giovedì 1 agosto 2019

IL LINGUAGGIO APPROPRIATO ALLA VERITA' DELLA PERSONA, di Stanislaw Grygiel



Stanislaw  Grygiel
IL LINGUAGGIO APPROPRIATO ALLA VERITA' DELLA PERSONA


Il simbolo, il mito, la poesia
La persona umana come simbolo
Il linguaggio poetico
Il linguaggio poetico espressione del mistero della persona umana
Parliamo ora del linguaggio appropriato alla realtà della persona umana. È evidente che parleremo dei miti o del mito e del simbolo, cioè dell’essenza stessa della poesia. Il linguaggio poetico, mi pare, è l’unico linguaggio capace di esprimere almeno qualcosa della trascendenza della persona umana e perfino della Trascendenza della Persona divina.
Quando sentiamo la parola mito subito pensiamo alle favole: il mito per noi è una favola, quasi una bugia. Così purtroppo ci hanno abituato a vedere il mito gli insegnanti nelle scuole.
Perché è così? Perché il nostro linguaggio è stato formato sotto l’influenza delle scienze e del linguaggio loro proprio, cioè univoco, formalizzato, addirittura matematizzato. Ogni scienziato cerca di evitare i concetti equivoci, che potrebbero significare in modo tale da indicare più direzioni, e cerca di rendere tutto univoco, cioè formale.
Così siamo abituati a leggere anche i miti della cultura greca: la maggioranza di noi quando legge questi miti, non vede niente di più che avvenimenti irreali, fittizi, che non hanno mai avuto luogo. Invece non è così. Spesso noi ci serviamo di miti greci, per esempio, per fare delle allusioni: ‘sei come Antigone’, ‘sei come il re Edipo’, ‘sei Achille’, ‘sei Ulisse’.
Cosa sono il mito e il simbolo? Il simbolo è un concetto che significa qualcosa, ma oltre la sua significazione troviamo in esso qualcosa di più, una indicazione. Quando io dico ‘tavolo’, questa parola ha un significato, è uno strumento che serve da appoggio, è costituito di legno. Questo è un significato, un contenuto. Ma questo concetto indica anche tante tavole concrete.
Il simbolo, sì ha un significato, ma indica in modo raddoppiato. Per esempio: un uomo si confessa e dice che si è macchiato. Supponiamo che il confessore sia uno scientista, allora subito gli chiederà che cosa ha fatto, se ha rovesciato la minestra sul vestito. Se quello dice che è caduto, il confessore gli chiederà se è inciampato, se c’era una pietra. Quell’uomo non riesce ad esprimere quello che vuole esprimere, il peccato. La macchia qui ha un significato, ma ha due indicazioni: una macchia provocata da una minestra rovesciata e quella macchia morale che noi non possiamo esprimere direttamente. Ci sono, quindi, alcune realtà che noi possiamo solo indicare servendoci di alcuni contenuti, ad esempio macchia, caduta. Questo è il simbolo: una parola che ha un significato, ma almeno due direzioni dell’indicare.
Questo simbolo può essere elaborato, ad esempio: c’era un tempo nel quale non ero macchiato, ero pulito, puro. Allora il simbolo ha un passato. Se pensiamo alla macchia della minestra posso dire che un’ora fa è successo quell’avvenimento che mi ha macchiato; della macchia che confessiamo possiamo dire "ieri", ma della macchia che non possiamo esprimere direttamente e che non dipende da noi c’è un altro passato. Quando? In quel tempo, in illo tempore. Penso al peccato originale.
Nel simbolo c’è anche il futuro: se sono stato puro, c’è la possibilità che sarò di nuovo puro, pulito, posso purificarmi. Quando? Di nuovo in illo tempore. Così il simbolo può essere elaborato in una storia, in una narrazione: si chiama mito, narro.
Quindi nel simbolo implicitamente e nel mito esplicitamente, abbiamo un passato e un futuro, cioè nel mito c’è l’esperienza o l’espressione dell’esperienza della caduta e della speranza: se sono caduto vuol dire che stavo diritto e allora potrò alzarmi di nuovo.
In fondo ogni mito, come la storia, esprime un’esperienza fondamentale della persona umana, quell’esperienza che non può essere espressa direttamente. Tutto ciò che abbiamo detto della persona umana, l’esodo dall’Egitto e il camminare verso la terra promessa, l’essere teso tra fanum e profanum, tra sacro e profano, tutto questo può essere espresso solo attraverso simboli e miti. Parlando di queste realtà abbiamo già usato simboli e miti. (Il linguaggio dei simboli e dei miti è un linguaggio naturale, lo capiscono bene i bambini, i giovani e forse i vecchi, attraverso tante esperienze vissute, quando diventano bambini coscienti. E non è un caso, mi pare, che le favole semplici che noi leggiamo vengono accolte e comprese dai bambini, dai giovani e dai vecchi, non da noi di media età, che abbiamo acquisito una mentalità scientifica.)
Quindi si può dire anche che i simboli e i miti esprimono il nostro camminare, la nostra tendenza verso la trascendenza della persona umana, di cui abbiamo parlato. La Trascendenza non può essere espressa direttamente ma può essere indicata, designata, per esempio: il regno celeste, la totalità della persona umana, il compimento della persona umana; sono solo concetti che indicano la realtà che noi vogliamo esprimere, che vogliamo far vedere agli altri e anche a noi stessi.
Perché è così? Abbiamo detto, durante le nostre meditazioni, che la persona umana è composta dalla sua fatticità, tutto ciò che oggi io sono, e soprattutto dalla trascendenza, che mi è stata data e affidata come il compito che io devo realizzare per poter essere pienamente me stesso. E abbiamo detto che la mia essenza si trova nella trascendenza, nella fatticità ce n’è solo una traccia.
Quindi vedete che l’uomo, la persona umana ha una struttura simbolica e mitica, è composto da una fatticità che può essere significata e indicata, e dalla trascendenza che può essere solo indicata ma non significata. Noi non sappiamo pienamente, perfettamente chi è l’uomo, come non sappiamo chi è Dio, ma sappiamo verso dove dobbiamo camminare per poter avvicinarci a quella realtà, a quella pienezza, perché queste indicazioni ci sono dentro di noi.
Il linguaggio dei simboli e dei miti funziona come il linguaggio dei nomi. Quando io dico ‘Giovanni’, indico questa determinata persona e solo lui. Dio ci conosce per nome: non ci sono significati universali in Dio, ma solo la visione e l’indicazione di ciascuno di noi.
Il linguaggio simbolico-mitico indica, e chi lo vuole usare, deve lavorare. Quando dico due più due fa quattro, non c’è molto da comprendere, non sono coinvolto io come persona; ma quando parlo di macchia, di caduta, per poter capire il futuro, la speranza che è in questo mito, tutta la mia persona deve comprendere ciò che è stato indicato, deve lavorare. Il mito, quindi, ci apre il campo per il lavoro.
Se è così, nel linguaggio simbolico-mitico noi sentiamo la chiamata che viene dalla Trascendenza, da ciò che è solo indicato. Colui che si sente chiamato da qualcosa di più, non solo dalla fatticità, subito entra nel mondo del linguaggio simbolico-mitico, cioè subito diventa poeta, perché è il poeta che usa questo linguaggio per esprimere le proprie esperienze delle realtà che non sono direttamente esprimibili. Il fisico che descrive e pesa un corpo non è poeta, ma quando il fisico, pesando il corpo, sente qualcosa di più, la trascendenza del corpo e comincia a indicarla agli studenti, è già poeta, parla del corpo non solo come di qualcosa che può essere pesato e misurato, ma parla anche di ciò che viene indicato da un tale corpo. Per questo la poesia, come dice Aristotele, è qualcosa di filosofico, è più filosofia della storia per esempio, che racconta i fatti, gli avvenimenti; la poesia apre un’altra dimensione, quella dimensione attraverso la quale viene a noi il senso, il valore.
Quando noi leggiamo la Bibbia, il Nuovo e il Vecchio Testamento, subito troviamo il linguaggio mitico-poetico nella Genesi: sei giorni della creazione, polvere, soffio di Dio che crea l’uomo, mela, serpente. Tutto è un grande mito che esprime la vera verità, se così posso dire, della persona umana. E non poteva essere espressa in altro modo. Chi intende queste storie univocamente, cioè riduce il serpente al serpente, la mela alla mela, ridicolizza la Bibbia, nel tentativo di scientifizzarla.
Le più profonde verità sull’uomo e su Dio, Cristo le ha espresse proprio nel linguaggio simbolico-mitico, ad esempio attraverso le parabole: sono grandi miti e grandi simboli, non favole ma modi di esprimere ciò che non può essere espresso con il linguaggio che noi usiamo comunemente.
I Greci hanno intuito questo e hanno detto che l’oracolo di Delphi non significa, ma indica, e l’uomo deve ‘lavorare’ per capire cosa l’oracolo vuole da lui.
Nella mitologia greca, il dio Ermes interpretava le parole simbolico-mitiche rivolte agli uomini da Zeus. Così i Greci hanno coniato una parola che significa interpretare: ermeveuein e da qui viene ermeneutica. L’ermeneutica è una scienza che insegna come dobbiamo interpretare i simboli e i miti, cioè quelle parole che esprimono le realtà divine tout court, o quelle realtà che sono destinate ad essere divinizzate, come l’uomo, la persona.
Chi percepisce il mondo come una grande parabola, ho detto, è un poeta; Goethe diceva: "Tutta la mia poesia è solo una grande parabola". Così anche il mistico, quando è capace di coniare una parola simbolico-mitica, diventa poeta; S. Giovanni della Croce è stato mistico e poeta.
Quando già la parola poetica è stata pronunciata, il filosofo deve interpretarla. Da circa trent’anni fiorisce la filosofia dell’interpretazione, l’ermeneutica filosofica.
Come nascono i simboli e i miti? Mi pare che i simboli e i miti vengano creati non dagli individui, ma dai popoli, in una tradizione: quando questa tradizione diventa grande, pregnante, nasce il poeta che le dà una parola. Le poesie allora non nascono da nulla, ma vengono preparate dalle generazioni. Dante non è nato da nulla, è nato da una grande tradizione, da un lavoro di generazioni. La cultura poetica, cioè mitico-simbolica è frutto del lavoro dell’umanità; ognuno di noi aggiunge almeno un piccolo grano a questo tesoro culturale, e poi viene qualcuno che è capace di prendere questo tesoro culturale e dargli un nome; così nasce l’Odissea, l’Iliade, la Divina Commedia, Il Faust, l’Amleto.
Voglio dire che i simboli e i miti sono frutto del lavoro comunionale delle generazioni. Perfino Dio quando ha voluto rivelare le verità essenziali per la salvezza degli uomini, le ha dette attraverso la Bibbia, frutto del lavoro di generazioni: la Bibbia è dono di Dio, ma è anche frutto del lavoro del popolo di Dio. Non troveremo nessun popolo, nessuna nazione senza simboli e miti, infatti la storia di ogni popolo, di ogni nazione comincia sempre con i simboli e i miti. Questi simboli e miti sono ‘pre-historici’, cioè danno il senso, l’orientamento e il valore alla storia del popolo. Quando un popolo vuol sapere chi è, deve rifarsi a quel mito primordiale dal quale scaturisce: lì è espressa già in nucleo la sua identità.
Se è così, nel mito e nel simbolo si rivela la nostra essenza, la trascendenza che è divinizzabile e da divinizzare. Nei miti e nei simboli si rivela perfino Dio. Quindi il simbolo e il mito sono il luogo dell’epifania, cioè della rivelazione di ciò che è sacro, e ogni essenza è sacra. Abbiamo già parlato dell’ethos, dimora costruita da noi intorno al centro, cioè intorno alla trascendenza. La trascendenza è presente nel luogo in cui è accaduto un avvenimento meraviglioso, un’epifania. La storia di ogni popolo comincia proprio con un simbolo, con un mito, che racconta questa epifania, questo principio dell’ethos del popolo e della nazione. È il racconto di qualcosa che è avvenuto e che ci indica la strada, il futuro, la nostra essenza. Quindi il linguaggio dei simboli e dei miti, il linguaggio poetico è un linguaggio epifanico, rivelante. Ogni poesia degna di questo nome è una parola rivelante, che rivela qualcosa di più di ciò che è nel presente, ma che non è ancora qui, costituisce il nostro futuro. Con l’aiuto di questo linguaggio poetico, la trascendenza scende verso di noi, si incarna nella nostra vita individuale e sociale, cioè nella vita della persona umana.
Se è così, ogni civiltà che manca della poesia, è una civiltà anti-umana, anti-personale. Non è un caso che noi ci lamentiamo che manca la grande poesia nel nostro secolo, manca la grande musica, (non dico l’esecuzione, ma la creazione) o non siamo soddisfatti di quella che c’è. L’istinto di autoconservazione, l’istinto che ci spinge verso l’autosalvezza, ci spinge anche, sempre, verso la poesia in senso lato, cioè tutta l’arte, il linguaggio poetico-mitico: lì noi intuiamo che si trova la nostra salvezza.
Platone, un padre di questa comprensione del linguaggio poetico e simbolico-mitico, nella Repubblica, racconta il mito, racconta il mito di Er, venuto dall’altro mondo, a cui è stato dato di risvegliarsi e raccontare tutto ciò che ha visto. Alla fine di questo mito, Platone dice: "Questo mito, se noi lo salveremo, ci salverà." Lo stesso indicano le parole di Dostoevskij: "È la bellezza che salverà il mondo." Infatti la bellezza è una realtà che ha una struttura simbolico-mitica, riflette la trascendenza e ciò che riflette la trascendenza è bello (la cima che riflette il sole è bella, altrimenti non si vede neanche). Allora cosa ci salverà? Ci salverà la struttura mitica della realtà e il suo linguaggio che indica una tale struttura.
Allora ciò che è importante è questa struttura doppia, raddoppiata della persona umana: la fatticità e il futuro; noi dovremo essere così come eravamo nel principio.
Tutto questo significa che noi siamo frantumati e possediamo solo una metà di noi stessi; l’altra metà, quella più importante, la nostra identità, dalla quale viene il senso della nostra esistenza, si trova nel futuro.
Una tale struttura dovrebbe avere un linguaggio che cerchi di esprimere adeguatamente la realtà della persona, sia quella umana, sia quella divina.
La parola ‘simbolo’ proviene dalla parola greca symballein, che significa incontrarsi, combaciare. Questa parola non è stata inventata, ma è nata dall’esperienza dei Greci. Ad esempio: quando un uomo andava via dal paese lasciando un grande amico, per non dimenticarlo, per essere legato con lui, prendeva qualsiasi oggetto, per esempio un bastone, oppure un anello, lo spezzava in due, in modo che una metà restava nella casa di colui che rimaneva nel paese e l’altra metà la portava con sé colui che andava via. Passati gli anni, quando si incontravano di nuovo, i due uomini o i loro figli potevano riconoscersi prendendo le due metà dell’anello e cercando di farle combaciare, symballein.
La metà del bastone o dell’anello che doveva combaciare, aspettava, attendeva l’altra metà: veniva chiamata to symbolon. Quindi simbolo significa una metà della realtà, in questo caso dell’anello, che attraverso le tracce della frantumazione, parla e indica l’altra metà. Metà anello cosa significa? Significa se stessa, è metà di qualcosa e niente di più, ma indicando un’altra metà ci fa vedere, ci rivela l’essenza dell’anello.
L’uomo senza la trascendenza, senza l’altra metà di se stesso, non è ancora uomo. L’uomo, come metà anello, tende e cerca l’altra metà. Anche nel Simposio di Platone, Aristofane cerca di spiegare in che cosa consiste l’amore e dice che all’inizio ciascuno costituiva un intero. Ma, poiché l’uomo era molto orgoglioso, Zeus lo aveva diviso e aveva ricucito le parti; poi gli uomini si sono dispersi nel mondo.
Aristofane, nel dialogo di Platone, dice che l’uomo è soltanto simbolo dell’uomo. Ciascuno per poter essere se stesso, cerca l’altra sua metà. Allora noi nella vita cerchiamo qualcuno con cui ‘combaciare’; qualche volta ci si sposa ma poi si divorzia. In fin dei conti è sempre così, l’uomo con l’uomo non combacia perfettamente.
Allora dov’è l’altra metà, quella che mi renderà uomo, che mi divinizzerà? Ciascuno di noi vive dolorosamente questo, vive dolorosamente le tracce che rimangono dentro di lui dopo la frantumazione: manca qualcosa, manca l’altra metà. Queste tracce sono piene di sangue, come ferite, che non permettono di dimenticare che io, metà dell’anello-uomo, non sono l’anello-uomo, sono metà di qualcosa; ma posso indovinare, dalla figura di questa metà anello, come sarebbe l’anello vero; noi possiamo solo indovinare come saremmo combaciati, incontrati, legati con l’altra metà, grazie a queste tracce dolorose.
Per una metà dell’anello, l’altra metà cercata costituisce la trascendenza; possiamo dire che, in un certo modo, l’altra metà dell’anello è presente nella metà dell’anello, ma non pienamente, è già e non ancora. In una metà, l’altra metà è indicata, viene manifestata, si rivela sempre di più, ma non è ancora pienamente. Quando sarà pienamente? In illo tempore, nell’incontro, nel futuro. Allora, nella struttura stessa dell’anello che è la persona umana, c’è l’esperienza della caduta, il peccato originale e l’esperienza della speranza. Senza queste due esperienze l’uomo non è comprensibile.
Perché dico l’esperienza della caduta primordiale? Perché se noi siamo solo una metà dell’anello che è l’uomo, allora significa che siamo stati in illo tempore un anello intero. Allora come è avvenuta la frantumazione? Quando? Non sappiamo né come né quando, ne viviamo solo il risultato. E questa esperienza, ripeto, è stata espressa anche da Platone quando ha detto che è stata una tragedia quando siamo caduti e siamo stati imprigionati nella carne. Come e quando non si sa, noi viviamo solo la realtà storica che comincia con la caduta e dopo la caduta, e la viviamo fino al recupero del primordiale stato. Quando? Non si sa, in illo tempore: viviamo come speranza.
Ripeto, è molto importante che nella struttura della persona umana, e quindi nella struttura del linguaggio poetico, ci sia l’esperienza e la presenza della caduta e della speranza, della morte e dell’amore (perché la speranza è legata con l’amore).
Se è così, possiamo dire che noi esistiamo, nello spazio storico della nostra esistenza, tra la caduta e il recupero, tra il paradiso perduto e il paradiso promesso. Esistiamo in modo critico, nel senso che viviamo una crisi: è una crisi dolorosa, ma che ci permette di dare un giudizio su noi stessi e di noi stessi. In greco crisis significa ‘giudizio’.
Quando noi non pensiamo che siamo solo una metà e tutta la nostra identità è chiusa nell’altra metà, quando noi non riteniamo di essere metà, ma pienezza, allora il giudizio su noi stessi è praticamente impossibile, possiamo giudicare solamente ciò che facciamo, ciò che produciamo, la nostra efficienza. Così cominciamo a vivere in un caos. Infatti la metà dell’anello può essere usata per tanti, tanti scopi, ma solo quando incontra l’altra metà, cioè solo quando la metà dell’anello diventa anello intero, entra in un mondo ordinato, può essere solo un anello e niente di più, ciascuno deve rispettarlo. Se qualcuno lo usa per altri scopi, commette un male di fronte all’anello, alla sua identità. Allora il simbolo, quando indica l’altra metà diventa ordinato e anche noi, quando cominciamo a vivere secondo la nostra struttura simbolica, entriamo nell’ordine e viviamo ordinatamente.
Anche la parabola del figlio prodigo ci spiega la struttura simbolico-mitica della persona umana e del suo linguaggio. Il figlio prodigo, a un certo punto, rompe la relazione con il padre e diventa un essere mancato, una metà di se stesso; ma dopo torna nella sua casa. Tutta la sua realtà dolorosamente gli indica la trascendenza, che è la casa paterna, dove lo aspetta la sua piena identità. Il figlio prodigo, rientrando a casa, comincia a lavorare. Uso la parola ‘lavoro’ in questo senso, che il simbolo, il mito ci invita, ci chiama a comprenderlo.
Per poter vedere e per poter vivere le tracce, le ferite della frantumazione, non bisogna lasciarsi soffocare dalle realtà che ci chiudono nella metà che adesso siamo. E ci sono tante realtà accanto a noi e dentro di noi che ci soffocano, ci chiudono, uccidono la nostra immaginazione e intuizione (ricordate, intuitio significa conoscere).
Allora, per poter intravvedere l’altra metà, bisogna far di tutto perché la nostra intuizione e immaginazione non sia soffocata. Come si fa? La prima condizione mi pare sia questa. Le ferite provocano il dolore, la sofferenza: se uno soffoca la sofferenza, eo ipso soffoca l’intuizione e l’immaginazione, si chiude nella metà che adesso già è.
La sofferenza, cosa ci rivela? Ci rivela che la nostra definizione, non si trova in una metà, ma si trova nella trascendenza. Se la metà dell’anello volesse definirsi (supponiamo che sia cosciente) non potrebbe autodefinirsi attraverso i limiti della frantumazione, ma dovrebbe comprendere l’altra metà.
Ricordate, abbiamo già detto che l’uomo può definirsi, può trovare l’altra metà di sé, solo in Dio; cioè l’uomo può definirsi pienamente, adeguatamente alla sua realtà rivelantesi nella sofferenza, solo attraverso Dio. Per questo ho detto che non basta incontrare, combaciare con l’altro uomo, perché c’è sempre qualcosa che non combacia.
Ma incontrandosi, combaciando così con l’altro uomo, noi insieme, comunionalmente, costituiamo una struttura simbolico-mitica, che indica Dio stesso. Così ho detto anche che i simboli e i miti non sono creati dagli individui, ma dalla comunione delle persone, da ogni amicizia, dal popolo, dalla nazione.
Allora devo incontrare l’altra persona, ma devo essere a priori cosciente che, anche noi, insieme, costituiamo una metà, che pienamente e distintamente parla dell’altra metà. Adamo da solo non indica ancora Dio, ma Adamo con Eva indicano Dio, insieme costituiscono una metà d’anello che indica la pienezza dell’anello, che è l’uomo, e questo indica la pienezza che è in Dio.
In questo senso ogni struttura, ogni realtà, ogni simbolo e ogni mito, come diceva Kant, fanno pensare ad un’altra metà della realtà. Io ho detto fa lavorare, perché non è solo pensare, ma è anche lavorare: cioè tutta la persona deve esistere verso la pienezza di sé.

Quando noi ci autodefiniamo, attraverso la trascendenza, indicata nei simboli e nei miti, esprimiamo bene l’essenza dell’uomo, che è divina, cioè la diciamo bene, la benediciamo (benedictio). Il linguaggio poetico è un linguaggio della benedizione dell’uomo, cioè esprime bene l’uomo.
Se è così, il linguaggio poetico, simbolico-mitico, indica una realtà che unita a noi ci rende pienamente noi stessi, e indica che l’altra metà è Persona divina. Allora questo linguaggio parla della grazia, poiché abbiamo detto che nei simboli e nei miti c’è la speranza e la speranza riguarda la grazia. Io per esempio non spero di avere una macchina, perché posso fare qualcosa per guadagnare i soldi e comprarla; io spero ciò che non dipende da me. La speranza si dirige, si orienta verso ciò che è ‘contra spem’, si può dire. Quindi la risposta alla nostra speranza, che è implicitamente presente nei simboli, nei miti e nella nostra struttura simbolico-mitica, è sola una: la grazia.
Allora chi vive simbolico-miticamente, chi è poeta nel pieno senso del termine, e ciascuno di noi può esserlo, deve sperare, cioè aspettare. Cosa? Quella grazia che ci reintroduce nello stato perduto, distrutto da noi. Noi possiamo distruggere la grazia, ma non possiamo costruirla, perché la grazia non è da costruire; noi possiamo distruggere il dono, ma tutto ciò che poi faremo non sarà mai il dono, sarà solo un nostro prodotto. Supponiamo che io abbia ricevuto dei fiori da una persona amata e che li abbia buttati via perché arrabbiato. Poi, per poter di nuovo avere i fiori, vado in un negozio e li compro: questo non è più un dono, io ho ‘costruito’ qualcosa. Quindi, ripeto, io posso distruggere il dono, ma non posso recuperarlo; posso di nuovo aspettare, sperare. Allora ogni giorno aspetto quella persona, sperando che mi dia ancora i fiori, e questo dono sarà più bello, più prezioso per me.
Allora, possiamo aggiungere che l’uomo-poeta, con il linguaggio poetico parla della caduta, della speranza e parla della grazia, del dono. Ricordate che parlando della persona umana abbiamo detto: l’amore, la fede, la speranza, il dono sono l’essenza della persona umana. Tutto ciò lo ritroviamo nel linguaggio simbolico-mitico, non lo troviamo invece nel linguaggio univoco, scientifico.
Se è così, c’è ancora un’altra cosa nella struttura simbolico-mitica della persona umana e nel suo linguaggio: c’è la promessa.
Abbiamo detto che se io in illo tempore ero puro, diritto e oggi sono macchiato, sono caduto, allora potrò essere di nuovo puro, potrò di nuovo alzarmi: è la speranza, la grazia. Ma io non aspetterei, se prima non avessi sentito, nella mia struttura simbolico-mitica e nel linguaggio poetico, una promessa. Quindi nella struttura simbolico-mitica della persona umana e nel linguaggio poetico c’è già la promessa.

Leggete il racconto mitico della Genesi: c’è il Paradiso, la primordiale innocenza della persona umana, poi la caduta, poi comincia la storia, ma dentro c’è già la promessa che il Paradiso sarà ridato: verrà il Messia, il Salvatore.
Se è così, la struttura simbolico-mitica della persona umana e l’espressione simbolico-mitica di questa struttura, il linguaggio poetico, sono messianici e quindi cristologici.
Cercate di comprendere questa struttura simbolico-mitica della persona umana e del linguaggio e ritrovate tutti i punti che abbiamo indicato: lo stato di innocenza, la caduta, poi la promessa, la speranza, la grazia. Tutto questo costituisce un luogo per l’incarnazione.
Devo dire che per me, da un certo tempo, questa visione della persona umana e della sua espressione costituisce, non dico una prova, ma un mondo che, senza la realtà rivelata e l’incarnazione, è incomprensibile. Se l’uomo esige una religione, una fede, può essere solo questa, o una così. È vero che la cristologia, la rivelazione dell’incarnazione è una risposta adeguata alla struttura simbolico-mitica, alla struttura poetica dell’uomo.
Quindi un poeta che non esprime la persona umana così, non è poeta perché non esprime la persona umana, costruisce qualcosa, allora è uno scienziato mancato, ma non un poeta.
Se è così, il linguaggio poetico, simbolico-mitico, non esprime e non indica realtà lontane, ma esprime le realtà presenti, tutto ciò che accade oggi nell’uomo. E l’ermeneutica interpreta ciò che dice questo linguaggio. Mi pare che proprio ciò volevano dire i filosofi dei simboli e dei miti, dicendo che i simboli e i miti esprimono il presente, ciò che avviene senza intervallo, ogni giorno.
Cosa fanno ancora i miti? I simboli, i miti e la poesia mantengono, conservano la nostra memoria. Senza la poesia noi avremmo, già tanti secoli fa, dimenticato il nostro principio e la nostra fine, saremmo chiusi nella fatticità storica, in quello che già siamo. Grazie ai simboli, ai miti e alla poesia, noi ricordiamo il principio e la fine, cioè ricordiamo la nostra identità, chi siamo.

Supponiamo adesso che la metà dell’anello si chiuda in sé e pretenda di essere un intero anello, che niente in essa indichi un’altra metà, una trascendenza; e supponiamo che l’uomo si chiuda nello stesso modo, dica che la sua realtà è tutta intera, che non ci sono ferite in lui, che non indica nessun’altra realtà. Cosa significa questo? Significa che il symbolon cessa di symballein, di incontrarsi e invece inizia a isolarsi, a dividersi dall’altra metà. La metà dell’anello come intera, si isola dall’altra metà, divide la realtà e rende le due parti autonome. In greco si dice diaballein, dividere, isolarsi; e una realtà che così diaballei, divide la realtà, non si chiama più to symbolon, ma si chiama to diabolon. Allora, quando una realtà si presenta come una totalità non essendola, ma essendo solo una metà di essa, si presenta in maniera menzognera, commette una menzogna.
È così come leggiamo nella Bibbia: il diabolon è colui che divide ed è padre della menzogna, cioè presenta le cose così come esse non sono, impone una falsa identità alle cose, diversa da quella che esse sono. Nel caso degli uomini, cosa ha fatto il padre della menzogna, nel racconto biblico della Genesi? Ha detto ad Adamo ed Eva, di non cercare un’altra metà, Dio, ma essi stessi sarebbero stati pienezza, totalità, Dio. Allora il padre della menzogna dice che non c’è nessuna promessa, nessuna grazia, bisogna autocrearsi, la metà dell’anello deve fare qualcosa per poter presentarsi come anello intero. In questo modo può formare qualsiasi figura, ma resta sempre menzogna.
Chi presenta se stesso, o le altre realtà, in questo modo, le ‘dice male’, le maledice (maledictio). Quindi vedete, la negazione della poesia è maledizione, mentre il linguaggio poetico è il linguaggio della benedizione, cioè esprime, le cose nella loro verità.
Quando le scienze oggi dicono che, per poter capire l’uomo, basta ridurlo alle sue funzioni, lo esprimono male, lo maledicono. E come conseguenza ci sono l’eutanasia, l’aborto, le uccisioni e le manipolazioni dell’uomo. Queste sono conseguenze della maledizione, del dire male, dell’esprimere male la realtà dell’uomo, riducendo la sua essenza, la sua identità, la sua pienezza, alla sua fatticità biologica, fisica, alla sua fatticità misurabile.
Questo è ingannevole, perché è solo una metà della verità, è una semi-verità, una apparenza della verità. Allora basta sottolineare ciò che è vero, soffocando l’altra metà, come abbiamo detto, e facilmente si può ingannare gli altri e soprattutto se stessi.
Se è così, possiamo dire che il linguaggio poetico, cioè simbolico-mitico, esprime il mistero della persona umana. L’uomo non è un problema, perché i problemi sono dove c’è la fatticità, dove tutto è misurabile: questi problemi stanno davanti a noi e possiamo risolverli. Invece noi non possiamo combaciare, incontrare l’altra metà come se fosse un problema da risolvere con le nostre mani e la nostra ragione, ma è al di là di questo: abbiamo parlato di promessa, attesa, speranza, grazia; è un mistero.
Alla luce di questo mistero possiamo poi, adeguatamente e nella verità, risolvere i problemi, anche scientifici. Alla luce dell’anello intero noi possiamo risolvere i problemi che riguardano la metà, adeguatamente alla verità dell’anello; altrimenti la soluzione sarà adeguata solamente alla metà, che è suddita delle circostanze nelle quali si trova. Così se viviamo nel mistero della persona umana, possiamo risolvere i problemi e costruire le scienze in modo adeguato alla persona umana. Anche le scienze, allora, serviranno alla persona, al suo incontrarsi con la Trascendenza; le scienze non saranno menzogna, ma parteciperanno alla verità della persona, serviranno non solo alla vita della fatticità, ma alla vita della persona umana, che è infinitamente di più.
Se è così, come abbiamo detto, la parola poetica è il luogo della rivelazione, è rivelante e noi dobbiamo lavorare per comprenderla, cioè sperare, aspettare: l’essenza del lavoro è sperare, aspettare la grazia. La menzogna, invece, è la negazione dell’essenza del lavoro, il diavolo non lavora, ma distrugge, negando e isolando. Lavoro è unire, symballein mentre diaballein non è lavorare, è distruggere.
Allora il linguaggio poetico e la nostra struttura ci richiamano a vegliare: lavorare significa vegliare. La Trascendenza aspetta, ma noi che siamo metà di essa non vegliamo.
In questa prospettiva leggete lo stupendo brano del Vangelo di Cristo nel giardino degli ulivi: Lui veglia, aspetta (ci aspetta), i tre discepoli dormono. "Non potevate vegliare con me?" Le due metà devono vegliare, ma una senza dubbio veglia, l’altra ogni tanto dorme. Poi, quando la Trascendenza scende tra gli uomini, questi non la accettano: è la parola del Nuovo Testamento.
Se è così, il linguaggio poetico, simbolico-mitico, costituisce una confessione. Il poeta confessa se stesso, la propria struttura simbolico-mitica e il modo con cui la vive. I modi sono tanti, infiniti, perché le persone sono infinite. Allora ci sarà sempre il posto per nuove poesie; ma nella poesia sarà confessata sempre la stessa struttura: l’essenza è la stessa, le poesie sono diverse perché ognuno di noi, ogni poeta vive in modo diverso dagli altri.

Così intendo le parole di Goethe, quando alla fine della sua vita disse a Eckerman: "Tutta la mia opera, tutto ciò che ho fatto, è solo una grande confessione". La confessione riguarda anche i peccati, ma non solo, è confessione di qualcosa di più, di tutta la mia realtà spezzata, frantumata, che è solo un’immagine dell’altra metà, è solo una parabola, un simbolo. E non so se, forse, la nostra confessione dei peccati, se ridotta solo a questo, non sia troppo poco: forse dovremmo confessare molto di più, cioè noi stessi, dire come viviamo noi stessi, come non viviamo noi stessi, come lavoriamo, come commettiamo menzogne. Solo che, purtroppo, chi si confessa così, a volte incontra l’incomprensione.
La confessione è molto difficile, perché bisognerebbe essere poeti: il prete dovrebbe essere poeta e chi confessa i peccati dovrebbe essere poeta, così uno comprenderebbe l’altro. Ma Cristo capisce e io confesso a Cristo!
Voglio raccontare una bellissima storia che forse indica qualcosa di ciò che ho voluto dire. Dieci o quindici anni fa, una mia amica, una professoressa dell’Accademia delle Scienze, andò a Leopoli, che oggi è in URSS, ma prima della guerra mondiale era territorio polacco. Qui c’è uno degli archivi più importanti per la storia polacca del ’600, ’700 e soprattutto dell’800. L’archivio era chiuso, ma lei, di nascosto, riuscì a leggere alcuni documenti. Nel periodo di Pasqua, il Giovedì Santo, lei e un’altra amica che abitava lì, andarono in un paesino a 50 km verso est, dove c’era un prete e speravano di poter partecipare alla Santa Liturgia. Arrivate lì seppero che il prete era morto un anno prima, ma che la liturgia si sarebbe svolta comunque. Facevano così: la chiesa veniva aperta, preparavano l’altare, le candele, i vestiti liturgici e le Ostie consacrate portate da un’altra chiesa. Poi un contadino leggeva il messale, tranne le parole della consacrazione. Al momento della Comunione tutti erano un po’ imbarazzati, perché a Pasqua bisognerebbe confessarsi. Dopo un momento di incertezza, si alzò un vecchio contadino, si avvicinò all’altare, prese la croce, la mise nel confessionale e tutti poterono confessarsi. Poi fu distribuita la Comunione.
Allora vedete, questi contadini avevano capito fino in fondo la struttura poetica della persona umana e forse avevano capito anche che cos’è la confessione: come ho cercato di dirvi, è confessione non solo dei peccati, ma anche di se stessi. Ma chi è capace di capire me stesso? Solo Lui, nessun altro, Lui mi comprende e mi conosce fino in fondo. Allora senza paura posso dirGli cosa penso di essere, poi Lui mi corregge piano piano. Così di nuovo si può parlare di speranza, attesa, grazia.
S. Tommaso d’Aquino ha definito la preghiera come "petitio interpretativa spei", cioè la preghiera è una domanda che interpreta la speranza. Allora, se la persona umana è così come abbiamo detto, la struttura della speranza e della grazia, nel linguaggio poetico, dovrebbe esprimersi nella domanda. Una tale domanda interpreta la speranza che è l’uomo.
Se io volessi consigliare ai filosofi le regole o la regola fondamentale dell’ermeneutica, cioè dell’interpretazione dei simboli o dei miti e della struttura poetica della persona umana, direi loro che è proprio la preghiera.
Finisco con una storia degli ebrei che vivevano nel secolo scorso nella Polonia orientale, in Ucraina. Martin Buber, che è nato ed è vissuto dodici anni in Polonia orientale, ha raccolto le storie che essi tramandavano da una generazione all’altra. Queste storie sono bellissime, vale la pena leggerle nel libro di Buber, per attingere un po’ di saggezza. Ecco la storia. Un rabbino visitò un amico e voleva insieme con lui vivere il sabato, la festa. Il giorno dopo, la domenica, prima di tornare a casa, il rabbino abbracciò e baciò l’altro, si mise a piangere e disse che aveva già 74 anni e non si era ancora veramente convertito a Dio. L’altro rabbino, piangendo, rispose che la stessa cosa tormentava anche lui. Così si inginocchiarono e decisero che uno doveva benedire l’altro, perché la benedizione, la lingua che ci esprime bene, ci rende capaci di convertirci. Mi pare che proprio loro abbiano capito fino in fondo la struttura poetica della persona umana e abbiano pensato simbolicamente e miticamente. E quando poi, dopo la benedizione, piangevano tutti e due, nelle loro lacrime brillava ciò che chiamarono la ‘felicità morale’ e anche ‘soteriologica’. Prima erano tormentati perché non erano ancora benedetti, espressi bene, non erano capaci di convertirsi; adesso il pianto è trasfigurato, è divino, è grazia.






Fonte :  http://www.augustea.it/dgabriele/italiano/teo_grygiel06.htm#inizio






Nessun commento:

Posta un commento

Post più popolari negli ultimi 30 giorni