SAN FRANCESCO SAVERIO
(1506-1552),
missionario e Patrono
dell'Oriente e di tutte le missioni
S.
Francesco Saverio, di Claudio Coello, Chiesa Parrocchiale di Valdemoro.
Studente a Parigi conobbe
sant'Ignazio di Loyola e fece parte del nucleo di fondazione della Compagnia di
Gesù. E' il più grande missionario dell'epoca moderna. Portò il Vangelo a
contatto con le grandi culture orientali, adattandolo con sapiente senso
apostolico all'indole delle varie popolazioni. Nei suoi viaggi missionari toccò
l'India, il Giappone, e morì mentre si accingeva a diffondere il messaggio di
Cristo nell'immenso continente cinese. (Mess. Rom.)
Pioniere delle missioni dei tempi moderni, patrono dell'Oriente dal 1748,
dell'Opera della Propagazione della Fede dal 1904, di tutte le missioni con S.
Teresa di Gesù Bambino dal 1927.
San Francesco Saverio è uno dei primi compagni di S.
Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù, ed è vissuto in un
periodo di congiure e di lotte tra la Francia e la Spagna.
E’ nato il 7 aprile del 1506 in Spagna,
nella Navarra, nel castello di famiglia di Xavier, da una nobile
famiglia, ultimo di sei figli. Nel castello regnava una profonda pietà e spesso
la famiglia si trovava riunita nella piccola cappella dedicata alla Vergine
Maria.
Nel 1512 Ferdinando il Cattolico annette la Navarra
alla Spagna, di cui diventa provincia, ma presto sorgono lotte interne tra
autonomisti (che per opportunità parteggiano per la Francia) e quelli favorevoli
alla Spagna. La famiglia Xavier parteggia per il primo gruppo, ma quando questo
viene sconfitto, anche i beni dei Xavier sono confiscati.
Il padre muore il 15 ottobre del 1515. Cinque anni
dopo, i Navarrini (e tra essi i fratelli di Francesco) riprendono le armi contro
la Spagna e chiamano in aiuto i francesi di Francesco I, che assediano la
capitale Pamplona, la cui fortezza era comandata dal capitano Ignazio
di Loyola.
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S.Ignazio di Loyola
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In seguito a tanti avvenimenti, le ricchezze della
famiglia Xavier si erano dissolte, per cui Francesco, a diciannove anni, valica
i Pirenei e va a studiare all'università della Sorbona, a Parigi.
L’università, in quel tempo, contava circa 4.000 studenti e prevedeva un corso
di studi che durava dieci anni: tre di filosofia davano il titolo di "Maestro
delle Arti", e sette di teologia, scienze e legge, che conferivano quello di
"Dottore". Sulla carta vigeva una disciplina rigida, ma nella pratica c’era
molta immoralità.
Al giovane Francesco viene assegnato come abitazione
il collegio Santa Barbara e dopo tre anni consegue il titolo di
Magister artium che, tra l’altro, gli consente il diritto di dare lezioni ad
altri studenti.
E’ in questo tempo che giunge a Parigi Ignazio di
Loyola, che ferito nell’assedio di Pamplona si era poi convertito e, all’età
di trent'anni, era ritornato sui banchi di scuola.
Certamente per disposizione della divina
Provvidenza, anche a Ignazio viene assegnato il collegio di Santa Barbara, dove
presto incontra Francesco che gli dà lezioni di filosofia. Dapprima i rapporti
tra i due non sono idilliaci, ma ben presto Ignazio si rende conto che Francesco
è un giovane di intelligenza superiore, brillante e ambizioso. Gli è sempre
vicino, gli procura alunni, avendo intuito le sue strettezze economiche, lo
consiglia, gli prospetta ideali superiori, che, però, non vengono recepiti. Un
giorno Ignazio dirà: "Non ho trovato mai una creta così ribelle !".
Ignazio di Loyola era un basco, tenace e forte, che
difficilmente si arrendeva dinanzi alle difficoltà. Dopo la ferita di Pamplona,
temendo di rimanere con la gamba destra più corta della sinistra, tra lo
sgomento degli stessi medici, si era fatto segare l’osso della gamba tra atroci
spasimi. Si trovava dinanzi ad un giovane che avrebbe potuto fare molto per la
gloria di Dio e quindi è convinto che deve insistere.
"Che giova all’uomo se guadagnerà il mondo
intero, e poi perderà la propria anima?" (Mt 16, 26), gli ripeteva
frequentemente. Queste parole penetravano profondamente nell’animo generoso di
Francesco, e a poco a poco cominciavano a trasformare il suo animo, finché
accetta di vivere l’esperienza che aveva maturato la spiritualità del Loyola:
per 40 giorni sperimenta l’efficacia degli Esercizi Spirituali. Ne esce
letteralmente trasformato, con una eccezionale disponibilità a compiere la
volontà di Dio.
Nascita della
Compagnia di Gesù a Montmartre, Parigi
A Parigi un altro giovane, oriundo della Savoia,
Pietro Favre, è amico di Ignazio e di Francesco. E' già sacerdote, dotato di
una profonda spiritualità, e vuole anch’egli condividere gli ideali degli altri
due. Ben presto altri seguono l’esempio, passando tutti per l’itinerario degli
Esercizi Spirituali, e il 15 agosto del 1534, festa dell’Assunzione di
Maria Santissima, si ritrovano nella chiesa sulla collina di Montmartre,
dove, durante la Messa celebrata dal Favre, si consacrano totalmente a Dio col
voto di povertà, di castità e di peregrinare in Terra Santa. Nasceva in
quel giorno e in quel luogo la Compagnia di Gesù, di cui Francesco
Saverio era uno dei primi elementi.
Una lapide in lingua latina, nella chiesa di
Montmartre, ricorda ancora quell’avvenimento con queste parole: "La Compagnia
di Gesù, che ebbe come Padre S. Ignazio di Loyola e come madre Parigi, nacque
qui il 15 agosto nell’anno di grazia 1534".
Giuridicamente la Compagnia di Gesù nascerà sei anni
dopo, il 27 settembre del 1540, con la bolla del Papa Paolo III
"Regiminis militantis Ecclesiae".
Nel 1535 ricominciano le guerre tra Francia e
Spagna, e allora i giovani seguaci di Ignazio lasciano Parigi e si incamminano
per Venezia, da dove sperano di partire per i Luoghi Santi, per mettere
in atto il voto di Montmartre. Non essendo ciò possibile, Francesco e i compagni
si dedicano alla cura degli ammalati per due mesi e poi partono per Roma
per presentarsi al Papa. Il terzo voto contemplava infatti questa clausola:
nell’impossibilità di partire per la Terra Santa, dovevano mettersi a
disposizione del Papa, Vicario di Cristo.
Il Papa non solo li accoglie benevolmente, ma avendo
sperimentato la loro dottrina teologica, dà loro danaro per il viaggio in Terra
Santa e la facoltà di essere ordinati sacerdoti da qualunque Vescovo da essi
scelto. Pieni di gioia ritornano a Venezia, sperando sempre di imbarcarsi per la
Terra Santa. A Venezia Francesco Saverio rifà per 40 giorni gli Esercizi
spirituali e il 24 giugno del 1537 viene ordinato sacerdote per
mano di Mons. Vincenzo Nigusanti, Vescovo dalmata. Anche questa volta però non
può partire per Gerusalemme, e allora si reca a Bologna.
Missionario in
India
Nel 1538 Francesco lascia Bologna e parte per Roma,
a piedi, febbricitante e in povertà. Si unisce ai suoi confratelli e insieme
decidono di dar vita a un nuovo Istituto, legandosi con i tre voti di povertà,
castità e ubbidienza. Poi eleggono il superiore, votando unanimemente per
Ignazio.
Nell’abbozzo delle loro decisioni (o "Formula
dell’Istituto") veniva introdotta una novità: I Professi aggiungevano ai tre
voti soliti un quarto voto di ubbidienza al Papa. Ci si obbligava a
ubbidire senza scuse e tergiversazioni "sia che ci mandino tra i Turchi sia
tra quelli che dimorano nelle regioni chiamate le Indie, oppure tra gli eretici
e gli scismatici di ogni condizione, o altrove". E a Francesco Saverio si
presenta subito l’occasione di mettere in atto il quarto voto.
Il Re del Portogallo, Giovanni III, tramite
il suo ambasciatore Don Pedro Mascarenhas, aveva chiesto al Papa e a Ignazio
qualche missionario per le Indie Orientali, e si era convenuto che sarebbero
partiti i Padri Rodriguez e un altro compagno di nome Bobadilla, che allora si
trovava a Napoli. Quest’ultimo arriva a Roma febbricitante, per cui non gli è
possibile partire subito per il Portogallo con l’ambasciatore. Ignazio allora
chiama Francesco Saverio e gli fa presente il desiderio del Papa. Risposta di
Saverio: "Pues, sus, hème aqui" (Bene, eccomi qui).
Il 15 marzo del 1540 parte con
l’Ambasciatore, salutando per l’ultima volta il suo Padre Ignazio, che non
avrebbe visto mai più. Nel viaggio, a Bologna, Francesco riceve una lettera di
Ignazio e così risponde: "Nostro Signore sa con quanta gioia e con quale
conforto l’ho letta. In questo mondo, penso, non ci incontreremo più, se non per
lettera; ma nell’altro ci rivedremo faccia a faccia, con profonde effusioni di
amicizia".
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Immagine di S.Francesco Saverio appartenuta a
S.Teresa di Lisieux |
Il viaggio per Lisbona dura tre mesi. Qui il
Saverio incontra il compagno P.Rodriguez e ambedue, in attesa di partire,
lavorano apostolicamente in città. Il Re, notando il bene che essi operano,
chiede al Papa e ad Ignazio di trattenere a Lisbona i due Padri e di sostituirli
con altri. Si addiviene a un compromesso e chi parte per le Indie è solo
Francesco Saverio, al quale da Roma giunge il breve papale, che lo nomina
"Legato pontificio". Il 7 aprile del 1541 la flotta salpa da Lisbona per
le Indie e lo stesso giorno Francesco ricorda il suo 35° compleanno.
A quei tempi intraprendere un viaggio così lungo per
mare voleva dire affrontare pericoli e malattie, soffrire fame e sete, freddo e
caldo, sfidare tempeste e improvvise "bonacce" che immobilizzavano le navi anche
a lungo. Dopo dieci mesi le navi giungono a Mozambico, dove
sostano per sei mesi e dove lo zelo de Saverio non conosce soste. Il medico di
bordo, Dott. Cosimo Sarajva, così deporrà all’inizio del processo di
canonizzazione: "Si occupava personalmente di tutti gli infelici, li curava e
ascoltava le loro confessioni. Non si concedeva riposo alcuno. E faceva tutto
quanto con grande gioia: ciascuno di noi lo considerava un santo; e questa è
pure la mia opinione".
Ripreso il viaggio, finalmente, dopo un anno e due
mesi, il 6 maggio del 1542, Francesco sbarca a Goa, capitale
dell’impero delle Indie Orientali.
Goa era una città ricca di splendidi monumenti, tra
cui una bellissima cattedrale, e da qui i Portoghesi dominavano un immenso
impero coloniale, che si estendeva dalle Americhe alle Indie Orientali. Era il
territorio che si apriva all’apostolato del nuovo Legato Pontificio.
Vescovo della diocesi era Mons. Giovanni
Albuquerque, francescano, uomo di grande pietà e zelo apostolico. Francesco
Saverio gli si presenta, munito delle sue prerogative di inviato del Papa e del
Re di Portogallo, ma – come scrive il gesuita P.Texeira – "si rimetteva nelle
mani di sua Eccellenza e nulla avrebbe fatto senza la sua approvazione… Non
intendeva utilizzare le sue facoltà, senza prima accordarsi col Vescovo. Questi,
uomo molto pio, vedendo tanta umiltà e obbedienza, lo abbracciò con grande
amore, dicendogli… di utilizzare tutti i poteri, secondo le intenzioni di Sua
Santità".
Francesco rifiuta cortesemente l'alloggio offertogli
nell’episcopato e si ritira presso l’ospedale per soccorrere più
agevolmente gli ammalati. Gira per le strade e le piazze con un campanello,
raduna i fedeli, li conduce in chiesa e qui predica e li istruisce. Trascorre le
domeniche con i lebbrosi, visita i carcerati e i poveri e si
prodiga per l’erezione di un collegio per l’educazione della gioventù e
la formazione dei cristiani. E’ il collegio di Santa Fede, di cui scrive
al suo Padre Ignazio: "Di tutte le iniziative, è la più necessaria, ed ogni
giorno di più si rivela indispensabile… Da questa casa usciranno uomini che,
piacendo a Dio, accresceranno il numero dei cristiani".
Dopo cinque mesi di permanenza a Goa, Francesco
parte per Capo Comorin, la terra dei pescatori di perle. Prima di lui
alcuni sacerdoti vi avevano portato il cristianesimo e avevano battezzato circa
20.000 pescatori, ma di cristianesimo questi avevano solo il battesimo. Erano
poverissimi, sparsi in numerosi villaggi e conducevano una vita di stenti.
Il Saverio vi ritorna altre tredici volte: visita
tutti i villaggi, raduna i bambini, i giovani e gli adulti per istruirli, visita
e cura i malati, aiuta i più poveri, edifica cappelle e amministra i sacramenti.
Scrive al Padre Ignazio: "Quando sbarcai in questi luoghi, battezzai tutti i
fanciulli che ancora non erano stati battezzati, e quindi un gran numero di
ragazzi, che non sapevano neppure distinguere la destra dalla sinistra… Mi
assediava una folla di giovani, tanto che non riuscivo più a trovare il tempo
per dire l’Ufficio, né per mangiare, né per dormire; chiedevano insistentemente
che insegnassi loro nuove preghiere. Cominciai a capire che a loro appartiene il
regno dei cieli". E ancora scrive: "Battezzai i principali abitanti del
luogo con le loro famiglie, poi il resto del popolo, giovani e vecchi. Poi
continuai il viaggio verso Tuticorin, dove fui ricevuto, con i compagni, con
molta carità".
Lavora in quelle terre per due anni, dove con
l’aiuto di alcuni interpreti si sforza di apprendere la lingua, traduce
preghiere, visita le comunità cercando di allontanarle dall’idolatria, ha
particolare cura degli ammalati. Le conversioni operate, con l’aiuto dei
catechisti, sono innumerevoli, e sappiamo che in un solo mese converte e
battezza circa 10.000 persone. I biografi parlano anche di prodigi ottenuti con
le sue preghiere: migliaia di guarigioni e persino il ritorno in vita di alcuni
defunti.
E’ difficile seguire Francesco nelle sue
peregrinazioni, spinto sempre dal desiderio di aiutare tutti e di convertirli.
Va tra i cristiani della Pescheria, puniti dai pirati di Tutocorin per la loro
conversione al cattolicesimo, affronta viaggi impossibili soprattutto per le
tempeste, rischia naufragi, cammina giorni interi a piedi, prega sulla tomba
di S. Tommaso a San Tomé. Qui matura il proposito di andare a
Malacca, città commerciale nell’arcipelago della Malesia e vi giunge
dopo un fortunoso viaggio di circa un mese.
Egli stesso scrive che la piccola nave
"continuamente rischiava di andare in fondo al mare. Se avessimo urtato una
roccia, l’imbarcazione sarebbe andata in pezzi; se, anche in un sol punto la
profondità fosse diminuita, ci saremmo incagliati". A Malacca rimane tre
mesi, lavorando indefessamente, e nei primi giorni del 1545 s’imbarca per
Amboina, costeggia l’Indocina e l’isola di Giava e dopo un mese e mezzo di
navigazione giunge a destinazione. Visita i sette villaggi di cristiani e
battezza i bambini che non avevano ancora ricevuto il battesimo.
Da Amboina scrive lettere stupende, piene di ardore
e di zelo apostolico e manifesta l’idea di partire per la costa del Moro,
lontana 130 leghe e abitata dai cacciatori di teste. "L’isola del Moro –
scrive – è un luogo molto pericoloso, poiché gli indigeni sono malvagi e
mettono diversi veleni nel cibo e nelle bevande. Per questa ragione coloro che
avrebbero dovuto vegliare su questi cristiani abbandonati hanno smesso di
farlo". Anche qui il suo zelo è straordinario, e dopo tre mesi riparte per
visitare i luoghi dov’era stato prima, per risvegliare la fede e incoraggiare i
cristiani.
Missionario del
Giappone
Nel dicembre del 1547, mentre si trovava a Malacca,
s’incontra con un uomo di nome Anijro, che gli parla delle isole del Giappone,
dalle quali egli proviene. Francesco resta ammirato di ciò che gli si dice, ma
prima deve visitare le comunità cristiane che lo attendono con ansia. Percorre
migliaia di chilometri per terra e per mare e con gioia nota che in quelle terre
ormai lavorano ben 32 Gesuiti, i Frati Minori e i Padri Domenicani.
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Gesuiti in Giappone
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Finalmente il 15 aprile del 1549 s’imbarca
con sei compagni gesuiti, tre giapponesi cristiani, un cinese e un malabarico e
il 15 agosto sbarca nel porto di Kagoshima. Scrive che il Giappone
"è la migliore razza che si sia scoperta fino ad oggi, e, credo che tra gli
infedeli non si possa trovare gente come i Giapponesi". Parla poi delle loro
consuetudini di vita e dice che adorano il sole e la luna, sono buoni
ragionatori, ma commettono peccati contro natura.
Francesco a poco a poco si abitua alle loro
consuetudini di vita: si siede sui talloni (posizione difficile per uno
straniero, dice), fa profondi inchini, mangia come loro. Contemporaneamente
riceve molte persone e con l’aiuto di un compagno giapponese dialoga moltissimo.
Viene ricevuto da un Daimyo (principe) nel
suo castello di Kokubu e ottiene il permesso di far cristiani tutti i vassalli
che lo avessero voluto. Ha molti contatti con i monaci buddisti e
soprattutto con un monaco anziano che, dice, "ha tra essi il ruolo di un
vescovo". Visita poi molti monasteri, discute con i bonzi, però non si
illude: le loro idee sono opposte alle sue e non si meraviglia se ci saranno
persecuzioni.
Ha la gioia di battezzare il primo giovane
giapponese, che prende il nome di Bernardo e che in seguito diventerà
gesuita in Europa. Anche altre persone chiedono di farsi cristiani, ma presto
l’ostilità dei bonzi si fa sentire. Scrive infatti: "Tutta la gente sarebbe
diventata cristiana, senza i bonzi". Però nutre una grande stima per questo
popolo e spera che in seguito tutto sarebbe andato per il meglio.
L’aspirazione di Francesco Saverio, però, era quella
di parlare con l’Imperatore. Intanto si era ammalato, ma il suo spirito era
pieno di energie. Nell’agosto del 1550 intraprende un viaggio di oltre
200 miglia, riesce a convertire e battezzare alcune centinaia di persone e poi,
su una piccola imbarcazione, verso la fine di ottobre si dirige verso l’isola di
Honshu, dove risiedeva l’Imperatore.
Un suo compagno di viaggio, scrivendo, parla di ciò
che avevano sopportato: freddi intensi e bufere di neve, incontro di pirati per
mare e briganti per terra, notti passate sempre all’aperto per mancanza di
locande, gonfiore alle gambe, scherni di molti che incontravano, essendo mal
vestiti e denutriti, spesso fame e sete. In vari luoghi cercavano di predicare,
ma spesso venivano derisi, perché ovunque (tra il popolo, nei monasteri buddisti
e nelle corti dei signorotti) imperversava la poligamia, la sodomia, l’idolatria
e altri vizi. Nonostante tutto, però, non mancano alcune conversioni.
Un giorno Saverio con due compagni viene ammesso nel
palazzo di un potente principe che li accoglie benevolmente, si interessa dei
loro viaggi, dell’India e dell’Europa, e chiede notizie sulla dottrina che essi
predicano. Il Saverio fa leggere ciò che aveva preparato, ma quando si
cominciano a toccare i difetti e i peccati diffusi nei costumi giapponesi, il
Principe si indigna e i tre sono costretti a lasciare il palazzo.
Proprio per queste delusioni, il Saverio è
fermamente convinto che il popolo non si può convertire se prima non si
convertono i capi. E’ necessario avvicinare l’Imperatore. Intraprende altri
viaggi per terra e per mare con i soliti disagi e pericoli e finalmente giunge a
Miyako, dove risiede l’Imperatore, il "figlio del cielo. Ma la delusione
è grande: i tre, essendo mal vestiti e con l’aspetto di mendicanti, non vengono
ammessi nel palazzo.
E’ una lezione per Francesco Saverio, che riparte e
cambia metodo. Ritorna in Giappone da Ambasciatore, munito di lettere di
presentazione del Governatore dell’India, rappresentante del Re di Portogallo e
del Vescovo, rappresentante del Papa. Porta con sé ricchi doni e si veste con
uno splendido kimono e una spada a tracollo. I due compagni fungono da suoi
cortigiani.
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S.Francesco Saverio
[stampa giapponese] |
All’inizio del 1552 vengono ricevuti con
tutti gli onori dal Duca di Yamaguchi, che rimane ben impressionato e ricambia i
doni con oro e argento, con la concessione di un monastero e con il permesso di
predicare la loro dottrina. I tre ne approfittano e ottengono diverse
conversioni, e tra esse uscirà anche un futuro Padre gesuita, il P.Lorenzo.
Giungono a Francesco vari inviti di alti dignitari,
che lo accolgono con grandi onori; ottiene altre conversioni, ma
contemporaneamente riceve anche notizie non buone di persecuzioni dei
cristiani. Con soddisfazione nota che ormai la Chiesa giapponese ha una sua
consistenza e quindi decide di far ritorno nelle prime comunità.
Con viaggi, sempre pericolosi e faticosi, e passando
per Sancian, Singapore e Kochin, giunge a Malacca, dove con immensa gioia
trova varie lettere giunte dall’Europa: in una di queste, scritta dal Padre
Ignazio, apprende che è stato nominato Superiore della nuova Provincia
dell’India della Compagnia di Gesù.
Intanto riprende il viaggio e ai primi di febbraio
giunge a Goa. Erano trascorsi dieci anni da quando era sbarcato per la prima
volta in quella città. Vi rimane due mesi e in questo tempo scrive numerose
lettere, visita le case dei Gesuiti, nomina nuovi superiori, dà a tutti
istruzioni e direttive.
L’ultimo
desiderio: la Cina
Un viaggio in Cina era stato sempre il sogno di
Francesco Saverio, per portare in quelle terre la luce del Vangelo. Quando era
in Giappone, dove si aveva per la Cina una grande ammirazione, i giapponesi gli
avevano chiesto: "Come mai può essere vera la religione degli europei, se la
Cina non ne sa nulla?"
Il viaggio in Cina era quindi indispensabile, anche
se egli sapeva che l’ingresso in quelle terre era severamente proibito agli
stranieri. Nonostante ciò, in una lettera scrive: "Siamo dunque decisi ad
aprirci una via in Cina a tutti i costi. Spero in Dio che il risultato del
nostro viaggio sarà di aumentare la nostra fede, qualunque sia la persecuzione
del demonio e dei suoi ministri. Se Dio è con noi chi può abbatterci?"
L’occasione gli viene data dal capitano Diego
Pereira, il quale è munito di credenziali quale ambasciatore del viceré
dell’India., e parte il giovedì santo del 1552 con due Gesuiti e un
cinese di nome Antonio. Purtroppo il Pereira non può proseguire per dissensi e
antichi rancori con uno dei figli di Vasco de Gama, e Francesco Saverio, che
ormai non può più andare in Cina legalmente, si affida alle promesse di un
mercante, e lo attende sull’isola di Sancian.
Il tempo passa e intanto Francesco si ammala, mentre
alloggia con il fedele Antonio in una povera capanna. E Antonio, in una lettera
al P.Manuel Texeira, nel 1554, descrive gli ultimi giorni di Francesco, e
ci fa sapere che la febbre forte lo faceva delirare, che invocava continuamente
la Santissima Trinità e la Madonna e che chiedeva perdono a Dio.
Trascorre così l’ultima notte, e all’alba del 3
dicembre 1552, all’età di 46 anni e 8 mesi, "col nome di Gesù
sulle labbra – scrive Antonio – egli rese la sua anima al suo Creatore,
con gran serenità e pace".
Anche se Francesco non ha messo piede in Cina, lo si
può considerare il primo missionario di quella terra, fecondata certamente dal
suo grande desiderio di evangelizzarla.
Francesco Saverio è stato proclamato santo - insieme
a Ignazio - il 12 marzo del 1622; Patrono dell’Oriente cristiano nel
1748; Patrono dell’Opera della Propagazione della Fede nel 1904; Patrono
delle Missioni nel 1927. Sempre nel 1927 Pio XI proclamò come
copatrona delle Missioni S.Teresa di Lisieux (1873-1827).
San Francesco Saverio missionario in
Oriente.
Guai a me se non predicherò il
Vangelo!
Dalle «Lettere» a sant'Ignazio di
san Francesco Saverio, sacerdote
(Lett. 20 ott. 1542, 15 gennaio 1544; Epist. S. Francisci Xaverii aliaque eius scripta, ed. G. Schurhammer I Wicki, t. I, Mon. Hist. Soc. Iesu, vol. 67, Romae, 1944, pp. 147-148; 166-167)
Abbiamo percorso i villaggi dei neofiti, che pochi anni fa avevano ricevuto i sacramenti cristiani. Questa zona non è abitata dai Portoghesi, perché estremamente sterile e povera, e i cristiani indigeni, privi di sacerdoti, non sanno nient'altro se non che sono cristiani. non c'è nessuno che celebri le sacre funzioni, nessuno che insegni loro il Credo, il Padre nostro, l'Ave ed i Comandamenti della legge divina.
Da quando dunque arrivai qui non mi sono fermato un istante; percorro con assiduità i villaggi, amministro il battesimo ai bambini che non l'hanno ancora ricevuto. Così ho salvato un numero grandissimo di bambini, i quali, come si dice, non sapevano distinguere la destra dalla sinistra. I fanciulli poi non mi lasciano né dire l'Ufficio divino, né prendere cibo, né riposare fino a che non ho loro insegnato qualche preghiera; allora ho cominciato a capire che a loro appartiene il regno dei cieli.
Perciò, non potendo senza empietà respingere una domanda così giusta, a cominciare dalla confessione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnavo loro il Simbolo apostolico, il Padre nostro e l'Ave Maria. Mi sono accorto che sono molto intelligenti e, se ci fosse qualcuno a istruirli nella legge cristiana, non dubito che diventerebbero ottimi cristiani.
Moltissimi, in questi luoghi, non si fanno ora cristiani solamente perché manca chi li faccia cristiani. Molto spesso mi viene in mente di percorrere le Università d'Europa, specialmente quella di Parigi, e di mettermi a gridare qua e là come un pazzo e scuotere coloro che hanno più scienza che carità con queste parole: Ahimè, quale gran numero di anime, per colpa vostra, viene escluso dal cielo e cacciato all'inferno!
Oh! se costoro, come si occupano di lettere, così si dessero pensiero anche di questo, onde poter rendere conto a Dio della scienza e dei talenti ricevuti!
In verità moltissimi di costoro, turbati da questo pensiero, dandosi alla meditazione delle cose divine, si disporrebbero ad ascoltare quanto il Signore dice al loro cuore, e, messe da parte le loro brame e gli affari umani, si metterebbero totalmente a disposizione della volontà di Dio. Griderebbero certo dal profondo del loro cuore: «Signore, eccomi; che cosa vuoi che io faccia?» (At 9, 6 volg.). Mandami dove vuoi, magari anche in India.
(Lett. 20 ott. 1542, 15 gennaio 1544; Epist. S. Francisci Xaverii aliaque eius scripta, ed. G. Schurhammer I Wicki, t. I, Mon. Hist. Soc. Iesu, vol. 67, Romae, 1944, pp. 147-148; 166-167)
Abbiamo percorso i villaggi dei neofiti, che pochi anni fa avevano ricevuto i sacramenti cristiani. Questa zona non è abitata dai Portoghesi, perché estremamente sterile e povera, e i cristiani indigeni, privi di sacerdoti, non sanno nient'altro se non che sono cristiani. non c'è nessuno che celebri le sacre funzioni, nessuno che insegni loro il Credo, il Padre nostro, l'Ave ed i Comandamenti della legge divina.
Da quando dunque arrivai qui non mi sono fermato un istante; percorro con assiduità i villaggi, amministro il battesimo ai bambini che non l'hanno ancora ricevuto. Così ho salvato un numero grandissimo di bambini, i quali, come si dice, non sapevano distinguere la destra dalla sinistra. I fanciulli poi non mi lasciano né dire l'Ufficio divino, né prendere cibo, né riposare fino a che non ho loro insegnato qualche preghiera; allora ho cominciato a capire che a loro appartiene il regno dei cieli.
Perciò, non potendo senza empietà respingere una domanda così giusta, a cominciare dalla confessione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnavo loro il Simbolo apostolico, il Padre nostro e l'Ave Maria. Mi sono accorto che sono molto intelligenti e, se ci fosse qualcuno a istruirli nella legge cristiana, non dubito che diventerebbero ottimi cristiani.
Moltissimi, in questi luoghi, non si fanno ora cristiani solamente perché manca chi li faccia cristiani. Molto spesso mi viene in mente di percorrere le Università d'Europa, specialmente quella di Parigi, e di mettermi a gridare qua e là come un pazzo e scuotere coloro che hanno più scienza che carità con queste parole: Ahimè, quale gran numero di anime, per colpa vostra, viene escluso dal cielo e cacciato all'inferno!
Oh! se costoro, come si occupano di lettere, così si dessero pensiero anche di questo, onde poter rendere conto a Dio della scienza e dei talenti ricevuti!
In verità moltissimi di costoro, turbati da questo pensiero, dandosi alla meditazione delle cose divine, si disporrebbero ad ascoltare quanto il Signore dice al loro cuore, e, messe da parte le loro brame e gli affari umani, si metterebbero totalmente a disposizione della volontà di Dio. Griderebbero certo dal profondo del loro cuore: «Signore, eccomi; che cosa vuoi che io faccia?» (At 9, 6 volg.). Mandami dove vuoi, magari anche in India.
Testo della "Novena della
Grazia"
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Carissimo S.Francesco Saverio, con te adoro Dio
nostro Signore, ringraziandolo per i grandi doni di grazia che ti ha concesso
durante la tua vita, e per la gloria di cui ti ha coronato in Cielo.
Ti supplico con tutto il cuore di intercedere per me presso il Signore, perché mi dia anzitutto la grazia di vivere e morire santamente, e mi conceda la grazia particolare di cui ho bisogno in questo momento, sempre che sia secondo la Sua volontà e la Sua maggior gloria. Amen.
Ti supplico con tutto il cuore di intercedere per me presso il Signore, perché mi dia anzitutto la grazia di vivere e morire santamente, e mi conceda la grazia particolare di cui ho bisogno in questo momento, sempre che sia secondo la Sua volontà e la Sua maggior gloria. Amen.
- Padre
nostro – Ave Maria – Gloria.
- Prega per noi, S.Francesco Saverio.
- E saremo degni delle promesse di Cristo.
- Prega per noi, S.Francesco Saverio.
- E saremo degni delle promesse di Cristo.
Preghiamo: O Dio, che con la
predicazione apostolica di S. Francesco Saverio hai chiamato molti popoli'dell'Oriente
alla luce dei Vangelo, fa' che ogni comunità cristiana abbia il suo fervore
missionario, perché su tutta la terra la Santa Chiesa si allieti di nuovi figli.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
LETTERA APOSTOLICA
CON LA QUALE IL SANTO PADRE
PIO XI
RICORDA IGNAZIO DI LOYOLA E FRANCESCO SAVERIO
NEL TERZO CENTENARIO DELLA LORO CANONIZZAZIONE
CON LA QUALE IL SANTO PADRE
PIO XI
RICORDA IGNAZIO DI LOYOLA E FRANCESCO SAVERIO
NEL TERZO CENTENARIO DELLA LORO CANONIZZAZIONE
«MEDITANTIBUS NOBIS»
Al Reverendo Padre Wladimiro Ledóchowski,
Generale della Compagnia di Gesù.
Generale della Compagnia di Gesù.
Diletto figlio, salute e Apostolica Benedizione.
Quando, all’inizio del Nostro Sommo Pontificato, Noi
meditavamo come avremmo potuto procurare alla Santa Chiesa sia migliori
condizioni interne, sia favorevoli sviluppi all’esterno, come richiesto
fondamentalmente dal Nostro ufficio, è giunto, con il ricordo di altri Santi,
anche quello di Ignazio di Loyola e di Francesco Saverio, dei quali dovrà
celebrarsi con grandiosa solennità il terzo centenario della canonizzazione.
L’uno, infatti, per disposizione divina, fu dato come aiuto alla Sposa di Cristo
la quale stava iniziando un nuovo periodo della propria vita, in cui lotta e
contrasto erano sempre presenti; l’altro, nella sua instancabile operosità per
la diffusione della luce evangelica, andò adorno di tanti e così rilevanti
carismi dello Spirito Santo da sembrare l’erede della virtù e dello zelo che
rifulsero nei primi Apostoli.
Per la verità, la stagione di pericoli nella quale
Ignazio accorse in aiuto della Chiesa non è ancora finta, in quanto quasi tutti
i mali presenti derivano da quella radice; e se oggi, più che mai, « una
porta grande e propizia è aperta » [1]
al Vangelo di Gesù Cristo, ciò avviene specialmente nelle regioni dove lavorò
Saverio. Pertanto, diletto figlio, se Ci è sembrato opportuno scriverti questa
Lettera di elogio del tuo Padre Legislatore e del maggiore dei suoi figli, ciò
non avviene soltanto nell’interesse del tuo Ordine, ma per il bene comune.
Infatti, è di grande importanza che la Cristianità fiorisca ogni giorno di più
per l’insegnamento dell’uno e si diffonda, rinverdendo, per l’impegno
dell’altro.
Certamente è vero che quanti meritano dall’autorità
della Chiesa la lode di santità hanno tutti in comune di essere eccellenti in
ogni genere di virtù; tuttavia, come « ogni stella differisce da un’altra
nello splendore » [2],
così i Santi si distinguono con ammirabile varietà l’uno dall’altro per la loro
particolare eccellenza o in questa o in quella virtù. Ora, se riguardiamo la
vita d’Ignazio, restiamo anzitutto mossi ad ammirazione dalla magnanimità di un
uomo che, avido di procurare la maggior gloria di Dio, non pago di impiegare se
stesso in tutti gli uffici del sacro ministero e di abbracciare per la salute
delle anime ogni genere di beneficenza cristiana, si associò dei compagni pronti
ed ardenti come in un drappello di scelta milizia, per dilatare il regno di Dio
tra i fedeli e tra i barbari. Ma chi penetri più addentro la vicenda, facilmente
scorgerà quale nota distintiva di Ignazio lo spirito insigne di ubbidienza, e
come missione a lui particolarmente assegnata da Dio il condurre gli uomini ad
esercitare con più amore questa stessa virtù.
Infatti, chi conosce il tempo in cui visse Ignazio,
non ignora che il principale tra tutti i mali onde fu afflitta la Chiesa in quei
giorni procellosi, fu il rifiuto di gran parte degli uomini di ubbidire e di
sottomettersi a Dio. A capo di tale movimento di ribellione contro il servizio
divino furono certo coloro che, assegnando al privato giudizio del singolo la
regola della fede divina, ripudiarono superbamente l’autorità della Chiesa
cattolica. Ma oltre a questi, troppi erano coloro che, se non per sistema, certo
di fatto sembravano avere respinto la sottomissione a Cristo, e vivevano più da
pagani che da cristiani; come se col rinascimento delle lettere e delle arti
fosse rivissuto lo spirito dell’antico paganesimo. Si può anzi affermare che, se
gran parte della società cristiana non fosse stata infetta, come da veleno
pestifero, dalla sfrenata licenza di vita e di sentimenti, giammai dal corpo
della Chiesa sarebbe scoppiata l’eresia dei Novatori. Pertanto, venuto meno il
rispetto delle leggi divine non solo in gran parte del popolo cristiano, ma
persino del clero, e mentre allo scoppiare della rivolta promossa dai Novatori
si vedevano allontanarsi dal grembo materno della Chiesa non poche regioni,
quelle cioè in cui più si era rallentato il sentimento del dovere, dal cuore dei
buoni erompeva unanime la preghiera al divino Fondatore della Chiesa perché,
memore delle sue promesse, venisse in soccorso alla sua Sposa in circostanze
tanto stringenti.
Ed effettivamente, quando giudicò che i tempi
fossero maturi, Egli venne in suo aiuto in modo meraviglioso con la celebrazione
del Concilio di Trento. Inoltre, a conforto della Chiesa, suscitò, quali
illustri modelli di ogni virtù, un Carlo Borromeo, un Gaetano Thiene, un Antonio
Zaccaria, un Filippo Neri, una Teresa di Gesù ed altri personaggi destinati a
dimostrare con la loro vita l’indefettibile santità della Chiesa cattolica, e a
reprimere l’empietà e la corruttela dei costumi con la voce, con gli scritti,
con l’esempio. E veramente grande ed utilissima fu l’opera da essi compiuta. Ma
occorreva estirpare dalle più profonde radici l’origine stessa del male; e a
quest’opera, appunto, Ignazio parve destinato dalla divina Provvidenza. Egli
infatti, dotato dalla natura d’indole mirabilmente disposta sia al comando, sia
all’ubbidienza, fin dai primi suoi anni andò rafforzandola con la disciplina
militare. Fornito dunque di un animo così temprato per natura e per educazione,
non appena illuminato da Dio si sentì chiamato a promuovere la gloria divina e
la salute delle anime, con tutta la fiamma del suo cuore ardente si arruolò
sotto le bandiere del Re dei cieli. E volendo inaugurare degnamente la sua nuova
vita militare, vegliò tutta una notte in armi presso l’altare della Vergine; e
poco dopo, ritiratosi nella grotta di Manresa, apprese dalla stessa Madre di Dio
l’arte di combattere le battaglie del Signore, e ricevette come dalle mani di
Lei quel perfetto codice di leggi (che così in verità possiamo chiamarlo) di cui
deve far uso ogni buon soldato di Gesù Cristo. Alludiamo agli Esercizi
Spirituali che, secondo la tradizione, furono ispirati dal cielo ad Ignazio. Non
che si debbano apprezzare poco altri metodi di esercizi usati da altri, ma in
quelli che si compiono secondo il metodo Ignaziano tutto il disegno è così
sapientemente combinato, ogni parte è così strettamente connessa con l’altra,
che ove non si sia contrari alla grazia divina, rinnovano l’uomo, per così dire,
radicalmente e lo rendono del tutto sottomesso al volere divino. Preparatosi
così alla vita d’azione, Ignazio si impegnò a formare i compagni che si era
prescelto, volendo che riuscissero esemplarmente ubbidienti a Dio e al Vicario
di Dio, il Romano Pontefice, e che considerassero l’obbedienza come la nota
caratteristica della sua Compagnia. Perciò non solo volle che i suoi si
avvezzassero ad alimentare il fervore spirituale specialmente con la pratica
degli Esercizi, ma li armò di questo stesso strumento perché se ne servissero in
ogni tempo per ricondurre alla Chiesa gli animi che se ne erano allontanati e
per sottometterli totalmente al potere di Cristo.
In realtà, la storia attesta, e gli stessi nemici
della Chiesa ammettono, qual benefico sollievo provasse subito il mondo
cattolico confortato tramite Ignazio di così opportuno aiuto; né riuscirebbe
facile ricordare le imprese di ogni genere compiute per la gloria di Dio dalla
Compagnia di Gesù sotto la guida e il magistero di Ignazio. Furono allora visti
i suoi compagni instancabili respingere vittoriosamente la ribellione degli
eretici; attendere dappertutto alla riforma dei costumi corrotti; restaurare nel
Clero la scaduta disciplina; guidare non pochi alle cime della perfezione
cristiana; impegnarsi nell’informare a pietà e nell’erudire nelle lettere e
nelle scienze la gioventù, nell’intento di preparare una posterità veramente
cristiana; e lavorare intanto egregiamente nella conversione degli infedeli per
dilatare con nuove conquiste il regno di Gesù Cristo.
Noi abbiamo volentieri ricordato tali benemerenze
non solo perché manifestano la bontà divina verso la Chiesa, ma perché Ci
sembrano opportunissime ai tempi tribolati in cui siamo stati innalzati a questa
Sede Apostolica. Infatti, se si vuole ricercare la prima origine dei mali da cui
è travagliata la nostra società, si vedrà che tutto deriva dalla ribellione che
i Novatori scatenarono contro l’autorità divina della Chiesa; ribellione che,
ingigantita nel secolo XVIII nella grande Rivoluzione, quando con tanta
arroganza si promulgarono i diritti dell’uomo, ora è spinta alle estreme
conseguenze. Ond’è che vediamo esaltata fuor di misura la dignità della ragione
umana; disprezzato e ripudiato quanto sembri superare le forze e l’intelligenza
dell’uomo e non sia compreso nei limiti della natura; per nulla considerati e
dai privati e dai pubblici poteri gli stessi sacrosanti diritti di Dio.
Pertanto, eliminato Dio, principio e sorgente di ogni autorità, ne consegue
naturalmente che più non esista potere umano la cui autorità venga reputata
inviolabile. Perciò, disprezzata l’autorità divina della Chiesa, in breve
parvero vacillare e rovinare i fondamenti del potere civile, perché, prevalendo
sempre più la pazza audacia della cupidigia, si incominciarono impunemente a
pervertire le leggi dell’umano consorzio.
Orbene, nessun rimedio efficace, del quale tutti i
buoni sentono la necessità, si può recare a condizioni tanto disperate, ove non
si ristabilisca il rispetto a Dio e l’ubbidienza alla sua volontà. Attraverso le
innumerevoli vicissitudini di tempi e di cose rimane sempre inconcusso che il
primo e il più grande dovere degli uomini sono l’ossequio e l’ubbidienza al
sommo Creatore e Signore di tutte le cose; ogni qualvolta essi si allontanano da
tale dovere, occorre subito che si ravvedano, se vogliono reintegrare l’ordine
radicalmente perturbato e così andar liberi dalla quantità di mali che li
opprimono. Del resto in questo solo punto è contenuta l’essenza della vita
cristiana, e lo stesso Apostolo Paolo sembra voler inculcare questo concetto
quando mirabilmente compendia in brevi tratti la vita del divino Redentore: «Umiliò
se stesso facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce » [3].
« Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati
costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno
costituiti giusti » [4].
Ora appunto gli Esercizi Spirituali aiutano
meravigliosamente tale ritorno all’ubbidienza in quanto, specialmente se fatti
secondo il metodo di Sant’Ignazio, inculcano con argomenti inoppugnabili la
perfetta ubbidienza alla legge divina, appoggiandola agli eterni princìpi della
ragione e della fede. Perciò, desiderosi che la loro pratica si diffonda sempre
più, seguendo l’esempio di molti Nostri Predecessori, non solo tornammo a
raccomandarli ai fedeli con la Costituzione Apostolica « Summorum Pontificum
», ma inoltre nominammo Sant’Ignazio di Loyola celeste Patrono di tutti gli
Esercizi Spirituali. E quantunque, come abbiamo detto, non manchino altri metodi
di Esercizi, è però certo che il metodo Ignaziano eccelle tra essi, e,
soprattutto per la più sicura speranza che porge di utilità solida e duratura,
gode di più ampie approvazioni della Sede Apostolica. Se dunque molti fedeli
useranno con diligenza questo strumento di santità, potremo confidare che in
breve, repressa la cupidigia di libertà sfrenata e ristabilite la coscienza e
l’osservanza del dovere, possa finalmente l’umana società ottenere il dono della
pace sospirata.
Quanto fin qui abbiamo rammentato, riguarda
propriamente il bene interno e domestico della religione cristiana. Ma ciò che
stiamo per dire in breve di San Francesco Saverio, riguarda il suo incremento
all’esterno; benché, a dire il vero, strettissimo è il legame che congiunge
l’opera del Saverio con quella di Ignazio, che ora abbiamo lodata. Infatti
Ignazio, alla propria scuola, seppe talmente mutare quel Saverio che da
principio aveva trovato tutto dedito alla vanità della gloria umana, da poterlo
in breve offrire all’estremo Oriente quale predicatore, anzi Apostolo del
Vangelo di Cristo: mutazione, questa, veramente meravigliosa e da attribuire
tutta meritamente all’efficacia degli Esercizi. Infatti, se Francesco intraprese
più volte così lunghi viaggi per terra e per mare; se portò per primo il nome di
Gesù nel Giappone, che a buon diritto si può appellare isola dei Martiri; se
affrontò pericoli immensi e sostenne incredibili fatiche; se versò l’acqua
salutare del Battesimo su innumerabili fronti; se infine operò tanti miracoli di
ogni genere, tutto ciò lo stesso Francesco affermava di doverlo, dopo Dio, ad
Ignazio, « padre dell’anima sua », come lo chiamava, dal quale, nel sacro
ritiro degli Esercizi, era stato guidato alla piena cognizione e all’amore di
Gesù Cristo. E qui certo rifulgono l’ammirabile bontà e sapienza della
provvidenza di Dio; il quale, nel tempo appunto in cui la Chiesa era
terribilmente combattuta all’interno, e all’esterno subiva perdite ingenti di
popoli intieri, con questo solo mezzo, ossia con l’aiuto degli Esercizi, le
somministrò un duplice soccorso della più grande opportunità; cioè, insieme con
Ignazio, prescelto a riparare la disciplina interna, quel Saverio che con la
conquista di popoli stranieri alla fede di Cristo doveva compensare le perdite
della Chiesa stessa. Primo, dopo un così lungo intervallo di tempo, egli parve
rinnovare gli esempi degli Apostoli; poiché egli stesso fondò solide cristianità
tra non poche genti barbare, dopo averle istruite con molti sudori e guidate
alla pietà con le sue virtù esimie, ed aprì ai nostri Missionari vastissime
regioni che fino a quel tempo erano rimaste assolutamente chiuse alla
predicazione cristiana. Egli poi, com’era naturale, lasciò eredi del suo spirito
prima di tutti i suoi Fratelli; e Noi sappiamo che fino ad oggi essi non si
allontanarono mai dalla virtù di lui, ma custodirono sempre gelosamente una così
preziosa eredità. Ma la memoria di Francesco Saverio servì sempre di stimolo
anche agli altri predicatori del Vangelo; e perciò appunto il Saverio, per
solenne decreto di questa Sede Apostolica, fu proclamato Patrono celeste
dell’opera della « Propagazione della Fede ».
Orbene, la nostra età assomiglia a quella del
Saverio anche nel fatto che la fede avita, respinta con superbo sdegno da molti
dei nostri, sembra ormai voglia passare ad altre nazioni che l’attendono
desiderose. E Noi spesso apprendiamo dalle lettere dei Missionari che in remote
regioni dell’Africa e dell’Asia già biondeggia la messe apostolica per la
raccolta, onde riparare i danni che subisce la Chiesa in Europa. Inoltre i
fedeli si mostrano ora molto più zelanti che in passato nel promuovere la
propagazione del Vangelo; zelo, questo, certamente acceso dal soffio della
grazia divina, e che Noi auspichiamo ardentemente s’infiammi dappertutto,
sull’esempio e sotto il patrocinio del Saverio, affinché, mosso dalle preghiere,
« il Padrone della messe mandi operai nella sua messe »: operai che ogni
buon cristiano vorrà aiutare con le preghiere e sostenere con le offerte.
Perciò, diletti figli, quanti appartenete alla
Compagnia di Gesù, mentre celebrate la solenne memoria del vostro Padre
Legislatore e del vostro Fratello maggiore, vi esortiamo tutti a seguire i loro
esempi continuando con sempre nuove benemerenze verso la Chiesa a promuovere il
vostro Istituto, ripetutamente onorato di ampie lodi da questa Sede Apostolica.
E, principalmente, doppio è il frutto che vorremmo ricaviate dalla presente
solennità. Anzitutto che attendiate ogni giorno più a servirvi per vostra e
altrui utilità degli Esercizi Spirituali. Sappiamo che su questo punto
già avete intrapreso con esito felice a lavorare con particolare diligenza a
favore della classe operaia; è dunque da augurare che con uguale positivo
risultato vi adoperiate nell’interesse delle altre classi sociali. Il secondo
frutto riguarda la diffusione delle Missioni cattoliche. Ora, benché conosciamo
la vostra diligenza e il vostro impegno del tutto singolari anche in quest’opera
(sappiamo infatti che circa duemila di voi lavorano per gl’infedeli in quasi
quaranta Missioni) tuttavia preghiamo ardentemente Iddio che ecciti ed infiammi
sempre più in voi codesto santo zelo.
E perché tutto riesca a maggior gloria di Dio, a
bene della Chiesa e a salvezza delle anime, auspice dei doni divini e testimone
della Nostra benevolenza paterna, impartiamo con vivo affetto la Benedizione
Apostolica a te, diletto figlio, e a tutti i figli della Compagnia di Gesù a te
affidati.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 3 dicembre
1922, festa di San Francesco Saverio, anno primo del Nostro Pontificato.
PIUS PP. XI
Fonte :
www.vatican.va ,
www.gesuiti.it/moscati/Italiano/It_SFXavier.html ,
www.gesuiti.it/moscati/Ital2/It_Xavier.html ,
www.santiebeati.it/dettaglio/25450
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