, è la “nuova Eva”, ma anche il “nuovo Adamo”. In questo senso si può definire madre di tutti i credenti, si chiamino essi figli di Eva o figli di Adamo. Vi sono come due piani, uno visibile e l’altro invisibile, nella cristologia e mariologia di W. Klein, come anche nella sua ecclesiologia. Un po’ paradossalmente qualche volta osservava che Cristo, “Dio in Maria”, opera ovunque con la sua grazia, “anche” nella chiesa visibile. Non è necessario uscire dalla chiesa visibile - diceva - per trovare Cristo. Era solito in proposito citare un bel testo del catechismo del concilio di Trento in cui si parla della chiesa come popolo “fedele” (non cristiano o cattolico, faceva osservare), disperso per tutta la superficie della terra. Era anche questo un modo per dire che si deve guardare alla chiesa, come del resto a Cristo e a Maria, con gli occhi della carne, ma anche con quelli della fede. E non vi è dubbio che in quanto cristiani e cattolici siamo chiamati a guardare soprattutto a ciò che vediamo con gli occhi della fede.
- Gottes Wort im Kirchenjahr, 483. Era consigliere stimato e ricercato non solo da cattolici, ma anche da protestanti, da gente semplice e comune come da pastori e teologi di fama. Mi vengono in mente, fra gli altri, i nomi di H. Schlier e K. Barth. Cito solo questi due nomi perché ho avuto occasione di parlare direttamente con loro e di conoscerli personalmente. Fu lui a consigliarmi di andarli a trovare a casa: “Sono amici miei - mi diceva - e saranno senz’altro contenti che tu vada a trovarli. In ambito ecumenico, ma non solo, è importante conoscersi, incontrarsi, parlare insieme”. Mi aveva consigliato ad andare a trovare anche F. Buri e il premio Nobel per la letteratura H. Böll, che abitava non lontano da Bonn. Non ho avuto occasione di farlo. Ho invece incontrato e parlato con H. Schlier, di cui W. Klein, oltre che estimatore ed amico, era anche padre spirituale, avendolo accompagnato personalmente nel suo cammino di conversione al cattolicesimo. Prima di presentarmi a lui egli mi aveva informato sulla sua situazione accademica. H. Schlier insegnava a quel tempo, siamo negli anni 1967-68, presso l’università di Bonn. Ricordo che accanto ai corsi di esegesi di Zimmermann e Schrage avevo scelto di frequentare anche un corso di Schlier sul tema: Grundzüge der paulinischen Theologie. Mi chiedevo però - e l’ho chiesto a padre Klein - come mai Schlier insegnasse nella facoltà di storia e filosofia e non in quella di teologia. Fu allora che egli mi confidò di essersi personalmente interessato, coinvolgendo i suoi amici di Roma, padre Agostino Bea, confessore di Pio XII, e padre Leiber, segretario personale del papa, per ottenere a Schlier, pastore regolarmente sposato, la dispensa dal celibato, così da poter essere ordinato sacerdote. Mi confidò anche che Pio XII era disposto a concederla, ma Schlier preferì rimanere laico, per cui si adattò ad insegnare esegesi non presso la facoltà cattolica di teologia (ai laici non era ancora permesso), ma nella facoltà di storia e filosofia. Sempre consigliato e presentato da W. Klein ho incontrato e parlato a lungo anche con K. Barth nella sua casa di Basilea. A quel tempo stavo lavorando sul pensiero teologico di A. Nygren e K. Barth, in quell’occasione, non solo mi incoraggiò, ma mi diede preziosi consigli. Il colloquio poi si fece meno accademico e più familiare. Mentre veniva servito il te mi parlò di W. Klein, che conosceva e stimava molto, anche se non capiva - mi disse - perché mai non pubblicasse nulla. Mi disse inoltre di sentirsi molto vicino ai cattolici: “Alla domenica “mi confidò - assieme a mia moglie ascolto regolarmente alla radio due servizi liturgici, uno protestante e uno cattolico”. Mi parlò di Paolo VI e del concilio Vaticano II. Di Paolo VI mi mostrò un biglietto personale in risposta all’omaggio di un suo libro. Del concilio Vaticano II invece mi disse di aver avuto l’impressione che i cattolici stessero ripercorrendo in pochi anni la strada che i protestanti avevano percorso in due/tre secoli di storia. “Ma non è necessario - soggiunse un po’ bonariamente - che facciate gli stessi errori che abbiamo fatto noi”. Ad una mia precisa domanda se egli avesse questa impressione rispose di sì e mi parlò della svolta antropologica operata dal concilio nella “Gaudium et spes”. “Temo proprio - concluse - che abbiate imboccato la strada che abbiamo percorso noi protestanti prima di arrivare - io almeno - alla famosa svolta teologica, più comunemente conosciuta come teologia dialettica”.
- “È questo - diceva - il nuovo orizzonte dell’ecumenismo. All’interno di questo orizzonte sarà più facile anche per i cristiani ritrovare l’unità”. E mi consigliò di prendere contatto con la signora Lücker che abitava a Bonn. Non ebbi, ovviamente, difficoltà a conoscere e ad incontrare la signora Lücker. Me la presentò lui stesso, una domenica, dopo la Messa delle 11, che egli regolarmente celebrava nella cappella della Paulus-Haus dei gesuiti ed era molto frequentata da quanti lo conoscevano e amavano ascoltare le sue brevi e intense omelie. Dopo quel primo incontro mi fu anche proposto di assumere l’incarico di referente per l’Italia del nuovo movimento ecumenico, cosa che non potei accettare. Consigliai la signora Lücker di prendere contatto con il prof. G. Cereti, che personalmente non conoscevo, ma di cui avevo sentito parlare bene da mons. Sartori, insigne ecumenista di Padova. Il movimento “Religioni per la pace” è attualmente molto sviluppato e celebra convegni a livello nazionale e internazionale, coinvolgendo teologi molto noti: penso in particolare ad H. Küng e al suo volume Progetto per un’etica mondiale. Una morale ecumenica per la sopravvivenza umana, Rizzoli, Milano 1991. Il movimento pubblica un bollettino di informazione dal titolo Religions for peace. World Conference of religions for peace, che mi viene ancora regolarmente inviato dalla redazione tedesca e costituisce per me un ricordo della cara signora Lücker, prima segretaria europea del movimento.
- Su questo punto W. Klein riprendeva e sviluppava la cosiddetta teoria dei cristiani anonimi di K. Rahner. “Una teoria - osservava - che permette di cogliere e valorizzare, ben oltre i confini della rivelazione biblica, il ruolo della grazia, della salvezza universale operata in Cristo”. Dal punto di vista del dialogo con le grandi religioni e lo stesso ateismo la teoria lasciava però aperto un problema che W. Klein vedeva con chiarezza e sul quale non si stancava di richiamare l’attenzione. Il suo ragionamento era semplice: “Noi cristiani - spiegava - ci esprimiamo con le parole e le categorie della bibbia e non abbiamo, o non dovremmo avere in linea di principio, difficoltà a comprendere il significato della figura di Cristo, del Messia, principio, fondamento e compimento della salvezza. Non a caso san Giovanni nel prologo al suo vangelo scrive che “tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1,3)”. “Ma come può - si chiedeva - chi non è cristiano e non parla un linguaggio biblico comprendere la figura di Cristo? D’altra parte come fare a comunicargli il significato di questa figura?”. E rispondeva: “Vi sono due strade: quella del linguaggio biblico, che però, essendo particolare, costituisce una barriera insormontabile per chi non lo conosce o parla; e quella della carità, che è l’unico ‘linguaggio’ che tutti possono in qualche modo comprendere”. Riecheggiando la parabola del buon samaritano amava portare questo esempio: “Supponiamo che capiti un incidente stradale e un cinese si fermi per soccorrere il malcapitato mentre un cristiano guarda e passa. Chi dei due si salva? La bibbia non ha dubbi in proposito: si salva colui che si prende cura del povero malcapitato, in quanto, secondo la bibbia, solo la fede ‘quae per caritatem operatur’, la fede che opera nella carità, salva l’uomo”. E insisteva, sempre citando la bibbia: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21). A partire da questi e altri testi elaborava la cosiddetta teoria dei credenti anonimi, come egli la chiamava. “È più comprensiva ed è biblicamente fondata - osservava - in quanto parte dal presupposto che il vero credente è colui che ama, non colui che parla dell’amore, fosse pure dell’amore di Dio”.
- La lettera, pubblicata nel volume Gottes Wort im Kirchenjahr, 449-451, non porta una data precisa ed è l’unica testimonianza della corrispondenza tra W. Klein e K. Barth. Che fra questi due grandi teologi vi sia stata altra corrispondenza è testimoniato, oltre che dalla lettera stessa, dalle parole introduttive della medesima, in cui si allude ad uno scritto di K. Barth a W. Klein che purtroppo non è stato trovato fra i suoi manoscritti. Sarebbe interessante indagare nell’archivio personale di Barth e verificare se esistano altre lettere che W. Klein ha inviato al teologo di Basilea. Impossibile, invece, indagare nell’archivio di W. Klein per il semplice fatto che non esiste. Eventuali lettere di K. Barth indirizzate a W. Klein sono senz’altro finite “in den Müll”, nella spazzatura, insieme a tanta altra preziosa corrispondenza.
- Il testo tedesco usa il termine ‘Träger’: Gottes Wort im Kirchenjahr, 450.
- In tedesco ‘Schöpferperson’, ivi.
- Il testo non riporta la citazione: cf. In III Sent. dist. 11, q. I, a. 2-3; STh, III, q. 16, a. 10.
- L’allusione è chiaramente al “diabolos”, a “colui che divide”.
- Il termine tedesco “ein-drücklich” (im-pressamente) si contrappone ad “aus-drücklich” (es-pressamente) ed è molto difficile da tradurre in italiano. W. Klein gioca qui con le parole tedesche per dire che nonostante tutto ci si può in qualche modo intendere: cf. Gottes Wort im Kirchenjahr, 451.
- Il termine tedesco “Vollzug” è più ricco di significato e rimanda ad una realizzazione piena di ciò che le parole significano.
- Per la verità un discepolo di Klein, H. Küng, proprio in quegli anni, e probabilmente su consiglio e incoraggiamento dello stesso W. Klein, aveva lavorato nella sua tesi di dottorato sul tema della giustificazione in K. Barth. In proposito è risaputo che Barth non solo manifestò soddisfazione per quel lavoro, ma disse: “Se questa dovesse essere l’interpretazione cattolica della dottrina sulla giustificazione non vedo quali difficoltà ci siano per trovare sul tema un largo consenso ecumenico”. Siamo, non lo si dimentichi, negli anni’ 50, quando ancora non si parlava di concilio Vaticano II. H. Feld si chiede quale effetto abbia avuto la lettera di W. Klein su K. Barth e manifesta l’opinione, sulla base degli scritti barthiani apparsi dopo il 1959, che egli non l’abbia mai presa in seria considerazione, ma che anzi, “achsel-zuckend”, alzando un po’ le spalle, l’abbia subito messa da parte. Consiglia comunque di indagare più attentamente nella corrispondenza di un altro teologo di Basilea, F. Buri, pure lui molto amico di W. Klein e per lunghi anni professore di teologia a Basilea, oltre che parroco della “Marienmünster”, il duomo della città, a cui faceva riferimento la lettera di W. Klein: cf. Wilhelm Klein in Rom, Bonn und Münster, 488.
- Va qui ricordato un suo tipico intercalare, “Deo gratias et Mariae”, che a volte scriveva anche in calce a lettere o biglietti di saluto. Non mancava mai, nemmeno all’età di 106 anni, di rispondere ai saluti di chi gli scriveva. Quell’intercalare aveva un forte significato teologico, che molti discepoli non coglievano. Per loro era soltanto un’espressione della sua devozione a Maria o tutt’al più esprimeva la sua convinzione che non si potesse parlare di Dio senza parlare anche di Maria. Molti, addirittura, interpretavano questi suoi continui richiami e riferimenti a Maria come una specie di esaltazione, se non di ideologizzazione, della verginità e del celibato: cf. in proposito H. Feld, Wilhelm Klein in Rom, Bonn und Münster, 484. Barbara Hallensleben, nella sua recensione al pensiero di Klein, in particolare al suo commento alla lettera ai Romani [Theologie und Glaube 88(1998),412-416], ripresa e pubblicata in Gottes Wort im Kirchenjahr, 600, dopo essersi chiesta quale sia stata la “Wirkungsgeschichte”, la “storia degli effetti”, del suo pensiero sugli alunni, è dell’idea che non abbia lasciato molte tracce. A mio parere le tracce più consistenti si possono trovare nei tre brevi saggi di carattere teologico-spirituale di H. Biesel, Das Leid in der Welt und die Liebe Gottes, Dichtung und Prophetie, Von altem und neuem Beten, editi tutti e tre nel 1972 dalla Patmos-Verlag di Düsseldorf. In riferimento a questi tre saggi W. Klein stesso ebbe a confidarmi che fra gli scritti dei suoi discepoli questi erano quelli che più si avvicinavano al suo pensiero. “O meglio - precisava - non al mio pensiero, ma a ciò che vorrei esprimere con il mio pensiero”.
- Ha insegnato, ma solo per pochi anni, filosofia, mai teologia. L’insegnamento non era la sua vocazione. Più che insegnare amava dialogare, conversare, consigliare. “Insegnare non è male - osservava - ma vi è il rischio di fermarsi alla parola”. E la parola non fa: “Das Wort schafft nicht!”, diceva con forza e in tedesco (il più delle volte con me parlava in italiano). All’obiezione che mi veniva spontanea: “Ma non parla anche lei?”, mi rispondeva: “Sì, è vero, ma non insegno, e tanto meno scrivo. Faccio domande, commento, consiglio, esorto. Come si può insegnare o scrivere la fede? Si può insegnare logica, ma non si vive nemmeno di logica, tutt’al più di logica applicata”. “Logica applicata anche alla fede?”, chiedevo. “Sì, rispondeva, la logica applicata alla fede è teologia e la teologia si può insegnare, perché i credenti non sono angeli, ma uomini, e gli uomini possono parlare della fede come parlano della vita, sono infatti esseri ‘logici’, che pensano, ragionano, in qualche modo si esprimono con le parole o le azioni (anche le azioni hanno una loro logica!). Guai però ad assolutizzare il ‘logos’, la logica! Il più grande logico è il diavolo ed egli ‘tenta’ (è tentatore per antonomasia) di dividere, separare (assolutizzare significa proprio questo) l’uomo da Dio, Cristo da Maria, il creatore dalla creazione”. E a questo punto W. Klein ricominciava a formulare, in forma più o meno circolare, e con grande abilità e fascino, il suo pensiero sul mistero della creazione, della redenzione, della santificazione, ripetendo più o meno sempre le stesse cose, ma senza mai perdere di vista la figura centrale della storia della salvezza, Cristo, il Verbo concepito in Maria per opera dello Spirito santo, per cui egli è Dio in Maria, il creatore nella creazione, e così via, formulando e riformulando il suo pensiero o, come amava dire scherzando sul modo tedesco di pronunciare la parola ‘linguaggio’, il mio ‘linguaccio’. E concludeva immancabilmente la conversazione con le parole: “la nostra lingua umana è veramente, come dite voi italiani, una ‘linguaccia’”!
- Qualche passaggio della lettera a K. Barth è un esempio di questa sua capacità e abilità di usare con precisione tecnico-specialistica un determinato linguaggio, non solo teologico. Ricordo uno scienziato di Heidelberg, di cui mi sfugge il nome, venuto a Bonn per incontrare W. Klein e confrontarsi con lui sul concetto e il termine ‘fisica’ in Hegel.
- Così me lo presentò per la prima volta W. Kalesse, un ex-alunno del collegio germanico, che dopo aver studiato filosofia e teologia alla Gregoriana, partecipò insieme a me, negli anni 1967-68, al seminario dei dottorandi in teologia morale di F. Böckle.
- Gottes Wort im Römerbrief, 98.
- Ivi, 201.
- Ivi, 71.
- Per avere un’idea della novità e dell’enorme impressione che questo suo modo di commentare la bibbia suscitava nei suoi discepoli si deve ricordare che negli anni’ 50, alla Gregoriana e all’Istituto biblico di Roma, insegnavano i più illustri studiosi gesuiti della bibbia, i vari padri Vaccari, Bea, Zerwick, Lyonnet, ecc., i quali davano grande rilevanza al metodo storico-critico, al punto che fra Istituto biblico e università del Laterano scoppiò un’aspra polemica, la cui vittima più illustre, durante il pontificato di Giovanni XXIII, fu padre Lyonnet, successivamente riabilitato da Paolo VI. Ebbene: i commenti biblici di W. Klein andavano in direzione contraria a quella percorsa da questi famosi esegeti e studiosi. Ciononostante egli consigliava i suoi discepoli ad andare ad ascoltare le lezioni di padre S. Lyonnet, che proprio in quegli anni commentava la lettera ai Romani e la lettera ai Colossesi. Era ovvio che, di ritorno da scuola, gli studenti si confrontassero, e a volte molto vivacemente, con lui e il suo modo o metodo di commentare la bibbia. Cf. in proposito i ricordi di H. Feld, Wilhelm Klein in Rom, Bonn und Münster, 489-490.
- Il riferimento implicito è ovviamente a Maria:Gottes Wort bei Johannes, 371.
- L’accenno è al congresso eucaristico internazionale di Monaco del 1960, che aveva per motto il versetto 51 del capitolo 6 di Giovanni che egli stava commentando: “Panis quem ego dabo caro mea est pro mundi vita”: il pane che io vi darò è la mia carne per la vita del mondo. Ivi.
- Commentando questo brano W. Klein intendeva non solo rispondere indirettamente alle critiche che gli venivano rivolte, ma dichiarare la sua disponibilità, sull’esempio di Gesù, a riformulare il suo pensiero, non certo a rinnegarlo.
- Così, un po’ liberamente, egli traduceva le parole iniziali del prologo al quarto vangelo: “In principio erat Verbum”, “Ora vi parlerò della Parola”: Gottes Wort bei Johannes, 17.
- Ivi.
- Il cibo di cui si parla è ovviamente il “pane della vita”: Gottes Wort bei Johannes, 379. È interessante notare il modo leggero e discreto nella forma, ma severo nella sostanza, in cui critica R. Bultmann e altri esegeti della sua scuola. E pensare che una delle critiche che gli venivano rivolte era di essere lui stesso un “bultmanniano”!
- In riferimento al tema dell’agape ricordo ancora le parole che mi disse quando si informò sul tema della mia tesi di dottorato. Saputo che stavo lavorando sull’‘agape’: “Bene, - mi disse - è l’unico tema su cui vale la pena di riflettere. Attento, però, che stai parlando della ‘parola’ “ . Io non capii. Mi raccontò allora la leggenda riportata da san Girolamo secondo la quale Giovanni, il discepolo che Gesù amava, ormai avanti negli anni, non faceva che ripetere nelle sue omelie: “Filioli, diligite alter alterutrum”, figlioletti amatevi gli uni gli altri. Alla domanda dei cristiani un po’ stanchi di queste ripetizioni: “Ma non hai altro da dirci?”, Giovanni rispondeva: “No. Forse questo non vi basta?”. “E io come faccio a scrivere la mia tesi di dottorato?”, gli chiesi. “Già, questo è il problema. Scrivi pure, ma ricorda che l’amore non si scrive, si vive”. Sempre in riferimento all’agape negli ultimi anni citava spesso, in latino, un testo della prima lettera di Giovanni: “Charitas foras mittit timorem”, la carità caccia via la paura. “Aver paura - commentava - è naturale, umano, molto umano. Anche Gesù, che viveva nella pienezza della comunione con il Padre, ha avuto paura. La paura non è peccato, semmai è conseguenza del peccato. Ci si deve però in qualche modo liberare, soprattutto dalla paura di Dio. Di che dovremmo aver paura? dell’amore di Dio? Nella bibbia c’è una sola definizione di Dio: Dio è amore (1Gv 4,16). La strada da percorrere è quella dell’amore: chi ama non ha paura; chi non ama pecca e ha paura. È la lezione di Giovanni”. Cf. in proposito il suo commento alla prima lettera di Giovanni in Wilhelm Klein in Rom, Bonn und Münster, 239-432, in particolare 296-298. Alla domanda che in modo impertinente qualche volta gli ponevo: “Ma lei ha paura?” rispondeva di no. “Si può dunque vincere la paura?”, chiedevo ancora. “Sì - rispondeva - attraverso un’educazione improntata all’amore. Già, l’educazione: è la questione cruciale del nostro tempo. Nella nostra società si educa ancora alla paura. Così la paura viene poco a poco interiorizzata, soprattutto da bambini, entra in circolo, diventa carne della nostra carne. Di qui la difficoltà a superarla. La strada comunque è sempre quella dell’amore. Amare significa anche avere rispetto di se stessi e dei tempi necessari per vincere la paura”.
- A volte, in modo un po’ provocatorio, gli chiedevo: “Ma veramente tutto?”. Ed egli mi rispondeva: sì. “E l’uomo allora, la sua libertà?”. “Abbiamo, in ultima analisi una sola libertà - spiegava - quella di amare ed eventualmente confessare i nostri peccati, perché come dice e ripete san Giovanni: ‘Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa’ (1Gv 1, 9)”. Non era facile seguirlo in questi suoi ragionamenti. “Ma è la bibbia che parla così - osservava - certo bisogna interpretarla bene, perché il suo linguaggio non è sempre facile e chiaro, a volte anzi è noioso, altre volte addirittura contradditorio. Prendiamo l’immagine della ‘donna’ che schiaccia la testa al serpente o, se si vuole, del serpente che morde il tallone della donna (Gen. 3,15). Che cosa vuole comunicarci l’autore con questa immagine se non che non dobbiamo temere, aver paura, in quanto la ‘donna’ la creazione, nella quale abita il creatore, può essere sì insidiata, ferita, mai però vinta, e tanto meno distrutta, dal serpente, simbolo del maligno, il ‘diabolos’, che tenta, invano, di dividere, separare, la creazione dal suo creatore. San Paolo lo aveva capito: “Chi mi separerà - diceva - dall’amore di Cristo?” (Rom 8,35). È forse questo il tentativo di superare (impresa peraltro impossibile, secondo Klein, solo a parole) quel “sublime dualismo” tra creazione pura e decaduta, di cui parla B. Hallensleben nella sua recensione al commento della lettera ai Romani? In una seconda recensione la teologa tedesca, che pure ammirava la straordinaria interpretazione di W. Klein, gli imputa di non riuscire a superare questo dualismo nella misura in cui - ella scrive - considera la creazione dalla parte delle creature, non del creatore, come invece fanno sia la teologia patristica che quella scolastica, parlando delle idee di Dio come modello originario della creazione, o come fa la sofiologia russa, introducendo il concetto di sapienza increata come modello della sapienza creata, o come intuisce bene papa Leone Magno quando parla di Gesù Cristo “consubstantialis Patri secundum divinitatem, consubstantialis matri secundum humanitatem”.” Ciò spiegherebbe anche, secondo la Hallensleben, come mai la teologia kleiniana sia più orientata all’indietro, verso il “principio”,”. l’“arche” (ma è proprio vero?) che in avanti, verso il ‘telos’, la ‘nuova creazione’. Cf. B. Hallensleben, recensione del volume Gottes Wort im Kirchenjahr, ripresa e pubblicata in Gottes Wort bei Johannes, 613-617.
- Spesso W. Klein rovesciava la costruzione del testo precisando che il significato dell’espressione non cambia se diciamo: “In noi Egli vive, si muove ed esiste”.
- I motivi addotti sono fondamentalmente quattro: si tratta di un testo orale (non sembri un paradosso: significa semplicemente che è un testo scritto per essere detto, pronunciato, non pubblicato); nel testo vi sono troppi riferimenti a fatti ed eventi interni alla vita di un collegio; vanno tolte le troppe ripetizioni che impediscono di cogliere lo sviluppo lineare del suo pensiero; e infine sarebbe opportuno scrivere un’introduzione e delle note per illustrare la singolarità dell’esegesi kleiniana e aiutare così il lettore nella comprensione del testo. Per questi ed altri consigli cf. la lettera che G. Greshake ha scritto ad A. Rauch, curatore dei manoscritti, in Wilhelm Klein in Rom, Bonn und Münster, 464-465. In calce ai vari volumi si possono leggere anche altri pareri e consigli di ex-alunni. In proposito vi è chi è entusiasta di un’eventuale pubblicazione e chi, al contrario, manifesta il timore che si perda il tono, la qualità orale, dei manoscritti. E non manca chi esprime perplessità anche di ordine morale, in quanto un’eventuale pubblicazione non rispetterebbe la volontà dell’autore che mai aveva pensato o inteso pubblicare i suoi manoscritti.
- L’aneddoto lo raccontò personalmente anche a me. Ora però vi è conferma scritta nell’omelia che padre F.-J. Steinmetz SJ, ha pronunciato in occasione del suo funerale: cf. Wilhelm Klein in Rom, Bonn und Münster, 435-439. Nella sua omelia Steinmetz lo arricchisce di un particolare interessante. “Una volta - racconta - commentai il capitolo della prima lettera ai Corinti riguardante la risurrezione, con le sue immagini, le sue metafore. ‘Hai dimenticato la cosa più importante’, osservò padre Klein. E mi citò il passo della prima lettera di Giovanni in cui si dice: “Sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli” (1Gv 3,14). “Prendiamo troppo poco sul serio questo testo biblico.- osservava - . Quando si ama si risorge: è un’esperienza che tutti possono fare. È tempo di spostare la nostra riflessione dalla ‘natura’ (‘natura-moritura’, ‘vita che nasce e muore’) alla ‘creatura’ (‘natura-creatura’ ‘vita che nasce e rinasce’). Purtroppo la teologia usa ancora indifferentemente questi due termini”.
- Ho conosciuto personalmente molti discepoli di W. Klein e devo dire che mai ho trovato tanta ammirazione e venerazione per un padre spirituale. Mi sono anche chiesto cosa trovavano in lui i discepoli e insieme a loro tanta gente semplice o teologi famosi, uomini di chiesa, vescovi, arcivescovi, cardinali, che ho visto spesso salire le scale del primo piano della Paulus-Haus di Bonn ed entrare nella sua stanzetta disadorna, con pochi libri, quasi sempre pubblicazioni recenti inviate o portategli in omaggio dai suoi discepoli. La mia risposta, un po’ banale se si vuole, è che forse trovavano ciò che cercavano: un credente che nella fede vedeva e faceva intravedere ciò che solitamente non vediamo. E cioè, per usare l’espressione del salmo 113, commentata da sant’Agostino (Confessioni XII,2) che egli citava spesso: ‘il cielo del cielo’. Che cosa poi significasse questa espressione ognuno amava sentirselo ripetere e spiegare da lui.
GIUSEPPE TRENTIN
direttore di “Studia Patavina”
docente di teologia morale
Fac. teol. Italia settentrionale-Padova
direttore di “Studia Patavina”
docente di teologia morale
Fac. teol. Italia settentrionale-Padova
Fonte : http://niko.wy.bei.t-online.de/klein6_i.htm ; http://www.ftis-pd.it/stpt032.htm ; http://home.t-online.de/home/niko.wy/klein.htm
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