Il Verbo si fa colore.
L’arte di Orler e la fede
cristiana
di Timothy Verdon
Pochi
artisti oggi hanno le risorse – tecniche, interpretative, spirituali – per
intraprendere un grande ciclo d’immagini bibliche. Tra questi, un posto di
particolare distinzione spetta a Davide Orler, che da molti anni cerca e trova
energiche risposte all’ispirazione che gli viene dalle Scritture; la presente
mostra ne offre un’ampia selezione. Nelle opere esposte, poi, ciò che Giampaolo
Trotta chiama il “sacro furor pingendi orleriano” sembra nascere dal
medesimo impulso da cui sono scaturiti i testi, e là dove
san Paolo affermava “Ho creduto,
perciò ho parlato” (2 Cor. 13), Orler dice: ‘Ho creduto, perciò ho dipinto’. Nei
colori freschi e vitali come nelle pennellate decise di questo maestro sentiamo
infatti vibrare l’irrefrenabile forza di una Parola che, in chi l’accoglie, si
rivela creatrice. Inoltre - anche se in questa straordinaria serie di tele
l’artista tratta non solo del Nuovo Testamento ma anche dell’Antico - sentiamo
che la fede che ha plasmato le opere è specificamente cristiana; che cioè
come un altro pittore della sua amata Venezia, Jacopo Robusti detto Tintoretto
alla Scuola di San Rocco, pure Orler vede e sente i personaggi d’Israele nella
prospettiva della salvezza offerta in Gesù Cristo.
Come tutti sanno, in quella
prospettiva vi è un rapporto particolare tra ‘parola’ ed ‘immagine’ che, a mio
parere, offre una chiave fondamentale alla vitalità dei dipinti a soggetto
biblico dell’Orler. Il Vangelo secondo Giovanni apre con le parole: “In
principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1), e
poi aggiunge che “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e
noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre, pieno di grazia e
verità” (Gv 1,14). Un altro testo, la prima Lettera di Giovanni, dirà che il
“Verbo della vita […] si è fatto visibile, noi l’abbiamo veduto e di ciò
rendiamo testimonianza” (1 Gv 1, 1-2), e in una lettera paolina Cristo è
chiamato semplicemente “immagine” – nel greco originale, “eikon” icona –
“del Dio invisibile” (Col 1,15).
Queste citazioni suggeriscono il
rapporto particolare del cristianesimo con la visibiltà, con le
immagini e quindi con l’arte. Mentre in altri sistemi religiosi
pittura e scultura servono ad illustrare contenuti il cui baricentro rimane
altrove, nel cristianesimo le immagini portano dritto al cuore dell’esperienza
di fede, facendo “vedere” una gloria, una grazia, una verità e vita associate a
Colui che è egli stesso “immagine”, Gesù Cristo. Anche l’arte più concreta,
l’architettura, è percepita dai cristiani in termini di mistica identificazione,
perché Cristo ha chiamato “tempio” il suo corpo risorto (Gv 2,19-22) e il Nuovo
Testamento caratterizza la comunità dei credenti come una “costruzione [che]
cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore” (Ef 2,21), un “edificio
spirituale” le cui pietre sono gli stessi cristiani (1 Pt 2,5).
Ecco perché, a chiusura del
Concilio Vaticano Secondo nel 1965, papa Paolo VI ha insistito sul ruolo degli
artisti nella vita cristiana. “Da lungo tempo la Chiesa ha fatto alleanza con
voi”, diceva: “voi avete edificato e decorato i suoi templi, celebrato i suoi
dogmi, arricchito la sua liturgia. Voi l’avete aiutata a tradurre il suo
messaggio divino nel linguaggio delle forme e delle figure, a rendere sensibile
il mondo invisibile”. Sullo stesso tono, nella Lettera agli artisti del 1999
Giovanni Paolo II afferma che, “per trasmettere il messaggio affidatole da
Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte. Essa deve infatti rendere percettibile
e, anzi, per quanto possibile, affascinante il mondo dello spirito,
dell’invisibile, di Dio”. Come Trotta suggerisce, poi, la ‘conversione’ di
Davide Orler al soggetto biblico si situa precisamente tra queste due
affermazioni, tra questi due papi.
La Chiesa ha bisogno dell’arte.
Se n’è sempre servita, infatti, e sin dalla prima cristianità la committenza
d’opere d’arte e d’architettura costituisce un ‘progetto’ consapevole a cui sono
state dedicate risorse ingenti. La comunità credente ha assunto quest’impegno
perché, attraverso l’arte in tutte le sue forme, essa riesce a “trasferire in
formule significative ciò che è in se stesso ineffabile”, come continua la
Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II. E Davide Orler, profondo conoscitore
della tradizione iconografica della Chiesa d’Oriente oltre che quella
d’Occidente, di quest’unica capacità di tradurre l’ineffabile in formule visive
ne sa qualcosa. Ciò che specialmente colpisce nei dipinti esposti nella presente
mostra, infatti, è l’estro con cui, con pochi tratti (quasi come nelle icone)
l’artista riesce a dar forma apodittica, al suo tema; queste opere hanno insomma
un’assolutezza contenutistica ed un’immediatezza comunicativa veramente inusuali
ai nostri giorni.
Vita,
luce e colore
L’arte a soggetto
‘scritturistico’ è ovviamente tra gli strumenti didattici più antichi che la
Chiesa conosce, e non solo nel senso di una Biblia pauperum o ‘Bibbia illustrata
per analfabeti’. Attraverso i secoli, l’arte è stata associata all’insegnamento
della fede perché essa in qualche modo ricrea l’esperienza dei primi seguaci di
Gesù. Così, in un testo del 1979, Catechesi tradendae, Giovanni Paolo II –
situando gli inizi dell’insegnamento cristiano nella persona e nell’opera di
Cristo – ricordava subito la tradizione artistica. “Questa immagine del Cristo
docente, maestosa insieme e familiare, impressionante e rassicurante, immagine
disegnata dalla penna degli evangelisti e spesso evocata in seguito
dall’iconografia sin dall’età paleocristiana – tanto è seducente – amo evocarla
a mia volta, all’inizio di queste considerazioni intorno alla catechesi nel
mondo contemporaneo”, diceva.
Di fondamentale importanza è il
passaggio concettuale tracciato qui, da un’immagine letteraria – “disegnata
dagli evangelisti” – ad un’immagine pittorica. In effetti, lo stile del vangelo
cristiano ‘dipinge’ personaggi ed eventi con tale chiarezza da quasi predisporne
la traduzione in immagini: cosa che Orler, come numerosi grandi maestri di altri
secoli, si è messo a fare. Data la formazione veneziana e l’intelligente
passione per le icone russe, la sua poi è un’arte di luce e di colore, elementi,
questi, di speciale importanza nell’estetica biblica. Il colore infatti è
collegato alla luce: nel buio notturno non vediamo i colori; ci sono, ma non li
vediamo. E nei giorni coperti e grigi, anche se vediamo i colori essi sono
spenti, mancano di vivacità. Così nell’Enciclopedia Treccani il colore viene in
primo luogo definito come “una sensazione fisiologica che si prova sotto
l’effetto di luci di diversa qualità e composizione; anche la luce stessa,
monocromatica o policromatica [...]”.
Ma se il colore è collegato
alla luce, è collegato anche al Sacro che in quasi tutte le culture viene
presentato in termini di ‘illuminazione’. “La caligine sarà dissipata, poiché
non ci sarà più oscurità dove ora è angoscia”, dice il profeta Isaia: “il popolo
che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in
terra tenebrosa una luce rifulse” (Is. 8,22-9,2). Il cristianesimo ha poi
adottato quest’immagine, servendosi del relativo brano isaiano per una delle
letture della notte di Natale. Cristo stesso si presenta infatti come “luce del
mondo”, dicendo: “chi segue me, non camminerà nelle tenebre ma avrà la luce
della vita” (Gv. 8,12).
Come Orler ci fa capire poi,
consegue che, essendo Dio luce, quando gli rivolgiamo la parola del Salmista,
“alla tua luce vediamo la luce” (Sal. 36,10), dobbiamo aggiungere: ‘e i colori’.
Davanti a queste tele sentiamo che è infatti nella luce che viene dall’alto che
riusciamo a vedere, distinguere, conoscere, gioire e sperare. Come, dopo il buio
della notte, la luce dell’alba permette al marinaio di scorgere l’orizzonte,
distinguere il mare dal cielo, calcolare le distanze, rallegrarsi se vede la
terra, sperare di arrivare al porto sospirato, così nei dipinti dell’Orler gli
straordinari effetti luministici danno senso morale al raffinato gioco
cromatico. E come, dopo le nevi invernali, il sole di primavera rivela il verde
tenero delle prime foglie, invitandoci a riscoprire la terra e noi stessi come
vivi, a sperimentare amore e stupore, a lasciarci inebriare dal profumo
sprigionato dalle prime brezze, che sono l’alito del colore della vita
rinascente, così l’orleriana pittura di luce trasmette il calore fragrante della
vita.
Davanti a queste opere, poi,
sentiamo che (in modo analogo a quello che vige nel cosmo esterno) ogni ‘alba’ e
‘primavera’ nella vita del singolo – ogni nuovo inizio o momento di conoscenza
ampliata, di gioia intensificata, di speranza accolta e condivisa – ha il suo
colore, suscitato dalla luce particolare che è brillata nel vissuto della
persona. Orler stabilisce – consciamente? Inconsciamente? – un sistema lessicale
cromatico, come nella vita stessa, dove certi colori ci parlano della nascita di
un bimbo, altri dell’amore, o nei riti sacri, in cui determinati colori
annunciano l’esultanza, altri la penitenza. Anche nei colori tradizionali in
certe culture ed etnie cogliamo l’eco di esperienze profonde che ne hanno
plasmato la storia – il rosso per cinesi e russi evoca il fuoco nelle case
durante interminabili inverni; il bianco e blu dei greci ricordano le case
luccicanti e festose di isole sospese tra cielo e mare – e l’Orler, amante dei
mari del sud come delle icone russe fa risuonare simili profondità nei suoi
colori.
Nella luce di queste
raffigurazioni di grandi archetipi, di eventi epocali e di momenti di grazia,
cogliamo come, nella luce che è Dio, si distinguono anche le vocazioni umane. In
Orler intravediamo la porpora dei re e cardinali, il giallo-rosso dei monaci
buddisti, il blu dei poliziotti, il bianco delle infermiere: a tutela della vita
e dei valori, un arcobaleno posto come segno di alleanza, colorata garanzia che
Dio è un amico, uno che parla al cuore di uomini e donne di buona volontà, i
quali a loro volta rispondono, in uno scambio tra materia umana e luce divina
che genera bellezza.
In passato i pittori, maestri
del colore, erano similmente eloquenti nel trasmettere il Sacro. Così quando
Beato Angelico, in un affresco del Convento di San Marco a Firenze, raffigura il
Risorto biancovestito con Maria Maddalena la mattina di Pasqua e riprende il
sangue delle ferite nel rosso che adopera per i fiorellini del prato,
comprendiamo che in Cristo “era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv.
1,4). Ma non solo: comprendiamo che la vita che in Cristo illumina l’uomo è
anche bellezza e colore del cosmo, vita e speranza di ogni creatura. Ecco, Orler
fa rivivere il potere simbolico, quasi sacramentale, delle tinte forti e decise,
restituendo all’ambito del Sacro l’amore del colore di molti artisti del
Novecento.
Orler, l’Italia e l’arte
sacra
La sua è poi una pittura
squisitamente italiana, nonostante i natali dell’artista al confine
settentrionale del Bel Paese e le forti impressioni assorbite in gioventù in
Sicilia. Dico ‘nonostante’, ma sarebbe meglio dire ‘grazie a’, perché in un
certo senso l’Italia è tutta una terra di confine che nella sua lunga storia è
stata luogo di scontro ma anche d’incontro tra popoli e culture. Teatro di
alcuni tra le più drammatiche evoluzioni della storia occidentale, ha vissuto la
colonizzazione greca, l’invasione dei barbari, il passaggio dal paganesimo alla
fede in Cristo e la transizione da un medioevo crepuscolare all’alba dell’era
moderna nel Rinascimento. Il ‘genio nazionale’ – con una parte ereditaria di
equilibrio classico, e un’altra, improvvisata ed instabile, che gli italiani
chiamano ‘l’arte dell’arrangiarsi’ – sa fare di necessità virtù, distillando
armonia dal disagio della diversità.
L’Italia ha quasi una vocazione alla sintesi; la
capacità di sintesi è infatti tra le caratteristiche fondamentali della sua
cultura. La sintesi in questione non è poi solo intellettuale ma coinvolge tutta
la persona e in modo particolare il corpo. La famosa gestualità italiana – il
fatto di non poter parlare senza gesti – è l’espressione concreta di un’esigenza
di sintesi che si traduce in termini corporei. E’ una forma d’arte, se vogliamo,
perché i gesti ‘dipingono’ e ‘scolpiscono’ idee, sentimenti, reazioni; sono
delle ‘sintesi plastiche’ di quanto la persona ha dentro. Agli occhi di inglesi
e tedeschi, ogni italiano è un artista, perché riesce a comunicare in maniera
più concentrata e completa, non solo a parole ma col movimento. Vista da fuori,
l’Italia è tutto un gesticolare: così l’ha raffigurata, in vena umoristica, il
vignettista americano Saul Steinberg in una serie di disegni pubblicati sulla
New Yorker negli anni Cinquanta, quando Orler si stabilì a Venezia: grandi
spazi pubblici come Piazza San Marco a Venezia gremite di piccole figure
gesticolanti, coppie o gruppi di interlocutori che, con braccia alzate e mani
mosse, salutano, minacciano, tratteggiano nell’aria formose sagome femminili.
In un senso analogo, l’arte di
Davide Orler è ‘gestuale’, non solo o principalmente perché raffigura sovente
personaggi che gesticolano, ma per un’istintiva ricerca di sintesi formale e
contenutistica. Come un movimento delle mani coordinato all’evolversi del
pensiero ne rafforza il senso, così il coordinamento di forme e colori, di pieni
e vuoti, di volumi e masse di cui Orler è maestro intensifica – mediante un
processo di sintesi sensoria – il contenuto dell’opera d’arte. La sua gestualità
consiste infatti tanto nell’impostazione formale dell’opera quanto
nell’illustrazione di specifici gesti corporei, come il lettore può verificare
sfogliando le pagine illustrate del presente catalogo. Quanti gesti espressivi
nelle figure! Ma quanto è espressiva anche la collocazione delle figure nel
mondo immaginato dall’artista!
Se è vero che l’indole naturale
degli italiani li fa ‘artisti’ (perché l’arte è sintesi e gesto), si può anche
dire che la stessa indole li predispone all’arte sacra e soprattutto all’arte
sacra cristiana. In termini pratici, il cristianesimo nasce da
un’intuizione di sintesi: dal convincimento, cioè, della volontà divina di
“ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della
terra”. Il cristianesimo è sintesi: funziona non coll’aut-aut
della logica ma coll’et-et di un mistico superamento di limiti. Cristo è
vero Dio e nel contempo vero uomo, Maria è vergine ma è
anche madre, la Chiesa è santa ma composta di peccatori.
La storia della salvezza
cristiana (e conseguentemente dell’iconografia che ne racconta la bellezza:
quella esplorata anche da Orler) è similmente segnata da ‘gesti’ – Noè salvato
dal Diluvio, Isacco risparmiato sul Monte Moria, Israele liberato nell’Esodo –
culminanti nella Pascha Cristi, liberazione definitiva dal peccato e
dalla morte. Il grande gesto è Cristo stesso, ‘Verbo’ incarnato e ‘immagine’ del
Dio invisibile, in cui viene riassunto e completato tutto quanto Dio aveva già
detto a Israele molte volte e in diversi modi attraverso i profeti.
Queste osservazioni suggeriscono
una provvidenziale coincidenza – una sorta di connaturalità – tra il
‘genio’ italiano e ciò che Chateaubriand chiamava “le génie du Christianisme”,
la particolare forma mentis che nel credente predispone alla creatività.
Non intendo affermare che gli italiani siano più credenti degli altri: la fede
non è una caratteristica genetica o culturale ma un dono liberamente accettato.
Il dono però deve essere anche sviluppato (come Orler ha fatto con sacrificio e
sofferenza) – è un ‘talento’ che va investito – e, in questo senso, gli italiani
hanno un vantaggio. Per natura sono portati a fare gesti di sintesi; la loro
storia insegna a ricercare, tra elementi discordanti, la concordia; la loro
cultura valorizza le doti richieste da tale ricerca – in primo luogo la pazienza
– e considera la ricerca stessa un atto spirituale.
Credo infatti che i grandi
periodi dell’arte italiana siano quelli che più obbligano alla sintesi e alla
sintesi difficile: i secoli IV-VI, corrispondenti all’assimilazione e
trasformazione cristiana dell’arte greco-romana, e i secoli XIV-XVII,
corrispondenti al ripristino dell’arte greco-romana al servizio di un
cristianesimo in drammatica evoluzione, i due periodi più importanti della
storia culturale europea. Dal primo è dipeso il medioevo, dal secondo l’era
moderna.
Si apre ora un terzo periodo bisognoso di sintesi
culturale, in cui il contributo italiano potrà essere ancora determinante, come
suggeriscono chiaramente le opere esposte nella presente mostra. Gli estremi del
problema furono suggeriti qualche anno fa in un articolo sul Corriere della
Sera intitolato “Religione e modernità. L’arte sacra contemporanea? Che
orrore”. L’autore del pezzo, il critico Gillo Dorfles, poneva due domande: “E’
sufficiente la fede per far accettare la mediocrità di tanta arte sacra
contemporanea? E, d’altra parte, è possibile un’arte veramente attuale che sia
anche sacra?”.
Impressionato dall’infima qualità di molte opere
adibite al luogo di culto, dalla perdurante nostalgia per gli stili di altri
tempi e dal facile accettazione del kitsch nelle chiese, Dorfles chiedeva
come spiegare il fatto che “l’arte religiosa, che pure dominò (almeno
nell’Occidente cattolico) un’ininterrotta serie di secoli, abbia perso oggi
quasi ogni diritto di cittadinanza e abbia dato ben poche prove di se se non in
qualche opera architettonica”. Spiega in un altro scritto che, col termine
‘veramente attuale’, intendeva un’arte radicata nella cultura del secondo
Novecento, eloquente nei linguaggi tipici del periodo, tra cui l’astrattismo e
l’informale.
Già allora risposi alla domanda di Dorfles con
l’affermazione: “Si, è possibile, ma non è facile”. E’ possibile perché –
come affermava il Concilio Vaticano Secondo – “la Chiesa non ha mai avuto come
proprio uno stile artistico, ma, secondo l’indole e le condizioni dei popoli, e
le esigenze dei vari riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca”.
Ed e’ possibile perché già la tradizione cristiana offre esempi eccelsi
di arte astratta oltre che figurativa – e questo non solo nel periodo
paleocristiano, ma anche nel cuore del figurativismo rinascimentale; gli studi
di Georges Didi-Huberman, sul significato simbolico-astratto degli sfondi a
finto marmo del Beato Angelico aprono tutto un capitolo nuovo di ricerca sul
Quattrocento fiorentino.
Sbaglia invece chi crede che i linguaggi dell’arte
contemporanea non siano applicabili al sacro solo perché “nell’astrattismo e
nell’informalismo, come nell’atonalismo musicale, diventa estremo
l’atteggiamento che rifiuta la salvezza sacra per la salvezza
artistica”, l’art pour l’art a sostituzione della fede. Sbaglia
perché il cristianesimo non è manicheo: all’aut-aut preferisce l’et-et
e – come diceva Tertulliano – ‘la carne è il cardine della salvezza’. Ciò
significa che ogni autentica esperienza estetica può aver parte nel piano
provvidenziale di Dio. Il
grido di Cristo sulla croce, certamente ‘atonale’, non rifiutava la salvezza, né
la rifiuta l’ordine sparso – quasi ‘informale’ – dei fiori del campo, più belli
di Salomone in tutto il suo splendore.
Nel contesto del dibattito sollevato dall’articolo
di Dorfles, mi sembrava felice l’osservazione di Paolo Biscottini, Direttore del
Museo Diocesano di Milano, che ‘sacro’ non è solo ciò che può porsi in stretto
riferimento alla storia sacra, ma ciò che esprime la verità dell’uomo.
Giovanni Paolo II, nella sua Lettera agli artisti del 1999, sviluppa la stessa
idea affermando che “ogni forma autentica di arte è, a suo modo, una via di
accesso alla realtà più profonda dell’uomo e del mondo”.
Il papa insiste infatti che, pur nell’odierno distacco tra il mondo dell’arte e
il mondo della fede, la Chiesa continua a nutrire grande apprezzamento per il
valore dell’arte, “anche al di là delle sue espressioni più tipicamente
religiose”, perché “quando è autentica, [l’arte] ha un’intima affinità con il
mondo della fede”. A scanso di equivoci, aggiunge che, “persino quando scruta le
profondità più oscure dell’anima, o gli aspetti più sconvolgenti del male,
l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione”. Il
presente saggio ha infatti cercato di ascoltare quella voce, individuando la
‘universale attesa’ percettibile in ogni opera d’arte e massimamente nell’arte
sacra.
Sfide per l’arte sacra
oggi
Così – come Orler ci fa sentire
- un’arte veramente ‘attuale’ e nel contempo ‘sacra’ è ancora possibile. Ma è
anche difficile, perché la tradizione ecclesiastica ha privilegiato in
maniera quasi assoluta la raffigurazione naturalistica. Cristo stesso ha
‘narrato’ il Padre (Gv 1,18) con i gesti della propria vita corporea e
psicologica e in parabole che narrano di uomini e donne, e l’arte figurativa e
narrativa, con componenti di naturalismo e di indagine psicologica, sembra quasi
imporsi alla Chiesa come ‘linguaggio cultico’, anche se ciò non esclude un
idoneo ammodernamento del figurativo, o l’uso simultaneo di altri linguaggi,
come fa Orler.
Un’arte sacra che sia ‘attuale’ nel senso che
Dorfles intendeva è difficile soprattutto perché, nella logica delle religioni
(e non solo del cattolicesimo), l’arte a servizio del culto ha, tra i suoi
compiti fondamentali, quello di conservare e tramandare la memoria di
significativi eventi del passato; tende sempre al tradizionalismo e a volte
all’arcaismo: penso alle repliche ellenistiche di formule figurative risalenti
al VI secolo a. C., nel contesto della religiosità ufficiale ateniese, e alla
conservazione, nella pittura veneziana del secondo Quattrocento, di evidenti
riferimenti all’arte bizantina. Ma penso anche alla scelta ottocentesca di un
medievalismo ‘pio’ per l’architettura e per gli arredi di edifici religiosi.
Lo stile del passato è spesso
percepito dai credenti come una conferma consolante di ‘fedeltà’: la fedeltà di
Dio, che non cambia, e quella del suo popolo, che aspira inconsciamente a
un’analoga ‘immutabilità’ nei modi di preghiera. “Come ha pregato mia mamma,
come ha pregato la nonna e la bisnonna, così voglio pregare anch’io!” Nei
credenti colti, questo atteggiamento può assumere inoltre una valenza ascetica:
“il Vangelo mi dice di non amare la mia vita e la mia volontà – anzi, di morire
a me stesso – e così accetterò e addirittura preferirò un linguaggio artistico
che non mi piace, per ascesi e per umiltà”. Da qui nascono le bondieuseries,
le saint-sulpicéries, i Cristi e le Marie di gesso col cuore grondante
sangue e con gli occhi di vetro, i Cenacoli su velluto, magari col viso del
Signore che cambia espressione.
Il compito di articolare un’arte
sacra in termini contemporanei è perciò difficile soprattutto a causa
dell’indole ‘naturalmente’ conservatrice di molti credenti, tra cui anche
prelati e membri del clero.
Ed è difficile perché, per
superare un simile scambio d’identità – ripetitività mortificante presa per
‘fedeltà divina’ – e per arrivare poi a una sintesi capace di toccare l’uomo
contemporaneo, consolando ma anche turbando il suo spirito, ci vuole coraggio:
il coraggio di respingere il male e scegliere il bene (estetico), anche a costo
di non accontentare tutti, e il coraggio di investire concretamente nel nuovo –
cioè, di spendere. All’interno e all’esterno della Chiesa, l’investimento
nell’arte solleva sempre l’obiezione che ‘Quei soldi potevano essere usati per i
poveri’. Bisogna invece ricordare la peccatrice del Vangelo, criticata per aver
sprecato del costoso unguento, versandolo sui piedi di Cristo: venne difesa dal
Signore stesso, e “il profumo riempì tutta la casa” (Giovanni 12,3). Ecco, senza
badare troppo a spese, bisogna di nuovo riempire la casa del profumo della
bellezza.
Ma insieme al coraggio, ci vuole
anche chiarezza, una qualità che talvolta manca oggi. La Chiesa
istituzionale sta ancora vivendo un tempo di transizione dallo ‘stile
ecclesiale’ di prima del Concilio a quello post-conciliare ancora in fieri.
Ci vuole chiarezza sui messaggi da comunicare, sulla Chiesa da ‘far
vedere’, sull’identità cattolica e cristiana in un mondo secolarizzato. Un
linguaggio – che esso sia verbale od artistico – viene formulato da chi ha
qualcosa da dire. Mi domando infatti (perché non lo so) in che misura la ricerca
di Davide Orler sia stata illuminata dal colloquio con competenti autorità
ecclesiastiche: se dall’interno della Chiesa gli siano arrivati illuminazione,
incoraggiamento, inviti a lavorare.
Aggiungiamo che oggi ci vogliono anche coraggio e
chiarezza anche nello stabilire i limiti della ricerca. Ciò che il critico
d’arte sacra contemporanea Mariano Apa ha chiamato “superficialismo sincretista”
rimane un rischio grave. Il tempio cristiano con i suoi arredi deve pur sempre
comunicare; oltre l’emozione amorfa, deve trasmettere contenuti
specifici, legati all’uomo-Dio Gesù Cristo, alla sua madre, ai santi, alla vita
storica del suo Corpo che è la Chiesa. Il grido atonale di Cristo in croce è
fortemente espressivo, ma deve essere presentato nel contesto ‘armonioso’ della
speranza. Nel Vangelo, insieme al grido, c’è anche l’incipit del Salmo
21: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”, un Salmo che conclude con
allusioni alla Risurrezione. Così l’arte a servizio della comunità credente può
benissimo privilegiare elementi astratti, informali, concettuali (come fa Orler);
ma nel messaggio complessivo dovrà anche esplicitare il senso cristiano di tali
elementi (come fa Orler in maniera esemplare). Lo richiede la teleologia della
fede: il credente sa di essere pellegrino, con una destinazione – una meta che
deve raggiungere – e cerca nell’arte un’indicazione della strada, viatico per il
viaggio, la visione anticipata del porto sospirato.
Ci vorrà uno sforzo di sintesi
per molti inimmaginabile: un ‘ponte’ tra passato e futuro che, al presente,
nessuno sa costruire, come i fiorentini di fine Trecento non sapevano in che
modo costruire l’immensa cupola della loro cattedrale. Chi meglio degli italiani
a inventare il futuro? Ce l’hanno nel sangue! Le opere di Orler qui esposte già
indicano chiaramente la strada.
Come, agli inizi della
tradizione artistica cristiana, un preesistente stile figurativo – l’arte del
tardo Impero – in Italia venne illuminato dal nuovo linguaggio di segni e
simboli, così nell’arte orleriana il linguaggio contemporaneo prevalentemente
astratto e simbolico viene a sua volta ‘illuminato’ dalla figurazione necessaria
al messaggio cristiano. E come, alla fine del medioevo, forme di pensiero e
d’arte allora canoniche trovarono nuova vita grazie alla rilettura cristiana del
patrimonio antico, così – tra le mani di Orler – alcuni tra i presupposti
culturali del Novecento all’apparenza ostili al cristianesimo dischiudono
insospettate affinità con l’esperienza della fede.
Orler, la fede, il
pensiero di Giovanni Paolo II
Il caso di Orler ha poi
dell’emblematico, perché gli artisti sono sempre uomini e donne ‘di fede’, anche
se si proclamano non-credenti. Fanno cose. La fede, creativa, genera
opere, e “se non ha le opere, è morta in sé stessa” (Giacomo 2,17), come un’idea
geniale che l’artista non traduce in un dipinto o in una statua. La fede poi è
un terreno familiare agli artisti, i quali ogni giorno devono affrontare la
fatica di tradurre intuizioni ed idee, impressioni ed osservazioni,
concretizzandole in ‘opere’. Sanno bene che l’unico modo di perfezionarsi è
darsi da fare, buttarsi, rischiando il fallimento, lo spreco di tempo, di
materiali, d’energia: rischiando addirittura il ridicolo. Meglio di altri,
capiscono come in Abramo “la fede cooperava con le opere” e “per le opere
divenne perfetta” (Giacomo 2, 21-22).
Ma gli artisti capiscono la dinamica della fede a un
livello ancora più essenziale, identificandosi con il ‘rischio’ e ‘pathos’ dello
stesso Artefice Dio. Sperimentano come intima speranza e necessità e sofferenza
il desiderio di esternare un’idea che sfugge, un concetto “unico, molteplice,
sottile, mobile, penetrante” (Sapienza 7,22) che magari sembra ricapitolare
tutto ciò che l’artista sa di avere dentro, e che egli vuole, anzi deve
condividere con altri, per farli vedere con i loro occhi e contemplare e toccare
con le loro mani una cosa che, in lui “c’era fin da principio” (1 Giovanni 1,1).
Non v’è artista che non si identifichi col Creatore che rischiò tutto pur di
rendere la propria “vita […] visibile” agli uomini (1 Giovanni 1,1-2). Fu in
questo senso che Paolo VI affermava, a nome dell’intera Chiesa, che “Noi
onoriamo grandemente l’artista perché egli compie un ministero para-sacerdotale
accanto al nostro. Il nostro ministero è quello dei misteri di Dio, il suo è
quello della collaborazione umana che rende questi misteri presenti ed
accessibili”.
Ancor più vicino alla
sensibilità di Davide Orler rimane tuttavia Giovanni Paolo II, la cui Lettera
agli artisti ha un’originalità, una freschezza, non dissimili alle tele
esposte nella presente mostra. La differenza qualificante consiste in una
identificazione tra l’artista e l’opera. Papa Montini aveva scritto da
amatore e collezionista; Karol Woytila scriveva invece da artista. La sua (come
osservò il Cardinale Poupard, presentando il testo alla stampa) è “una lettera
scritta con intimità e verità di accenti, sincerità di stato d’animo,
partecipazione […] di ‘collega’ […]”. Giovanni Paolo II, papa ma anche poeta,
drammaturgo e attore, “entra così nell’animo stessa dell’artista (continua
Poupard): lo esplora, perché lo conosce, artista lui stesso”.
Lo stesso autore della Lettera allude a
questo rapporto ‘collegiale’ quando, nel primo paragrafo, ammette di sentirsi
“legato” agli artisti “da esperienze che risalgono molto indietro nel tempo ed
hanno segnato indelebilmente la mia vita”.
Data la chiave personale e collegiale, è
comprensibile il punto di partenza teologico scelto da Giovanni Paolo II,
L’artista, immagine di Dio Creatore. Qui, come in altre sezioni, la
Lettera attinge a tematiche sviluppate dai Vescovi della Toscana in una loro
Nota Pastorale del 1997 su “la comunicazione della fede attraverso l’arte”, dove
un capitolo importante fu dedicato al “Dio creatore e la creatività dell’uomo”.
Ma il Papa va molto oltre: mentre i Vescovi toscani si limitarono
all’affermazione che “la spinta umana verso una creatività analoga a quella
divina costituisce […] l’ambito del rapporto tra creatura e Creatore”, l’artista
Wojtyla scrive ai ‘colleghi’ che “nessuno meglio di voi […] può intuire qualcosa
del pathos con cui Dio, all’alba della creazione, guardò all’opera delle
sue mani”.
Il Papa imposta il discorso,
cioè, in termini dell’identificazione personale dell’artista con il Deus
artifex: un’identificazione sperimentata precisamente nell’emozione che
l’uomo prova davanti a qualcosa che ha fatto, la cui origine Giovanni Paolo II
vede in Dio stesso! Il tono, l’atmosfera dell’apertura – di tutta la Lettera
infatti – è di “stupore” (parola ripetuta ben cinque volte nel testo), una
vibrazione dell’emozione di Dio riflessa nello sguardo con cui l’artista,
avvinto “dello stupore per il potere arcano dei suoni e delle parole, dei colori
e delle forme”, ammiri l’opera del proprio estro!
Così l’artista s’identifica con Dio, e il Papa con
l’artista, in un progetto unitario che coinvolge la Chiesa, gli artisti e la
Santissima Trinità: progetto di salvezza mediante la bellezza (viene
esplicitamente citata l’affermazione di Dostoevskij: “la Bellezza salverà il
mondo”). Quella poi cui si riferisce Giovanni Paolo II non è bellezza solo
estetica, ma anche e soprattutto funzionale: Woytila cita due volte una
frase del poeta polacco Cyprian Norwid, “la bellezza è per entusiasmare al
lavoro, il lavoro è per risorgere”.
Il ciclo porta quindi dalla
bellezza allo stupore (davanti a quanto l’uomo ha fatto), dallo stupore
all’entusiasmo (per quanto l’uomo può ancora fare), dall’entusiasmo al lavoro
(in cui l’uomo realizza il suo potenziale), e dal lavoro a una ‘risurrezione’
(nella comprensione della propria dignità di creatura creativa fatta ad immagine
del Dio Creatore). Stupore, entusiasmo, risurrezione: la bellezza per Giovanni
Paolo II è “invito a gustare la vita e sognare il futuro”.
Traspare poi in ogni paragrafo della Lettera
l’autocomprensione etica e spirituale a cui il dono del talento chiama
l’artista. Il talento è un compito, l’arte un servizio; ogni uomo è chiamato ad
essere artefice della propria vita, dice il Papa, ma l’artista – nelle cose che
fa e che svelano la sua vita – contribuisce in quanto uomo a plasmare la vita
interiore di altri uomini.
Anche i Vescovi toscani, nella loro Nota del 1997,
suggerivano che “gli artisti rivelano per analogia la struttura della creatività
personale, il modo cioè in cui ogni uomo e donna ‘progetta’, ‘modella’ e
‘colora’ la propria vita per meglio servire Dio e il prossimo”. Ma Giovanni
Paolo II colloca quest’osservazione precisamente sull’orizzonte etico del
singolo artista, situato a sua volta sull’ampio sfondo del ‘bene comune’: “chi
avverte in sé questa sorta di scintilla divina che è la vocazione artistica […]
avverte al tempo stesso l’obbligo di non sprecare questo talento, ma di
svilupparlo, per metterlo al servizio del prossimo e di tutta l’umanità”. Più
avanti nella Lettera, Giovanni Paolo cita le parole pronunciate da Paolo
VI a conclusione del Concilio Vaticano II: “questo mondo nel quale noi viviamo
ha bisogno della bellezza, per non cadere nella disperazione”, e ricorda la
definizione – nella costituzione Sacrosanctum Concilium – dell’attività
artistica a servizio della Chiesa come un “nobile ministero”.
L’evento centrale della storia dell’arte, come di
ogni altra ‘storia’ che l’uomo vive e scrive – l’evento che eleva il retto uso
del talento artistico da ‘obbligo’ etico a nobile ‘ministero’ – è l’Incarnazione
del Verbo di Dio. Rimane in qualche modo operativo, il divieto
veterotestamentario di raffigurare l’Altissimo, perché Dio trascende ogni
raffigurazione materiale. Eppure, nell’Incarnazione “il ‘Dio-Mistero’ si pose
come incoraggiamento e sfida per i cristiani anche sul piano della creazione
artistica […]. Facendosi uomo, infatti, il Figlio di Dio ha introdotto nella
storia dell’umanità tutta la ricchezza evangelica della verità e del bene,
e con essa ha svelato anche una nuova dimensione della bellezza […]”.
Il significato concreto di quest’affermazione
teologica, nell’esperienza del sacerdote-artista Karol Wojtyla, viene suggerito
nella sezione storica della Lettera, dove – parlando delle icone – il
Papa cita una frase stupenda di Pavel Florenskij: “L’oro, barbaro, pesante,
futile nella luce del giorno, con la luce tremolante di una lampada o di una
candela si ravviva, poiché sfavilla di miriadi di scintille ora qui, ora là,
facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste”.
Il Papa dall’Est si mostra poi altrettanto sensibile
all’arte occidentale. Parlando delle cattedrali gotiche, fa sua l’idea che “dove
il pensiero teologico realizzava la Summa di San Tommaso, l’arte delle
chiese piegava la materia all’adorazione del mistero”; e nella nuova
valorizzazione dell’uomo dell’arte rinascimentale, Giovanni Paolo II trova
un’espressione di quella dignità dell’uomo redento che diventa base
dell’‘umanesimo cristiano’ dei secoli XV-XVIII. Scrivendo poi dal Palazzo
Apostolico, “un vero scrigno di capolavori d’arte”, Wojtyla ricorda con evidente
partecipazione i maestri con cui ha vissuto da più di vent’anni: Michelangelo,
Raffaello, Bramante, Bernini, Borromini, Maderno.
Al centro del suo pensiero, però, c’è sempre
l’Incarnazione: “se il Figlio di Dio è entrato nel mondo delle realtà visibili,
gettando un ponte mediante la sua umanità tra il visibile e l’invisibile,
analogicamente si può pensare che una rappresentazione del mistero possa essere
usata, nella logica del segno, come evocazione sensibile del mistero”.
Arte e contemplazione
La Lettera del Papa agli artisti è essa
stessa ‘ponte’, ‘evocazione sensibile del mistero’, opera d’arte che nasce dalla
contemplazione adorante. Più che scrivere, Giovanni Paolo II ha musicato e
colorato le sue idee (che in ogni caso hanno l’intima concretezza del vissuto).
Con toni argentei e tinte luminose ricrea l’esperienza dell’artista, in cui
“l’aspirazione a dare un senso alla propria vita si accompagna alla percezione
della bellezza e della misteriosa unità delle cose”. Ammette la frustrazione
provata dagli artisti di fronte al “divario incolmabile che esiste tra l’opera
delle loro mani, per quanto riuscita che essa sia, e la perfezione folgorante
della bellezza percepita nel fervore del momento creativo”, del cui splendore
l’opera realmente dipinta o scolpita non è che un barlume. Ma condivide anche il
rapimento del credente davanti a un capolavoro di arte sacra: “egli sa di
essersi affacciato per un attimo su quell’abisso di luce che ha in Dio la sua
sorgente originaria”.
Nel medesimo paragrafo, poi,
Giovanni Paolo II cita l’artista domenicano che ha perfettamente tradotto in
immagini il motto del suo Ordine, contemplata aliis tradere: Beato
Angelico, che viene presentato come “modello eloquente di una contemplazione
estatica che si sublima nella fede”. Il Papa ricorda anche la poesia del
poverello d’Assisi, riportando l’affermazione di San Bonaventura che Francesco
“contemplava nelle cose belle il Bellissimo e, seguendo le orme impresse nelle
creature, inseguiva dovunque il Diletto”.
Se gli occhi del Papa guardano verso la luce – verso
il riflesso delle candele sull’oro delle icone, verso Beato Angelico e Francesco
d’Assisi – , il suo cuore non ricusa davanti alle tenebre. “Ogni forma autentica
di arte è, a suo modo, una via di accesso alla realtà più profonda dell’uomo e
del mondo”, afferma, insistendo poi che anche nell’odierno distacco tra il mondo
dell’arte e il mondo della fede, la Chiesa nutre grande apprezzamento per il
valore dell’arte come tale. “Questa, infatti, anche al di là delle sue
espressioni più tipicamente religiose, quando è autentica, ha un’intima affinità
con il mondo della fede”, dice.
E nel caso qualcuno non avesse capito, Giovanni
Paolo II aggiunge che, “persino quando scruta le profondità più oscure
dell’anima, o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche
modo voce dell’universale attesa di redenzione”.
Si tratta di una novità di
proporzioni epocali! Significa che la “alleanza con gli artisti” auspicata da
Papa Montini, e che Wojtyla subito ripropone, è ormai un’alleanza con tutti
gli artisti, credenti e non! Nessuno è escluso, e il Papa c’insegna a
cercare, perfino in opere opposte alla nostra tradizione e sensibilità, “una
sorta di ponte gettato verso l’esperienza religiosa”. Il Vescovo di Roma difende
cioè la dignità e l’autonomia di ogni artista, in questa Lettera davvero
‘cattolica’, universale.
La Chiesa “ha bisogno” dell’arte, perché “deve
rendere percepibile e, anzi, per quanto possibile, affascinante il mondo dello
Spirito, dell’invisibile di Dio”. Ha quindi bisogno anche “di chi sappia
realizzare tutto ciò sul piano letterario e figurativo”, nonché di musicisti ed
architetti.
Ma gli artisti, a loro volta, hanno bisogno della
Chiesa. “L’artista è sempre alla ricerca del senso recondito delle cose”, dice
il Papa; “il suo tormento è di riuscire ad esprimere il mondo dell’ineffabile”
che proprio la Chiesa gli può aprire. Così la religione diventa una “sorta di
patria dell’anima” degli artisti, e il cristianesimo in particolare – “in virtù
del dogma centrale dell’Incarnazione del Verbo” – offre agli artisti un
orizzonte ricco di motivi d’ispirazione.
Offrendo tanto, la Chiesa ha
anche il diritto di chiedere qualcosa, e il Papa invita gli artisti a “dire con
la ricchezza della vostra genialità che in Cristo il mondo è redento; è
redento l’uomo, è redento il corpo umano, è redenta l’intera creazione”. Tutti
gli artisti sono invitati ad assumersi questo compito: “artisti della parola
scritta ed orale, del teatro e della musica, delle arti plastiche e delle più
moderne tecnologie di comunicazione”, perché “l’umanità di tutti i tempi – anche
quella di oggi – aspetta di essere illuminata sul proprio cammino e sul proprio
destino”.
Con il penultimo paragrafo, dedicato allo “Spirito
Creatore”, Giovanni Paolo II ritorna al tema d’apertura: il momento primordiale,
quando lo Spirito aleggiava sulle acque e l’Artista Divino provò pathos
davanti alla bellezza del proprio operato. Questo ‘ritorno tematico’ costituisce
ciò che, negli studi biblici, si chiama una “inclusione”: si inizia e si
conclude con lo stesso pensiero, che però subisce uno sviluppo, un
approfondimento.
Seguire fino in fondo il grande
Giovanni Paolo II, che nei primi anni del suo pontificato si era tanto
interrogato sul senso dei primi capitoli della Genesi, è commovente. Con un
movimento ardito non dissimile alla libertà pittorica delle tele bibliche di
Orler, il pensiero del grande papa si spostava dall’identificazione con il
sentimento dell’Artefice davanti all’opera compiuta (“Dio vide quanto aveva
fatto, ed ecco, era cosa molto buona”), indietro nel tempo verso l’inizio
assoluto, lo Spirito sulle acque, “misterioso artista dell’universo”. Nella
prospettiva del terzo millennio già allora alle porte, il Papa augurava a tutti
gli artisti di ricevere in abbondanza il dono dell’ispirazione che, quand’è
autentica, sempre “racchiude in se qualche fremito di quel ‘soffio’ con cui
lo Spirito Creatore pervadeva sin dall’inizio l’opera della creazione”.
Orler e la missione della
Chiesa
Alla luce della Lettera
di Giovanni Paolo II, desidero concludere queste osservazioni con un auspicio:
che cioè la Chiesa si avvali del dono spirituale e comunicativo che le viene
offerto nell’arte di Davide Orler per la formazione – anche teologica – dei
futuri presbiteri, già impegnati nello studio approfondito dei testi biblici
trattati dall’artista.
Vi è infatti un nesso
strutturale tra la missione della Chiesa e l’utilizzo dell’arte. Come sacerdote
ed insegnante, credo che noi ‘missionari’ cristiani – quelli cioè che la Chiesa
invia a predicare e a celebrare la liturgia – dobbiamo conoscere l’arte come
tesoro spirituale e ‘attrezzo’ pratico del loro lavoro. Da opere ispirate dalla
fede del passato e del presente, i presbiteri devono essere in grado di
suggerire motivi di fiducia nel futuro, e questo non solo per i cristiani ma per
tutti: per l’Europa che rischia di nascere senza un’anima, come Jacques Delors
intimò, e per un mondo che dall’Europa e dalla sua tradizione giudeo-cristiana
aspetta sempre l’articolazione credibile di valori morali ed etici.
Già quindici anni or sono, in
una Lettera Circolare su La formazione dei futuri presbiteri, S.E.
Francesco Marchisano, Presidente della Pontificia Commissione per i Beni
Culturali della Chiesa, chiamò l’attenzione sull’urgenza di questo compito. La
Lettera, emanata il 15 ottobre del 1992 ed indirizzata ai vescovi diocesani
cattolici di tutto il mondo, motivò le sue proposte in termini che oggi, dopo
l’11 settembre 2001, hanno nuova e tragica attualità:
“Mentre l'umanità registra il
fallimento di un modello di vita giocato sul consumo dell'effimero e sul potere
incontrastato della tecnica [recita il testo]; mentre crollano le ideologie
chiuse alla trascendenza e alla spiritualità dell'uomo, si registra un crescente
ricorso alla fruizione di beni propri dello spirito umano e caratteristici delle
manifestazioni superiori del suo genio. In un mondo minacciato da nuove forme di
barbarie e percorso da flussi migratori sempre più imponenti, che espongono
intere popolazioni a vivere quasi sradicate dal proprio humus, sono molti, e
sempre più numerosi, le donne e gli uomini che si fanno sensibili al valore
umanizzante delle espressioni culturali e artistiche. Cresce di conseguenza la
convinzione che è importante, per il futuro dell'umanità, por mano alla loro
retta conservazione, alla difesa dalla dispersione e dalla strumentalizzazione
(che derivano da un loro uso orientato solo a fini economici), alla loro
valorizzazione come veicoli di senso e di valore per la vita umana.
Dall’altro lato, si è
consapevoli che l'opera e la responsabilità di contribuire a questo lavoro di
umanizzazione, a questa cura del ‘supplemento d'anima’ da garantire al mondo
moderno, grava in particolare sulla Chiesa e - all'interno delle comunità
cristiane - soprattutto sulle spalle dei presbiteri. Essi presiedono e orientano
autorevolmente, sotto la guida dei Vescovi e del Successore di Pietro, l'opera
di evangelizzazione […]”.
Situando la responsabilità per
la conservazione e difesa, nonché per la valorizzazione del patrimonio artistico
cristiano “sulle spalle dei presbiteri”, la Lettera della Pontificia Commissione
mirava a offrire “un aiuto ai responsabili della formazione dei candidati al
presbiterato, precisando gli itinerari formativi e soprattutto suggerendo linee
operative e iniziative volte a sensibilizzare i futuri presbiteri al loro
compito circa i patrimoni artistici e storici della Chiesa, da inserire
organicamente nell’iter educativo dei futuri sacerdoti” (n. 9). Sottolineava che
“non si tratta certo di preparare degli specialisti in materia di gestione dei
beni culturali”, ma di far sì che “i pastori d’anime acquisiscano quella
sensibilità e quella competenza che permettono loro di valutare attentamente la
portata dei valori in giuoco” e che siano “messi in grado di educare a tali
valori le comunità a loro affidate” (n. 11), nel contesto del globale compito di
umanizzazione sopra accennato. Lo scopo ultimo è espresso nella semplice
affermazione che “i beni culturali vanno conosciuti e apprezzati da persone
educate a coglierne il valore globale e capaci di fruire della contemplazione di
quelle verità che essi comunicano” .
Il documento pontificio mette
poi in rilievo le “gravi lacune dal punto di vista dell’esperienza estetica,
della sensibilità storica e letteraria, della conoscenza ‘partecipativa’ del
mondo artistico e, più ancora, della capacità di cogliere tali valori” di molti
candidati al sacerdozio, e di nuovo insiste che “non si tratta in primo luogo e
solo di un’operazione intellettuale, ma di una globale crescita della persona,
sia sul piano della maturazione della sensibilità, sia sul piano propriamente
religioso e cultuale, sia sul piano culturale, spirituale e pastorale” . Esso
offre infine una serie di suggerimenti riguardanti l’inserimento, nel
curriculum studiorum dei futuri preti, di componenti filosofiche, teologiche
e storico-artistiche mirate a favorire la formazione di tale sensibilità,
mettendo particolare enfasi sul “ruolo dell’insegnamento della liturgia nel
mettere in evidenza il valore espressivo e comunicativo della fede, che si deve
attribuire all’architettura, alla pittura, alla scultura, alla musica, in
relazione alle celebrazioni sacramentali e al culto” .
L’arte e la comunicazione
della fede
Quest’ultima affermazione,
relativa al “valore espressivo e comunicativo” dell’arte nel contesto liturgico,
ha particolare interesse nel contesto della presente mostra, che deve servire
come punto di partenza per un nuovo rapporto tra Orler e la Chiesa dei preti. Il
prete è uno che si sente chiamato ad esprimere e a comunicare ad altri la fede
al cui servizio si è posto; il principale contesto in cui adempie alla sua
vocazione è poi quello liturgico: la celebrazione della liturgia costituisce
infatti, per ogni sacerdote, il momento in cui massimamente ‘realizza’ la sua
identità professionale.
Così, mettendo l’enfasi sulla
comunicazione nel contesto liturgico, la Lettera della Pontificia Commissione
formulava le sue esigenze in un linguaggio perfettamente comprensibile ai
destinatari, e sia l’uno che l’altro aspetto sono stati ulteriormente sviluppati
in altri documenti ecclesiali. Pure nel 1992, il Catechismo Universale della
Chiesa Cattolica curato dall’allora cardinale Ratzinger, ad esempio dedicava una
parte del capitolo sull’ottavo comandamento – il divieto di portare falsa
testimonianza – al tema “Verità, bellezza e arte sacra”: un paragrafo che segue
immediatamente altri sul “vivere nella verità”, “rendere testimonianza alla
verità”, e “l’uso dei mezzi di comunicazione sociale”. In ogni periodo della sua
storia, in effetti, l’arte cristiana è stata concepita come un “mezzo di
comunicazione” atto a “rendere testimonianza” al patrimonio spirituale di cui
sono depositari coloro che “vivono nella verità”.
In questa luce, la comunicazione
della fede attraverso l’arte, anche contemporanea, si rivela un ministero e una
testimonianza. Come affermavano i Vescovi della Toscana in una Nota Pastorale
del 1997: illustrare la verità che viviamo, attraverso opere da essa generate, è
un modo eccellente in cui mostrarci “pronti sempre a rispondere a chiunque ci
domandi ragione della speranza che è in noi”.
Il ruolo dell’arte nei riti
della Chiesa è altrettanto significativo. Come insiste la Nota della Conferenza
Episcopale Toscana:
“Nell’una e nell’altra
tradizione cristiana – nella Chiesa d’Oriente come in quella d’Occidente – l’uso
di immagini sacre nel contesto della vita liturgica è servito nei secoli a
manifestare il particolare rapporto che, grazie all’Incarnazione di Cristo,
sussiste tra ‘segno’ e ‘realtà’, all’interno dell’economia sacramentale. Tale
rapporto, invero, traspare in tutte le opere che l’uomo associa al culto divino:
dai vasi sacri e tessuti alle più monumentali costruzioni architettoniche. L’uso
delle cose nella liturgia della Chiesa rivela ed attualizza la vocazione del
mondo infraumano, chiamato insieme all’uomo e per mezzo dell’uomo a rendere
gloria a Dio”.
La Nota Pastorale della CET
illustra infine il nesso tra l’esperienza culminante nella vita del sacerdote –
la celebrazione della Messa – e l’arte che tipicamente ne fa da sfondo,
suggerendone inoltre le coefficienti ‘umanizzanti’:
“Per un processo misterioso e
nel contempo semplice, questa ‘rivelazione’ [della vocazione spirituale delle
cose materiali] diventa parte integrante della fede vissuta, specialmente
nell’ambito della celebrazione e del culto eucaristico: trovando Dio presente
nella materia, il credente è portato a cogliere la nuova dignità di ogni cosa
materiale, diventata ormai (almeno tendenzialmente) “ostensorio”, come ogni
“vedere” umano è ormai chiamato a farsi contemplazione adorante.
Il soggetto dell’esperienza
estetica, come dell’esperienza cultuale, rimane però l’uomo: è a lui che parlano
i colori e le forme, il fruscio della seta, lo scintillio dell’oro, lo spazio
‘mistico’ o ‘razionale’ dell’architettura dei diversi periodi. E mentre impara
dagli oggetti e dagli spazi che circondano la sua preghiera a offrire al
Creatore tutta la sua vita sensoria, dall’arte figurativa egli si sente
interpellato nella sua vita spirituale come un essere libero e ragionevole,
capace di entrare in rapporto, di amare, di donarsi. Le raffigurazioni di
Cristo, di Maria e dei santi che l’uomo vede nel contesto liturgico gli
comunicano i contenuti della fede e il senso dei riti con forza e chiarezza come
poche altre forme espressive".
Io vedrei bene la Bibbia di
Davide Orler, in toto o in parte in una chiesa, al servizio dei sacerdoti
che in quel luogo devono rendere visibili ed affascinanti i misteri della fede.
Come agli inizi della nostra storia dell’arte cristiana, nelle basiliche romane
grandiosi cicli di mosaici ed affreschi conducevano i credenti verso l’altare,
rafforzando ed illuminando la fede alimentata dai sacramenti, così oggi – nella
nostra cultura dell’immagine – ci vuole di nuovo il coraggio di connotare
l’esperienza della reale presenza di Colui che è immagine del Padre, Gesù
Cristo, con le immagini.
Orler, più di molti altri
maestri, ci può aiutare.
“Un gran segno apparve nel cielo: una Donna avvolta di sole,
con
la luna sotto I suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle”
(Apoc. 12, 1).
La donna
vestita di sole , di Davide Orler
Fonte :
www.santachiara.davideorler.it , sito della Mostra "La Bibbia di
Davide Orler" al Complesso Museale di S. Chiara a Napoli dal 22 aprile al 4
giugno 2006 , Cento opere di arte sacra ispirata all'Antico e al Nuovo
Testamento
Per approfondimenti vedi anche il sito
ufficiale dell'artista Davide Orler
www.davideorler.it
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