lunedì 5 agosto 2019

SAN FRANCESCO SAVERIO (1506-1552), missionario e Patrono dell'Oriente e di tutte le missioni



SAN FRANCESCO SAVERIO (1506-1552),
 
missionario e Patrono dell'Oriente e di tutte le missioni
 
 
S. Francesco Saverio, di Claudio Coello, Chiesa Parrocchiale di Valdemoro.


Studente a Parigi conobbe sant'Ignazio di Loyola e fece parte del nucleo di fondazione della Compagnia di Gesù. E' il più grande missionario dell'epoca moderna. Portò il Vangelo a contatto con le grandi culture orientali, adattandolo con sapiente senso apostolico all'indole delle varie popolazioni. Nei suoi viaggi missionari toccò l'India, il Giappone, e morì mentre si accingeva a diffondere il messaggio di Cristo nell'immenso continente cinese. (Mess. Rom.)
Pioniere delle missioni dei tempi moderni, patrono dell'Oriente dal 1748, dell'Opera della Propagazione della Fede dal 1904, di tutte le missioni con S. Teresa di Gesù Bambino dal 1927.


San Francesco Saverio è uno dei primi compagni di S. Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù, ed è vissuto in un periodo di congiure e di lotte tra la Francia e la Spagna.
E’ nato il 7 aprile del 1506 in Spagna, nella Navarra, nel castello di famiglia di Xavier, da una nobile famiglia, ultimo di sei figli. Nel castello regnava una profonda pietà e spesso la famiglia si trovava riunita nella piccola cappella dedicata alla Vergine Maria.
Nel 1512 Ferdinando il Cattolico annette la Navarra alla Spagna, di cui diventa provincia, ma presto sorgono lotte interne tra autonomisti (che per opportunità parteggiano per la Francia) e quelli favorevoli alla Spagna. La famiglia Xavier parteggia per il primo gruppo, ma quando questo viene sconfitto, anche i beni dei Xavier sono confiscati.
Il padre muore il 15 ottobre del 1515. Cinque anni dopo, i Navarrini (e tra essi i fratelli di Francesco) riprendono le armi contro la Spagna e chiamano in aiuto i francesi di Francesco I, che assediano la capitale Pamplona, la cui fortezza era comandata dal capitano Ignazio di Loyola.
S.Ignazio di Loyola
In seguito a tanti avvenimenti, le ricchezze della famiglia Xavier si erano dissolte, per cui Francesco, a diciannove anni, valica i Pirenei e va a studiare all'università della Sorbona, a Parigi. L’università, in quel tempo, contava circa 4.000 studenti e prevedeva un corso di studi che durava dieci anni: tre di filosofia davano il titolo di "Maestro delle Arti", e sette di teologia, scienze e legge, che conferivano quello di "Dottore". Sulla carta vigeva una disciplina rigida, ma nella pratica c’era molta immoralità.
Al giovane Francesco viene assegnato come abitazione il collegio Santa Barbara e dopo tre anni consegue il titolo di Magister artium che, tra l’altro, gli consente il diritto di dare lezioni ad altri studenti.
E’ in questo tempo che giunge a Parigi Ignazio di Loyola, che ferito nell’assedio di Pamplona si era poi convertito e, all’età di trent'anni, era ritornato sui banchi di scuola.
Certamente per disposizione della divina Provvidenza, anche a Ignazio viene assegnato il collegio di Santa Barbara, dove presto incontra Francesco che gli dà lezioni di filosofia. Dapprima i rapporti tra i due non sono idilliaci, ma ben presto Ignazio si rende conto che Francesco è un giovane di intelligenza superiore, brillante e ambizioso. Gli è sempre vicino, gli procura alunni, avendo intuito le sue strettezze economiche, lo consiglia, gli prospetta ideali superiori, che, però, non vengono recepiti. Un giorno Ignazio dirà: "Non ho trovato mai una creta così ribelle !".
Ignazio di Loyola era un basco, tenace e forte, che difficilmente si arrendeva dinanzi alle difficoltà. Dopo la ferita di Pamplona, temendo di rimanere con la gamba destra più corta della sinistra, tra lo sgomento degli stessi medici, si era fatto segare l’osso della gamba tra atroci spasimi. Si trovava dinanzi ad un giovane che avrebbe potuto fare molto per la gloria di Dio e quindi è convinto che deve insistere.
"Che giova all’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima?" (Mt 16, 26), gli ripeteva frequentemente. Queste parole penetravano profondamente nell’animo generoso di Francesco, e a poco a poco cominciavano a trasformare il suo animo, finché accetta di vivere l’esperienza che aveva maturato la spiritualità del Loyola: per 40 giorni sperimenta l’efficacia degli Esercizi Spirituali. Ne esce letteralmente trasformato, con una eccezionale disponibilità a compiere la volontà di Dio.

Nascita della Compagnia di Gesù a Montmartre, Parigi
A Parigi un altro giovane, oriundo della Savoia, Pietro Favre, è amico di Ignazio e di Francesco. E' già sacerdote, dotato di una profonda spiritualità, e vuole anch’egli condividere gli ideali degli altri due. Ben presto altri seguono l’esempio, passando tutti per l’itinerario degli Esercizi Spirituali, e il 15 agosto del 1534, festa dell’Assunzione di Maria Santissima, si ritrovano nella chiesa sulla collina di Montmartre, dove, durante la Messa celebrata dal Favre, si consacrano totalmente a Dio col voto di povertà, di castità e di peregrinare in Terra Santa. Nasceva in quel giorno e in quel luogo la Compagnia di Gesù, di cui Francesco Saverio era uno dei primi elementi.
Una lapide in lingua latina, nella chiesa di Montmartre, ricorda ancora quell’avvenimento con queste parole: "La Compagnia di Gesù, che ebbe come Padre S. Ignazio di Loyola e come madre Parigi, nacque qui il 15 agosto nell’anno di grazia 1534".
Giuridicamente la Compagnia di Gesù nascerà sei anni dopo, il 27 settembre del 1540, con la bolla del Papa Paolo III "Regiminis militantis Ecclesiae".
Nel 1535 ricominciano le guerre tra Francia e Spagna, e allora i giovani seguaci di Ignazio lasciano Parigi e si incamminano per Venezia, da dove sperano di partire per i Luoghi Santi, per mettere in atto il voto di Montmartre. Non essendo ciò possibile, Francesco e i compagni si dedicano alla cura degli ammalati per due mesi e poi partono per Roma per presentarsi al Papa. Il terzo voto contemplava infatti questa clausola: nell’impossibilità di partire per la Terra Santa, dovevano mettersi a disposizione del Papa, Vicario di Cristo.
Il Papa non solo li accoglie benevolmente, ma avendo sperimentato la loro dottrina teologica, dà loro danaro per il viaggio in Terra Santa e la facoltà di essere ordinati sacerdoti da qualunque Vescovo da essi scelto. Pieni di gioia ritornano a Venezia, sperando sempre di imbarcarsi per la Terra Santa. A Venezia Francesco Saverio rifà per 40 giorni gli Esercizi spirituali e il 24 giugno del 1537 viene ordinato sacerdote per mano di Mons. Vincenzo Nigusanti, Vescovo dalmata. Anche questa volta però non può partire per Gerusalemme, e allora si reca a Bologna.

Missionario in India
Nel 1538 Francesco lascia Bologna e parte per Roma, a piedi, febbricitante e in povertà. Si unisce ai suoi confratelli e insieme decidono di dar vita a un nuovo Istituto, legandosi con i tre voti di povertà, castità e ubbidienza. Poi eleggono il superiore, votando unanimemente per Ignazio.
Nell’abbozzo delle loro decisioni (o "Formula dell’Istituto") veniva introdotta una novità: I Professi aggiungevano ai tre voti soliti un quarto voto di ubbidienza al Papa. Ci si obbligava a ubbidire senza scuse e tergiversazioni "sia che ci mandino tra i Turchi sia tra quelli che dimorano nelle regioni chiamate le Indie, oppure tra gli eretici e gli scismatici di ogni condizione, o altrove". E a Francesco Saverio si presenta subito l’occasione di mettere in atto il quarto voto.
Il Re del Portogallo, Giovanni III, tramite il suo ambasciatore Don Pedro Mascarenhas, aveva chiesto al Papa e a Ignazio qualche missionario per le Indie Orientali, e si era convenuto che sarebbero partiti i Padri Rodriguez e un altro compagno di nome Bobadilla, che allora si trovava a Napoli. Quest’ultimo arriva a Roma febbricitante, per cui non gli è possibile partire subito per il Portogallo con l’ambasciatore. Ignazio allora chiama Francesco Saverio e gli fa presente il desiderio del Papa. Risposta di Saverio: "Pues, sus, hème aqui" (Bene, eccomi qui).
Il 15 marzo del 1540 parte con l’Ambasciatore, salutando per l’ultima volta il suo Padre Ignazio, che non avrebbe visto mai più. Nel viaggio, a Bologna, Francesco riceve una lettera di Ignazio e così risponde: "Nostro Signore sa con quanta gioia e con quale conforto l’ho letta. In questo mondo, penso, non ci incontreremo più, se non per lettera; ma nell’altro ci rivedremo faccia a faccia, con profonde effusioni di amicizia".
Immagine di S.Francesco Saverio appartenuta a
S.Teresa di Lisieux
Il viaggio per Lisbona dura tre mesi. Qui il Saverio incontra il compagno P.Rodriguez e ambedue, in attesa di partire, lavorano apostolicamente in città. Il Re, notando il bene che essi operano, chiede al Papa e ad Ignazio di trattenere a Lisbona i due Padri e di sostituirli con altri. Si addiviene a un compromesso e chi parte per le Indie è solo Francesco Saverio, al quale da Roma giunge il breve papale, che lo nomina "Legato pontificio". Il 7 aprile del 1541 la flotta salpa da Lisbona per le Indie e lo stesso giorno Francesco ricorda il suo 35° compleanno.
A quei tempi intraprendere un viaggio così lungo per mare voleva dire affrontare pericoli e malattie, soffrire fame e sete, freddo e caldo, sfidare tempeste e improvvise "bonacce" che immobilizzavano le navi anche a lungo. Dopo dieci mesi le navi giungono a Mozambico, dove sostano per sei mesi e dove lo zelo de Saverio non conosce soste. Il medico di bordo, Dott. Cosimo Sarajva, così deporrà all’inizio del processo di canonizzazione: "Si occupava personalmente di tutti gli infelici, li curava e ascoltava le loro confessioni. Non si concedeva riposo alcuno. E faceva tutto quanto con grande gioia: ciascuno di noi lo considerava un santo; e questa è pure la mia opinione".
Ripreso il viaggio, finalmente, dopo un anno e due mesi, il 6 maggio del 1542, Francesco sbarca a Goa, capitale dell’impero delle Indie Orientali.
Goa era una città ricca di splendidi monumenti, tra cui una bellissima cattedrale, e da qui i Portoghesi dominavano un immenso impero coloniale, che si estendeva dalle Americhe alle Indie Orientali. Era il territorio che si apriva all’apostolato del nuovo Legato Pontificio.
Vescovo della diocesi era Mons. Giovanni Albuquerque, francescano, uomo di grande pietà e zelo apostolico. Francesco Saverio gli si presenta, munito delle sue prerogative di inviato del Papa e del Re di Portogallo, ma – come scrive il gesuita P.Texeira – "si rimetteva nelle mani di sua Eccellenza e nulla avrebbe fatto senza la sua approvazione… Non intendeva utilizzare le sue facoltà, senza prima accordarsi col Vescovo. Questi, uomo molto pio, vedendo tanta umiltà e obbedienza, lo abbracciò con grande amore, dicendogli… di utilizzare tutti i poteri, secondo le intenzioni di Sua Santità".
Francesco rifiuta cortesemente l'alloggio offertogli nell’episcopato e si ritira presso l’ospedale per soccorrere più agevolmente gli ammalati. Gira per le strade e le piazze con un campanello, raduna i fedeli, li conduce in chiesa e qui predica e li istruisce. Trascorre le domeniche con i lebbrosi, visita i carcerati e i poveri e si prodiga per l’erezione di un collegio per l’educazione della gioventù e la formazione dei cristiani. E’ il collegio di Santa Fede, di cui scrive al suo Padre Ignazio: "Di tutte le iniziative, è la più necessaria, ed ogni giorno di più si rivela indispensabile… Da questa casa usciranno uomini che, piacendo a Dio, accresceranno il numero dei cristiani".
Dopo cinque mesi di permanenza a Goa, Francesco parte per Capo Comorin, la terra dei pescatori di perle. Prima di lui alcuni sacerdoti vi avevano portato il cristianesimo e avevano battezzato circa 20.000 pescatori, ma di cristianesimo questi avevano solo il battesimo. Erano poverissimi, sparsi in numerosi villaggi e conducevano una vita di stenti.
Il Saverio vi ritorna altre tredici volte: visita tutti i villaggi, raduna i bambini, i giovani e gli adulti per istruirli, visita e cura i malati, aiuta i più poveri, edifica cappelle e amministra i sacramenti. Scrive al Padre Ignazio: "Quando sbarcai in questi luoghi, battezzai tutti i fanciulli che ancora non erano stati battezzati, e quindi un gran numero di ragazzi, che non sapevano neppure distinguere la destra dalla sinistra… Mi assediava una folla di giovani, tanto che non riuscivo più a trovare il tempo per dire l’Ufficio, né per mangiare, né per dormire; chiedevano insistentemente che insegnassi loro nuove preghiere. Cominciai a capire che a loro appartiene il regno dei cieli". E ancora scrive: "Battezzai i principali abitanti del luogo con le loro famiglie, poi il resto del popolo, giovani e vecchi. Poi continuai il viaggio verso Tuticorin, dove fui ricevuto, con i compagni, con molta carità".
Lavora in quelle terre per due anni, dove con l’aiuto di alcuni interpreti si sforza di apprendere la lingua, traduce preghiere, visita le comunità cercando di allontanarle dall’idolatria, ha particolare cura degli ammalati. Le conversioni operate, con l’aiuto dei catechisti, sono innumerevoli, e sappiamo che in un solo mese converte e battezza circa 10.000 persone. I biografi parlano anche di prodigi ottenuti con le sue preghiere: migliaia di guarigioni e persino il ritorno in vita di alcuni defunti.
E’ difficile seguire Francesco nelle sue peregrinazioni, spinto sempre dal desiderio di aiutare tutti e di convertirli. Va tra i cristiani della Pescheria, puniti dai pirati di Tutocorin per la loro conversione al cattolicesimo, affronta viaggi impossibili soprattutto per le tempeste, rischia naufragi, cammina giorni interi a piedi, prega sulla tomba di S. Tommaso a San Tomé. Qui matura il proposito di andare a Malacca, città commerciale nell’arcipelago della Malesia e vi giunge dopo un fortunoso viaggio di circa un mese.
Egli stesso scrive che la piccola nave "continuamente rischiava di andare in fondo al mare. Se avessimo urtato una roccia, l’imbarcazione sarebbe andata in pezzi; se, anche in un sol punto la profondità fosse diminuita, ci saremmo incagliati". A Malacca rimane tre mesi, lavorando indefessamente, e nei primi giorni del 1545 s’imbarca per Amboina, costeggia l’Indocina e l’isola di Giava e dopo un mese e mezzo di navigazione giunge a destinazione. Visita i sette villaggi di cristiani e battezza i bambini che non avevano ancora ricevuto il battesimo.
Da Amboina scrive lettere stupende, piene di ardore e di zelo apostolico e manifesta l’idea di partire per la costa del Moro, lontana 130 leghe e abitata dai cacciatori di teste. "L’isola del Moro – scrive – è un luogo molto pericoloso, poiché gli indigeni sono malvagi e mettono diversi veleni nel cibo e nelle bevande. Per questa ragione coloro che avrebbero dovuto vegliare su questi cristiani abbandonati hanno smesso di farlo". Anche qui il suo zelo è straordinario, e dopo tre mesi riparte per visitare i luoghi dov’era stato prima, per risvegliare la fede e incoraggiare i cristiani.

Missionario del Giappone
Nel dicembre del 1547, mentre si trovava a Malacca, s’incontra con un uomo di nome Anijro, che gli parla delle isole del Giappone, dalle quali egli proviene. Francesco resta ammirato di ciò che gli si dice, ma prima deve visitare le comunità cristiane che lo attendono con ansia. Percorre migliaia di chilometri per terra e per mare e con gioia nota che in quelle terre ormai lavorano ben 32 Gesuiti, i Frati Minori e i Padri Domenicani.
Gesuiti in Giappone
Finalmente il 15 aprile del 1549 s’imbarca con sei compagni gesuiti, tre giapponesi cristiani, un cinese e un malabarico e il 15 agosto sbarca nel porto di Kagoshima. Scrive che il Giappone "è la migliore razza che si sia scoperta fino ad oggi, e, credo che tra gli infedeli non si possa trovare gente come i Giapponesi". Parla poi delle loro consuetudini di vita e dice che adorano il sole e la luna, sono buoni ragionatori, ma commettono peccati contro natura.
Francesco a poco a poco si abitua alle loro consuetudini di vita: si siede sui talloni (posizione difficile per uno straniero, dice), fa profondi inchini, mangia come loro. Contemporaneamente riceve molte persone e con l’aiuto di un compagno giapponese dialoga moltissimo.
Viene ricevuto da un Daimyo (principe) nel suo castello di Kokubu e ottiene il permesso di far cristiani tutti i vassalli che lo avessero voluto. Ha molti contatti con i monaci buddisti e soprattutto con un monaco anziano che, dice, "ha tra essi il ruolo di un vescovo". Visita poi molti monasteri, discute con i bonzi, però non si illude: le loro idee sono opposte alle sue e non si meraviglia se ci saranno persecuzioni.
Ha la gioia di battezzare il primo giovane giapponese, che prende il nome di Bernardo e che in seguito diventerà gesuita in Europa. Anche altre persone chiedono di farsi cristiani, ma presto l’ostilità dei bonzi si fa sentire. Scrive infatti: "Tutta la gente sarebbe diventata cristiana, senza i bonzi". Però nutre una grande stima per questo popolo e spera che in seguito tutto sarebbe andato per il meglio.
L’aspirazione di Francesco Saverio, però, era quella di parlare con l’Imperatore. Intanto si era ammalato, ma il suo spirito era pieno di energie. Nell’agosto del 1550 intraprende un viaggio di oltre 200 miglia, riesce a convertire e battezzare alcune centinaia di persone e poi, su una piccola imbarcazione, verso la fine di ottobre si dirige verso l’isola di Honshu, dove risiedeva l’Imperatore.
Un suo compagno di viaggio, scrivendo, parla di ciò che avevano sopportato: freddi intensi e bufere di neve, incontro di pirati per mare e briganti per terra, notti passate sempre all’aperto per mancanza di locande, gonfiore alle gambe, scherni di molti che incontravano, essendo mal vestiti e denutriti, spesso fame e sete. In vari luoghi cercavano di predicare, ma spesso venivano derisi, perché ovunque (tra il popolo, nei monasteri buddisti e nelle corti dei signorotti) imperversava la poligamia, la sodomia, l’idolatria e altri vizi. Nonostante tutto, però, non mancano alcune conversioni.
Un giorno Saverio con due compagni viene ammesso nel palazzo di un potente principe che li accoglie benevolmente, si interessa dei loro viaggi, dell’India e dell’Europa, e chiede notizie sulla dottrina che essi predicano. Il Saverio fa leggere ciò che aveva preparato, ma quando si cominciano a toccare i difetti e i peccati diffusi nei costumi giapponesi, il Principe si indigna e i tre sono costretti a lasciare il palazzo.
Proprio per queste delusioni, il Saverio è fermamente convinto che il popolo non si può convertire se prima non si convertono i capi. E’ necessario avvicinare l’Imperatore. Intraprende altri viaggi per terra e per mare con i soliti disagi e pericoli e finalmente giunge a Miyako, dove risiede l’Imperatore, il "figlio del cielo. Ma la delusione è grande: i tre, essendo mal vestiti e con l’aspetto di mendicanti, non vengono ammessi nel palazzo.
E’ una lezione per Francesco Saverio, che riparte e cambia metodo. Ritorna in Giappone da Ambasciatore, munito di lettere di presentazione del Governatore dell’India, rappresentante del Re di Portogallo e del Vescovo, rappresentante del Papa. Porta con sé ricchi doni e si veste con uno splendido kimono e una spada a tracollo. I due compagni fungono da suoi cortigiani.
S.Francesco Saverio
[stampa giapponese]
All’inizio del 1552 vengono ricevuti con tutti gli onori dal Duca di Yamaguchi, che rimane ben impressionato e ricambia i doni con oro e argento, con la concessione di un monastero e con il permesso di predicare la loro dottrina. I tre ne approfittano e ottengono diverse conversioni, e tra esse uscirà anche un futuro Padre gesuita, il P.Lorenzo.
Giungono a Francesco vari inviti di alti dignitari, che lo accolgono con grandi onori; ottiene altre conversioni, ma contemporaneamente riceve anche notizie non buone di persecuzioni dei cristiani. Con soddisfazione nota che ormai la Chiesa giapponese ha una sua consistenza e quindi decide di far ritorno nelle prime comunità.
Con viaggi, sempre pericolosi e faticosi, e passando per Sancian, Singapore e Kochin, giunge a Malacca, dove con immensa gioia trova varie lettere giunte dall’Europa: in una di queste, scritta dal Padre Ignazio, apprende che è stato nominato Superiore della nuova Provincia dell’India della Compagnia di Gesù.
Intanto riprende il viaggio e ai primi di febbraio giunge a Goa. Erano trascorsi dieci anni da quando era sbarcato per la prima volta in quella città. Vi rimane due mesi e in questo tempo scrive numerose lettere, visita le case dei Gesuiti, nomina nuovi superiori, dà a tutti istruzioni e direttive.

L’ultimo desiderio: la Cina
Un viaggio in Cina era stato sempre il sogno di Francesco Saverio, per portare in quelle terre la luce del Vangelo. Quando era in Giappone, dove si aveva per la Cina una grande ammirazione, i giapponesi gli avevano chiesto: "Come mai può essere vera la religione degli europei, se la Cina non ne sa nulla?"
Il viaggio in Cina era quindi indispensabile, anche se egli sapeva che l’ingresso in quelle terre era severamente proibito agli stranieri. Nonostante ciò, in una lettera scrive: "Siamo dunque decisi ad aprirci una via in Cina a tutti i costi. Spero in Dio che il risultato del nostro viaggio sarà di aumentare la nostra fede, qualunque sia la persecuzione del demonio e dei suoi ministri. Se Dio è con noi chi può abbatterci?"
L’occasione gli viene data dal capitano Diego Pereira, il quale è munito di credenziali quale ambasciatore del viceré dell’India., e parte il giovedì santo del 1552 con due Gesuiti e un cinese di nome Antonio. Purtroppo il Pereira non può proseguire per dissensi e antichi rancori con uno dei figli di Vasco de Gama, e Francesco Saverio, che ormai non può più andare in Cina legalmente, si affida alle promesse di un mercante, e lo attende sull’isola di Sancian.
Il tempo passa e intanto Francesco si ammala, mentre alloggia con il fedele Antonio in una povera capanna. E Antonio, in una lettera al P.Manuel Texeira, nel 1554, descrive gli ultimi giorni di Francesco, e ci fa sapere che la febbre forte lo faceva delirare, che invocava continuamente la Santissima Trinità e la Madonna e che chiedeva perdono a Dio.
Trascorre così l’ultima notte, e all’alba del 3 dicembre 1552, all’età di 46 anni e 8 mesi, "col nome di Gesù sulle labbra – scrive Antonio – egli rese la sua anima al suo Creatore, con gran serenità e pace".
Anche se Francesco non ha messo piede in Cina, lo si può considerare il primo missionario di quella terra, fecondata certamente dal suo grande desiderio di evangelizzarla.
Francesco Saverio è stato proclamato santo - insieme a Ignazio - il 12 marzo del 1622; Patrono dell’Oriente cristiano nel 1748; Patrono dell’Opera della Propagazione della Fede nel 1904; Patrono delle Missioni nel 1927. Sempre nel 1927 Pio XI proclamò come copatrona delle Missioni S.Teresa di Lisieux (1873-1827).


 
San Francesco Saverio missionario in Oriente.



Guai a me se non predicherò il Vangelo!

Dalle «Lettere» a sant'Ignazio di san Francesco Saverio, sacerdote
(Lett. 20 ott. 1542, 15 gennaio 1544; Epist. S. Francisci Xaverii aliaque eius scripta, ed. G. Schurhammer I Wicki, t. I, Mon. Hist. Soc. Iesu, vol. 67, Romae, 1944, pp. 147-148; 166-167)

Abbiamo percorso i villaggi dei neofiti, che pochi anni fa avevano ricevuto i sacramenti cristiani. Questa zona non è abitata dai Portoghesi, perché estremamente sterile e povera, e i cristiani indigeni, privi di sacerdoti, non sanno nient'altro se non che sono cristiani. non c'è nessuno che celebri le sacre funzioni, nessuno che insegni loro il Credo, il Padre nostro, l'Ave ed i Comandamenti della legge divina.
Da quando dunque arrivai qui non mi sono fermato un istante; percorro con assiduità i villaggi, amministro il battesimo ai bambini che non l'hanno ancora ricevuto. Così ho salvato un numero grandissimo di bambini, i quali, come si dice, non sapevano distinguere la destra dalla sinistra. I fanciulli poi non mi lasciano né dire l'Ufficio divino, né prendere cibo, né riposare fino a che non ho loro insegnato qualche preghiera; allora ho cominciato a capire che a loro appartiene il regno dei cieli.
Perciò, non potendo senza empietà respingere una domanda così giusta, a cominciare dalla confessione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnavo loro il Simbolo apostolico, il Padre nostro e l'Ave Maria. Mi sono accorto che sono molto intelligenti e, se ci fosse qualcuno a istruirli nella legge cristiana, non dubito che diventerebbero ottimi cristiani.
Moltissimi, in questi luoghi, non si fanno ora cristiani solamente perché manca chi li faccia cristiani. Molto spesso mi viene in mente di percorrere le Università d'Europa, specialmente quella di Parigi, e di mettermi a gridare qua e là come un pazzo e scuotere coloro che hanno più scienza che carità con queste parole: Ahimè, quale gran numero di anime, per colpa vostra, viene escluso dal cielo e cacciato all'inferno!
Oh! se costoro, come si occupano di lettere, così si dessero pensiero anche di questo, onde poter rendere conto a Dio della scienza e dei talenti ricevuti!
In verità moltissimi di costoro, turbati da questo pensiero, dandosi alla meditazione delle cose divine, si disporrebbero ad ascoltare quanto il Signore dice al loro cuore, e, messe da parte le loro brame e gli affari umani, si metterebbero totalmente a disposizione della volontà di Dio. Griderebbero certo dal profondo del loro cuore: «Signore, eccomi; che cosa vuoi che io faccia?» (At 9, 6 volg.). Mandami dove vuoi, magari anche in India.




Testo della "Novena della Grazia"

Carissimo S.Francesco Saverio, con te adoro Dio nostro Signore, ringraziandolo per i grandi doni di grazia che ti ha concesso durante la tua vita, e per la gloria di cui ti ha coronato in Cielo.
Ti supplico con tutto il cuore di intercedere per me presso il Signore, perché mi dia anzitutto la grazia di vivere e morire santamente, e mi conceda la grazia particolare di cui ho bisogno in questo momento, sempre che sia secondo la Sua volontà e la Sua maggior gloria. Amen.

- Padre nostro – Ave Maria – Gloria.
- Prega per noi, S.Francesco Saverio.
- E saremo degni delle promesse di Cristo.

Preghiamo: O Dio, che con la predicazione apostolica di S. Francesco Saverio hai chiamato molti popoli'dell'Oriente alla luce dei Vangelo, fa' che ogni comunità cristiana abbia il suo fervore missionario, perché su tutta la terra la Santa Chiesa si allieti di nuovi figli. Per Cristo nostro Signore. Amen.








LETTERA APOSTOLICA
CON LA QUALE IL SANTO PADRE
PIO XI
RICORDA IGNAZIO DI LOYOLA E FRANCESCO SAVERIO
NEL TERZO CENTENARIO DELLA LORO CANONIZZAZIONE
 
«MEDITANTIBUS NOBIS»
 
Al Reverendo Padre Wladimiro Ledóchowski,
Generale della Compagnia di Gesù.
Diletto figlio, salute e Apostolica Benedizione.
Quando, all’inizio del Nostro Sommo Pontificato, Noi meditavamo come avremmo potuto procurare alla Santa Chiesa sia migliori condizioni interne, sia favorevoli sviluppi all’esterno, come richiesto fondamentalmente dal Nostro ufficio, è giunto, con il ricordo di altri Santi, anche quello di Ignazio di Loyola e di Francesco Saverio, dei quali dovrà celebrarsi con grandiosa solennità il terzo centenario della canonizzazione. L’uno, infatti, per disposizione divina, fu dato come aiuto alla Sposa di Cristo la quale stava iniziando un nuovo periodo della propria vita, in cui lotta e contrasto erano sempre presenti; l’altro, nella sua instancabile operosità per la diffusione della luce evangelica, andò adorno di tanti e così rilevanti carismi dello Spirito Santo da sembrare l’erede della virtù e dello zelo che rifulsero nei primi Apostoli.
Per la verità, la stagione di pericoli nella quale Ignazio accorse in aiuto della Chiesa non è ancora finta, in quanto quasi tutti i mali presenti derivano da quella radice; e se oggi, più che mai, « una porta grande e propizia è aperta » [1] al Vangelo di Gesù Cristo, ciò avviene specialmente nelle regioni dove lavorò Saverio. Pertanto, diletto figlio, se Ci è sembrato opportuno scriverti questa Lettera di elogio del tuo Padre Legislatore e del maggiore dei suoi figli, ciò non avviene soltanto nell’interesse del tuo Ordine, ma per il bene comune. Infatti, è di grande importanza che la Cristianità fiorisca ogni giorno di più per l’insegnamento dell’uno e si diffonda, rinverdendo, per l’impegno dell’altro.
Certamente è vero che quanti meritano dall’autorità della Chiesa la lode di santità hanno tutti in comune di essere eccellenti in ogni genere di virtù; tuttavia, come « ogni stella differisce da un’altra nello splendore » [2], così i Santi si distinguono con ammirabile varietà l’uno dall’altro per la loro particolare eccellenza o in questa o in quella virtù. Ora, se riguardiamo la vita d’Ignazio, restiamo anzitutto mossi ad ammirazione dalla magnanimità di un uomo che, avido di procurare la maggior gloria di Dio, non pago di impiegare se stesso in tutti gli uffici del sacro ministero e di abbracciare per la salute delle anime ogni genere di beneficenza cristiana, si associò dei compagni pronti ed ardenti come in un drappello di scelta milizia, per dilatare il regno di Dio tra i fedeli e tra i barbari. Ma chi penetri più addentro la vicenda, facilmente scorgerà quale nota distintiva di Ignazio lo spirito insigne di ubbidienza, e come missione a lui particolarmente assegnata da Dio il condurre gli uomini ad esercitare con più amore questa stessa virtù.
Infatti, chi conosce il tempo in cui visse Ignazio, non ignora che il principale tra tutti i mali onde fu afflitta la Chiesa in quei giorni procellosi, fu il rifiuto di gran parte degli uomini di ubbidire e di sottomettersi a Dio. A capo di tale movimento di ribellione contro il servizio divino furono certo coloro che, assegnando al privato giudizio del singolo la regola della fede divina, ripudiarono superbamente l’autorità della Chiesa cattolica. Ma oltre a questi, troppi erano coloro che, se non per sistema, certo di fatto sembravano avere respinto la sottomissione a Cristo, e vivevano più da pagani che da cristiani; come se col rinascimento delle lettere e delle arti fosse rivissuto lo spirito dell’antico paganesimo. Si può anzi affermare che, se gran parte della società cristiana non fosse stata infetta, come da veleno pestifero, dalla sfrenata licenza di vita e di sentimenti, giammai dal corpo della Chiesa sarebbe scoppiata l’eresia dei Novatori. Pertanto, venuto meno il rispetto delle leggi divine non solo in gran parte del popolo cristiano, ma persino del clero, e mentre allo scoppiare della rivolta promossa dai Novatori si vedevano allontanarsi dal grembo materno della Chiesa non poche regioni, quelle cioè in cui più si era rallentato il sentimento del dovere, dal cuore dei buoni erompeva unanime la preghiera al divino Fondatore della Chiesa perché, memore delle sue promesse, venisse in soccorso alla sua Sposa in circostanze tanto stringenti.
Ed effettivamente, quando giudicò che i tempi fossero maturi, Egli venne in suo aiuto in modo meraviglioso con la celebrazione del Concilio di Trento. Inoltre, a conforto della Chiesa, suscitò, quali illustri modelli di ogni virtù, un Carlo Borromeo, un Gaetano Thiene, un Antonio Zaccaria, un Filippo Neri, una Teresa di Gesù ed altri personaggi destinati a dimostrare con la loro vita l’indefettibile santità della Chiesa cattolica, e a reprimere l’empietà e la corruttela dei costumi con la voce, con gli scritti, con l’esempio. E veramente grande ed utilissima fu l’opera da essi compiuta. Ma occorreva estirpare dalle più profonde radici l’origine stessa del male; e a quest’opera, appunto, Ignazio parve destinato dalla divina Provvidenza. Egli infatti, dotato dalla natura d’indole mirabilmente disposta sia al comando, sia all’ubbidienza, fin dai primi suoi anni andò rafforzandola con la disciplina militare. Fornito dunque di un animo così temprato per natura e per educazione, non appena illuminato da Dio si sentì chiamato a promuovere la gloria divina e la salute delle anime, con tutta la fiamma del suo cuore ardente si arruolò sotto le bandiere del Re dei cieli. E volendo inaugurare degnamente la sua nuova vita militare, vegliò tutta una notte in armi presso l’altare della Vergine; e poco dopo, ritiratosi nella grotta di Manresa, apprese dalla stessa Madre di Dio l’arte di combattere le battaglie del Signore, e ricevette come dalle mani di Lei quel perfetto codice di leggi (che così in verità possiamo chiamarlo) di cui deve far uso ogni buon soldato di Gesù Cristo. Alludiamo agli Esercizi Spirituali che, secondo la tradizione, furono ispirati dal cielo ad Ignazio. Non che si debbano apprezzare poco altri metodi di esercizi usati da altri, ma in quelli che si compiono secondo il metodo Ignaziano tutto il disegno è così sapientemente combinato, ogni parte è così strettamente connessa con l’altra, che ove non si sia contrari alla grazia divina, rinnovano l’uomo, per così dire, radicalmente e lo rendono del tutto sottomesso al volere divino. Preparatosi così alla vita d’azione, Ignazio si impegnò a formare i compagni che si era prescelto, volendo che riuscissero esemplarmente ubbidienti a Dio e al Vicario di Dio, il Romano Pontefice, e che considerassero l’obbedienza come la nota caratteristica della sua Compagnia. Perciò non solo volle che i suoi si avvezzassero ad alimentare il fervore spirituale specialmente con la pratica degli Esercizi, ma li armò di questo stesso strumento perché se ne servissero in ogni tempo per ricondurre alla Chiesa gli animi che se ne erano allontanati e per sottometterli totalmente al potere di Cristo.
In realtà, la storia attesta, e gli stessi nemici della Chiesa ammettono, qual benefico sollievo provasse subito il mondo cattolico confortato tramite Ignazio di così opportuno aiuto; né riuscirebbe facile ricordare le imprese di ogni genere compiute per la gloria di Dio dalla Compagnia di Gesù sotto la guida e il magistero di Ignazio. Furono allora visti i suoi compagni instancabili respingere vittoriosamente la ribellione degli eretici; attendere dappertutto alla riforma dei costumi corrotti; restaurare nel Clero la scaduta disciplina; guidare non pochi alle cime della perfezione cristiana; impegnarsi nell’informare a pietà e nell’erudire nelle lettere e nelle scienze la gioventù, nell’intento di preparare una posterità veramente cristiana; e lavorare intanto egregiamente nella conversione degli infedeli per dilatare con nuove conquiste il regno di Gesù Cristo.
Noi abbiamo volentieri ricordato tali benemerenze non solo perché manifestano la bontà divina verso la Chiesa, ma perché Ci sembrano opportunissime ai tempi tribolati in cui siamo stati innalzati a questa Sede Apostolica. Infatti, se si vuole ricercare la prima origine dei mali da cui è travagliata la nostra società, si vedrà che tutto deriva dalla ribellione che i Novatori scatenarono contro l’autorità divina della Chiesa; ribellione che, ingigantita nel secolo XVIII nella grande Rivoluzione, quando con tanta arroganza si promulgarono i diritti dell’uomo, ora è spinta alle estreme conseguenze. Ond’è che vediamo esaltata fuor di misura la dignità della ragione umana; disprezzato e ripudiato quanto sembri superare le forze e l’intelligenza dell’uomo e non sia compreso nei limiti della natura; per nulla considerati e dai privati e dai pubblici poteri gli stessi sacrosanti diritti di Dio. Pertanto, eliminato Dio, principio e sorgente di ogni autorità, ne consegue naturalmente che più non esista potere umano la cui autorità venga reputata inviolabile. Perciò, disprezzata l’autorità divina della Chiesa, in breve parvero vacillare e rovinare i fondamenti del potere civile, perché, prevalendo sempre più la pazza audacia della cupidigia, si incominciarono impunemente a pervertire le leggi dell’umano consorzio.
Orbene, nessun rimedio efficace, del quale tutti i buoni sentono la necessità, si può recare a condizioni tanto disperate, ove non si ristabilisca il rispetto a Dio e l’ubbidienza alla sua volontà. Attraverso le innumerevoli vicissitudini di tempi e di cose rimane sempre inconcusso che il primo e il più grande dovere degli uomini sono l’ossequio e l’ubbidienza al sommo Creatore e Signore di tutte le cose; ogni qualvolta essi si allontanano da tale dovere, occorre subito che si ravvedano, se vogliono reintegrare l’ordine radicalmente perturbato e così andar liberi dalla quantità di mali che li opprimono. Del resto in questo solo punto è contenuta l’essenza della vita cristiana, e lo stesso Apostolo Paolo sembra voler inculcare questo concetto quando mirabilmente compendia in brevi tratti la vita del divino Redentore: «Umiliò se stesso facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce » [3]. « Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti » [4].
Ora appunto gli Esercizi Spirituali aiutano meravigliosamente tale ritorno all’ubbidienza in quanto, specialmente se fatti secondo il metodo di Sant’Ignazio, inculcano con argomenti inoppugnabili la perfetta ubbidienza alla legge divina, appoggiandola agli eterni princìpi della ragione e della fede. Perciò, desiderosi che la loro pratica si diffonda sempre più, seguendo l’esempio di molti Nostri Predecessori, non solo tornammo a raccomandarli ai fedeli con la Costituzione Apostolica « Summorum Pontificum », ma inoltre nominammo Sant’Ignazio di Loyola celeste Patrono di tutti gli Esercizi Spirituali. E quantunque, come abbiamo detto, non manchino altri metodi di Esercizi, è però certo che il metodo Ignaziano eccelle tra essi, e, soprattutto per la più sicura speranza che porge di utilità solida e duratura, gode di più ampie approvazioni della Sede Apostolica. Se dunque molti fedeli useranno con diligenza questo strumento di santità, potremo confidare che in breve, repressa la cupidigia di libertà sfrenata e ristabilite la coscienza e l’osservanza del dovere, possa finalmente l’umana società ottenere il dono della pace sospirata.
Quanto fin qui abbiamo rammentato, riguarda propriamente il bene interno e domestico della religione cristiana. Ma ciò che stiamo per dire in breve di San Francesco Saverio, riguarda il suo incremento all’esterno; benché, a dire il vero, strettissimo è il legame che congiunge l’opera del Saverio con quella di Ignazio, che ora abbiamo lodata. Infatti Ignazio, alla propria scuola, seppe talmente mutare quel Saverio che da principio aveva trovato tutto dedito alla vanità della gloria umana, da poterlo in breve offrire all’estremo Oriente quale predicatore, anzi Apostolo del Vangelo di Cristo: mutazione, questa, veramente meravigliosa e da attribuire tutta meritamente all’efficacia degli Esercizi. Infatti, se Francesco intraprese più volte così lunghi viaggi per terra e per mare; se portò per primo il nome di Gesù nel Giappone, che a buon diritto si può appellare isola dei Martiri; se affrontò pericoli immensi e sostenne incredibili fatiche; se versò l’acqua salutare del Battesimo su innumerabili fronti; se infine operò tanti miracoli di ogni genere, tutto ciò lo stesso Francesco affermava di doverlo, dopo Dio, ad Ignazio, « padre dell’anima sua », come lo chiamava, dal quale, nel sacro ritiro degli Esercizi, era stato guidato alla piena cognizione e all’amore di Gesù Cristo. E qui certo rifulgono l’ammirabile bontà e sapienza della provvidenza di Dio; il quale, nel tempo appunto in cui la Chiesa era terribilmente combattuta all’interno, e all’esterno subiva perdite ingenti di popoli intieri, con questo solo mezzo, ossia con l’aiuto degli Esercizi, le somministrò un duplice soccorso della più grande opportunità; cioè, insieme con Ignazio, prescelto a riparare la disciplina interna, quel Saverio che con la conquista di popoli stranieri alla fede di Cristo doveva compensare le perdite della Chiesa stessa. Primo, dopo un così lungo intervallo di tempo, egli parve rinnovare gli esempi degli Apostoli; poiché egli stesso fondò solide cristianità tra non poche genti barbare, dopo averle istruite con molti sudori e guidate alla pietà con le sue virtù esimie, ed aprì ai nostri Missionari vastissime regioni che fino a quel tempo erano rimaste assolutamente chiuse alla predicazione cristiana. Egli poi, com’era naturale, lasciò eredi del suo spirito prima di tutti i suoi Fratelli; e Noi sappiamo che fino ad oggi essi non si allontanarono mai dalla virtù di lui, ma custodirono sempre gelosamente una così preziosa eredità. Ma la memoria di Francesco Saverio servì sempre di stimolo anche agli altri predicatori del Vangelo; e perciò appunto il Saverio, per solenne decreto di questa Sede Apostolica, fu proclamato Patrono celeste dell’opera della « Propagazione della Fede ».
Orbene, la nostra età assomiglia a quella del Saverio anche nel fatto che la fede avita, respinta con superbo sdegno da molti dei nostri, sembra ormai voglia passare ad altre nazioni che l’attendono desiderose. E Noi spesso apprendiamo dalle lettere dei Missionari che in remote regioni dell’Africa e dell’Asia già biondeggia la messe apostolica per la raccolta, onde riparare i danni che subisce la Chiesa in Europa. Inoltre i fedeli si mostrano ora molto più zelanti che in passato nel promuovere la propagazione del Vangelo; zelo, questo, certamente acceso dal soffio della grazia divina, e che Noi auspichiamo ardentemente s’infiammi dappertutto, sull’esempio e sotto il patrocinio del Saverio, affinché, mosso dalle preghiere, « il Padrone della messe mandi operai nella sua messe »: operai che ogni buon cristiano vorrà aiutare con le preghiere e sostenere con le offerte.
Perciò, diletti figli, quanti appartenete alla Compagnia di Gesù, mentre celebrate la solenne memoria del vostro Padre Legislatore e del vostro Fratello maggiore, vi esortiamo tutti a seguire i loro esempi continuando con sempre nuove benemerenze verso la Chiesa a promuovere il vostro Istituto, ripetutamente onorato di ampie lodi da questa Sede Apostolica. E, principalmente, doppio è il frutto che vorremmo ricaviate dalla presente solennità. Anzitutto che attendiate ogni giorno più a servirvi per vostra e altrui utilità degli Esercizi Spirituali. Sappiamo che su questo punto già avete intrapreso con esito felice a lavorare con particolare diligenza a favore della classe operaia; è dunque da augurare che con uguale positivo risultato vi adoperiate nell’interesse delle altre classi sociali. Il secondo frutto riguarda la diffusione delle Missioni cattoliche. Ora, benché conosciamo la vostra diligenza e il vostro impegno del tutto singolari anche in quest’opera (sappiamo infatti che circa duemila di voi lavorano per gl’infedeli in quasi quaranta Missioni) tuttavia preghiamo ardentemente Iddio che ecciti ed infiammi sempre più in voi codesto santo zelo.
E perché tutto riesca a maggior gloria di Dio, a bene della Chiesa e a salvezza delle anime, auspice dei doni divini e testimone della Nostra benevolenza paterna, impartiamo con vivo affetto la Benedizione Apostolica a te, diletto figlio, e a tutti i figli della Compagnia di Gesù a te affidati.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 3 dicembre 1922, festa di San Francesco Saverio, anno primo del Nostro Pontificato.
PIUS PP. XI















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