P. Raniero Cantalamessa
IL GIORNO DEL SIGNORE.
“I DISCEPOLI GIOIRONO NEL VEDERE IL
SIGNORE”
Convegno ecumenico su “Il giorno
del Risorto: vita per le Chiese e pace per il mondo”
Bari, 26-29 Settembre 2004
Divido questo mio intervento in due parti. Nella prima traccerà un breve quadro
storico dell’origine e sviluppo della Domenica secondo i risultati della ricerca
recente[1];
nella seconda cercherò di fare qualche riflessione pastorale suggerita dalla
situazione attuale della Chiesa.
1.
Domenica, giorno della risurrezione
del Signore
La
Domenica come giorno speciale di riunione e di culto dei cristiani affonda le
sue origini nella comunità di Gerusalemme, negli anni successivi agli eventi
pasquali. Il motivo fondamentale della scelta è che in tale giorno Cristo era
risorto dai morti. Quando Giovanni scrive il suo vangelo vede già due
apparizioni di Cristo agli apostoli “il primo giorno della settimana”, e poi di
nuovo “otto giorni dopo”, il prototipo dell’assemblea liturgica dei cristiani (cf.
Gv 20, 19-28).
La
designazione “primo giorno della settimana” viene ben presto sostituita da
“giorno del Signore” (kuriaké, sottinteso hemera) (Ap. 1, 10).
L’esatto equivalente latino è dies dominica; dominica, da aggettivo, passa ad
essere ben presto sostantivo e si ha così la nostra attuale Domenica. Il
legame della Domenica con la risurrezione di Cristo è insito nel nome
stesso; è grazie alla risurrezione infatti che Cristo è stato costituito
Dominus, Kurios, Signore (cf. Rom 1, 3; Atti 2, 36).
Prima della rottura definitiva con la sinagoga, presso le comunità
giudeo-cristiane, c’era una certa coesistenza tra il Sabato ebraico e la
Domenica cristiana; i discepoli osservano l’uno e l’altra. È probabile che la
struttura stessa della Messa, con la liturgia della parole che precede quella
eucaristica, dipenda da questo fatto. I Cristiani continuavano a frequentare la
Sinagoga per l’ascolto della Parola e la liturgia tradizionale, quindi essi si
separavano dai loro connazionali che non condividevano la fede in Cristo e si
riunivano fra di loro per celebrare l’Eucarestia. Questa continuava a presentare
immutato il rito sinagogale con l’aggiunta, qua e là, di espressioni come: “di
Gesù Cristo tuo servitore”, e delle parole della consacrazione. E’ lo stadio
documentato da vicino della Didaché.
Trascorso un po’ di tempo, i cristiani cominciarono radunarsi per conto proprio
anche per la liturgia tradizionale, senza recarsi più nelle sinagoghe. Prima che
esistessero quelle che Giustino chiama “Le memorie degli apostoli”[2],
cioè le scritture cristiane, si servivano delle stesse letture, preghiere e
canti di lode e benedizione della liturgia sinagogale, dando loro
un’interpretazione sempre più marcatamente cristiana. In tal modo il primitivo
nucleo di preghiere e riti detto Beraka si arricchì di quella che oggi
chiamiamo liturgia della Parola.
Nel
passaggio dalle primitive comunità giudeo-cristiane della Palestina a quelle
ellenistiche la situazione cambia rapidamente. Non solo la Domenica cristiana
non è vista come il seguito naturale del Sabato ebraico, ma le due istituzioni
sono contrapposte tra di loro come Legge e Vangelo. Per il martire Ignazio d’Antiochia,
all’inizio del II secolo, vivere “secondo il Sabato” o vivere “secondo la
Domenica” equivale a vivere da giudei o vivere da cristiani[3].
Alcuni autori hanno una visione meno radicale e pongono tra la Domenica e il
Sabato ebraico un rapporto come tra figura e realtà (la Domenica realizza, sul
piano spirituale, quel riposo di Dio e dell’uomo di cui il Sabato antico era
figura e promessa), ma è assente, in ogni caso, dalla Domenica cristiana quello
che era il senso principale del Sabato ebraico e cioè il riposo dal lavoro. Nei
primi tre secoli, durante le persecuzioni, la Domenica fu per i cristiani giorno
di riunione e di culto, ma non di astensione dal lavoro.
Il
culto, del resto, si svolgeva di nascosto, al mattino prima del canto del gallo,
per sfuggire agli arresti e potersi poi recare insieme con gli altri alle
normali attività del giorno[4].
Fu solo con Costantino, nel quarto secolo, che la Domenica cristiana fu
dichiarata giorno festivo anche agli effetti civili e assunse il carattere di
giorno di riposo, sostituendosi completamente in ciò al Sabato giudaico[5].
La Domenica, perciò è di istituzione apostolica in quanto giorno di culto e di
riunione; non lo è invece in quanto giorno di riposo e di astensione dal lavoro.
2.
La Domenica nei Padri
Diamo uno sguardo ai contenuti e alla fisionomia della Domenica nei primi secoli
del cristianesimo. Il contenuto fondamentale resta la commemorazione della
risurrezione del Signore. Altro nome della Domenica è per Tertulliano quello di
“giorno della risurrezione”[6].
Al ricordo della risurrezione di Cristo il significato di una nuova creazione,
di un nuovo “fiat lux” divino. Un inno per il mattutino della Domenica,
attribuito in passato a S. Ambrogio, ha dato a questo accostamento la sua
formulazione classica:
“Nel primo giorno in cui
la Trinità beata
diede principio al mondo,
il Redentor risorge
e libera da morte”[7]
Una
circostanza storica favorì il nascere e lo svilupparsi dell’idea della Domenica
come “Pasqua settimanale”, o “piccola Pasqua”, come viene talvolta chiamata in
ambito orientale. Fin dall’inizio i cristiani si erano preoccupati di
distinguere la loro Pasqua da quella degli ebrei. Divergenze tra ebrei e
cristiani nel calcolo della data pasquale acuirono nel IV secolo questa
preoccupazione e un modo per risolvere il problema sembrò quello di accentuare
l’importanza della Pasqua settimanale a spese di quella annuale. Scrive Eusebio
di Cesarea:
“I seguaci di Mosè immolavano l’agnello pasquale una
sola volta l’anno, il 14 del primo mese, a sera. Noi invece, uomini del Nuovo
Testamento, celebrando la nostra Pasqua tutte le domeniche, ci saziamo in
continuazione del corpo del Salvatore e comunichiamo in continuazione al sangue
dell’Agnello… Perciò ogni settimana noi celebriamo la nostra Pasqua, nel giorno
sacro del Signore”[8].
S.
Agostino sentì il bisogno di correggere questa posizione estrema che rischiava
di svuotare di significato la festa annuale della Pasqua, a vantaggio della
celebrazione domenicale e anzi della stessa Eucaristia quotidiana. Scrive:
“Non dobbiamo ritenere questi giorni [il triduo
pasquale] così fuori del comune da trascurare la memoria della passione e della
risurrezione che facciamo quando ci cibiamo ogni giorno del suo corpo e del suo
sangue. Tuttavia la presente solennità [della Pasqua] ha il potere di rievocare
alla mente con più chiarezza, eccita con più fervore e rallegra più
intensamente, poiché, ritornando a distanza di un anno, ci mette, per così dire,
dinanzi allo sguardo il ricordo del fatto”[9].
E il
tema della sollemnitas che distingue4 in liturgia il ricordo anniversario
da quello settimanale e quotidiano e lo ravviva. Le due celebrazioni, annuale e
settimanale, non sono in concorrenza, ma si richiamano e si sostengono a
vicenda.
Un
tratto distintivo della Domenica nell’epoca dei Padri è la gioia. Lo vediamo
anticipato già nel racconto giovanneo dell’apparizione di Cristo la sera di
Pasqua: “I discepoli gioirono al vedere il Signore” (Gv 20,20). “Noi, scrive lo
Pseudo Barnaba, passiamo nella gioia questo ottavo giorno nel quale Gesù è
risuscitato e, dopo essersi manifestato, è salito al cielo”[10].
Alla Domenica viene applicato, per estensione, il versetto del salmo che ebrei e
cristiani riferivano alla Pasqua: “Questo è il giorno fatto dal Signore:
rallegriamoci e esultiamo in esso” (Sal 118,24). Segno istituzionale di questa
gioia è la proibizione, fatta risalire addirittura agli apostoli, di digiunare,
inginocchiarsi o esibire altri segni di penitenza il giorno di Domenica, come
nei giorni di Pasqua e di Pentecoste[11].
Un
altro tratto che caratterizza la teologia della Domenica nei primi secoli il
tema dell’”ottavo giorno”. Qualcuno l’ha definito “la sorgente più feconda della
spiritualità domenicale al tempo dei Padri”[12].
L’espressione compare per la prima volta nel testo dello Pseudo Barnaba appena
citato. Giustino lo spiega così: “Se si conta di nuovo dopo tutti i giorni della
settimana, il primo giorno è detto ottavo, senza per questo cessare di essere il
primo”[13].
Nel tema dell’ottavo giorno finirà per concentrarsi tutta la ricca tematica
escatologica della Domenica.
La
riflessione più profonda si trova nei tre Padri Cappadoci, Basilio, Gregorio
Nazianzeno e Gregorio Nisseno. La Domenica diventa il punto di partenza per
tutta una “teologia del tempo”[14].
L’ottavo giorno rappresenta l’eternità che succede alla settimana che è la vita
presente. La Domenica, giorno primo e ottavo, scrive S. Basilio, “è, in certo
senso, l’immagine del secolo futuro”. “Richiamando alla mente la vita eterna
essa ci invita a non trascurare i mezzi che conducono ad essa”[15].
Memoria e profezia al tempo stesso, la Domenica mantiene il ricordo della Pasqua
e l’attesa escatologica. In questo modo la Domenica permette alla intensa attesa
escatologica che animava la celebrazione primitiva della Pasqua di mantenersi
viva nella liturgia, sotto forma non più attesa imminente della parusia, ma di
costante tensione verso “le cose di lassù”.
Il
cuore della Domenica è naturalmente l’assemblea liturgica. Nella descrizione
assai precisa che ne fa San Giustino verso la metà del II secolo si riconosce
senza difficoltà la struttura fondamentale della futura Messa[16].
Una importanza particolare riveste la preoccupazione per i poveri, i carcerati e
gli ammalati, non come qualcosa di staccato, ma facente parte integrante della
celebrazione eucaristica. L’insegnamento di Paolo sulla inseparabilità tra la
comunione al corpo eucaristico di Cristo e la comunione fraterna (1 Cor 11,
17-34) non è caduto nel vuoto.
Cosa
rappresentasse per i cristiana al tempo delle persecuzioni la celebrazione
domenicale dell’Eucaristia ce lo mostrano in modo commovente gli atti dei
martiri di Abitinia, Saturnino e compagni, morti sotto la persecuzione di
Diocleziano nel 305 d.C. Una frase di questi atti, citata spesso nel contesto
della teologia della Domenica, viene a volte tradotta con: “Noi non possiamo
vivere senza la Domenica”. Un’affermazione senza dubbio forte e bella, ma
purtroppo inesatta. Il testo porta dominicum, non dominicam, o
dominicus, e questo sostantivo neutro, negli scrittori africani del tempo,
ha il significato di “celebrazione dei misteri del Signore”, di “convito del
Signore”, cioè di Eucaristia
[17].
L’accento, in altre parole, è sull’Eucaristia, non sulla Domenica. L’idea della
Domenica vi è inclusa, ma solo indirettamente, in quanto il convito del Signore
si celebrava di regola nel giorno del Signore. Lo conferma il fatto che nel
contesto ricorre continuamente il termine collecta, riunione, quasi come
un sinonimo di dominicum. Il senso pregante di quest’ultimo termine è
dunque quello di “celebrazione domenicale dei misteri del Signore”.
Tutto ciò non diminuisce la portata del testo, ma l’accresce enormemente. Siamo
davanti a quelli che possiamo chiamare i primi martiri dell’Eucaristia. In
questo anno dell’Eucaristia, le loro parole e il loro esempio potrebbero
costituire un forte richiamo e lo spunto per un esame di coscienza per noi
cristiani moderni. Al giudice romano che li accusa di aver trasgredito l’ordine
dell’imperatore di non tenere riunioni e di consegnare le Scritture, uno dopo
l’altro i martiri rispondono: “Non si può tralasciare la celebrazione dei divini
misteri (dominicum)”; “Il cristiano non può vivere senza l’Eucaristia (sine
dominico) e l’Eucaristia senza il cristiano. Non sai che il cristiano esiste
per l’Eucaristia e l’Eucaristia per il Cristiano?” Si, ho partecipato con i
fratelli alla riunione (collecta), ho celebrato i misteri del Signore (dominicum)
e ho con me, scritte nel cuore, le divine Scritture… L’Eucaristia (dominicum)
è la speranza e la salvezza dei cristiani”[18].
3.
Dai Padri alla Scolastica
Passando dall’epoca patristica a quella medievale, accanto ad alcuni
arricchimenti positivi, come il ricordo e la confessione della Trinità che
diventa elemento fisso della liturgia domenicale (Simbolo Quicunque,
prefazio fisso della Trinità), notiamo un notevole offuscamento di quelli che
erano stati i pilastri della spiritualità della Domenica nei Padri.
Due
i fattori principali dell’evoluzione. Il primo è dato dalla tendenza a dare a
molte domeniche una caratterizzazione propria e un nome diverso (desunto in
genere dalle prime parole dell’antifona di ingresso della Messa), come pure
dalla prassi di sostituire molto spesso la celebrazione della Domenica con
quella di santi e di altre ricorrenze. Prima ancora di questo, lo sviluppo,
all’interno dell’anno liturgico, dal ciclo natalizio, assente nei primi tre
secoli, non poteva rimanere senza conseguenze per la fisionomia della Domenica.
Come conservare alle domeniche di Avvento lo stesso riferimento esplicito alla
Pasqua delle altre domeniche dell’anno?
La
stessa evoluzione si nota anche in Oriente. Molte domeniche ricevono, anche qui,
una caratterizzazione propria, suggerita dal personaggio o dall’episodio
ricordato nel brano evangelico, o da eventi della storia della Chiesa (Domenica
del Fariseo e del pubblicano, dell’ortodossia, dei Santi Padri di Nicea ecc.).
Ma il rimando alla Pasqua rimane qui più operante che in Occidente, grazie ai
tropari anastasima che si cantano ai vespri e alle formule di invocazione
al Signore risorto durante la divina liturgia[19].
L’altro fattore negativo fu l’equiparazione, spinta sempre più a fondo, tra la
Domenica e il giorno di riposo, cioè l’antico sabato ebraico. La casistica sul
riposo festivo, su ciò che era permesso e ciò che non lo era in tale giorno,
finì per catalizzare l’attenzione della gerarchia e la riflessione dei teologi,
cadendo a volte negli stessi inconvenienti in cui era caduta l’osservanza del
sabato al tempo di Cristo. Dall’ambito liturgico e misterico, la Domenica tende
a passare così a quello della morale, dell’ambito della grazia a quello della
legge. Il comandamento “ricordati di santificare le feste” occupa più spazio che
non il ricordo gioioso della risurrezione e il pensiero della vita eterna.
Un
timido tentativo di reagire a questo stato di cose partì da Cluny. Pietro il
Venerabile, nel 1158, stabilì che nel suo ordine la Domenica non doveva cedere
il posto se non alle feste più solenni. Le feste che si aggiungono
continuamente, notava, finiscono per far dimenticare “la gloria immensa della
risurrezione del Signore e la risurrezione spirituale che essa ci apporta, come
pure la beata speranza della nostra risurrezione futura”[20].
Ma il tentativo non ebbe molto effetto fuori dell’ordine di Cluny.
Lo
stesso S. Tommaso tratta della Domenica nel contesto del comandamento del riposo
festivo, anche se precisa che per i cristiani tale comandamento prende un senso
nuovo a partire dalla risurrezione di Cristo[21].
Con la solita lucidità, egli riunisce i principali elementi della tradizione
sulla spiritualità domenicale, ma non si ritrova più in lui e nella Scolastica
le prospettive grandiose e l’afflato spirituale con cui i Padri avevano parlato
della Domenica.
4.
Riscoperta della Domenica come
Pasqua settimanale.
Non
mi soffermo sul grande sforzo per rivalutare la Domenica avviato dal movimento
liturgico e culminato nella riforma liturgica del Vaticano II, e neppure sulla
lettera apostolica del Papa, Dies Domini del 31 Maggio 1998. Penso che
altri oratori si soffermeranno con più competenza di me su tale periodo, nel
corso di questo stesso convegno. Passo invece senz’altro ad alcune conclusioni e
proposte, suggerite dalla breve rivisitazione delle origini che ho tentato di
fare.
La
prima conclusione che si impone è la necessità di riscoprire sempre meglio
l’anima originaria della Domenica come memoria settimanale della Pasqua e della
risurrezione di Cristo e come annuncio del mondo futuro. Qualcosa è stato fatto
in questo senso. Mi torna in mente la prima strofa di un inno che apre la
celebrazione delle Lodi della Domenica e in cui risuona l’antico tema
dell’ottavo giorno: “O giorno primo ed ultimo – giorno radioso e splendido – del
trionfo di Cristo”. Anche la formula alternativa di congedo introdotta nel nuovo
messale: “La gioia del Signore è la nostra forza, andate in pace” è un piccolo
segno che aiuta a ritrovare il senso gioioso della Domenica nei Padri,
soprattutto se si pensa al contesto biblico da cui tale formula è tratta e che
racchiude tutta una teologia della festa: “Poi Neemia disse loro: “Andate,
mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla
hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi
rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza” (Neemia 8, 10).
Ma è
ancora troppo poco. Se ogni Messa annuncia, per sé e in primo luogo, la morte
del Signore (1 Cor 11,26), per il giorno della settimana in cui si celebra e il
clima che vi regna la Messa domenicale deve annunciare in primo luogo la
risurrezione del Signore. Allo stato attuale tutto quello che la Messa
domenicale offre in più, sulla risurrezione di Cristo, rispetto agli altri
giorni, è che all’invocazione: “Ricordati, Padre, della tua Chiesa” vengono
aggiunte le parole: “e qui convocata nel giorno in cui Cristo ha vinto la morte
e ci ha resi partecipi della sua vita immortale”.
Nessun fedele dovrebbe tornare a casa dall’assemblea domenicale senza un senso
vivo della risurrezione di Cristo nel cuore. Basta poco per ottenere questo e
mettere l’intera celebrazione domenicale sotto il segno della risurrezione:
poche, vibranti parole al momento del saluto iniziale, o nel congedo finale.
Un
episodio della vita di San Serafino di Sarov mostra quanto basta poco per
rendere il pensiero della risurrezione vivo e operante. Dopo aver trascorso una
decina di anni in un bosco, senza pronunciare una sola parola, neppure con il
fratello che di tanto in tanto gli portava del cibo, al termine di questo lungo
silenzio fu rimandato da Dio in mezzo agli uomini e, alle persone che
accorrevano sempre più numerose al suo monastero, egli andava incontro dicendo
con grande trasporto: "Gioia mia, Cristo è risorto!" Questa semplice parola,
pronunciata da lui, bastava a cambiare il cuore di quella persona e farla
tornare a casa sollevata. La sua voce aveva il timbro di quella dell'angelo il
mattino di Pasqua.
In
alcune circostanze, davanti a un folto uditorio in chiesa o nello stadio, io ho
invocato dentro di me l'interecessione di S. Serafino e ho lanciato ai presenti
una sfida. Ciascuno, ho detto, si volti adesso al suo fratello di destra e di
sinistra e, stringendogli la mano, gli dica con la gioia nel cuore e il sorriso
sul volto: 'Fratello, oppure sorella: Cristo è risorto!". Dopo una iniziale
esitazione, ho visto esplodere la gioia di condividere la fede nella
risurrezione.
Finita però l'eccitazione, ho lanciato ai presenti un'altra sfida. 'Fin qui, ho
detto, tutto semplice; è facile gridare "Cristo è risorto!" a chi si sa che
condivide la nostra stessa certezza. Adesso comincia il vero compito: andando a
casa, ripetete questo annuncio, se non è possibile con le parole, almeno con gli
occhi, a chi ancora non lo sa o non lo crede: ai famigliari, ai colleghi".
Potrebbe essere un'idea per un concedo un po' diverso dal solito, al termine
della Messa domenicale.
Sarebbe una mancanza di fiducia nei vostri riguardi se non osassi fare adesso
qui con voi quello che faccio con tanti laici, tanto più che oggi è proprio
Domenica, il giorno della risurrezione ... Perciò, coraggio, avete capito:
ognuno è invitato a voltarsi al suo vicino e annunciarsi reciprocamente con
gioia: 'Fratello, o sorella: Cristo è risorto!". L'inconveniente dei convegni e
dei congressi è proprio questo: in essi si parla tutto il tempo delle cose da
fare, senza fare mai le cose di cui si parla.
Per
i fratelli ortodossi presenti tutto questo non presenta nulla di nuovo.
Incontrandosi nel tempo pasquale e anche fuori di esso, essi si salutano sempre
così: "Cristo è risorto!", al che l'altro risponde: "t risorto in verità". Fu
così che, all'inizio, la fede nella risurrezione si diffuse nella comunità.
Incontrandosi, i discepoli, si gridavano l'un l'altro: "t risorto, l'abbiamo
visto, è apparso a Simone, è apparso anche a me!"
La
risurrezione di Cristo è, per l'universo dello spirito, quello che, secondo una
teoria recente, fu, per l'universo fisico, la "grande esplosione" iniziale,
quando un "atomo" di materia cominciò a trasformarsi in energia, dando avvio a
tutto il movimento di espansione dell'universo che ancora continua dopo miliardi
di anni. Tutto ciò, infatti, che esiste e si muove nella Chiesa - sacramenti,
parole, istituzioni - trae la propria forza dalla risurrezione di Cristo. Essa è
l'attimo in cui la morte si trasformò in vita e la storia in escatologia. "Non è
gran cosa, scrive S. Agostino, credere che Gesù sia morto; questo lo credono
anche i pagani - anche i giudei e i reprobi; tutti lo credono. Ma la cosa
veramente grande è credere che egli è risorto. La fede dei cristiani è la
risurrezione dì Cristo”[22].
Ci
sono ragioni pastorali urgenti che spingono a riscoprire la Domenica come
"giorno della risurrezione". Noi siamo tornati ad essere più vicini alla
situazione dei primi secoli che non a quella del medioevo. Non c'è più una
legislazione civile che "protegge" per così dire il giorno dei Signore e ne fa
un giorno speciale. La stessa legge del riposo festivo è soggetta,
nell'organizzazione attuale del lavoro, a molti limiti ed eccezioni. Del resto,
come giorno di riposo dal lavoro, c'è ormai, nella maggioranza dei paesi
cristiani, anche il sabato...
Dobbiamo riscoprire quello che era la domenica nei primi secoli, quando essa era
un giorno speciale non per supporti esterni, ma per forza propria. Dobbiamo
sforzarci di ritrovare qualcosa di quello spirito che faceva esclamare a
Saturnino e ai suoi compagni martiri: "Noi non possiamo vivere senza la
celebrazione domenicale del pasto del Signore (dominicum)".
Viviamo in una società che ha bisogno di speranza, come di ossigeno, per vivere,
e la risurrezione di Cristo è la sorgente di ogni speranza. Delle tre virtù
teologali, la Prima lettera di Pietro mette in rapporto con la risurrezione, in
modo speciale, la speranza: "Dio Padre ci ha rigenerati mediante la risurrezione
di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva" (1 Pt 1, 3).
E si
capisce anche il perché di questo fatto: Cristo, risorgendo, ha dissigillato la
fonte stessa della speranza, ha creato l'oggetto della speranza teologale che è
una vita con Dio anche oltre la morte. Quello che, nell'Antico Testamento,.
appena alcuni salmi avevano intravisto e desiderato, e cioè “stare con Dio
sempre" (Sal 73, 23), "saziarsi di gioia alla sua presenza" (Sal 16, 11), ora è
divenuto realtà in Cristo. Egli ha aperto una breccia nel terribile muro della
morte, attraverso la quale tutti possono seguirlo.
San
Pietro parla, a questo proposito, di una rigenerazione, di un sentirsi
"rinascere". Così avvenne, di fatto, per gli apostoli. Essi sperimentarono la
forza e la dolcezza della speranza. Fu la speranza allo stato nascente che li
fece tornare insieme gli apostoli dopo lo sbandamento seguito alla morte del
Maestro; fu la speranza che fece invertire il cammino ai discepoli di Emmaus
sconsolati e li riportò a Gerusalemme.
La
Chiesa nasce da un moto di speranza prodotto dalla risurrezione di Cristo e
questo moto è necessario ridestare oggi, se vogliamo imprimere alla fede un
nuovo slancio e renderla capace di conquistare di nuovo il mondo. Nulla si fa
senza la speranza. Un poeta credente. Ch. Péguy, ha scritto un poema sulla
speranza teologale. Dice che le tre virtù teologali sono come tre sorelle: due
di esse sono grandi e una è, invece, una piccola bambina. Avanzano insieme
tenendosi per mano, con la bambina speranza al centro. A vederle, sembra che
siano le grandi a trascinare la bambina, invece è tutto il contrario: è la
bambina che trascina le due grandi. E’ la speranza che trascina la fede e la
carità. Senza la speranza tutto si fermerebbe.[23]
L'oggetto proprio della
speranza cristiana è che anche noi risorgeremo da morte per essere con Cristo:
"Colui che ha risuscitato il Signore Gesù risusciterà anche noi" (2 Cor 4, 14).
Ma non c'è solo una risurrezione del corpo; c'è anche una risurrezione del cuore
e se la risurrezione del corpo è dell`”ultimo giorno", quella del cuore è di
ogni giorno. La partecipazione all'assemblea domenicale e l'incontro che in essa
si attua con il Risorto dovrebbe ogni volta produrre nel credente una
"risurr9zione del cuore"
5. L'Eucaristia domenicale fa la parrocchia
Un
altro motivo pastorale, più forte ancora del precedente, ci spinge a riscoprire
il senso originario della Domenica: la necessità in cui ci troviamo di
recuperare il senso escatologico della vita legato al tema della Domenica come
"ottavo giorno". Il Papa gli ha dedicato ampio spazio nella Dies Domini
[24]. Viviamo in pieno regime di secolarizzazione;
l'orizzonte è rigidamente limitato a questa vita e a questo "secolo". Parole
come eternità, aldilà, paradiso, secolo futuro, sono pressoché scomparse
dall'uso corrente. Questo è ciò che mettono in rilievo tutte le analisi
sociologiche e i documenti del magistero. L'assemblea domenicale era per i primi
cristiani l'occasione per ricordare ogni volta la loro condizione di pellegrini
e forestieri in questo mondo, e questo dovrebbe tornare ad essere anche per noi
oggi. Non per disinteressarci di questo mondo e della sua sorte, ma per non
smarrire il senso dell'orientamento e le ragioni stesse che ci spingono a
trasformare il mondo.
In
questo senso, l'assemblea domenicale ci può aiutare a riscoprire il senso
originario della parrocchia. Cosa significa, all'origine, parrocchia? Negli Atti
degli Apostoli si legge che Israele fu "in esilio in terra d'Egitto" (At 13,
17); ma la parola che nelle moderne traduzioni suona "esilio", nel testo greco
originale suona "parrocchia" (paroikia). Altrove si legge che Abramo, per
fede, visse tutta la sua vita da pellegrino e forestiero; nell'originale da
"parroco" (cf Gn 15, 13; Eb 11, 9). Nella Prima Lettera di Pietro leggiamo:
"Comportatevi con timore nel tempo del vostro pellegrinaggio" (1 Pt 1, 17); alla
lettera: "nel tempo della vostra parrocchia". E ancora: "Vi esorto come
pellegrini e forestieri, ad astenervi dai desideri della carne" (1 Pt 2, 11);
alla lettera: "Vi esorto, in quanto parroci, ad astenervi dai desideri della
carne". Tutti i cristiani sono, secondo il Nuovo Testamento, dei parroci e la
Chiesa un'unica, grande, parrocchia.
Cosa
significano le parole paroikía e pároikos? t semplicissimo:
pará è un avverbio e significa accanto; oikos è un sostantivo e
significa abitazione; parroco è dunque colui che abita accanto vicino, non
dentro, ma ai margini. Di qui il termine passa a indicare chi abita in un posto
per un po di tempo, l'uomo di passaggio, o anche l'esule dalla patria.
Questo fu, all'inizio, il sentimento basilare dell'identità cristiana. Esso si
esprime, per esempio nelle lettere che si scambiavano tra di loro le primitive
comunità. La lettera di san Clemente papa alla chiesa di Corinto cominciava
così: "La Chiesa di Dio che abita da forestiera (alla lettera: che è di
parrocchia) a Roma, alla Chiesa di Dio che abita da forestiera a Corinto"[25]
. L'epistola a Diogneto definisce il cristiano come un uomo "che abita una
patria, ma come forestiero (pároikos!) che partecipa a tutto come
cittadino, ma sopporta tutto come pellegrino; per il quale ogni terra straniera
è patria e ogni patria terra straniera[26]
Se è
vero che '1'Eucaristia fa la Chiesa", è vero anche che l'Eucaristia domenicale
fa la parrocchia. Fa la parrocchia perché tiene i credenti "con i fianchi cinti,
il bastone in mano e i sandali ai piedi", in stato di esodo permanente;
impedisce che la Chiesa divenga "insediata" e sedentaria. Questo, del resto, è
anche è il tipo di parrocchia di cui il mondo ha bisogno e che desidera vedere:
non luogo in cui, si ritrovano tutti i servizi, le attività e gli svaghi che il
mondo stesso produce e diffonde (e dei quali è, esso stesso, stanco e deluso),
ma luogo del pellegrinaggio e della comunione fraterna.
“I discepoli gioirono al
vedere il Signore" (Gv 20,20): che questa esperienza di gioia che segnò la prima
assemblea domenicale della storia, il giorno di Pasqua, possa tornare a essere -
grazie anche a questo convegno e alle iniziative in programma per l'anno
dell'Eucaristia – l’esperienza di ogni discepolo che partecipa la Domenica al
pasto con il Risorto.
[1] Cf. H. Dumaine, art. Dimanche in DACL, 4,
Parigi 1920, coll. 858-994; C. S. Mosna, Storia della domenica dalle
origini fino agli inizi del V secolo. Analecta Gregoriana 170, Roma
1969; W. Rordorf, Sabbat und Sonntag in der Alten Kirche (Traditio
Christiana, 2) Zurigo 1972; per i contenuti spirituali, J. Gaillard, art.
Dimanche, in DSpir. 3, 1957, coll. 948-982.
[2] S. Giustino, I Apologia, 67.
[3] S. Ignazio d’Antiochia, Ad Magn. 9,1.
[4] Cf. Plinio il Giovane, Epistole 10,97 a
Traiano.
[5] Cr. Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino,
IV, 18-20 (GCS 7, 1902).
[6] Cf. Tertulliano, De oratione, 23 (CCL, 1, pp.271
s).
[7] Primo die quo Trinitas / beata mundum
condidit / vel quo resurgens Conditor / nos morte victa liberat.
[8] Eusegio di Cesarea, De solemnitate paschali,
7 (PG 24, 701).
[9] S. Agostino, Sermo Wilmart 9,2 (PLS, 2, p.
725).
[10] Lettera di Barnaba,
15,19.
[11] Cf. Tertulliano, De
corona, 3; numerosi testi in Dumaine, art. cit., coll. 959-960 e in
Rordorf, pp. 102 e 204.
[12] Gaillard, art. cit., col.
958.
[13] Giustino, Dialogo
41,4
[14] Cf. Autori vari, Le
Huitème jour, VS, 76, 1947; J. Daniélou, Bibbia e liturgia,
Milano 1958, pp. 353-386.
[15] S. Basilio Magno, De
Spiritu Sancto 27 (PG 32, 192).
[16] Giustino, I Apologia
67.
[17]
Acta ss. Saturnini et sociorum martyrum (304 d.C.), 9,11 (ed.
P.T. Ruinart, Acta martyrum, 1859): “sine dominico non possumus”.
Tertulliano ha sia “dominicum convivium” (Ad uxorem 2,4) che
“dominicum diem” (De idolatria 47); a partire da Cipriano si trova
ormai dominicum da solo, come sostantivo, con il senso chiaro di
£celebrazione di misteri del Signore” (De opere et eleemosynis, 15:
“Locuples et dives dominicum celebrare te credis?”).
[18] Acta, cit., 10-13.
[19] Cf. E. Mercenier e F.
Paris, La priore des Eglises derite byzantin, II, 1, Chevetogne 1939
[20] Testo ct. Da Gaillard,
art. cit., col. 962.
[21] S. Tommaso, S.Th,
II-II, q. 122, a.4.
[22] Agostino, Enarrationes
in Psalmos 120, 6: CCL 40, p. 179 1
[23] Ch. Péguy, Il portico
del mistero della seconda virtù, ed. Gallimard,
Parigi 1975, p. 53 1 s. (tr. it. Mondadori, Milano 1993
[24] Giovanni Paolo 11,
Lettera apostolica "Dies Domini", 26.
[25] Clemente Papa, Lettera
ai Corinzi, saluto iniziale
[26] Lettera a Diogneto,
V,5.
Fonte : www.congressoeucaristico.it
Relazione di Padre Raniero Cantalamessa "Il Giorno del Signore" al Convegno Nazionale dei Delegati diocesani per l'Ecumenismo e il Dialogo Interreligioso, settembre 2004
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