Mons. Crispino
Valenziano
Docente presso il Pontificio Istituto Liturgico S. Anselmo di Roma
LITURGIA IN TV , PROBLEMI E PROSPETTIVE
SEMPLICI OSSERVAZIONI DI UN SEMPLICE SPETTATORE
Ogni volta che mi incontro con i problemi della trasmissione visiva di
celebrazioni liturgiche, sento discorrere di questione complessa, di bandolo
della matassa sfuggente, di studi e congressi importanti tuttavia senza esiti
sconvolgenti, di ricche bibliografie tuttavia senza risolutive conclusioni. E
sento pure di programmi eccellenti (che certuni etichettano però da
«sotto-standard») e di posizioni mentali irremovibili. Clima d’aporie.
È
difficile non essere assaliti da alcun sospetto circa una qualche «astuzia
della ragione» o un qualche consolidato «effetto secondario». Ma qui non è su
ciò che ora ci soffermiamo. Le nostre osservazioni si riferiscono invece a due
risultanze, una teorica e una operativa, che mi sembrano emergere a
denominatore comune sotto gli studi e le letterature.
1. Superare un falso ideologico
In linea teorica, mi pare necessario convincersi che la pretesa opposizione
polare tra celebrazione liturgica e trasmissione visiva è un falso ideologico.
Forse fa da alibi, forse proviene da un abbaglio. Certo è che non sono due
poli. C’è un’incompatibilità che insidia questa trasmissione visiva o quella
celebrazione liturgica ma no la liturgia e la televisione in quanto tali.
Infatti, la liturgia è, per natura sua, linguaggio complesso, risultante di
linguaggi verbali e a-verbali, melodici e ritmici, uditivi e gestuali,
cinetici e prossemici, olfattivi e gustativi...; tutti però di netta referenza
visiva. E inoltre, la teletrasmissione è, per natura sua, passibile di
qualsiasi messaggio linguistico con referenza visiva; se no, che senso ha? E
infine, nessuno ha dimostrato che la trasmissione visiva e la celebrazione
liturgica non funzionano in coerenza linguistica; se mai, sprazzi eminenti di
strutturazioni riuscite dimostrano il contrario.
L’insidia della irriducibilità va ricondotta a non-intenzione, a non-ricerca
della vera e propria pur latente, «connaturalità» epifanica, la cui arte, al
modo di ogni estetica e poietica antropologica-teologica, richiede estremo
affinamento di oggetto e di soggetti. Capita allora al regista televisivo lo
stesso che capita a chi nel rito prende la parola concludendo la celebrazione
della Parola e costruisce una predica anzi che un’omelia – parla
all’accusativo e all’ablativo anzi che al nominativo e al vocativo –, ovvero
capita a chi per formare una raffigurazione dell’Immagine dipinge modella o
cesella un eidolon d’oggetto religioso anzi che un eikon di
soggetto rivelativo – lavora d’immaginazione sfrenata anzi che d’immagine
fedele –.
Ed è patetico, allora, l’aggrapparsi alla «libertà dell’artista»! Sia perché
nessuno impedisce a qualcuno di operare «religiosamente» anzi che
«liturgicamente» (c’è differenza; come ci spieghiamo a seguito del concilio
ecumenico Niceno II): basta dichiararsi. Sia perché l’artista di vaglia assume
a suggestione e no a coercizione la precisività canonica per cui la sua opera
si fa «agiografia» con eccedenza sull’«immaginario onirico» (è questo il
commento al Niceno II che fece R. Guttuso alla mia richiesta di una sua
«icone» per l’Evangeliario delle Chiese d’Italia): basta avere genio.
Ma a punto critico di non-connaturalità tra la celebrazione liturgica e la
trasmissione visiva suole porsi la partecipazione; che, determinante la
celebrazione liturgica, sarebbe estraniata nella trasmissione visiva. Cosa che
a me non sembra ipotesi plausibile.
Non è plausibile perché l’idea corrente di partecipazione è d’uno schema
quantitativo (partem accipere) che è stato posto in crisi dal permanere
del termine nell’uso del Vaticano II con risonanze inverative dell’uso
precedente: si misuri linguisticamente che cosa di «partecipazione» veicola,
oltre lo schema quantitativo, il dirompere delle lingue vive nella riforma
liturgica. L’attuazione della riforma liturgica ha quindi innescato lo schema
qualitativo che è la «comunione» (cum-unio) e lo schema di
contaminazione tra quantità e qualità che è la vasta gamma
dell’«assimilazione» (ad similare). Per cui bisogna puntualizzare bene
in tutto ciò cosa la trasmissione visiva estranea e cosa non estranea o
addirittura cosa potenzia.
Non è plausibile perché abitudini di «ricezione comunitaria» della
trasmissione visiva di celebrazioni liturgiche, tutt’altro che sporadiche,
stanno addirittura instaurando tipologie inedite di «partecipazione
liturgica»; ad esempio, un’analisi attenta sulla distribuzione domenicale del
pane eucaristico a persone impedite riserva forti sorprese su nuove tipologie
dell’assemblea liturgica.
E
non è plausibile perché le dinamiche partecipative sono in movimento
interessantissimo anche a livello congiunto di celebrazione e trasmissione. Il
tempo reale della visione trasmessa rivoluziona lo spazio virtuale della
liturgia celebrata; sicché è legittimo ed è saggio interrogarsi sullo spazio
liturgico e le sue interconnessioni temporali; ad esempio, è assurdo
ipotizzare che, in un modo o nell’altro, la teletrasmissione generi un
aggiornamento di ciò che era l’invio e la ricezione del fermentum a
Roma o dell’antiminsion a Bisanzio?
2. Urge una dichiarazione d’intenti
In linea operativa, mi pare urgente pretendere inequivocabile dichiarazione
d’intenti da parte di chi celebra e da parte di chi trasmette.
Guardando i cinquant’anni trascorsi, si sbaglierebbe a dire che in inizio ci
fu la trasmissione visiva della celebrazione liturgica con lo scopo di far
comunque partecipi le persone impedite dal recarsi in chiesa. Ciò è esatto
riguardo alle successive dichiarazioni d’autorità ecclesiali circa gli scopi
della «trasmissione religiosa televisiva»; non è esatto sul fatto concreto
che, invece, s’incaricò dall’inizio di fornire in tempo reale a chi ne fosse
assente fisicamente la visione ravvicinata di avvenimenti ecclesiali, non
liturgici o liturgici. Non a caso R. Pichard nel 1950 inaugura trasmettendo
avvenimenti del giubileo di metà secolo. Dal fatto in sé e per sé si delinea
correttamente l’evoluzione motivazionale dicendo che all’inizio si usa del
nuovo mezzo di comunicazione allo scopo di comunicare avvenimenti ecclesiali
con una sorta di sorprendente complemento visivo alla radiofonia. Allora, le
indicazioni ufficiali cominciano ad esplicitare gli scopi pastorali connessi
con la partecipazione dei fedeli al «giorno del Signore», mentre si
aggiungono, da parte di autorità ecclesiali e anche da parte d’altri, scopi
pastorali diversi – «pastorali» in senso stretto e anche in senso lato e
latissimo –. Elenchiamo: in fase di riforma liturgica l’esemplarità della
celebrazione, e in fase di secolarizzazione acuta la catechesi; da parte di
alcuni gruppi ecclesiali la visibilità della Chiesa e da parte di altri tra
essi l’evangelizzazione cristiana... Ma come la vicenda sviluppatasi non si
sovrappone pienamente con le dichiarazioni ufficiali, così lo scopo di volta
in volta assegnatosi non corrisponde totalmente al programma effettivamente
trasmesso. Ed ecco la trasmissione della liturgia caricarsi progressivamente,
essa stessa, di caratteri non suoi, evangelizzazione cristiana o visibilità
della Chiesa, spettacolo o propaganda, e stemperarsi in esse sino a scambiare
il primario nel secondario e il secondario nel primario. Al modo dell’addobbo
floreale in sala di concerto che surclassi la trasmissione della musica in
concerto.
Certo, non sarebbe superfluo provvedere ad una rubricazione tipologica per una
ripresa televisiva che si premunisca sull’identità propria della celebrazione
rituale; tipologia delle celebrazioni liturgiche: altro è la celebrazione dei
vespri, altro è la celebrazione del battesimo, altro è la celebrazione
eucaristica...; e tipologia di avvenimenti perché non celebrazione liturgica:
non è davvero da far new age in liturgia, né da fare panliturgismo
della diaristica! Tipologie corredate d’apparato d’indicazioni utili e
sufficienti agli operatori coinvolti.
E
forse non è superfluo sottolineare che, per noi, in campo è la celebrazione
liturgica vera e reale, pur se non fosse celebrazione eucaristica; no la
cronaca religiosa o ecclesiale; neanche la Via crucis il Venerdì Santo
al Colosseo o il messaggio pasquale Urbi et orbi la domenica di Pasqua
dalla Loggia di San Pietro! Avvenimenti e costruzioni che si regolano con le
loro logiche.
La dichiarazione inequivocabile dell’intento costruttivo pone la trasmissione
visiva al riparo come dai fatalismi circa la sua pretesa non-connaturalità con
la celebrazione liturgica così dalle contaminazioni incoerenti propinabili poi
in una programmazione «prendere o lasciare».
La dichiarazione dell’intento di costruzione ne salvaguarda l’autenticità
perché la celebrazione liturgica include da sé le sue eventuali sinergie ed
elude per sé i suoi eventuali depotenziamenti. Benedicendosi la domenica del
Battesimo del Signore l’acqua battesimale nella Cappella Sistina – «... con il
diluvio [tu, o Dio] hai prefigurato il battesimo, perché oggi come allora
l’acqua segnasse la fine del peccato e l’inizio della vita nuova. Tu hai
liberato dalla schiavitù i figli di Abramo facendoli passare attraverso il Mar
Rosso perché fossero immagine del futuro popolo dei battezzati. E nella
pienezza dei tempi il tuo Figlio battezzato da Giovanni nell’acqua del
Giordano fu consacrato dallo Spirito Santo...» – è da sé che il regista
televisivo comprenda l’inclusione, in sequenza, del diluvio dipinto da
Michelangelo nella volta di Adamo e Noè, del passaggio attraverso il Mar Rosso
dipinto da C. Rosselli sulla fascia parietale di Mosè, del battesimo nel
Giordano dipinto dal Perugino sulla fascia parietale di Cristo. Se non lo
facesse, mirabolante ch’egli lo supponesse, il suo risulterebbe un
sotto-prodotto appunto per l’oscuramento di quella luminosa sinergia
celebrativa. Viceversa (poiché tra la celebrazione della liturgia salmica e
della Liturgia Verbi e della Prex eucharistica la regia
televisiva usuale rispetta abbastanza la prima [vedi la trasmissione dei
vespri papali il 31 dicembre], tenta abbastanza di rispettare la seconda
[rivedi le normali celebrazioni domenicali] ma, purtroppo, annebbia proprio la
liturgia eucaristica]) giunti alla processione dei doni, quando lo speaker
di solito comincia a divagare anzi che concentrare e dove la telecamera
comincia a girovagare su paraste interminabili o rosoni innumerevoli e volti
espressivi o inespressivi dell’assemblea, il canto d’offertorio suole perdersi
nell’audio. Nell’uno e nell’altro caso a me fa l’effetto che, underground,
sia il rito a sottrarsi dal depauperamento altrimenti inevitabile...
La dichiarazione dell’intento di costruzione ne salvaguarda l’autenticità
perché la trasmissione visiva della ministerialità rituale è ministerialità
rituale essa stessa. Al modo del ministero di un lettore che proclama le
Scritture o di un direttore e del suo coro che cantano le sequenze del rito.
La cosa è spina al fianco sulla formazione «ministeriale» degli operatori di
comunicazione liturgica. Così come la formazione «ministeriale» degli
operatori d’ogni arte per la liturgia, i quali, professionalmente preparati e
produttivamente geniali, non pertanto hanno nativamente, né acquisiscono
contestualmente una rispondenza cultuale pari alla loro professionalità e al
loro genio d’arte... né per il solo appartenere a un prestigioso centro
televisivo si è operatori di comunicazione liturgica, né non per il solo
essere benedettini si è liturgisti: è che benedettini, liturgisti, operatori
di comunicazione liturgica, si diventa con travaglio mirato.
E
la dichiarazione dell’intento di costruzione ne salvaguarda l’autenticità
perché la trasmissione visiva della celebrazione liturgica è celebrazione essa
stessa. Al modo in cui è celebrazione liturgica l’omelia, e non lo è la
predica; è celebrazione liturgica l’immagine-«agiografia» (scrittura della
rivelazione, in analogia alla Scrittura biblica), ma no l’«immaginario
onirico» (sovrapposizione, negativa o positiva, di determinazioni aleatorie al
dato-dono); al modo in cui è celebrazione esso stesso il canto liturgico, e
non lo è la musica di una «Messa» operistica... È stato notato che, vista la
qualità spettacolare di quella ritualità, la ripresa della «Domenica delle
Palme» è costruzione televisiva agevole. Se ho ben capito, equivarrebbe ad
annotare che la non-connaturalità tra la celebrazione liturgica e la
trasmissione visiva avrebbe le sue eccezioni? E dire che proprio questa
ritualità iniziale della Settimana Santa non è della tradizione latina
classica (romana) per la quale la domenica avanti Pasqua era (ed è) «Domenica
di Passione»; è ritualità della Chiesa-madre gerosolimitana, la quale
(testimone l’Itinerario di Egeria) celebrava ogni ricorrenza
puntigliosamente «per memoria e imitazione». È cosa che invoglia a considerare
l’apporto della memoria-imitazione quale ottimo criterio ausiliare nella
ripresa visiva di qualsiasi nostra celebrazione liturgica. Analogamente,
poiché non è della celebrazione latina classica (romana) l’uso delle iconi
rituali, che però è pronunciatissimo nella celebrazione bizantina, è cosa che
invoglia a fornirsi di un robusto programma iconico quale supporto ausiliare
per la ripresa visiva delle nostre celebrazioni liturgiche. Ciò accanto al
criterio e al supporto delle riprese attualizzanti; inserite, beninteso, con
la sofisticata raffinatezza della mistagogia e no con la banale improntitudine
degli scoop o delle formule stagionali.
Ma punto critico di equivocabilità nella trasmissione visiva della
celebrazione liturgica, e peraltro caso da assumere emblematicamente, è la
ritualità propria al Vescovo di Roma, tradizionalmente speciale. È caso
fatalmente (questa sì, è occasione realmente «fatale») rischioso per
l’incrocio degli scopi che gli si attribuiscono in trasmissione ma che
tuttavia lo caratterizzano già nel suo proprio svolgersi. È caso, dunque, per
il quale nessuna dichiarazione d’intenti basterà a sorreggere una buona
qualità celebrativa in trasmissione.
Eppure, secondo me la sfida d’una costruzione autenticamente «liturgica» di
tale caso apax non soltanto è da accettare ma è anche da esaltare,
fondandosi sulla sua valenza emblematica. Usando il criterio di non addossare
sul Pontefice celebrante ogni peso di se stesso che non sia la dignità del
liturgo e, al contrario, di evidenziarlo eikon trasparente – no
eidolon sostitutivo –. Alla critica sulla trasmissione dell’eucaristia nel
1° gennaio, quando iniziata la processione di comunione (e pare fatto apposta:
guarda caso, sono gli aspetti dinamici, le processioni d’ingresso, al vangelo,
d’offertorio, di comunione, a uscirne particolarmente massacrati) si vede
staccare la celebrazione liturgica per ritrovarci invitati a ripassare una
«scheda» sulle attività del Papa nell’anno precedente; a questa critica c’è
chi ha difeso quella scelta sostenendo che è occasione irrepetibile, da non
lasciarsi sfuggire. La medesima logica con cui ci si affannerebbe a
giustificare certe insensate divagazioni pseudo-omiletiche durante la Messa
della domenica o la festa patronale: la giustificazione che a non profittarne
si mancherebbe il bersaglio. Io ritengo legittimo non accettare simili
strumentalizzazioni della celebrazione liturgica che si lascia svanire. In
effetti, è stata azzardata una spiegazione ulteriore: il 1° gennaio è la
«giornata della pace», l’opera del Papa è opera di pace, trasmettere
visivamente tale opera di pace è celebrazione (liturgica) del 1° gennaio...;
il sillogismo è rimasto lì, appena abbozzato. Io ritengo doveroso rifiutare
simili riduzioni del Pontefice celebrante a oleografia della «giornata»,
proprio mentre l’assemblea da lui presieduta è da lui «invitata» a
partecipazione-comunione nel corpo e sangue del Principe della pace.
3. Registi e liturgisti: un incontro imprescindibile
C’è chi dice che il celebrante «adatto» alla riforma liturgica è tuttora
rarissimo. E c’è chi dice che il «geniale» regista televisivo per la
trasmissione della liturgia non si intravede ancora. Probabilmente è
esagerato. Ma certamente per quest’essere «adatto» è necessario che quel
celebrante operi il rito abbandonando ogni incrostazione d’individualità e
assumendo ogni risorsa dell’assemblearità; e per quest’essere «geniale» è
necessario che quel regista costruisca il suo prodotto rinunciando a ogni
superfetazione extra-vagante e tesaurizzando ogni apparato del e al
polilinguaggio cultuale cristiano. In altri termini, l’uno e l’altro, ciascuno
nel suo campo, non possono essere «duali» ma debbono evitarci le schizofrenie.
Io che in chiesa «partecipo» alla celebrazione, partecipo a «una» sinassi
liturgica e no a ritualità ecclesiale ripropostami da chi me la duplica
trasferendomela; se no divento schizofrenico. Io che al televisore «partecipo»
alla trasmissione, partecipo a «una» ritualità cultuale e no a celebrazione
liturgica rifusa da chi me la duplica compattandomela; se no divento
schizofrenico. La posta in gioco è «un» atto linguistico: uno, no due atti.
A
me pare che deformazione professionale impediente sia una sorta di horror
silentii, dei registi e dei liturgisti. La trovo corrispettiva a l’horror
vacui degli architetti, specialmente deleteria negli architetti di chiese.
Ogni volta che mi incontro con essi gli chiedo di costruire un altare un
ambone un battistero interconnessi da un pavimento e da un tetto tesaurizzando
la qualità del linguaggio liturgico: niente di più e niente di meno, senza
cercar di meglio costruendo quell’alambiccato contenitore d’altare ambone
battistero che produce di peggio ammassando pieno su pieno di superfetazioni
extra-vaganti. E sono persuaso che una tale puntualità non soltanto produce la
«chiesa del 2000» di cui molti parlano e che pochi procurano ma anzi, essendo
l’architettura cultuale selettiva tra le architetture, produce soluzioni
beneficamente influenti sulla stessa architettura in intero – la quale non è
interamente entusiasmante nel secolo che se ne va –. Così come, a me pare, la
trasmissione visiva della celebrazione liturgica. Se essa esorcizza l’horror
silentii e intende l’unità linguistica del culto cristiano non soltanto
produce la «liturgia» tele-trasmessa ma, essendo elitaria tra le
teletrasmissioni, in plusvalore produce soluzioni beneficamente influenti
sulla stessa televisione in intero – la quale non è interamente entusiasmante
in sulla soglia del millennio che viene –.
Fonte : http://www.rivistaliturgica.it/art.asp?codice=100
Rivista Liturgica , 1 gen/feb 2000 .
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