Riflessioni sull'Arte Contemporanea
di Rodolfo Papa
Una riflessione sulle complesse e urgenti problematiche che attorniano l’arte, tenendo conto di tutti gli aspetti che ne compongono il vasto territorio.
Le
teorie estetiche contemporanee propongono definizioni dell’arte
estremamente fluide, addirittura liquide, apparentemente elastiche ed
attraversabili, spesso però si rivelano poi estremamente rigide, con
confini invalicabili. Uno di questi confini, surrettiziamente elevato,
riguarda la perentoria separazione di arte e bellezza, un altro confina
al di fuori dell’arte ogni riferimento alla trascendenza. Questa
impostazione pone non pochi problemi teoretici per rintracciare una
definizione del concetto di arte.
Vogliamo
affrontare la questione del rapporto tra arte e bellezza, tra arte e
trascendenza, da un punto di vista particolare, ovvero riflettendo sul
Magistero della Chiesa. In esso troviamo non solo indicazioni che hanno
valore per i credenti, ma anche la fondazione seria e rigorosa di un
discorso che si propone come vero per ogni uomo.
Nella esortazione apostolica Sacramentum Caritatis,
Benedetto XVI riflettendo sullo spirito della liturgia, pone in essere
una riflessione sull’arte al servizio della celebrazione, fondata sul
legame profondo tra “bellezza e liturgia”; in modo particolare leggiamo:
«Lo stesso principio vale per tutta l'arte sacra in genere,
specialmente la pittura e la scultura, nelle quali l'iconografia
religiosa deve essere orientata alla mistagogia sacramentale.
Un'approfondita conoscenza delle forme che l'arte sacra ha saputo
produrre lungo i secoli può essere di grande aiuto per coloro che, di
fronte a architetti e artisti, hanno la responsabilità della committenza
di opere artistiche legate all'azione liturgica. Perciò è
indispensabile che nella formazione dei seminaristi e dei sacerdoti sia
inclusa, come disciplina importante, la storia dell'arte con speciale
riferimento agli edifici di culto alla luce delle norme liturgiche. In
definitiva, è necessario che in tutto quello che riguarda l'Eucaristia
vi sia gusto per la bellezza. Rispetto e cura dovranno aversi
anche per i paramenti, gli arredi, i vasi sacri, affinché, collegati in
modo organico e ordinato tra loro, alimentino lo stupore per il mistero
di Dio, manifestino l'unità della fede e rafforzino la devozione» (n. 41, corsivo aggiunto).
L’arte
sacra, al servizio della liturgia, è finalizzata alla “mistagogia
sacramentale”, e deve essere impregnata di “gusto per la bellezza”.
Sospendiamo per ora, rimandandone l’analisi a un altro articolo,
l’affermazione che è “indispensabile” che seminaristi e sacerdoti
conoscano la storia dell’arte, per formare il gusto alla bellezza.
Soffermiamoci,
invece, sulla relazione intima e inscindibile di arte sacra e bellezza,
fondata nel cuore della stessa liturgia; nello stesso documento ancora
leggiamo: «La bellezza della liturgia è parte di questo mistero;
essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un
certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra. Il memoriale del
sacrificio redentore porta in se stesso i tratti di quella bellezza di
Gesù di cui Pietro, Giacomo e Giovanni ci hanno dato testimonianza,
quando il Maestro, in cammino verso Gerusalemme, volle trasfigurarsi
davanti a loro (cfr Mc 9,2). La bellezza, pertanto, non è un fattore
decorativo dell'azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo,
in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto
ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché
l'azione liturgica risplenda secondo la sua natura propria» (n. 31,
corsivo aggiunto).
La
bellezza, in quanto attributo di Dio, è elemento costitutivo della
liturgia e dunque dell’arte sacra. Si tratta di una implicazione
preziosa, che àncora la bellezza dell’arte sacra in Dio.
Anche
in una riflessione esterna all’ambito liturgico e sacramentale, una
seria considerazione di cosa sia l’arte mostra come la bellezza ne sia
comunque attributo costitutivo, perché ogni artista opera a immagine di
Dio creatore, e perché il bello è una proprietà trascendentale
dell’essere, un attributo cioè che tutto ciò che è possiede, proprio
perché partecipa dell’essere di Dio, in quanto creato.
Questo percorso è tracciato da Giovanni Paolo II nella Lettera agli artisti del 1999, rivolta universalmente a tutti gli artisti, definiti “geniali costruttori di bellezza”.
In questo modo Giovanni Paolo II indica all’artista il suo proprio
campo d’azione, sottolinea il cuore della sua stessa identità. Non si
tratta di una considerazione puramente descrittiva o la constatazione di
un dato di fatto, ma è quasi l’enunciazione di un principio,
l’esortazione a un rinnovato connubio tra arte e bellezza.
La
definizione “geniali costruttori di bellezza” è complessa e profonda in
ogni suo termine. Il sostantivo “costruttori”, rimanda alla classica
definizione di ars come “recta ratio factibilium”, cioè a
un ambito di produzione: l’artista è un artefice. Viene così richiamato
un ambito entrato purtroppo in disuso in molte teorie dell’arte,
sprezzanti nei confronti della reale produzione artistica. L’aggettivo
“geniale” dialoga con tutta la storia della riflessione estetica,
sottolineando nel possesso del “genio” la peculiarità dell’arte rispetto
all’artigianato e alle altre produzioni tecniche. Ma è il complemento
della “bellezza” il vero cuore della definizione: la bellezza è
l’oggetto e la finalità dell’arte stessa. Questa sottolineatura, che si
pone in continuità con una multimillenaria tradizione, è audacemente
contrastante con le tante contemporanee estetiche del brutto che
teorizzano la bruttezza come vero campo artistico o ancor peggio
propongono una assoluta indifferenza verso il bello e il brutto.
Giovanni Paolo II ricolloca l’arte nel territorio della bellezza,
sottoposta alle regole del fare, nel riconoscimento di quel dono
particolare che usualmente si chiama “genio” e che, nel contesto della Lettera agli artisti stessa, si svela come un talento naturale e un dono dello Spirito Santo.
L’imprescindibilità
della bellezza in tutte le arti – pittura, scultura, architettura etc. –
implica necessariamente un ripensamento della stessa nozione di
bellezza, che, come mostreremo in altri prossimi articoli, trova la
propria migliore chiarificazione nella tradizione aristotelico-tomista
medievale e rinascimentale.
Spesso
l’arte contemporanea appare veicolata da linguaggi settoriali e da
configurazioni di sistemi chiusi che non delineano panorami e non aprono
orizzonti, ma focalizzano un particolare, sovente in modo da farlo
apparire unico. Talvolta il punto di vista di tali ricostruzioni è
apertamente “militante”, ovvero mosso dall’interesse per un determinato
gruppo o movimento artistico. Tuttavia, ad ogni posizione ideologica è
preclusa una analisi obiettiva della realtà, capace di restituire la
complessità e la varietà delle strade battute da tutte le infinite
correnti artistiche che animano il mondo delle arti, nella
contemporaneità.
Si impone, anzi, di declinare al
plurale il termine “arte”, di fronte al proliferare di discipline e
movimenti, per evitare di ridurre l’arte a una sua sola espressione;
tuttavia le arti sono tali perché hanno una relazione con l’arte in
generale. Sospendiamo, per adesso, di percorrere questa lunga strada
della relazione tra arte e arti, e soffermiamoci invece sull’aggettivo
“contemporaneo”, cercando di analizzarlo e di comprenderlo.
Il termine contemporaneo non
può, per sua natura, essere un attributo distintivo, capace di definire
una determinata corrente, ma si tratta di un termine che dovrebbe
costituire un riferimento temporale, entro un contesto. Spesso, invece,
l’aggettivo “contemporaneo” appare come un marchio attribuito ad alcune
correnti in modo privilegiato, con l’esclusione pregiudiziale di ogni
espressione che non rientri nel confine tracciato da una specifica
teoria dell’arte “contemporanea”, costituendo, quasi per negativo, la
categoria di “arte non contemporanea”, ovvero anacronistica. Ma il
termine dovrebbe, più correttamente, indicare semplicemente una nozione
di tempo. Da un punto di vista storiografico è equivoco definire “arte
contemporanea” opere degli anni Cinquanta del secolo passato, mentre
sarebbe più appropriato chiamarle con il nome del movimento a cui
appartennero, o della disciplina a cui afferiscono, pittura, scultura o
altro.
Mi si potrebbe obiettare che
ormai il termine contemporaneo è storiograficamente acquisito per
indicare un determinato periodo storico; tuttavia questo significherebbe
avere esaurito la semanticità del termine, limitandone la referenza a
un esclusivo periodo storico, e generando, di contro, nozioni ancora più
equivoche come il “post-contemporaneo” che può definire il sentimento
di fine della contemporaneità come categoria critica, ma non esaurisce
minimamente il termine in senso temporale.
Il prefisso “post”, inoltre, si
carica di significati. Sembra voler indicare la constatazione di una
crisi, della fine, anche con gli echi emotivi della sconfitta,
dell’insuccesso, oppure può connotare un’epoca di epigoni, incapaci di
smarcarsi dai maestri; in ogni caso, sembra che un certo periodo storico
costituisca un inaggirabile punto di riferimento: ciò che è prima è
“pre” ciò che è dopo è “post” contemporaneo. Sembra giustificabile tale
posizione, al di fuori di una certa militanza critica? Del resto, è
storicamente naturale che dopo un momento di “avanguardia”, segua un
periodo di normalizzazione; come dopo i movimenti di conquista militare e
dopo il superamento di un confine, segue poi una fase
antropologicamente ricorrente di normalizzazione e di regole, fatta da
coloni che lavorano entro il confine acquisito per annetterlo
definitivamente alla nazione conquistatrice. Tuttavia se questa fase non
sa crearsi le sue regole, si assiste al disfacimento del territorio
tanto faticosamente conquistato.
Se invece diamo un nome ai tanti
movimenti del Novecento, che non sono più a noi contemporanei, possiamo
ridonare al termine la sua vitalità semantica, e liberare la
storiografia artistica da una sorta di vincolo pregiudiziale. Infatti,
se si attribuisce la “contemporaneità” a una sola determinata corrente
artistica, si condannano di contro e ingiustamente tutte le altre ad una
forzata antistoricità, che peraltro contraddice le spinte libertarie
proprie della cosiddetta “contemporaneità” del Novecento. Del resto né
gli storici né i critici possono attribuirsi il potere di dare la
patente di “contemporaneità” ad alcuni per escluderne degli altri, senza
peraltro giustificarne i criteri.
Tutte le teorie dell’arte,
prodotte dalla fine dell’Ottocento fino ad oggi, hanno reclamato il
diritto sacrosanto dell’artista di autodeterminarsi, però, nel contempo,
man mano che tali idee hanno acquisito importanza, hanno di fatto
operato un genocidio mediatico e culturale di tutte le teorie artistiche
percepite come avversarie. E questo è lentamente rifluito
nell’immaginario comune, tanto che in ambiti quotidiani e non
specialistici si sente oggi usare il termine “contemporaneo” come una
sorta di confine razziale tra le discipline. Tutto ciò che è aniconico, o
non tradizionale nella forma, nel contenuto o nel materiale è
considerato “contemporaneo”, il resto, soprattutto se è figurativo, è
classificato come “non contemporaneo”.
Si tratta di un assurdo
cronologico, prima che logico, in cui è facile cadere, e costituisce una
sorta di apertura di un percorso che, di equivoco in equivoco, conduce
alla confusione dei generi, delle discipline, delle tecniche, alla
costruzione di confini invalicabili, fino all’incapacità di vedere e
giudicare con le proprie facoltà.
Per esempio, una serena analisi
di quanto sta accadendo nel panorama mondiale dell’arte, dovrebbe
segnalare una incredibile vitalità di espressioni artistiche bollate a
tavolino come non-contemporanee. Nella pittura, nel contenitore generico
del “figurativo”, assistiamo ad una esplosione vitalissima di movimenti
e correnti che stanno animando il settore di questo disciplina in tutto
il mondo: dall’Ucraina agli Stati Uniti, dal Giappone all’Italia,
dall’Inghilterra alla Cina …. Si tratta di esperienze che con
motivazioni diverse, teorie diverse e finalità diverse, riguardano tutti
i cinque continenti, e non si può non tenerne conto. Inoltre moltissime
accademie nel mondo da circa un decennio hanno ripreso a studiare
approfonditamente Michelangelo e tutto il Rinascimento. Invece in Italia
ci sono progetti per eliminare la disciplina “Anatomia artistica” dai
piani di studio delle Accademie d’Arte. E tutto questo è ignorato da
molte riviste specializzate, dai musei di arte contemporanea, dai critici e dai mass media.
Che cosa è l’arte? Di fronte a questa domanda, viene in mente la situazione descritta da sant’Agostino nel libro XI della Confessioni a
proposito della domanda “che cosa è il tempo?”: se non me lo domandano
lo so, se me lo domandano non lo so. Si sente la necessità di definire
il significato del termine, anche se nel contempo si avverte una
difficoltà definitoria. Infatti, circoscrivere il significato dell’arte
escluderebbe, forse, novità e sperimentazioni, oppure mantenerlo fluido e
suscettibile di infinite interpretazioni ne annullerebbe, forse,
l’identità.
Nella
teoria dell’arte convivono atteggiamenti diversi: tentare di definire e
analizzare fino all’esaurimento di ogni punto interrogativo; oppure
rinunciare ad una definizione di fronte al proliferare delle domande; o
ancora identificare l’arte solo con un suo aspetto: una particolare
disciplina, una particolare corrente, una particolare epoca storica.
La
questione è difficile, e per essere affrontata richiede chiarimenti
prioritari. Cercheremo solo di tracciare un percorso possibile,
soprattutto delineandone i compiti. Innanzitutto, cosa vuol dire
definire? Definire significa spiegare “che cosa è”, dunque implica la
conoscenza, seppure non esaustiva, di ciò che si definisce; inoltre
definire non significa costringere una realtà dentro una parola, ma
viceversa cercare un discorso che sappia dire la stessa realtà. Dunque,
non bisogna avere paura delle definizioni, come se fossero delle
prigioni. Inoltre, le definizioni possono essere di tanti tipi, secondo
lo scopo e il tipo di conoscenza che si vuole o si può conseguire. Si
può definire il “nome” oppure la “cosa”. Nel primo caso siamo di fronte a
una definizione nominale, che può a sua volta consistere
nell’etimologia, nella spiegazione dell’uso comune del termine, oppure
nella specificazione di usi particolari, relativi a un contesto o a una
persona. Nel secondo caso, siamo di fronte a una definizione “reale”,
che può consistere nell’esplicitazione della cause e dei principi,
oppure nella determinazione di genere e differenza specifica, o ancora
può sfumare in una descrizione.
La tradizione classica (Aristotele, Tommaso d’Aquino, solo per fare alcuni nomi) ci offre una definizione reale di ars, secondo genere e differenza: ars est recta ratio factibilium, ovvero l’arte è la corretta ragione delle cose da fare. Dunque il genere è la “recta ratio”, e la specie viene differenziata dal riferimento ai “factibilia”,
alle cose da fare, da produrre. L’arte viene così posta tra le virtù
dianoetiche, cioè tra le perfezioni dell’anima razionale; inoltre è
strettamente connessa con la conoscenza e con la fabbricazione di
oggetti; potremmo esemplificare che arte è un “saper fare”. Si tratta di
una definizione ampia, che tiene insieme tutte le modalità di “saper
fare”: dal costruire tavoli allo scrivere poesie, dal dipingere al
cucinare, purché siano fatti bene, con recta ratio.
Entro
questo concetto così vasto, facilmente si pone una distinzione tra le
arti connotate principalmente da bellezza e le arti connotate
principalmente da utilità. Si tratta di una distinzione non escludente,
nel senso che anche un tavolo, che è utile, può essere bello ed anche un
monumento, che è bello, può essere utile, tuttavia l’opera d’arte bella
è arte perché è bella, mentre l’opera di arte utile è arte perché è
utile. Entro le arti belle, notiamo una grandissima varietà di
operazioni e funzioni, che delineano i vari ambiti delle discipline
artistiche. Proprio a questo livello si pone la problematicità di una
definizione comune. Mi sembra che il modo migliore di procedere per
contribuire alla definizione dell’arte sia cercare, adesso, una
definizione delle diverse discipline artistiche. Una tradizione che
risale a Plinio, ripresa anche da Leonardo, dice che la prima disciplina
artistica è la pittura, da cui sono seguite poi la scultura e via via
tutte le altre. Sappiamo che nel Rinascimento si è riflettuto molto sul
“paragone delle arti”, e cioè sulla valorizzazione degli aspetti comuni e
soprattutto di quelli diversi, al fine di capire quale fosse la regina
delle arti. Ciò ha contribuito a una valorizzazione degli aspetti
specifici delle singole discipline, con una forte consapevolezza dei
percorsi tecnici, cui sono stati dedicati molti trattati e manuali, come
per esempio il già citato Libro di pittura di
Leonardo. Mi sembra che questa strada sia molto proficua, perché
proprio partendo dalla pratica della pittura, della scultura,
dell’architettura … si arriva a definire cosa siano ciascuna. Ed è anche
importante che tale riflessione sia provenuta e provenga dai medesimi
artisti, cosa che evita il senso di scollamento tra le arti e la teoria
delle arti, così frequente nella contemporaneità.
Entro
il percorso di ricerca di una definizione universale di arte, acquista
un valore molto significativo la ricerca dei principi e delle regole che
definiscono le singole discipline artistiche. Ciascuna ha un proprio
specifico compito, mezzi e metodologie proprie, tradizioni e maestri,
paradigmi e principi. Mi sembra un campo molto fecondo, che non nega
sviluppi e progressi, ma nel contempo consente di identificare una
disciplina e anche di coltivarla. Fornisce inoltre la strumentazione
teorica per riconoscere la disciplina stessa, per affermare, per
esempio, che Monet è pittore così come Giotto, ma anche per negare che
gli allestimenti e le performances siano pittura. Infatti, le
innovazioni che accadono in una disciplina possono far crescere
notevolmente la disciplina stessa, ma ci sono delle innovazioni che,
anche se spesso nascono dentro di essa, però ne ricadono fuori, e non ne
fanno più parte. Così, per esempio, la pop art e
gli allestimenti non rientrano nella disciplina della pittura, perché
ne esorbitano i mezzi, i fini, la tradizione, l’ambito, e vanno a
definire una disciplina diversa, nuova, con proprie finalità e modalità
di esecuzione: non si tratta del superamento della pittura ma forse
della nascita di una nuova disciplina artistica. La distinzione che si
pone tra le arti tradizionali, pittura, scultura, architettura, poesia,
musica … si pone anche nei confronti di quelle nuove, quali la
fotografia, il cinema, etc. Per esempio, i fondamenti della pittura sono
diversi da quelli dell’architettura, e anche se possono avere anche
parti in comune, hanno scopi e regole diverse.
Dunque
la definizione dell’arte deve essere tale da poter comprendere tutte le
singole arti, ciascuna delle quali ha i propri principi e fondamenti
che la distinguono dalle altre e la definiscono nella propria identità.
Ma al di là di queste posizioni, evidentemente poco consistenti, rimane la domanda: chi è l’artista? A cui possiamo aggiungere una domanda ulteriore, fondamentale per le nostre riflessioni: chi è l’artista cristiano? Nell’arte cristiana, ovvero nell’arte che è al servizio della Chiesa e che nei secoli è stata capace di annunciare Cristo e alzare un inno di lode a Dio attraverso inestimabili opere, ci sono regole o principi che individuano l’identità professionale, morale e spirituale dell’artista? Possiamo trovare un aiuto per la nostra riflessione, nel Libro di pittura scritto da Cennino Cennini alla fine del XIV secolo; egli innesta la storia della nascita dell’arte sugli eventi della creazione narrati nel libro della Genesi, e pone a fondamento della pratica artistica una riflessione di tipo morale: all’arte non si perviene con sete di guadagno, né per vanagloria, ma con un’umiltà e una perseveranza tali da sopportare ogni sacrificio necessario per impararne tutte le regole e praticarne tutti i principi.
Ulteriore aiuto alla riflessione può essere trovato nel Libro di pittura di Leonardo da Vinci, ovvero nella raccolta dei suoi appunti e dei suoi studi composta postuma dall’allievo Francesco Melzi e di cui abbiamo copia nel Codice Urbinate 1270 conservato nella Biblioteca Vaticana, di cui Carlo Pedretti ha fornito un’edizione critica nel 1995. Leonardo indica all’artista un cammino di formazione tecnico e morale, in cui hanno un ruolo fondamentale le regole e i principi praticati fino a diventare virtù. Le certezze di Cennini e di Leonardo poggiavano su una solida tradizione, che non poneva in discussione l’importanza delle regole di formazione. Nell’antichità, possiamo trovarne esempi noti in Vitruvio e Plinio, ma anche in Columella per quanto riguarda l’arte dell’agricoltura. Si tratta di una tradizione che, con innovazioni e ripensamenti, arriva fino al XX secolo, testimoniata da innumerevoli trattati.
Da questa tradizione possiamo trarre l’importanza del binomio arte e regole, e soprattutto possiamo comprendere come tale impostazione sia realmente liberatoria per la creatività dell’artista. Nella lunga storia delle arti, le regole hanno giocato l’importante ruolo di formare gli artisti, di far crescere senza opprimere, di spronare senza imprigionare, di sciogliere senza legare. Le regole tracciano un percorso, rendendo accessibile una tecnica che può diventare il fondamento dell’azione, la condizione di possibilità per la crescita. Oggi, riusciamo a comprendere l’importanza della tecnica e delle sue regole soltanto in campi molti ristretti; un esempio molto divulgativo riguarda il mondo dello sport: nell’atletica, nei tuffi, nello sci, nel calcio … la bella esecuzione è tale perché è anche gesto tecnico. Infatti, senza una adeguata preparazione tecnica, nessuno sport può essere praticato.
Nel campo delle arti gli esempi diventano più difficili. Nella musica rimane più evidente la necessità di possedere il linguaggio e la sua tecnica; nel campo della pittura, invece, le regole del mercato hanno preso sopravvento, aiutate dai critici che teorizzano che l’arte non deve avere vincoli e principi, se non appunto quelli -imperanti ma non esplicitati- dello stesso mercato. Così come la tanto reclamata libertà dell’artista da ogni regola spesso si traduce paradossalmente in dipendenze di tipo non-artistico, come l’alcool, le droghe o altri vincoli che coartano radicalmente la libertà della persona, ottundendo la ragione. Del resto, le teorie artistiche che sottolineano con una certa ossessiva ricorrenza che l’artista è un essere disadattato e solitario, finiscono quasi per prescrivere il malessere psichico ed esistenziale come un prerequisito fondamentale. Così l’arte che dovrebbe donare la felicità diventa un labirinto di dolore, interamente attraversato dall’ansia di successo. Cosicché alla figura dell’artista si sovrappone quella di Faust disposto a fare patti con il Diavolo, o quella di Prometeo, che sfida gli dei per rubare loro il fuoco.
Il centro del percorso creativo dell’artista, in un siffatto contesto, è l’artista stesso. In un totale egotismo, l’arte esprime l’io dell’artista e null’altro. Se riflettiamo bene, invece, comprendiamo che l’artista per essere tale dovrebbe possedere le regole del suo mestiere, e che il presupposto per violarle e superarle è appunto conoscerle. Inoltre il malessere e la perversione non sono richiesti all’artista in quanto tale, ma solo all’artista così come è teorizzato da certi critici e da certi mercanti contemporanei.
Se questo osservazioni valgono per l’artista in generale, a fortiori acquistano ragione nei confronti dell’artista cristiano. Si può parlare di Cristo a partire da queste posizioni teoriche e raggiungere le alte vette dell’arte sacra cristiana? L’artista che lavora per la Chiesa può essere identificato dalla dissolutezza, dall’ignoranza del mestiere, dal narcisismo? Non stiamo parlando di un giudizio sulla vita dell’artista, perché questo non dovrebbe interessare allo storico e al teorico dell’arte, ma stiamo riflettendo proprio sulle opere d’arte, sulla possibilità che senza una formazione tecnica e artistica, e senza virtù coltivate, si possano produrre opere belle adatte alla preghiera e alla liturgia.
Inoltre, aggiungo una considerazione più importante, e cioè che per lavorare per Cristo, ad ogni livello e in ogni campo, c’è bisogno di una adesione a Cristo stesso. Con molta chiarezza Joseph Ratzinger spiega che la sacralità dell’immagine implica la vita interiore dell’artista, il suo incontro con il Signore: «La sacralità dell’immagine consiste proprio nel fatto che essa deriva da un vedere interiore e così conduce a un vedere interiore. Deve essere frutto di una contemplazione interiore, di un incontro credente con la nuova realtà del Risorto e, in questo modo, deve introdurre nuovamente ad uno sguardo interiore, nell’incontro orante con il Signore» (Joseph Ratzinger, Teologia della liturgia, Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, p. 131). Aggiunge anche che «la dimensione ecclesiale è essenziale all’arte sacra» (ibid.), mettendo all’attenzione che l’artista cristiano non può vivere al di fuori della Chiesa stessa.
Gesù nel Vangelo di Luca ci avverte: «là dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (Lc 12,34) . Se il nostro tesoro non è Cristo, ma siamo noi stessi, i nostri vizi, il successo, allora non si ha il cuore adatto alla produzione di opere di arte sacra. Ancora ci insegna Gesù che «nessun servitore può servire due padroni [...] non potete servire Dio e la ricchezza» (Lc 16,13). Dunque l’artista cristiano deve fare la scelta radicale di porre Cristo come unico Signore della sua vita e della sua arte. Ciò implica anche l’umiltà di un percorso di formazione, artistica, morale e spirituale, nella convinzione che il lavoro artistico è una vocazione: «Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia con parole di Dio; chi esercita un ufficio lo compia con l’energia ricevuta da Dio, perché in tutto venga glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartiene la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen» (1Pt 4,10-11).
Cosa
vuol dire “essere artisti”? Chi è artista? Nella contemporaneità si è
affermata l’opinione che essere artista non sia una condizione
particolare, ma che ciascuno sia un artista, in quanto non servirebbero
talenti e formazione, ma l’unico ingrediente necessario sarebbe la
creatività libera da ogni schema. Nelle biografie di molti artisti del
Novecento, emergono inoltre abitudini disordinate, atteggiamenti
eccentrici, comportamenti autodistruttivi, tanto che sembrerebbe che
tale tipo di vita sia un ingrediente necessario per riconoscere il vero
artista, sia esso un pittore, uno scultore, un musicista, un poeta.
Ma al di là di queste posizioni, evidentemente poco consistenti, rimane la domanda: chi è l’artista? A cui possiamo aggiungere una domanda ulteriore, fondamentale per le nostre riflessioni: chi è l’artista cristiano? Nell’arte cristiana, ovvero nell’arte che è al servizio della Chiesa e che nei secoli è stata capace di annunciare Cristo e alzare un inno di lode a Dio attraverso inestimabili opere, ci sono regole o principi che individuano l’identità professionale, morale e spirituale dell’artista? Possiamo trovare un aiuto per la nostra riflessione, nel Libro di pittura scritto da Cennino Cennini alla fine del XIV secolo; egli innesta la storia della nascita dell’arte sugli eventi della creazione narrati nel libro della Genesi, e pone a fondamento della pratica artistica una riflessione di tipo morale: all’arte non si perviene con sete di guadagno, né per vanagloria, ma con un’umiltà e una perseveranza tali da sopportare ogni sacrificio necessario per impararne tutte le regole e praticarne tutti i principi.
Ulteriore aiuto alla riflessione può essere trovato nel Libro di pittura di Leonardo da Vinci, ovvero nella raccolta dei suoi appunti e dei suoi studi composta postuma dall’allievo Francesco Melzi e di cui abbiamo copia nel Codice Urbinate 1270 conservato nella Biblioteca Vaticana, di cui Carlo Pedretti ha fornito un’edizione critica nel 1995. Leonardo indica all’artista un cammino di formazione tecnico e morale, in cui hanno un ruolo fondamentale le regole e i principi praticati fino a diventare virtù. Le certezze di Cennini e di Leonardo poggiavano su una solida tradizione, che non poneva in discussione l’importanza delle regole di formazione. Nell’antichità, possiamo trovarne esempi noti in Vitruvio e Plinio, ma anche in Columella per quanto riguarda l’arte dell’agricoltura. Si tratta di una tradizione che, con innovazioni e ripensamenti, arriva fino al XX secolo, testimoniata da innumerevoli trattati.
Da questa tradizione possiamo trarre l’importanza del binomio arte e regole, e soprattutto possiamo comprendere come tale impostazione sia realmente liberatoria per la creatività dell’artista. Nella lunga storia delle arti, le regole hanno giocato l’importante ruolo di formare gli artisti, di far crescere senza opprimere, di spronare senza imprigionare, di sciogliere senza legare. Le regole tracciano un percorso, rendendo accessibile una tecnica che può diventare il fondamento dell’azione, la condizione di possibilità per la crescita. Oggi, riusciamo a comprendere l’importanza della tecnica e delle sue regole soltanto in campi molti ristretti; un esempio molto divulgativo riguarda il mondo dello sport: nell’atletica, nei tuffi, nello sci, nel calcio … la bella esecuzione è tale perché è anche gesto tecnico. Infatti, senza una adeguata preparazione tecnica, nessuno sport può essere praticato.
Nel campo delle arti gli esempi diventano più difficili. Nella musica rimane più evidente la necessità di possedere il linguaggio e la sua tecnica; nel campo della pittura, invece, le regole del mercato hanno preso sopravvento, aiutate dai critici che teorizzano che l’arte non deve avere vincoli e principi, se non appunto quelli -imperanti ma non esplicitati- dello stesso mercato. Così come la tanto reclamata libertà dell’artista da ogni regola spesso si traduce paradossalmente in dipendenze di tipo non-artistico, come l’alcool, le droghe o altri vincoli che coartano radicalmente la libertà della persona, ottundendo la ragione. Del resto, le teorie artistiche che sottolineano con una certa ossessiva ricorrenza che l’artista è un essere disadattato e solitario, finiscono quasi per prescrivere il malessere psichico ed esistenziale come un prerequisito fondamentale. Così l’arte che dovrebbe donare la felicità diventa un labirinto di dolore, interamente attraversato dall’ansia di successo. Cosicché alla figura dell’artista si sovrappone quella di Faust disposto a fare patti con il Diavolo, o quella di Prometeo, che sfida gli dei per rubare loro il fuoco.
Il centro del percorso creativo dell’artista, in un siffatto contesto, è l’artista stesso. In un totale egotismo, l’arte esprime l’io dell’artista e null’altro. Se riflettiamo bene, invece, comprendiamo che l’artista per essere tale dovrebbe possedere le regole del suo mestiere, e che il presupposto per violarle e superarle è appunto conoscerle. Inoltre il malessere e la perversione non sono richiesti all’artista in quanto tale, ma solo all’artista così come è teorizzato da certi critici e da certi mercanti contemporanei.
Se questo osservazioni valgono per l’artista in generale, a fortiori acquistano ragione nei confronti dell’artista cristiano. Si può parlare di Cristo a partire da queste posizioni teoriche e raggiungere le alte vette dell’arte sacra cristiana? L’artista che lavora per la Chiesa può essere identificato dalla dissolutezza, dall’ignoranza del mestiere, dal narcisismo? Non stiamo parlando di un giudizio sulla vita dell’artista, perché questo non dovrebbe interessare allo storico e al teorico dell’arte, ma stiamo riflettendo proprio sulle opere d’arte, sulla possibilità che senza una formazione tecnica e artistica, e senza virtù coltivate, si possano produrre opere belle adatte alla preghiera e alla liturgia.
Inoltre, aggiungo una considerazione più importante, e cioè che per lavorare per Cristo, ad ogni livello e in ogni campo, c’è bisogno di una adesione a Cristo stesso. Con molta chiarezza Joseph Ratzinger spiega che la sacralità dell’immagine implica la vita interiore dell’artista, il suo incontro con il Signore: «La sacralità dell’immagine consiste proprio nel fatto che essa deriva da un vedere interiore e così conduce a un vedere interiore. Deve essere frutto di una contemplazione interiore, di un incontro credente con la nuova realtà del Risorto e, in questo modo, deve introdurre nuovamente ad uno sguardo interiore, nell’incontro orante con il Signore» (Joseph Ratzinger, Teologia della liturgia, Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, p. 131). Aggiunge anche che «la dimensione ecclesiale è essenziale all’arte sacra» (ibid.), mettendo all’attenzione che l’artista cristiano non può vivere al di fuori della Chiesa stessa.
Gesù nel Vangelo di Luca ci avverte: «là dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (Lc 12,34) . Se il nostro tesoro non è Cristo, ma siamo noi stessi, i nostri vizi, il successo, allora non si ha il cuore adatto alla produzione di opere di arte sacra. Ancora ci insegna Gesù che «nessun servitore può servire due padroni [...] non potete servire Dio e la ricchezza» (Lc 16,13). Dunque l’artista cristiano deve fare la scelta radicale di porre Cristo come unico Signore della sua vita e della sua arte. Ciò implica anche l’umiltà di un percorso di formazione, artistica, morale e spirituale, nella convinzione che il lavoro artistico è una vocazione: «Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia con parole di Dio; chi esercita un ufficio lo compia con l’energia ricevuta da Dio, perché in tutto venga glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartiene la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen» (1Pt 4,10-11).
Viviamo
in un momento storico entusiasmante, perché siamo sul confine di un
secolo appena passato e di uno nuovo in via di edificazione. Anche se
porre confini cronologici non è mai proficuo in campo storiografico,
come non lo è contrapporre un'epoca ad un’altra, tuttavia dobbiamo
riconoscere che il bilancio del secolo passato e l’apertura del nuovo
alimenta l’entusiasmo ed obbliga a ripensamenti e rinnovato impegno.
Il
fatto stesso che molte delle esperienze artistiche del Novecento siano
irrimediabilmente alle nostre spalle obbliga alla riflessione, al fine
non solo di comprendere le dinamiche delle varie fasi di sviluppo, ma
anche per verificare se quel che è stato promesso nel secolo scorso si
sia effettivamente realizzato. È necessario studiare quali risultati
estetici e quali effetti sociologici siano conseguiti da alcune
esperienze artistiche che hanno dominato il panorama mediatico negli
anni Sessanta e Settanta. È interessante, per esempio, verificare quale
relazione intercorra tra il “consumismo di massa” ed alcune esperienze
artistiche degli anni Sessanta, e quali rapporti queste abbiano
intrapreso con il mondo della pubblicità. La riflessione sul Novecento
apre insomma un capitolo importante per ridefinire il campo dell’arte in
generale e di ciascuna delle arti, e in particolare stimola la
riflessione sul rapporto tra le arti e il contesto nel quale nascono e
di cui si nutrono, direttamente o indirettamente.
Tuttavia
questa è solo una parte dell’interesse attuale per l’arte. La
dimensione contemporanea non esaurisce il panorama dell’arte. Un aspetto
importante di questo passaggio di secolo è costituto, infatti,
dall’interesse crescente verso l’arte del passato, che è al centro di un
vero fenomeno mediatico, di dimensioni crescenti: alcune mostre, quali
quelle dedicate a Caravaggio, hanno ottenuto un successo sorprendente.
Questo apre la questione teoretica di che cosa sia contemporaneo
nell’arte, fa riflettere sulla storicizzazione dei grandi artisti del
passato, ma soprattutto testimonia un amore, mai morto, per l’arte della
pittura nel senso tradizionale e proprio del termine.
In
questo contesto di passaggio e di riflessione sul passaggio stesso,
risulta importante riflettere sull’idea di progresso. Da una parte
occorrerebbe evitare di identificare ogni progresso con una tipologia
evoluzionista, secondo la quale quello che viene dopo supera e migliora
quello che è venuto prima. Dall’altra occorrerebbe anche evitare di
porre ogni artista ed ogni opera sullo stesso piano, cadendo
nell’acriticità e nell’avalutatività. Peraltro in quest’ultimo difetto
cade paradossalmente Gombrich, proprio analizzando l’arte secondo l’idea
di progresso, nel suo noto testo Arte e progresso del 1971.
Se
si cerca, invece, di guardare l’arte con occhi ingenui, si può scoprire
che il cammino dell’arte si muove dentro il campo di un possibile che è
implicito fin dall’inizio, come se tutte gli sviluppi fossero in
qualche modo compresi nelle forme già date. Potremmo dire che gli
artisti quando “inventano”, attingendo alla propria creatività,
rimangono sempre fedeli a quel che l’arte implicitamente mette loro a
disposizione e cioè tutto il suo “possibile”. Accade come nel
linguaggio, che ha tante forme e una lunga storia, ma sia le forme sia
la storia sono linguistiche, perché stanno dentro le possibilità aperte
dal linguaggio stesso. Volendo utilizzare un’immagine geometrica,
potremmo dire che l’andamento dell’arte non è una linea retta, che
implicherebbe un costante progresso, e neanche una sinusoide, che
implicherebbe cicli obbligati di crisi e di sviluppo, ma piuttosto una
linea mista irregolare, corrispondente ad un andamento vitale, fatto di
innovazioni e continuità.
Ogni reale innovazione, infatti, poggia sulla tradizione: come scrisse papa Stefano I “nihil innovetur nisi quod traditum est”.
Dovremmo guardare anche alla storia dell’arte, nella prospettiva
dell’“ermeneutica del rinnovamento nella continuità” applicato da
Benedetto XVI alle interpretazioni del Concilio.
La
crescita dell’arte implica una appropriazione della tradizione passata e
un rinnovamento, entrambi compiuti in prima persona. Tutti i grandi
artisti hanno sempre consigliato di apprendere dai maestri del passato,
prima di compiere le proprie innovazioni. Si comincia ad imparare
copiando le grandi opere e poi, imparato il linguaggio, si comincia a
parlare e a inventare nuove parole. Basti guardare al rapporto di
continuità e superamento vissuto da Caravaggio nei confronti di
Michelangelo, la cui pittura viene rivissuta e risemantizzata con
rispetto e con audacia. Leonardo affermava “tristo è quel discepolo che
non avanza il suo maestro”, collocando l’arte in un rapporto di
continuità tra allievo e maestro, in modo che chi impara cerchi di fare
meglio di chi insegna.
L’arte, dunque, come ogni ambito propriamente “umanistico”, cioè volto alla promozione dell’humanum,
cresce in maniera non meccanica e non patisce l’ossessione di
rincorrere l’accumulazione delle novità, quanto piuttosto è volto alla
ricerca del fare meglio e del migliorare se stessi. Non è fuori luogo,
dunque, concludere con una riflessione sulla educazione, proposta da
Benedetto XVI nella Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione del 21 gennaio 2008: «A
differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i
progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell'ambito
della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una
simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell'uomo è
sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve
prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni. Anche i più grandi
valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vanno
fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta
personale».
Che
cosa significa “arte sacra”? La definizione del concetto di “arte” è
molto complessa; difficile è anche la connotazione della nozione di
“sacro”, cosicché ottenere una risposta alla domanda iniziale mediante
la somma delle definizioni del sostantivo “arte” e dell’aggettivo
“sacra”, risulta particolarmente arduo e, forse, infruttuoso. Fecondo,
invece, è rintracciare l’identità dell’arte sacra nei documenti
magisteriali, seguendone il percorso quasi topografico, in cui mediante
progressive precisazioni si scopre quale sia la collocazione e la
specifica finalità dell’arte sacra stessa.
Può essere utile partire da un documento del Concilio Vaticano II, la Costituzione Pastorale Gaudium et Spes in cui leggiamo: «L’uomo,
inoltre, applicandosi allo studio delle varie discipline, quali la
filosofia, la storia, la matematica, le scienze naturali, e occupandosi
di arte, può contribuire moltissimo ad elevare l’umana famiglia a più
alti concetti del vero, del bene e del bello e ad un giudizio di
universale valore» (n. 57).
L’arte
viene collocata tra le discipline che elevano l’uomo, dunque possiede
una autentica connotazione umanistica, intendendo l’umanesimo come cultivatio animi.
Questa elevazione della famiglia umana avviene mediante la conoscenza
del vero, del bene e del bello. E’ chiaro il riferimento alle
caratteristiche trascendentali dell’essere, cioè a quelle
caratteristiche che sono possedute da tutto ciò che è in quanto è,
ovvero la verità, la bontà e la bellezza, che sono perfezioni
partecipate da Dio a tutto il creato. E’ anche chiaro come l’arte si
definisca per un singolare rapporto con la bellezza.
Poiché
la nozione di arte è molto vasta e plurale, è utile fare riferimento
alla distinzione tra arti liberali (ovvero le arti teoriche, che non
implicano un lavoro fisico come la poesia) e arti meccaniche (ovvero le
arti che implicano il lavoro manuale, come la scultura e la pittura).
Tuttavia si tratta di una distinzione che il Rinascimento ha già
mostrato di superare; l’autentica arte implica la liberalità della
conoscenza e la meccanicità (ovvero la praticità effettiva) della
produzione. Dunque per certi versi supera tale separazione o meglio la
integra organicamente.
Ciò
chiarito, occorre anche affrontare la distinzione tra arti utili e arti
belle. Le arti utili sono rivolte a mezzi pratici, mentre le arti belle
sono finalizzate alla bellezza. L’arte, dunque, va precisandosi nella
sua identità specifica, per un rapporto particolare con la bellezza. Ed è
proprio nel contesto delle arti belle che dobbiamo cercare la
collocazione dell’arte sacra. Infatti la bellezza dell’arte esprime la
bellezza del creato e, dunque, del Creatore, è quindi costitutivamente
aperta nei confronti di Dio.
Dentro
l’arte bella si ritaglia l’arte religiosa, ovvero un’arte che esprime
un sentimento religioso. Dentro, o meglio al vertice, dell’arte
religiosa individuiamo finalmente l’arte sacra. Qui risulta illuminante
citare la Costituzione sulla Sacra liturgia Sacrosanctum Concilium prodotta
dal Concilio Vaticano II: «fra le più nobili attività dell’ingegno
umano sono annoverate, a pieno diritto, le belle arti, soprattutto
l’arte religiosa e il suo vertice l’arte sacra» (n. 122).
L’arte
sacra è il vertice dell’arte religiosa, ovvero l’arte religiosa
contiene l’arte sacra ma non viceversa. Potremmo dire che tra l’opera
d’arte religiosa e l’opera d’arte sacra intercorre lo stesso rapporto
che unisce e distanzia una poesia che parla di Dio ed una preghiera:
anche la preghiera è bella, quanto la poesia, ma ha una diversa
specifica identità. L’aggettivo “sacro” viene infatti attribuito
innanzitutto al culto, ai riti, ai luoghi, appunto “sacri”, e parimenti
all’arte “sacra” e alle sue opere. L’arte religiosa diviene cioè “sacra”
quando è finalizzata al sacro culto, al sacro rito, al sacro luogo,
affinché “serva con la dovuta reverenza e il dovuto onore alle esigenze
degli edifici sacri e dei sacri riti” (n. 123).
Dunque
l’arte sacra è integralmente arte, ma trova la sua identità nella
sacralità del rito cui è destinata e che la informa dall’interno,
cosicché un’opera d’arte sacra deve essere autenticamente un’opera
d’arte, ma non è sufficiente che lo sia; deve infatti essere intimamente
e interamente finalizzata alla sacralità, deve farsi specchio delle
verità di fede, deve farsi celebrazione e liturgia. Ciò impone una
peculiare connotazione dell’opera d’arte stessa, tanto che nei documenti
magisteriali, troviamo anche le indicazioni per distinguere
ulteriormente l’arte sacra in “autentica” e “non autentica”. Questo
cammino, che porta verso un’arte non solo bella, ma anche buona e vera,
realistica senza esagerazioni, simbolica senza astrazioni, è talmente
importante che impone una trattazione a parte.
L’arte sacra ha il compito di servire con la bellezza la sacra liturgia. Nella Sacrosanctum Concilium è
scritto: “La Chiesa non ha mai avuto come proprio un particolare stile
artistico, ma, secondo l’indole e le condizioni dei popoli e le esigenze
dei vari Riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca, creando
così, nel corso dei secoli, un tesoro artistico da conservarsi con ogni
cura” (n. 123).
La
Chiesa, dunque, non sceglie uno stile; ciò vuol dire che non privilegia
il barocco o il neoclassico o il gotico, ma tutti gli stili capaci di
servire il rito. Questo non significa, evidentemente, che ogni forma
d’arte possa o debba essere accettata acriticamente, infatti nel
medesimo documento, viene affermato con chiarezza: « la Chiesa si è
sempre ritenuta, a buon diritto, come arbitra, scegliendo tra le opere
degli artisti quelle che rispondevano alla fede, alla pietà e alle norme
religiosamente tramandate, e risultavano adatte all’uso sacro» (n.
122). Risulta utile, allora, domandarsi “quale” forma artistica possa
meglio rispondere alle necessità di una arte sacra cattolica, ovvero
“come” l’arte possa servire al meglio “con la dovuta reverenza e il
dovuto onore alle esigenze degli edifici sacri e dei sacri riti”.
I
documenti conciliari non sprecano parole e tuttavia danno direttive
precise: l’arte sacra autentica deve cercare “nobile bellezza” e non
“mera sontuosità”, non deve contrariare la fede, i costumi, la pietà
cristiana, o offendere il “genuino senso religioso”. Quest’ultimo punto
viene esplicitato in due direzioni: le opere d’arte sacra possono
offendere il senso religioso genuino o “perché depravate nelle forme”,
dunque formalmente inopportune, o perché “mancanti, mediocri o false
nell’espressione artistica”(n. 124). Si richiede all’arte sacra la
proprietà di una forma bella, “non depravata”, e la capacità di
esprimere propriamente e sublimemente il messaggio. Una chiara
esemplificazione è presente anche nella Mediator Dei dove Pio XII chiede un’arte che eviti «l’eccessivo realismo da una parte e l’esagerato simbolismo dall’altra» (n. 190).
Queste due espressioni si riferiscono a concrete espressioni storiche. Troviamo infatti “eccessivo realismo” nella
complessa corrente culturale del Realismo, nato come reazione al
sentimentalismo tardoromantico della pittura alla moda, e che possiamo
rintracciare poi nella nuova funzione sociale assegnata al ruolo
dell’artista, con peculiare riferimento a temi direttamente tratti dalla
realtà contemporanea, e poi ancora la possiamo collegare alla
concezione propriamente marxista dell’arte, che condurranno alle
riflessioni estetiche della II Internazionale fino alle teorie esposte
da G. Lukacs. Inoltre, c’è’ “eccessivo realismo” anche in talune
posizioni propriamente interne alla questione dell’arte sacra, ovvero
nella corrente estetica che tra la fine dell’Ottocento e i primi del
Novecento propose dipinti che trattano temi sacri senza affrontarne
correttamente la questione, con eccessivo verismo, come per esempio una Crocifissione dipinta
da Max Klinger che è stata definita una composizione «mista di elementi
di un verismo brutale e di principi puramente idealisti» (C.
Costantini, Il Crocifisso nell’arte, Firenze 1911, p. 164).
Troviamo invece “esagerato simbolismo” in
un’altra corrente artistica che si contrappone a quella realista. Tra i
precursori del pensiero simbolista si possono annoverare G. Moureau,
Puvis de Chavannes, O. Redon, e più tardi aderiranno a questa corrente
artisti come F. Rops, F. Khnopff, M. J. Whistler. In quegli stessi anni
il critico C. Morice elaborò una vera e propria teoria simbolista,
definendola sintesi tra spirito e sensi. Fin poi a giungere, dopo il
1890, ad una vera e propria dottrina portata avanti dal gruppo dei
Nabís, con P. Sérusier, che ne fu il teorico, dal gruppo dei Rosa-Croce
che univa tendenze mistiche e teosofiche e infine dal movimento del
convento benedettino di Beuron.
La
questione diviene più chiara, dunque, se inquadrata immediatamente nei
giusti termini storico-artistici; nell’arte sacra occorre evitare gli
eccessi dell’immanentismo da una parte e dell’esoterismo dall’altra.
Occorre intraprendere la strada di un “realismo moderato” affiancato da
un motivato simbolismo, capaci di cogliere lo slancio metafisico, e di
realizzare, come afferma Giovanni Paolo II nella Lettera agli Artisti,
un medio metaforico carico di senso. Non dunque un iperrealismo
ossessionato da un sempre sfuggente particolare, ma un sano realismo che
nel corpo delle cose e nel volto degli uomini sa leggere e alludere, e
riconoscere la presenza di Dio.
Nel
messaggio agli artisti è detto: “Voi [gli artisti] l’avete aiutata [la
Chiesa] a tradurre il suo divino messaggio nel linguaggio delle forme e
delle figure, a rendere avvertibile il mondo invisibile”. Mi sembra che
in questo passaggio si tocchi il cuore dell’arte sacra. Se l’arte, ogni
arte, informa la materia, esprime l’universale mediante il particolare,
l’arte sacra, l’arte al servizio della Chiesa, compie anche la sublime
mediazione tra l’invisibile e il visibile, tra il divino messaggio e il
linguaggio artistico. All’artista è chiesto di dare forma a una materia
ri–creando addirittura quel mondo invisibile ma reale che è la suprema
speranza dell’uomo.
Tutto
ciò mi sembra conduca verso una affermazione dell’arte figurativa
—ovvero un’arte che si impegna a “figurare” la realtà— quale massimo
strumento di servizio, quale migliore possibilità di un’arte sacra.
L’arte realistica figurativa, infatti, riesce a servire adeguatamente il
culto cattolico, perché si fonda sulla realtà creata e redenta, e,
proprio confrontandosi con la realtà, riesce a evitare gli opposti
scogli degli eccessi. Proprio per questo si può affermare che il più
proprio dell’arte cristiana di tutti i tempi è un orizzonte di “realismo
moderato” o se volgiamo di “realismo antropologico”, all’interno del
quale si sono sviluppati, nel tempo, tutti gli stili propri dell’arte
cristiana (data la complessità dell’argomento si rimanda ad altri articoli).
L’artista
che voglia servire Dio nella Chiesa, non può che misurarsi con
l’“immagine” la quale rende avvertibile il mondo invisibile. All’artista
cristiano è, dunque, chiesto un particolare impegno: quello di
rappresentare la realtà creata e attraverso essa e in essa quell’“oltre”
che la spiega, la fonda, la redime. L’arte figurativa non deve neanche
temere come inattuale la “narrazione”, l’arte è sempre narrativa, tanto
più quando si pone al servizio di una storia avvenuta, in un tempo e in
uno spazio. Per la particolarità del compito, all’artista è chiesto
anche di sapere “cosa narrare”: conoscenza evangelica, competenza
teologica, preparazione storico-artistica e ampia conoscenza di tutta la
tradizione iconografica della Chiesa. D’altra parte, la teologia stessa
tende a farsi sempre più narrativa.
L’opera
d’arte sacra, dunque, costituisce uno strumento di catechesi, di
meditazione, di preghiera, essendo destinata “al culto cattolico,
all’edificazione, alla pietà e all’istruzione religiosa dei fedeli”; gli
artisti, come ricorda il più volte citato messaggio della Chiesa agli
artisti, hanno “edificato e decorato i suoi templi, celebrato i suoi
dogmi, arricchito la sua liturgia” e devono continuare a farlo.
Così
anche noi oggi siamo chiamati a realizzare nel nostro tempo opere e
capolavori atti a edificare l’uomo e a rendere Gloria a Dio, come recita
ancora la Sacrosanctum Concilium: «Anche l’arte del nostro tempo
di tutti i popoli e paesi abbia nella Chiesa libertà di espressione,
purché serva con la dovuta reverenza e il dovuto onore alle esigenze
degli edifici sacri e dei sacri riti. In tal modo potrà aggiungere la
propria voce al mirabile concerto di gloria che uomini eccelsi
innalzarono nei secoli passati alla fede cattolica» (n. 123).
Un
lontano concilio, il Concilio di Nicea II nel 787, ha definito la
correttezza dell’uso delle immagini in Chiesa, ponendo autorevolmente
fine alle tentazioni iconoclaste. Eppure nella nostra contemporaneità,
dominata dall’uso ossessivo di ciò che si vede, le chiese vengono
sovente progettate e realizzate con un atteggiamento che se osservato
più da vicino, appare nuovamente iconoclasta: le pareti sono nude, non
ci sono immagini, tutt'al più elementi simbolici stilizzati, che
applicano linguaggi mutuati da esperienze artistiche lontane dal
cristianesimo, se non addirittura avverse ad esso.
Occorre
allora ripercorrere l’antica strada della legittimazione delle
immagini. Partiamo proprio dal Concilio di Nicea II, analizzandone le
precise indicazioni: «noi definiamo con ogni rigore e cura che, a
somiglianza della raffigurazione della croce preziosa e vivificante,
così le venerande e sante immagini, sia dipinte che in mosaico o in
qualsiasi altro materiale adatto, debbono essere esposte nelle sante
chiese di Dio, sulle sacre suppellettili, sui sacri paramenti, sulle
pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie». Le immagini sacre
vengono poste sullo stesso piano della raffigurazione della croce, e a
somiglianza della croce devono essere esposte in ogni luogo: nel
contesto della liturgia, nei luoghi sacri, ma anche nella vita
quotidiana, nei luoghi privati quali le case, e nei luoghi pubblici
quali le vie. L’universalità del messaggio cristiano indica la misura
dei luoghi in cui esporre le immagini, ovvero tutti i luoghi. Le
immagini sacre devono inoltre essere presenti negli arredi sacri ed
anche sui paramenti. Non viene precisata la tecnica, infatti le immagini
possono essere dipinte, a mosaico, o in qualsiasi altra tecnica
opportuna, ma viene precisato il soggetto: «siano esse l’immagine del
signore Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, o quella dell’Immacolata
Signora nostra, la Santa Madre di Dio, dei santi angeli, di tutti i
santi e giusti». Dunque si tratta chiaramente di immagini che
rappresentino prioritariamente Gesù Cristo, la cui incarnazione è il
principio fondante dell’arte sacra figurativa, ed anche la Madre del
Signore, gli angeli, i santi ed i giusti, ovvero tutta il corpo della
Chiesa, il suo mistero e la sua storia.
Il Concilio precisa poi i motivi e le finalità delle immagini sacre: «Infatti,
quanto più prudentemente queste immagini vengono contemplate, tanto più
quelli che le contemplano sono portati al ricordo e al desiderio dei
modelli originali e a tributare loro, baciandole, rispetto e venerazione».
La contemplazione delle immagini induce al ricordo e al desiderio dei
soggetti rappresentati; si tratta dunque di una dinamica conoscitiva e
affettiva, che parte dall’immagine rappresentata ma termina nel soggetto
reale; è analoga, potremmo dire, alla funzione che hanno le fotografie
dei nostri cari, che ci ricordano le persone amate. Tenere vivo il
ricordo e il desiderio costituisce un importante cura della propria
fede, la coltivazione della propria vita spirituale.
Si
tratta di un rapporto non idolatrico, perché il termine dell’adorazione
non è appunto l’immagine, ma il soggetto rappresentato. Infatti, il
Concilio ha cura di prevenire e di arginare gli eccessi che erano stati
presenti nell’Oriente cristiano, e che avevano anche indotto, per
contrasto, la reazione iconoclasta. «Non si tratta, certo, di una
vera adorazione (latria), riservata dalla nostra fede solo alla natura
divina, ma di un culto simile a quello che si rende alla immagine della
croce preziosa e vivificante, ai santi evangeli e agli altri oggetti
sacri, onorandoli con l’offerta di incenso e di lumi secondo il pio uso
degli antichi. L’onore reso all’immagine, in realtà, appartiene a colui
che vi è rappresentato e chi venera l’immagine, venera la realtà di chi
in essa è riprodotto.» Si tratta dunque di un onore reso alla realtà
e non alla rappresentazione, ma tramite il culto reso all’immagine si
alimenta e si esprime l’adorazione verso Dio, l’unico degno di essere
adorato. Notiamo che il corretto parametro del culto dell’immagine è
costituito dal culto della croce, preziosa e vivificante, e posto in
analogia al culto che si dà al Vangelo, che ovviamente non significa
adorazione del libro ma della Parola di Dio.
Il Concilio sottolinea che il culto delle immagini fa parte della tradizione della Chiesa: «Così
si rafforza l’insegnamento dei nostri santi padri, ossia la tradizione
della chiesa universale, che ha ricevuto il Vangelo da un confine
all’altro della terra. Così diventiamo seguaci di Paolo, che ha parlato
in Cristo, del divino collegio apostolico, e dei santi dei padri,
tenendo fede alle tradizioni che abbiamo ricevuto. Così possiamo cantare
alla chiesa gli inni trionfali alla maniera del profeta: “Rallegrati,
figlia di Sion, esulta figlia di Gerusalemme; godi e gioisci, con tutto
il cuore; il Signore ha tolto di mezzo a te le iniquità dei tuoi
avversari, sei stata liberata dalle mani dei tuoi nemici. Dio, il tuo
re, è in mezzo a te; non sarai più oppressa dal male». Il culto delle
immagini si legittima nell’insegnamento apostolico, nella tradizione
della Chiesa universale. Non solo ma viene poi precisato che «ciò che è
stato affidato alla chiesa» è «il vangelo, la raffigurazione della croce, immagini dipinte o le sante reliquie dei martiri»;
dunque le immagini dipinte fanno parte del deposito della Fede, di ciò
che è stato “affidato” alla Chiesa, sfuggendo dunque all’arbitrio degli
uomini: nessuno può decidere che si può fare a meno del culto delle
immagini.
La
tradizione del culto delle immagini è ininterrotta nella Chiesa
cattolica che anzi trova in questa pratica un segno di distinzione dalle
tendenze iconoclaste proprie di molte correnti protestanti. Il Concilio
Vaticano II si pone in continuità con la tradizione e nella
Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium afferma: «Si mantenga l’uso di esporre nelle chiese alla venerazione dei fedeli le immagini sacre».
Analogamente al Concilio di Nicea, precisa che la devozione deve essere
corretta, e soprattutto che il sentimento da suscitare non è
l’ammirazione verso l’immagine, ma la venerazione dei soggetti
rappresentati: «si impongano in numero moderato e nell’ordine dovuto
per non destare ammirazione nei fedeli e per non indulgere a una
devozione non del tutto corretta».
Forse una delle riflessioni più chiare e profonde sull’uso delle immagini sacre, è fornita dalla introduzione al Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica (20
marzo 2005): «Esse [le immagini] provengono dal ricchissimo patrimonio
dell'iconografia cristiana. Dalla secolare tradizione conciliare
apprendiamo che anche l'immagine è predicazione evangelica. Gli
artisti di ogni tempo hanno offerto alla contemplazione e allo stupore
dei fedeli i fatti salienti del mistero della salvezza, presentandoli nello splendore del colore e nella perfezione della bellezza. È un indizio questo, di come oggi più che mai, nella civiltà dell'immagine, l'immagine sacra possa esprimere molto di più della stessa parola,
dal momento che è oltremodo efficace il suo dinamismo di comunicazione e
di trasmissione del messaggio evangelico» ( n. 5, corsivi aggiunti).
L’immagine
nei secoli è riuscita a trasmettere i fatti salienti del mistero della
salvezza, e tanto più oggi, nella civiltà dell’immagine, deve saper
recuperare la propria fondamentale importanza, in quanto l’immagine
esprime più delle stesse parole, in un dinamismo di comunicazione e
trasmissione della Buona Novella.
Fonte : https://zenit.org/
Riflessioni sull'arte è il titolo di una rubrica quindicinale che il prof. Rodolfo Papa tiene su Zenit (il mondo visto da Roma) su questione dell’arte e dell’arte sacra
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