Mons. Pierangelo Sequeri
LA VIA PULCHRITUDINIS :
limiti e stimoli di una spiritualità estetica
1. L’estetica cristiana dei sensi spirituali
È vero che per il
cristianesimo non esiste una bellezza mondana capace di offrirci libertà dal
male e vita eterna. Ma la fede evangelica non si sogna neppure di abbandonare
il mondo all’alternativa della bellezza e della salvezza. Nella teologia, come
nella spiritualità e nella cultura cristiana, la via della bellezza è stata
incessantemente percorsa con sincera partecipazione religiosa e decisivo
impulso culturale. Da sant’Agostino a Fénelon, da san Tommaso a Maritain, da
san Francesco a von Balthasar.
La nuova alleanza fra i doni dello Spirito creatore e i
segni della bellezza creata riaprono il futuro per la qualità umana della fede
e lo stile evangelico della testimonianza[1].
La bellezza appare, certamente, allo sguardo della fede,
nel segno di una verità della creazione che precede l’avvilimento dell’umano.
E resiste, indomabilmente, alla sua nichilistica deriva. Non allude
semplicemente al suo originario legame con la bontà dell’opera di Dio,
che si compiace della propria invenzione. La bellezza evoca il riflesso di una
giustizia originaria della creazione che lascia balenare il sentimento
di una felice corrispondenza della sua destinazione. Nel fascino che ne
promana, la bellezza prefigura la restituzione della creazione al suo senso. E
rende amabile l’intenzione di Dio che volle destinare l’uomo alla dignità di
un’esistenza propria: a immagine e somiglianza di Lui. Il sentimento della
bellezza trafigge ogni volta l’acerba contraddizione del mondo abitato con l’immemoriale
bagliore della Parola creatrice. La perdurante risonanza di quell’impulso può
essere oscurata, ma non estinta. Le potenze ostili, evocate dall’incredulità
dell’uomo, possono congiunturalmente ridurla al silenzio: non mai privarla
della sua risurrezione.
La verità della bellezza, tuttavia, non abita
pacificamente l’umana edificazione del mondo. Dirottata dalla sua profezia,
distratta dalla sua memoria, essa vive anche come apparenza della giustizia
e come illusione del bene. Diventa persino la giustificazione seducente
dell’incredulità: nell’ebbrezza di un’esistenza finita che basta a se stessa;
in guisa di argumentum apparentium rerum che nobilita – persino – la
dissipazione di ogni dono dello Spirito. Piegata al dominio delle potenze che
traggono l’uomo in schiavitù, la passione della bellezza incoraggia anche la
voracità di un appagamento distruttivo, alimenta l’invidia mortale della
grazia altrui. L’ossessione della bellezza presuntivamente spirituale, induce
pur essa il rischio di una tragica anestesia nei confronti del dolore del
mondo. Diviene principio di mera autoedificazione, che si separa da ogni
vincolo compassionevole dell’umano; e nella sua pretesa illuminazione, che
aspira ad un’esistenza incontaminata, rimane indifferente all’avvilimento
della terra. In entrambi gli eccessi la bellezza si separa dalla speranza
dell’uomo. E infine, da ogni giustizia della creazione.
La spiritualizzazione della natura, e l’estetizzazione
del sentire, che oggi annunciano la «nuova età» della gnosi
ecologico-terapeutica, esprimono certamente un’esigenza vitale. Una vera e
propria invocazione, di cui non si sospettava la forza arcaica nelle masse
civilizzate del pianeta. Ma l’estetica e la religione che danno
rappresentazione e parola a questa urgenza dell’anima rimangono pur sempre –
come un tempo – suggestivamente e drammaticamente inappropriate. Esse sono, in
troppi casi, mistica di complemento e compensazione programmata per l’egemonia
di una sfera sostanzialmente economica del godimento. La deriva mercantile
dell’esistenza ha bisogno di un ecumenismo anestetico del comune
sentire per rendere sopportabile l’ingegneria cosmetica che provvede
alla produzione di una nuova specie umana, perfettamente adatta al ciclo dei
consumi. La sfida mette di nuovo alla prova la dimostrazione evangelica dello
Spirito e della forza. La battaglia che una volta fu vinta – contro ogni
probabilità culturale, già allora! – per l’istituzione della verità cristiana
essenziale, deve ora essere combattuta e vinta per la restituzione di un
costume, di una persuasione, di uno stile, di una sensibilità e di un sentire
interiore corrispondente. In una parola, per la definitiva saldatura della
verità cristiana con gli umani affetti. Quella stessa che essa vide
risplendere di incomparabile bellezza divina nei tratti umani del Salvatore.
Da dove prenderemo forza, altrimenti, per riaffezionarci all’umana
dimostrazione dello Spirito di Dio?
Per questa via, tutti gli uomini sono sollecitati a
quell’arcana nostalgia di Dio cantata da sant’Agostino con accenti
ineguagliabili: «Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi
ti ho amato». Per grazia di Dio, non è mai troppo tardi per ritrovare lo
slancio di questa scoperta. Le opere umane della bellezza aprono il varco
irrimarginabile di un appagamento per il quale esse non bastano: e invitano a
proiettarsi più audacemente verso la Bellezza del mistero di Dio che indica
all’uomo spirituale la vera destinazione della sua attrattiva. Ne viene
infine, per tutti i credenti, un forte impulso a riscoprire e a far riscoprire
il lato bello di Dio. La testimonianza è possibile soltanto al prezzo
di una profonda assimilazione di nuovi sensi spirituali, capaci di formare
l’uomo e la donna credenti al discernimento dell’immagine del Figlio e dei
doni dello Spirito nell’odierna condizione umana.
L’esperienza della bellezza – sin dal seno materno – apre
un varco irrimarginabile per l’oltrepassamento della mera necessità di
conservazione dell’organismo vivente, rivelando la più forte attrazione del
desiderio di progresso spirituale che nutre l’anima e la mente. Ad esso mai ci
concederemmo, con tanto slancio e in nome della vita stessa, se l’apertura
della bellezza che ci muove all’azzardo creativo dell’immaginazione non ci
affezionasse con forza più irresistibile della ripetizione realistica
dell’utile e del noto. L’esperienza della bellezza conferisce un valore
inconfondibile, privo di scambio equivalente, al mondo della libertà – volontà
e conoscenza – che decide la qualità in cui ci riconosciamo. La speciale
sensibilità destata dalla bellezza sfida la rassicurante ripetizione dei nessi
causali del mondo e della vita, investendo la dignità dell’umano
nell’eccedenza di un senso affettivo dei legami in cui realmente ne va di
noi. L’apprezzamento di questi legami, che si esalta nell’umana esperienza
della bellezza, è irriducibile alla giustezza dei rapporti calcolabili
fra gli enti e gli eventi del mondo. E persino alla equivalenza dello scambio
fra i beni disponibili. Questa estetica degli affetti istituisce il
fondamento irrinunciabile della ostinazione (o piuttosto della fede?),
tipicamente umana, che rimane attaccata alla giustizia che
dovrebbe essere: in cielo, in terra e in ogni luogo. Essa infatti si
accende e si riaccende – nell’immaginazione della bellezza che è propria di
tutti i legami degni dell’uomo. Ultimamente, la bellezza dell’ordine di
agape: al quale non dispera di ricondurre anche eros e nomos.
2. Il principio antignostico della bellezza
Nel delicato equilibrio della sua universale attitudine
ad aprire un varco altrimenti inconcepibile per il senso della giustizia
e per la metafisica degli affetti – vere e proprie invarianti del
sapere originario della coscienza – l’esperienza della bellezza è sempre come
una promessa.
Il pensiero della civiltà alla quale apparteniamo, nella
quale il cristianesimo ha impiantato il seme della novità evangelica e nutrito
l’albero di una secolare cultura, l’aveva riconosciuta sin dall’inizio della
sua straordinaria avventura. Riscattando l’immaginazione estetica del divino
dal levigato manierismo umanistico dell’antica religione civile, aveva
riaperto il pensiero della bellezza al fascinans e al tremendum
della sua origine sacra, riportandola audacemente alla rivelazione del
logos della verità trascendente (Parmenide) e ai misteriosi legami in cui
risuona l’analogia del bene ineffabile (Platone). Nell’alveo di questa
tradizione, per altro, la riconquista dell’esclusivo legame della bellezza e
del divino veniva posta a carico di una dimensione spirituale contigua
all’intelligibile: il suo riscatto si disegnava precisamente sul filo
dell’opposizione al sensibile. L’ipoteca posta da questa scansione non
poteva evitare di giungere a maturazione nel divorzio fra l’esperienza
sensibile della bellezza e la ricerca spirituale della sua origine
incontaminata. La riconquista dell’originario legame della bellezza col divino
rimaneva così posta sotto il segno di un riscatto dal suo degrado nel
sensibile, più che un del riscatto del sensibile dal suo degrado.
La cultura del cristianesimo statu nascenti si
trovò di fronte all’antinomia di questa esaltazione della bellezza che
salva, di cui fu costretto ad apprezzare il contrasto proprio quando fu
tentato dalla sua pura e semplice omologazione. Il fenomeno grandioso e
insidiosissimo del cristianesimo gnostico rappresentò l’esperimento del
seducente innesto del germoglio evangelico sull’albero frondoso della più alta
spiritualità religiosa e filosofica allora conosciuta.
La qualità e la novità cristiana furono messe in salvo
dalla passione di un’ortodossia che percepì lucidamente il prezzo
drammatico di una spiritualità di una bellezza divina (Logos e
Pneuma) che salverebbe solo nella condizione dell’abbandono del mondo al
suo destino di creatura irrimediabilmente degradata e perduta. L’allarme fu
suonato – inequivocabilmente – all’evidenza ormai esplicita delle conseguenze
che scaturivano dall’applicazione di quel principio presuntivamente più
spirituale: cioè la denuncia della creazione (in nome dello Pneuma di
Dio!) e lo svuotamento dell’incarnazione (in nome del Logos di Dio!).
Il carattere frontale dell’attacco che la gnosi portava ai pilastri della
veritas biblica e della traditio apostolica rese apprezzabile anche
l’ambiguità di una dottrina spirituale, presuntivamente superiore, della
bellezza che salva. Senza la provocazione di questa felix culpa, la
cultura del cristianesimo avrebbe perduto il suo originale impulso: anche
nell’ordine dei rapporti fra l’immaginazione creativa e le radici spirituali
della bellezza. E’ proprio in occasione di quella sfida, infatti, che la
tradizione ecclesiale trovò l’audacia di sollecitare il suo principio
creazionistico e cristologico al limite di formule che contengono insieme
l’azzardo dello scandalo necessario alla qualità storica della bellezza divina
che si rivela salvatrice: gloria Dei vivens homo (Ireneo), caro
cardo salutis (Tertulliano).
3. La svolta cristologica dell’immagine
Il principio di un’icona realistica del Logos, che è la
carne del Figlio – forma hominis concepita in grembo di donna e forza
dello Spirito – si insedia così nel pensiero stesso dell’imago Dei. Non
nega il sacrosanto divieto della sua raffigurazione sostitutiva e del suo
adattamento idolatrico. Piuttosto lo trascende, inverandolo, nella sacra
rappresentazione cristologica dell’umanità di Dio: che forma il canone nel
canone di ogni umana rappresentazione sacra. L’umanità di Dio nel Figlio
Gesù non è condiscendenza accessoria: è pleroma autentico. E’ l’originale
di ogni icona, la quale vi riflette la sua pallida evocazione dell’unica
configurazione e trasfigurazione legittima dell’invisibile abbà-Dio. Il
legame con il doloroso concepimento della nuova creazione, conforme e
trasformata ad immagine del Figlio, di cui parla la splendida invenzione
paolina dell’estetica teologale – dalla dottrina del vetro oscuro a quella dei
sensi spirituali, dall’inno della kenosis (Fil 2) al poema della
kainé ktisis (Rom 8) – salda compiutamente la teologia cristiana
della bellezza spirituale con l’antica rivelazione biblica della
creazione di Dio e della promessa che la riguarda. Rivelazione ancorata
storicamente a quella stessa fede, mai abrogata. Promessa escatologica di cui
rimane in vigore la speranza di una nuova terra, mai revocata.
La vicenda dell’arte, nell’Oriente come nell’Occidente
cristiano, è profondamente segnata dalla forza di questo legame. L’altezza
della sua pretesa oggettivamente teologale, il livello della sua integrazione
con la cultura spirituale dell’umano, sarebbero impensabili senza l’ortodossia
cristologica che ha ribaltato, assorbendolo, il percorso della spiritualità
antica.
Lo voglia o no, lo sappia o no, l’amplificazione estetica
della ricerca della verità della creazione e del confronto sulla sua
giustizia, lotta sempre con l’Angelo per ristabilire il legame fra ciò che Dio
ha unito e la cultura dell’uomo divide: lo spirituale e il sensibile, il cielo
e la terra, la sapienza e il godimento. La scommessa intorno alla originaria
verità di quel legame è sempre in bilico fra la passione creatrice di
un’evidenza perduta e il furore distruttivo dei suoi illusori assestamenti.
Nella sua ricerca della bellezza, l’arte post-cristiana dell’Oriente e
dell’Occidente è indirizzata – coscientemente, incoscientemente – dal canone
di una verità cristologica: è proprio questo che tiene alto e perennemente in
tensione il livello della sfida. Si tratta di non cedere all’evidenza
seducente della separazione, finendo per riconciliarsi con la scelta
alternativa che essa impone: dai due lati. Quello di una bellezza virtuosa
e perciò insensibile: sprezzante di ogni affetto, però spirituale. E
quello di una bellezza mondana e perciò seducente: vuota di ogni
metafisica, ma almeno godibile. Lotta improbabile, se mai ce n’è stata una.
Eppure, l’arte autentica riconosce sempre da sé stessa, infine, di fallire la
sua destinazione quando elude la sfida, contentandosi di abbellire
alternativamente i due eccessi. Nello spazio ospitale dell’opera estetica,
dentro il quale l’uomo sperimenta le possibilità di un’eccedenza spirituale
del desiderio e di una condensazione corporale dello spirito, devono pur anche
trovare il loro posto l’ingiustizia del dolore subìto e la contraddizione del
male voluto. Entrambe appartengono all’esperienza dei sensi spirituali
dell’uomo. L’arte invoca la bellezza per elaborare il dolore; e modula lo
splendore di quella, quando si concede, senza perdere la memoria di questo.
L’arte non può dunque evitare, nella tenacia di questa
lotta, la soglia pericolosa e necessaria di quel legame originario della
bellezza e del bene, che chiama in causa la fede di Adamo nell’intenzione
che presiede la creazione del mondo. Il riconoscimento della necessità di
questa decisione, già affidata alla libertà di Abramo, si accende ogni volta
che l’immaginazione estetica raccoglie e risuscita, nel suo stesso azzardo
mondano, l’inevitabile apertura spirituale della domanda intorno alla
giustizia di ogni essere proprio così o forse del tutto
altrimenti. Né, del resto, è necessario evitare quella soglia rischiosa,
che mette capo all’azzardo di un nuovo inizio. La protesta che l’uomo
disperato eleva contro «Dio», così come la lotta con «l’Angelo» per
strappargli la sua benedizione, sono già ugualmente comprese nella
tradizione della sapienza biblica e dell’evangelo cristiano[2].
Esse vivono insieme nel grembo della pietas Dei erga hominem. Gesù
abbandonato e Gesù ritrovato – il Signore crocifisso e risorto – sono la
verità dell’icona di entrambi. Fino a che Egli venga. E la nuova città
dell’uomo, la celeste Gerusalemme che cancella Babele per sempre, insieme con
Lui.
Pierangelo Sequeri
Sommario
La meditazione sviluppa essenzialmente tre linee di
riflessione intorno alle potenzialità della nuova via pulchritudinis
che la spiritualità cristiana deve percorrere. La prima mette a fuoco
l’ambivalenza della bellezza: essa infatti può essere indirizzata alla memoria
del progetto divino sulla creazione, ma anche venir piegata all’arredamento di
un mondo artificioso ed illusorio. La tradizionale teologia metafisica della
bellezza deve integrare un’estetica teologale dei sensi spirituali. Un secondo
momento, sottolinea l’importanza di portare a maturazione il principio
antignostico dell’antica ortodossia cristiana, mediante l’ortoprassi di una
spiritualità effettivamente conseguente. Un terzo aspetto, infine, riguarda la
necessità di incoraggiare l’arte alla ricerca di un’estetica cristologica
della trasfigurazione: capace di integrare la memoria della passione del
Figlio senza concedersi alla manieristica deriva della morte di Dio.
NOTA BIBLIOGRAFICA
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Milano 1990.
[1] Nelle considerazioni che seguono presento i punti essenziali
di una prospettiva di riflessione che ho svolto, in modo più analitico e
circostanziato, nei saggi che compongono il volume L’estro di Dio,
Glossa, Milano 2000.
[2] Non posso fare a meno di pensare a quanto feconda sarebbe, e
capace di straordinaria rianimazione culturale, la riscrittura della storia
dell’arte nel solco di questa reciprocità fra estetica e teologia. «Per
trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la chiesa ha bisogno
dell’arte. Essa deve, infatti, rendere percepibile e, anzi, per quanto
possibile, affascinante il mondo dello spirito, dell’invisibile, di Dio.
Deve dunque trasferire in formule significative ciò che è in se stesso
ineffabile. Ora, l’arte ha una capacità tutta sua di cogliere l’uno o
l’altro aspetto del messaggio traducendolo in colori, forme, suoni che
assecondano l’intuizione di chi guarda o ascolta. E questo senza privare il
messaggio stesso del suo valore trascendente e del suo alone di mistero. […]
Si può dire anche che l’arte abbia bisogno della chiesa? La domanda può
apparire provocatoria. In realtà, se intesa nel giusto senso, ha una sua
motivazione legittima e profonda. L’artista è sempre alla ricerca del senso
recondito delle cose, il suo tormento è di riuscire ad esprimere il mondo
dell’ineffabile. Come non vedere allora quale grande sorgente di ispirazione
possa essere per lui quella sorta di patria dell’anima che è la religione?
Non è forse nell’ambito religioso che si pongono le domande personali più
importanti e si cercano le risposte esistenziali definitive?» (Lettera di
Giovanni Paolo II agli Artisti, nn. 12 e 13). Rimango ammirato dalla
parresia di Giovanni Paolo II, che parla dell’arte come dono degno di
rispetto spirituale, al quale la chiesa deve attingere per comprendere
fino al cuore la speranza della creazione che l’abita; e al tempo stesso
offre la chiesa come testimonianza indispensabile per la vitalità di ciò
che, mediante la via della bellezza, intimamente custodisce l’emozione
creativa dello spirituale nell’uomo.
Fonte : http://www.credereoggi.it/117/art117.htm
tratto da : Credere Oggi n 117
mag/giu 2000 : Spiritualità per il Terzo millennio.
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