VIVERE OGGI L’ESSENZIALITÀ.
Stili di vita per adulti e famiglie
Le virtù cardinali: approfondimento teologico-pastorale
Prof. Andrea Grillo
“Davanti al problema etico non siamo più
il ricco epulone dell’epoca di Schleiermacher,Rothe,
Ritschl, Troeltsch, ma solo il povero Lazzaro”.
Dietrich Bonhoeffer
Il progetto di una riflessione sullo “stile di vita” corre il rischio
di contraddire il suo proposito: ossia di cadere nell’inessenziale proprio per
parlare dell’essenziale. In che senso la virtus, l’antica figura della
realizzazione dell’uomo nei confronti del bene, si coniuga e si declina
cristianamente? E che senso può assumere oggi, se non vuole farci cadere – prima
ancora che ce ne accorgiamo – dalla morale al moralismo, dalla fede come
apertura sull’avvenire alla sistematica paura di ogni futuro, dal sacramento al
formalismo, dalla chiesa alla agenzia di servizi? E infine, come possiamo
parlare della “virtù”, nella quale l’uomo è affidato a se stesso, senza
contraddire la radicale esperienza di fede, per cui l’uomo è affidato
essenzialmente all’Altro, a Dio e al prossimo?
Il mio discorso vorrebbe rivisitare la grande tradizione
morale/sacramentale/ecclesiale circa le virtù per scoprirvi una opportunità
singolare per la Chiesa di oggi. Ma occorre un grande atto di spoliazione, di
umiltà e di “conversione” per non cadere vittime, fin dal primo passo, di un
abbaglio, di una allucinazione, di un miraggio, odi una precipitazione e di una
errata conclusione. Procederò in questo mio piccolo itinerario secondo 5 tappe,
che saranno:
1.
un breve
resoconto sull’uso della categoria di virtù in generale nella teologia cristiana
antica e moderna;
2.
una
rilettura del filo rosso interno alle virtù cardinali per noi più decisivo;
3.
la
tradizione del discorso sulle virtù cardinali in termini contemporanei;
4.
un
piccolo excursus esemplificativo sulla virtù nello “spot pubblicitario”;
5.
la
delineazione di una visione delle virtù come “forme storiche abituali della
libertà graziata”, che solleciti i cristiani di oggi alla assunzione di uno
“stile di vita” come riflesso e progetto di una compiuta “iniziazione
cristiana”, nella consapevole differenza – ed è questa la mia tesi di fondo –
che le virtù morali vanno a collocarsi in una zona intermedia tra esercizio
politico della cittadinanza e esercizio religioso della fede, in quella
mediazione etica che si lascia illuminare dalla fede e che è irriducibile alla
sfera del diritto. Solo qui lo “stile di vita” può assumere una sua rilevanza e
non cadere in una forma di “accessorio” sia pur accattivante ma di fatto poco
incisivo.
1.
Virtù, vizio, comandamento e
sequela nella vita cristiana
La forma della
responsabilità verso il bene ha assunto umanamente il nome latino di “virtus”,
che è, potremmo dire, l’essenza dell’uomo (vir), come la “juventus” è l’essenza
dello “iuvenis”. Nella “virtù” l’uomo è veramente se stesso. Perciò, potremmo
dire, l’uomo non è uomo se non è virtuoso. La virtù non è semplicemente un
attributo “possibile” dell’uomo, ma è la sua verità. L’uomo è uomo soltanto
nell’essere uomo d’amore, di fede e di speranza, ma anche uomo dotato di
intelligenza, scienza e sapienza, e di arte, così come uomo prudente, giusto,
coraggioso e temperante.
Ề interessante cominciare con il notare il rapporto tra le virtù
teologali (fede, speranza e carità) e le virtù cardinali (dell’intelletto o
dianoetiche e della volontà o etiche). Le prime stanno alla radice delle
seconde, ma le seconde si presentano immediatamente, mentre le seconde sono
“mediate” da queste.
Vorrei soffermarmi ora su alcune caratteristiche delle virtù etiche:
-
nessuna
di esse si dà nell’isolamento: non si può essere prudenti se non si è giusti,
temperanti e coraggiosi e così per tutte le altre tre virtù. Ognuna è se stessa
solo nella compresenza delle altre;
-
ognuna
valorizza un aspetto diverso dell’orientamento morale del soggetto: potremmo
quasi dire che:
la prudenza è quasi una “metavirtù
la giustizia si occupa del rapporto con l’altro
la fortezza (o coraggio) della determinazione
“resistente” della volontà
la temperanza della effettiva libertà di volere
rispetto alle “passioni”.
2.
la falsa evidenza della 4 virtù
cardinali
Ma
oggi conosciamo una “falsa evidenza” delle virtù, dovuta a molti motivi, ma
soprattutto all’isolamento delle singole virtù, in una sorta di autoevidenza che
diventa unilaterale “scelta” tra le virtù, e non armonia delle virtù:
-
la
astrattezza della giustizia,
-
la
prudenza come principio e non come rimedio alla assenza di principi (come
phronesis e discernimento),
-
temperanza come “medierà tiepida”,
-
fortezza/coraggio come sentimento o come dato “naturale”:
In queste false evidenze si nasconde, per il cristiano, una insidia non
dappoco, ossia l’idea che la virtù sia una sorta di “merito” da guadagnare di
fronte al prossimo e a Dio, rispetto ad una “natura umana” avirtuale.
Potremmo dire che in questa idea assistiamo – permettete questo gioco
di parole – ad una virtù puramente virtuale. Il che significa niente
affatto radicata nel tessuto umano (e divino) originario, ma intesa come
“sovrastruttura”, accessoria e dispensabile. L’idea che senza virtù non solo si
perde il cristiano, ma l’uomo, non è principio di “rigorismo”, ma di “realismo”.
3.
Il modello del “dono” come
principio delle virtù cardinali
Se fare teologia significa “iniziare dall’inizio”, dobbiamo riconoscere
che vi è un grande valore laicale nelle virtù cardinali, che non deve però
essere separato e vivere in regime di separazione (sia pure consensuale, per
così dire). La nostra “competenza etica” deve ricollocarsi all’interno di un
“sistema” più complesso della sola etica, ossia di una esistenza orientata
soltanto da “valori”. Per questo, come credo, una riflessione sulla “virtù” ci
costringe oggi ad una grande riflessione sulla “laicità”. Ề la evidenza di
“valori” ad essere qui e ora giustamente sospetta. La grande tradizione che ha
voluto “cominciare dai valori” ha subito uno scacco senza precedenti. Se
concepiamo la virtù come “accettazione e risposta” ad un dono che ci precede,
possiamo scoprire un modello complesso (dono-accettazione-controdono) che assume
un valore assai significativo per scoprire che le virtù vivono non solo di
“decisione”, ma di esercizio, di “abitudini”, di ascolto e di celebrazione
simbolica. Una virtù ridotta a decisione o a sentimento (secondo una deriva oggi
così facile e così diffusa) è in realtà, come abbiamo detto la negazione
della virtù, nella forma di una virtù puramente virtuale. Solo uomini
e donne virtuose ci possono donare la virtù e solo uomini che accettano tale
dono e lo sviluppano in proprio si inseriscono nella “storia umana delle virtù”,
che non ha niente di scontato o di semplicemente naturale. Stile indica qui
l’intreccio di “ethos”, di “traditio” e di “auctoritas”. Parole grosse, ma
indispensabili per districarsi tra queste strettoie decisive.
4.
Excursus: l’esercizio della
virtù nello spot pubblicitario
Che cosa è essenziale alla vita? Lo spot pubblicitario sa bene che
l’essenziale può essere solo “cantato”, lodato, celebrato, alluso, narrato,
festeggiato, danzato. E in questo modo ci porta all’acquisto di innumerevoli
beni del tutto inessenziali: con la forma della più grande essenzialità, lo spot
ci abitua all’inessenziale.
La vita, però, oggi ha dimenticato queste priorità del gratuito sul
necessario. E la differenza è profonda e talvolta molto nascosta. Come possiamo
cadere in queste trappole? Venendo meno ad esempio alla “temperanza” delle
passioni tradizionalmente più insidiose:non tanto il sesso – in sé sempre
benedetto – ma ad esempio alla “allucinazione da lavoro”, il “delirio
di onnipotenza di produzione”, che fa perdere le altre priorità.
Se proviamo ad analizzare il linguaggio dello spot, scopriamo che le
sue forme sono molto “gratuite”, mentre il suo contenuto reale e terribilmente
violento e necessario. Se potessimo elaborare “laboratori di studio delle virtù
(reali e mancate)” a partire dagli spot pubblicitari, vedremmo facilmente questo
paradosso: una grande lezione di “stile” formale (ossia di raffinata attenzione
simbolica e comunitaria) che si sposa con una prospettiva “diabolica” di
abituare al peggio, di strutturazione di un “uomo consumatore” senza temperanza,
senza coraggio, senza giustizia e senza prudenza. Anzi, le virtù sono capovolte
e “simbolizzate” nel loro contrario, sono principio di un vero e proprio
“vizio”.
5.
Le virtù come “forma storiche
abituali della libertà graziata”
La relatività dell’assoluto è, in certo senso, ben raffigurata dalla
prudenza, che assume come arrischiato ogni orizzonte di evidenza, e si fida solo
della fede. Così la “giustizia” non accetta che il bene sia bene se non in
relazione al bene altrui; così la temperanza, non accetta che fare ciò che si
vuole possa essere identificato con il “volere davvero ciò che si fa” e infine
la “fortezza” non esclude che le difficoltà che ogni determinazione incontra
possano valere a frustrarla.
Ma la non autoevidenza delle “virtù”, bensì la loro funzione di
“custodi del dono di grazia” mi pare oggi la sfida più interessante. Le virtù
come testimoni del dono accettato e corrisposto possono essere una
valida strada per un ripensamento teologico e pastorale di esse.
Virtù sta solo con esercizio, ossia con tempo, con storia. La virtù
prende sul serio il tempo (fin troppo, diremmo noi), e quindi prende sul serio
il simbolo, la traditio e la auctoritas. Ma il tempo come “amore”, la traditio
come “consegna” e la auctoritas come “paternità misericordiosa”.
Proviamo a identificare alcune figure, per lo stile di vita del
cristiano di oggi.
5.1.
La
“riscoperta” del rito (Sacrosanctum Concilium)
Vi è un agire che è terreno non destinato all’esercizio delle virtù
cardinali, ma di quella “virtù di religione” che è – insieme – culto rituale e
culto spirituale. Sospendere le virtù e consegnarsi di nuovo alla interruzione
rituale, questa dovrebbe essere oggi una parte non piccola di uno “stile di
vita” del cristiano post-moderno. Del tutto esemplare della nostra incapacità è
lo strano rapporto tra la vita virtuosa, la penitenza cristiana e il sacramento
di tale penitenza.
5.2.
La
dicibilità etico-giuridica e indicibilità del dono di fede da articolare
istituzionalmente (Lumen Gentium)
Non tutto della vita
ecclesiale può farsi progetto virtuoso: nel celebrare i misteri, la Chiesa non
esercita semplicemente una propria possibilità, ma trova se stessa, è donata a
se stessa, incontra la propria verità che non può dominare.
5.3. Cooriginarietà della esperienza di libertà e di
ubbidienza (Dei Verbum)
La virtù, quando ben
compresa, è un caso classico di libertà relazionata, di obbedienza liberante, di
tempo di conversione, di formazione permanente. La cui figura prima, per il
cristiano, è l’ascolto della parola, l’obbedienza all’amore, la fede e la
speranza in Dio.
5.3.
Riarticolare il cittadino, il padre/figlio e il discepolo di Cristo (Gaudium et
Spes)
L’esigenza di
fondo è proprio la distinzione tra esperienza giuridico-politica, esperienza
etica ed esperienza religiosa. La virtù brilla soprattutto nella sfera mediana,
mentre nella prima può essere ritenuta irrilevante e nella terza può essere
troppo ingombrante. Una accurata differenza tra “diritto”, “dovere” e “dono” è
oggi una risorsa difficile e decisiva. Uscire dalle secche di una sterile
contrapposizione tra diritti e doveri e riscoprire la “sovrabbondanza del dono”
come logica di tutto l’agire umano, di cui le virtù possono essere singolare
forma di esercizio e di esperienza.Brano tratto dal portale dell'Azione Cattolica Italiana , www.azionecattolica.it .
Nessun commento:
Posta un commento