QUARESIMA
di
Archimandrita Papas Marco
La Quaresima è il tempo forte per eccellenza della conversione e del ritorno a Dio. Nella liturgia emergono continui richiami al senso cristiano del peccato, all'umile preghiera con cui se ne domanda perdono, alla carità operosa (digiuno ed elemosina ) con cui si esprime la volontà di conversione.
Valorizzare questo tempo significa prendere coscienza della continua chiamata a riscoprire insieme sia la memoria del proprio battesimo, sia la memoria del mistero della pasqua di Cristo e della nostra pasqua uniti a lui.
In questo tempo di grazia l'attenzione è rivolta a Cristo e all'uomo e al mistero del Cristo che illumina la sorte dell'uomo.
La fede e la riflessione teologica della Chiesa colgono nell'incarnazione, passione e risurrezione del Figlio di Dio la chiave per interpretare tutta la storia e il vissuto dell'umanità.
Basti pensare alla domenica scorsa in cui la Chiesa ci ha condotti nel deserto con Cristo.
Abbiamo visto il Cristo tentato in quelle che sono le tre tentazioni tipiche dell'umanità: il sesso, i soldi e il successo.
Dice Agostino che in Cristo tentato è stato tentato l'uomo e in Cristo vincitore della tentazione, l'uomo ha vinto il demonio.
Una volta e per sempre Cristo ha salvato il mondo portando il creato alla completa liberazione, e l'uomo di fede può ora guardare il prima di Cristo in vista di lui e il tempo successivo alla sua morte e risurrezione come lo spazio per comprendere e approfondire la straordinaria ricchezza della Pasqua verso cui camminare e in cui sperare.
La quaresima allora è il momento della introspezione, dell'esame di coscienza approfondito, per conoscere la nostra miseria e la misericordia di Dio, il nostro peccato e la sua grazia, la nostra povertà e la sua ricchezza, la nostra debolezza e la sua forza, la nostra stoltezza e la sua sapienza, la nostra tenebra e la sua luce, il nostro inferno e il suo regno.
La quaresima è il tempo di analizzare alcuni principi spirituali forti come spranghe di ferro a cui i religiosi devono appigliarsi per rimanere ben radicati nel terreno buono dove devono fruttificare, ma anche che devono prendere in mano come randelli per colpire alle radici il male antico e ontico sempre pronto a rendere inutile e inefficace l'azione della grazia di Dio.
In questa meditazione parleremo di tre capisaldi della vita spirituale:
a) Conoscere la propria miseria per conoscere meglio Dio
b) Pregare
c) Digiunare
Ci aiuteranno come sempre i Padri del deserto con i loro meravigliosi detti.
a) Conoscere la propria miseria per conoscere meglio Dio.
Tre amici dopo aver abbracciata la vita monastica, si erano interrogati sull'opportunità di continuarne l'esperienza. Due decisero di interromperla per occuparsi il primo di riconciliare le persone che non andavano d'accordo, l'altro di visitare i malati, il terzo invece aveva deciso di rimanere nel deserto.
Dopo un pò di tempo, i primi due delusi dalla vita attiva ritornarono dall'eremita e gli riferirono i disinganni e le delusioni provate. L'eremita, dopo essere rimasto un poco in silenzio prese una bacinella e vi gettò dell'acqua, quindi invitò i due a specchiarsi dentro. In un primo momento, essendo l'acqua agitata, i due non poterono specchiarsi, ma appena l'acqua fu immobile, poterono scorgere chiaramente i tratti del loro volto.
L'eremita commentò questa azione simbolica con queste parole:
"Chi è immerso e impelagato nell'agitazione del mondo, non può vedere i propri peccati, se invece rimane nella solitudine, può vedere se stesso e passare dalla conoscenza di sé alla conoscenza di Dio".
Può sembrare che l'eremita voglia far disertare gli altri due dalla vita di servizio, ma non è così. L'eremita sapeva bene che il primo obbediva alla parola del Signore: "Beato che semina la pace" (Mt 5,9), e il secondo alla parola: "Sono stato malato e mi avete visitato" (Mt 25, 36). Ma queste occupazioni evangeliche mancavano di un dato che solo le poteva rendere evangeliche: l'unione con Dio, ciò che Cristo aveva definito come la parte migliore che solo Maria aveva scelto. In altre parole queste occupazioni si erano rivelate dispersive perché i due eremiti avevano dimenticato la propria fragilità e la propria miseria.
Mi ricordo la parola di un padre spirituale che un giorno disse: "Come è possibile curare gli ammalati senza che prima non ci siamo fatti curare dal nostro medico, senza cioè essere stati immunizzati, non dal dolore altrui, ma dall'essere sopraffatti dal dolore altrui?".
In questo campo ateismo, orgoglio e presunzione vanno di pari passo. Ecco la necessità in quaresima di rientrare dentro noi stessi per scoprire che Dio può essere visto nella misura in cui l'uomo prende coscienza dei suoi limiti. Ecco la necessità dell'appartarci, non tanto per sfuggire ai nostri doveri, ma per compierli meglio, grazie al silenzio, al raccoglimento, alla salmodia, alla preghiera e alla lectio divina.
b ) Pregare
Per i Padri era essenziale che la preghiera fosse autentica: volevano cioè che ci fosse una perfetta corrispondenza tra disposizioni intime e atti esterni con le affermazioni e gli atteggiamenti della preghiera.
Abba Ireneo diceva: "Molti uomini, pregando, non pregano", perché il loro cuore e la loro vita non sono in armonia con la preghiera. Questo era uno dei più grandi dolori dei Padri, diceva l'Abba Silvano: "Guai all'uomo che porta un nome più grande delle sue opere", che ha il nome di monaco, di religioso, di uomo di Dio, senza averne la vita.
La preghiera in altre parole deve sgorgare dal cuore prima di uscire dalle labbra, esige anima e corpo votati a Dio e non al mondo, impone opere conformi alla volontà di Dio; alcune volte non comporta nessun movimento delle labbra, ma esigerà sempre purezza e fervore di cuore.
Essere autenticamente religiosi implica armonia tra vita e preghiera. L'opera del religioso è essere fuoco, un fuoco tale che dove penetra, consuma.
Ad un fratello che si lamentava perché era oppresso da molte passioni, l'Abba Poemen disse: "Le passioni, figlio mio, non sono che triboli e spine, mettici il fuoco ardente della preghiera e dell'amore di Dio e le brucerai completamente".
E abba Evagrio diceva a coloro che si scoraggiavano nella preghiera perché non riuscivano a pregare come volevano: "Se non hai ricevuto ancora il carisma della preghiera o della salmodia ostinati e lo riceverai".
Un altro monaco, molto zelante nella preghiera, si era addormentato. Il diavolo, seduto accanto al suo letto, diceva che si guardava bene dallo svegliarlo perché quel monaco, una volta desto, si sarebbe messo subito a lodare Dio e l'avrebbe cacciato. Satana teme la preghiera dei monaci e quella dei cristiani ferventi, sa che può annullare la sua azione.
Senza paura di sbagliare possiamo applicare ai religiosi quello che i Padri del deserto dicevano dei monaci: "La preghiera è lo specchio del monaco", del suo intimo, della sua vita, del suo lavoro. Se il monaco non prega Dio, vuol dire che non si preoccupa di lui. Se lavora ma non prega, il suo lavoro ha già perso, o perderà presto l'impronta adoratrice necessaria perché sia un lavoro di Chiesa, spiritualmente costruttivo.
c) Digiunare
Il digiuno, che può essere praticato in forme antiche o nuove, è segno di conversione, di pentimento e di mortificazione personale e, al tempo stesso, di unione con Cristo crocifisso e di solidarietà con gli affamati e i sofferenti.
Prima di intraprendere la sua missione nel mondo, il Signore stesso ha digiunato per quaranta giorni ed ha insegnato l'esercizio del digiuno. Per il Nuovo Testamento il digiuno è un mezzo di astinenza, di pentimento, di elevazione spirituale.
Già ai tempi degli Apostoli, la Chiesa ne ha proclamato l'importanza, senza però proporre una legge fissa, in quanto questa pratica spirituale è direttamente proporzionata alla capacità del penitente di sopportarla. "Assicurati che nessuno ti distolga da questa via tracciata dalla dottrina... se puoi sopportare tutto il giogo del Signore, sarai perfetto; se non puoi fai ciò di cui sei capace. Per quanto riguarda il digiuno osservalo secondo la tua forza" (Didachè 6,1-3).
L'autentico digiuno è legato intimamente alla preghiera e al pentimento sincero. "Il digiuno, così come indica il termine, significa astenersi dal cibo; ma il cibo non ci ha mai resi né più giusti, né più ingiusti " diceva Clemente alessandrino, sottolineando così che il vero valore del digiuno è essere capaci di non diventare schiavi delle passioni e del mondo. Il digiuno dal cibo è un consiglio ascetico, e l'ascesi è una proposta non una legge, ma digiunare dal peccato, questo sì che è legge che bisogna mettere in pratica.
Voglio concludere questa meditazione con le parole di S. Clemente di Roma, che abbiamo ascoltato nell'Ufficio delle letture il mercoledì delle ceneri:
"Stiamo saldi in questa linea e aderiamo a questi comandamenti. Camminiamo sempre con tutta umiltà nell'obbedienza alle sante parole... Fissiamo fermamente lo sguardo sul Padre e Creatore di tutto il mondo e aspiriamo vivamente ai suoi doni meravigliosi e ai suoi benefici incomparabili" a lui la lode e la gloria col Figlio suo e lo Spirito Santo, ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen.
Fonte : www.rocciadibelpasso.it
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