Giuseppe Lorizio
Il senso della storia in prospettiva teologico-fondamentale
La storicità in frantumi
La "libera e bella storicità",
vagheggiata da Hegel in un momento di entusiastica ammirazione per il mondo
greco, sembra ormai poco più che un ricordo. Gli ingenui, ma affascinanti,
racconti che l'Ottocento ha tentato di far passare per interpretazioni
scientificamente fondate, hanno rivelato i loro piedi di argilla e il loro
crollo ci ha lasciato soltanto dei suggestivi frammenti. Non sembra ormai più
esserci posto per onnicomprensive filosofie della storia, il cui senso, tutto
immanente, risulti ancora significativo per grandi movimenti di massa. Ognuno
ritrova nelle proprie mani niente più che un segmento, nel quale non riesce a
percepire alcun rimando al tutto, alla globalità, all'orizzonte di senso.
Possono in qualche modo questi segmenti costituire una linea, disegnare una
figura, inserirsi in un contesto? Nel "tempo della povertà" e della "perdita del
centro", nel quale "persino il profeta e il sacerdote vagano per il paese senza
capirci niente" è possibile un qualche orientamento? Oppure il nostro sarà
sempre e comunque un "eterno precipitare"?
Le risposte negative non mancano
di esercitare una notevole presa sui nostri contemporanei. Concludendo un
articolo di commento alla recente rappresentazione della Walkiria alla
scala, mentre segnalava la concezione ciclica del tempo presente in tutta la
tetralogia wagneriana e metaforicamente espressa da quell'oggetto simbolico che
è l'anello [L'anello dei Nibelunghi è il titolo dell'intero ciclo], un
articolista, colto e ben informato, cercava di decifrare il sistema tonale
dell'intero ciclo, rilevando come Das Rheingold [= L'oro del Reno,
titolo della prima opera] inizi in mi bemolle maggiore, mentre
Götterdämmerung [Il crepuscolo degli dei, ultima opera del ciclo] si
chiuda in re bemolle maggiore, sostenendo che con questo abbassamento di tono
Wagner è come se dicesse: "Tutto ritorna all'origine, ma ad un gradino più basso
di decadenza rispetto all'origine", e terminava il pezzo con queste parole: "Ma
soltanto Wagner, chiudendo il ciclo ad anello, ci ha insegnato che la storia è
un'illusione, e gliene siamo grati" (Il Sole-24 ore del 4 dic. 1994).
Non si tratta, come si può
facilmente constatare, di posizioni nichilistiche espresse solo in ambito
intellettuale ed accademico, bensì di mentalità e modi di pensare diffusi, che
il teologo, in quanto credente che cerca di pensare, non può ignorare o
facilmente sorvolare. La domanda di senso che il segmento di storia consegnato a
ciascuno di noi certamente contiene esige anche delle risposte plausibili e
significative, anche se non sempre facili da esprimere e comunicare.
Il punto di Archimede
Nell'epoca del disorientamento e
dello smarrimento di un orizzonte di senso per la storia di ciascuno e di tutti,
la possibilità di un punto di riferimento fondamentale a partire dal quale
avviare la ricerca del senso perduto o ignorato è contenuta in una risposta di
Eugen Rosenstock a Franz Rosenzweig, riportata da quest'ultimo nella cosiddetta
Urzelle: "Rivelazione è orientamento. Dopo la rivelazione nella natura
c'è un "alto" e un "basso", reale, non più relativizzabile: "cielo" e "terra"
[...] e nel tempo c'è un "prima" e un "dopo", reale, stabile. Quindi nello
spazio naturale e nel tempo naturale il centro è sempre il punto in cui io in
quel momento sono; nello spazio-tempo-mondo rivelato il centro è invece
un punto fisso inamovibilmente, un punto che non sposto se io stesso mi
trasformo o mi allontano: la terra è il centro del mondo e la storia universale
si estende prima e dopo Cristo". Senza riferimento a questo punto archimedico,
che sarà necessariamente storico e meta-storico insieme, non è quindi possibile
pensare e di conseguenza agire nella storia in maniera sensata. Lo stesso
pensiero filosofico, se vuole andare oltre il nichilismo e tentare di superare
la sua, certo non congenita, debolezza, deve in qualche modo riferirsi alla
rivelazione. I segni di questo ritorno sono già visibili: la filosofia della
rivelazione comincia a far di nuovo capolino nei dibattiti e nei convegni e a
ridestare l'interesse verso questa tematica di grande fecondità anche per la
ragione filosofica.
La possibilità reale di conferire
un senso ai nostri segmenti di storia passa attraverso il riferimento ad un
evento fondatore, che è insieme storico e metastorico, o meglio che è anzitutto
metastorico, ma non manca di rilevanza storica. La necessità di questo evento
fondatore imprescindibile, capace di dare senso alle nostre esistenze smarrite,
è la morte-resurrezione di Gesù di Nazareth. Il fallimento di ogni teodicea
razionalmente elaborata e pensata a tavolino, rimanda alla necessità di
rapportare il dolore del mondo non ad una teoria ben congegnata, ma ad un
evento, nel quale la sofferenza innocente risulta penultima rispetto alla
negazione della morte e al trionfo della vita. E tutto questo accade
all'uomo-Dio, ossia a colui che ha reso presente il soprannaturale nella storia
in maniera unica ed irripetibile, facendosi mediatore fra le nostre insensate
microstorie e l'assoluto che trascende ogni storia ed ogni vicenda mondana.
Questa peculiarità dell'evento Cristo, il metastorico che diventa storia, fa sì
che esso possa davvero costituire il punto archimedico da cui muovere per non
restare in preda all'insensatezza radicale.
Oltre il frammento
Ma come le microstorie
individuali e le singole epoche della nostra storia intramondana possono
rapportarsi a questo evento e ricevere da esso senso e direzione? Sembra ormai
debba ritenersi superato un modo forse ingenuo di rapportare la concezione della
storia propria della rivelazione ebraico-cristiana con quella elaborata dal
mondo greco-pagano, nel senso che questa adotti un modulo lineare,
contrapponendosi all'altra che faceva proprio una modalità ciclica di pensare la
storia. Riteniamo infatti molto più congruo pensare cristianamente la storia
attraverso la metafora della spirale: ogni evento salvifico comprende il passato
e lo supera aprendo al futuro. L'incontro fra eschaton e storia si
ripropone nella storia della salvezza ogni qualvolta Dio interviene in essa a
per la salvezza del suo popolo. Il nostro tempo va così inserito in questo
dinamismo storico salvifico come il tempo compreso tra l'evento fondatore e gli
ultimi tempi. È il tempo della Chiesa o tempo dello Spirito nel quale ciascuno è
chiamato a ri-attualizzare la salvezza e a trasmetterla agli altri.
L'atto di fede che ciascuno di
noi è chiamato a compiere e nel quale risulta coinvolta tutta la persona, nella
sua intelligenza, volontà libera e affettività, costituisce la possibilità reale
di riportare il frammento di storia affidato a ciascuno al contesto che gli dona
un senso, di inserire il proprio segmento nel disegno salvifico da Dio
predisposto e voluto. Quest'atto è anch'esso storico e meta-storico insieme:
misteriosamente in esso convergono la grazia, che fa della fede un dono
prezioso, e la libertà chiamata ad accogliere, custodire e diffondere questo
dono. In esso si realizza nell'esperienza di ciascuno quel passaggio dalla morte
alla vita che rimanda all'evento fondatore e lo rende presente oltre il suo
tempo, così che esso non sarà mai per i credenti soltanto un fatto verificatosi
nel passato e da apprendere intellettualisticamente su dei libri di storia. Di
conseguenza le Scritture che lo annunciano e lo contengono non saranno mai
soltanto un libro di storia o di storiografia: anche in esse si realizza
l'incontro fra la storia e la meta-storia, fra le vicende umane, determinate
nello spazio e nel tempo, e l'eschaton divino che è fuori dello spazio e
del tempo ed irrompe in essi per redimerli e conferire loro un senso.
Ci si potrebbe obiettare che il
quadro ora disegnato di rapporto tra le nostre microstorie e la storia
dell'uomo-Dio vale unicamente per chi ha il dono della fede e riesce a cogliere,
attingendo alle proprie radici religiose e culturali, il senso della storia. È
vero una teologia fondamentale e una teologia della storia non possono
costruirsi se non all'interno della fede: la teologia è fides quaerens
intellectum, ossia approfondimento della dimensione intellettuale dell'atto
di fede e dei suoi contenuti. Ma neppure possiamo relegare la fede e la teologia
in un ghetto storico e culturale: ce lo impedisce la stessa storia del pensiero
moderno e contemporaneo. L'evento Cristo e la sua accoglienza da parte della
comunità credente ha una valenza filosofica di enorme portata. La rivelazione
feconda non solo il pensiero teologico, bensì anche quello filosofico e diremmo
le culture umane storicamente determinate. Se è vero che senza la categoria
della storicità e l'ingresso della ragione storica non si può spiegare buona
parte della vicenda filosofica moderna e post-moderna, è anche vero che il
grembo originario del pensiero storico va indicato nella rivelazione
ebraico-cristiana. A sottolineare questo dato di fatto, che basterebbe da solo a
consentirci di uscire da complessi di inferiorità culturale e dal ghetto nel
quale il laicismo vorrebbe relegarci, è non un teologo o un uomo di Chiesa,
bensì uno storico del pensiero di notevole levatura, i cui testi sono ormai
considerati dei classici: "Il concetto di storia è una creazione del profetismo...
Quest'ultimo è riuscito a creare ciò che l'intellettualismo greco non poteva
produrre. Per la coscienza greca l'istorìa si identifica senz'altro con il
sapere. Così per i greci la storia è e rimane volta esclusivamente al passato.
Il profeta invece è il veggente... La sua visione ha prodotto il concetto della
storia in quanto essere del futuro... Il tempo diviene il futuro... e il futuro
è il contenuto principale di questa riflessione storica... Il creatore del cielo
e della terra non basta per questo essere del futuro. Egli deve cercare "un
nuovo cielo e una nuova terra"... Al posto di un'età dell'oro in un passato
mitologico si pone la vera esistenza storica sulla terra in un futuro
escatologico" (Karl Löwith).
Continuare a riflettere sulla
rilevanza storica e filosofica dell'evento Cristo sarà dunque un compito,
certamente arduo e che richiede rigore e disciplina mentali, ma imprescindibile
per il nostro continuare a credere nel tempo del frammento, per poter proporre
risposte sensate alle domande che questa realtà complessa racchiude e che
aspettano di essere correttamente decifrate. Non siamo chiamati, infatti, a
cestinare frettolosamente questi brandelli di esistenza con cui spesso abbiamo a
che fare e che fanno parte di noi stessi, bensì ad esercitare verso di essi una
sorta di pietas, che ci consenta di leggerli con attenzione per cogliere
le tracce di vero, di bene e di bello che vi sono racchiuse.
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Mi permetto di segnalare alcuni miei
scritti, nei quali ho avuto modo di dedicare una riflessione più articolata a
questo tema e che forse possono essere utili a chi intende approfondire
l'argomento:
G. Lorizio, Eschaton e storia nel
pensiero di Antonio Rosmini. Genesi e analisi della Teodicea in
prospettiva teologica ("Aloisiana" 21), Roma-Brescia, Gregoriana-Morcelliana
1988, 358pp.
Idem, "Dalla storicità alle storie.
Nihilismo, ermeneutica e debolezza del pensiero", in E. Cattaneo (ed.), Il
Concilio venti anni dopo. L'ingresso della categoria "storia", Roma, AVE
1985, 154-166.
Idem, "Prospettive teologiche del
postmoderno", in Rassegna di Teologia 30 (1989) 539-559.
[Testo pubblicato in Religione
- Scuola - Città 1 (1995) fasc. 2, 56-61]
Fonte : www.lorizio.net
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