" AFRICANI IN
AFRICA "
mostra
etno-artistica a Firenze
Firenze - Oltre 130 opere di
20 artisti di una dozzina di Stati per mettere in scena la più grande storia
africana mai rappresentata in Italia negli ultimi 40 anni. La mostra
Africani inAfrica (Firenze, Palazzo Pazzi-Ammannati, 28 Borgo degli
Albizi, 29 Dicembre 2004 - 6 Marzo 2005, orario 10-13, 15-19, chiusa il lunedì)
offre in effetti un panorama incredibilmente ricco e vario dei fermenti
artistici che agitano la fascia centrale del continente africano, la così detta
Africa Nera.
In questo vastissimo territorio, carico di tensioni politiche e sociali e dal quale provengono molte delle ispirazioni che hanno segnato l'arte europea e nord americana da Picasso a Warhol, stanno emergendo autori di diversa estrazione e rappresentatività, ma nei quali si riconosce una fondamentale radice etnica, un'impronta culturale che da un lontano passato conduce dritta al futuro. Dalla grande esposizione romana del 1964 mai si erano viste opere tanto belle e importanti in cui si riflettono anche le tragedie africane dei nostri anni, guerre, carestie, epidemie, vicende di sfruttamento, di sopraffazione e di morte.
Allestita nel Museo di Storia Naturale, Africani in Africa è stata presentata oggi dall'assessore alla cultura del Comune di Firenze, Simone Siliani, per la Regione Toscana da Lanfranco Binni, coordinatore del progetto TRA ART, dai curatori Luca Faccenda e Marco Parri, cittadini monegaschi, entrambi affermati specialisti di arte etnica, dalla storica dell'arte Lara-Vinca Masini e da Brunetto Chiarelli, ordinario di Antropologia all'Università di Firenze. Preziosi i patrocini del Comune e della Regione Toscana (Assessorato alla Cultura) e i contributi di Trevi Trust & Co., Credit Suisse, La Fondiaria - Sai, Unione Cinque, Doney. Il catalogo è dell'editore Giunti (pagine 216, € 45). L'ingresso alla mostra è libero. Info:Tel. 055.240277.
Le opere hanno provenienza diversa. Molte sono prestiti di musei, fondazioni, collezionisti privati, altre arrivano direttamente dagli artisti. Tra i quali occorre citare Cheff Mwai (Kenya), l'ex militante Mau Mau i cui bassorilievi policromi in legno (compreso il celebre ritratto del presidente Jomo Kenyatta) inneggiano alla resistenza contro l'occupazione coloniale. I mercati dipinti da Maurus Mikael Malikita (Tanzania), l'artista più noto del genere Tingatinga, e gli oli su carta telata di Peter Maurice Wanjau (Kenya), rappresentano invece le usanze tribal-sociali ancora in uso nei villaggi, vere e proprie denunce contro la morte per fame e l'infibulazione.
Dalla Repubblica Popolare del Congo, capitale Brazzaville, provengono le opere di Djess che nel suo astrattismo figurativo riproduce raffinerie e miniere attraverso significati e maschere tribali della cultura Mbuia e delle tribù Fang. Nella nemica Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, viveva invece Jean Michel Moukeba (detto Djambo), vittima giovanissima nella lunga guerra fratricida, di cui la mostra presenta un magnifico altorilievo dipinto, straordinario esempio di Pop Africano. Da Kinshasa anche le opere del giovane artista Lukawu, le sue celebri mani protese che intimano l'Alt! all'Aids e all'uccisione della fauna selvatica.
Dal Senegal arrivano poi le straordinarie tavole Pop di Moustapha Souley, autentiche insegne pubblicitarie, e una rarissima scultura di Amadou Makhtar Mbaye (Tita), un suonatore ricomposto con pezzi recuperati nelle discariche delle grandi periferie urbane. L'esposizione presenta anche numerose opere di Benard Asante (Ghana), artista collocabile nella corrente neo grafitista, che secondo una tradizione della propria tribù disegna i grandi animali d'Africa cancellandone poi il tratto per proteggerne il corpo dalla vista degli spiriti negativi. Dal Ghana arriva inoltre un raro ritratto di un occidentale del guaritore di Dio, Anthony Kwame Akoto (Almighty God).
Spettacolari le grandi istallazioni in legno policromo e traforato di Abdallah Salim (Kenya), prestito del Tobu Museum of Art di Tokio, e gli assemblaggi optical di tappi di bottiglia trovati nelle discariche della raffinata e rara Margareth Majo (Zimbawe). Da ammirare, inoltre, i piccoli quadri di Kristopher Atikossie (Togo) con i simboli della magia tribale, e quelli di maggiori dimensioni di Engdaget Legesse (Etiopia) dai significati criptati attraverso una segreta espressione di simboli copti. Le grandi opere di Mandy's Meninwa (Nigeria) si rifanno invece alle maschere tribali delle culture Chamba, Kalabari Ijo e delle figure a mezza luna delle tribù Mama.
Infine le pitture su tela e vernice trasparente di Georges Lilanga (Tanzania), che ha ottenuto a Sotheby's Londra quotazioni record e che a Firenze è presente con alcune opere di misura eccezionale rispetto alle consuete configurazioni di cm. 30 x 30. Il catalogo presenta le star del mercato (le cifre toccano anche centinaia di migliaia di dollari) e artisti emergenti di innegabile talento già all'attenzione della critica internazionale. Il capitolo finale è dedicato ai grandi totem in legno dipinto di Solomon Uwuenwa (Nigeria) che ripropongono in chiave contemporanea gli stilemi tribali degli Yoruba, dei Mama, dei Mumuye e dei Chamba, tribù che hanno costituito la memoria etnica del suo Paese.
In questo vastissimo territorio, carico di tensioni politiche e sociali e dal quale provengono molte delle ispirazioni che hanno segnato l'arte europea e nord americana da Picasso a Warhol, stanno emergendo autori di diversa estrazione e rappresentatività, ma nei quali si riconosce una fondamentale radice etnica, un'impronta culturale che da un lontano passato conduce dritta al futuro. Dalla grande esposizione romana del 1964 mai si erano viste opere tanto belle e importanti in cui si riflettono anche le tragedie africane dei nostri anni, guerre, carestie, epidemie, vicende di sfruttamento, di sopraffazione e di morte.
Allestita nel Museo di Storia Naturale, Africani in Africa è stata presentata oggi dall'assessore alla cultura del Comune di Firenze, Simone Siliani, per la Regione Toscana da Lanfranco Binni, coordinatore del progetto TRA ART, dai curatori Luca Faccenda e Marco Parri, cittadini monegaschi, entrambi affermati specialisti di arte etnica, dalla storica dell'arte Lara-Vinca Masini e da Brunetto Chiarelli, ordinario di Antropologia all'Università di Firenze. Preziosi i patrocini del Comune e della Regione Toscana (Assessorato alla Cultura) e i contributi di Trevi Trust & Co., Credit Suisse, La Fondiaria - Sai, Unione Cinque, Doney. Il catalogo è dell'editore Giunti (pagine 216, € 45). L'ingresso alla mostra è libero. Info:Tel. 055.240277.
Le opere hanno provenienza diversa. Molte sono prestiti di musei, fondazioni, collezionisti privati, altre arrivano direttamente dagli artisti. Tra i quali occorre citare Cheff Mwai (Kenya), l'ex militante Mau Mau i cui bassorilievi policromi in legno (compreso il celebre ritratto del presidente Jomo Kenyatta) inneggiano alla resistenza contro l'occupazione coloniale. I mercati dipinti da Maurus Mikael Malikita (Tanzania), l'artista più noto del genere Tingatinga, e gli oli su carta telata di Peter Maurice Wanjau (Kenya), rappresentano invece le usanze tribal-sociali ancora in uso nei villaggi, vere e proprie denunce contro la morte per fame e l'infibulazione.
Dalla Repubblica Popolare del Congo, capitale Brazzaville, provengono le opere di Djess che nel suo astrattismo figurativo riproduce raffinerie e miniere attraverso significati e maschere tribali della cultura Mbuia e delle tribù Fang. Nella nemica Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, viveva invece Jean Michel Moukeba (detto Djambo), vittima giovanissima nella lunga guerra fratricida, di cui la mostra presenta un magnifico altorilievo dipinto, straordinario esempio di Pop Africano. Da Kinshasa anche le opere del giovane artista Lukawu, le sue celebri mani protese che intimano l'Alt! all'Aids e all'uccisione della fauna selvatica.
Dal Senegal arrivano poi le straordinarie tavole Pop di Moustapha Souley, autentiche insegne pubblicitarie, e una rarissima scultura di Amadou Makhtar Mbaye (Tita), un suonatore ricomposto con pezzi recuperati nelle discariche delle grandi periferie urbane. L'esposizione presenta anche numerose opere di Benard Asante (Ghana), artista collocabile nella corrente neo grafitista, che secondo una tradizione della propria tribù disegna i grandi animali d'Africa cancellandone poi il tratto per proteggerne il corpo dalla vista degli spiriti negativi. Dal Ghana arriva inoltre un raro ritratto di un occidentale del guaritore di Dio, Anthony Kwame Akoto (Almighty God).
Spettacolari le grandi istallazioni in legno policromo e traforato di Abdallah Salim (Kenya), prestito del Tobu Museum of Art di Tokio, e gli assemblaggi optical di tappi di bottiglia trovati nelle discariche della raffinata e rara Margareth Majo (Zimbawe). Da ammirare, inoltre, i piccoli quadri di Kristopher Atikossie (Togo) con i simboli della magia tribale, e quelli di maggiori dimensioni di Engdaget Legesse (Etiopia) dai significati criptati attraverso una segreta espressione di simboli copti. Le grandi opere di Mandy's Meninwa (Nigeria) si rifanno invece alle maschere tribali delle culture Chamba, Kalabari Ijo e delle figure a mezza luna delle tribù Mama.
Infine le pitture su tela e vernice trasparente di Georges Lilanga (Tanzania), che ha ottenuto a Sotheby's Londra quotazioni record e che a Firenze è presente con alcune opere di misura eccezionale rispetto alle consuete configurazioni di cm. 30 x 30. Il catalogo presenta le star del mercato (le cifre toccano anche centinaia di migliaia di dollari) e artisti emergenti di innegabile talento già all'attenzione della critica internazionale. Il capitolo finale è dedicato ai grandi totem in legno dipinto di Solomon Uwuenwa (Nigeria) che ripropongono in chiave contemporanea gli stilemi tribali degli Yoruba, dei Mama, dei Mumuye e dei Chamba, tribù che hanno costituito la memoria etnica del suo Paese.
Per
visionare le opere degli artisti africani vai al link :
Younouss Gueye nel suo atelier
Introduzione al
Catalogo della Mostra "AFRICANIinAFRICA"
di Luca Faccenda
e Marco Parri
Il viaggio che ha permesso la
raccolta della collezione di arte contemporanea africana presentata in questo
volume ed esposta dal 29 dicembre 2004 al 6 marzo 2005 a Firenze in Palazzo
Pazzi Ammannati (Borgo degli Albizi 28, Museo di Storia Naturale) ha come luogo
geografico gran parte degli Stati africani della fascia equatoriale, la
cosiddetta Africa Nera. Si tratta di un viaggio svolto nel presente e per
presente intendiamo quel tempo istantaneo che non conosce passato o futuro e ciò
nonostante possiede l'energia dinamica del divenire. .
Si tratta del tempo perfetto per documentare l'arte africana di oggi presupponendo soltanto che essa provenga, come nella maggior parte dei casi avviene, da origini primitivo-tribali e che da questo stato di grazia che definiamo il "presente" si muova verso un suo futuro proprio e indipendente dai vari sistemi occidentali (economico, star system, ecc.) che pressano da tutte le parti per plagiarla, inquinarla, infine globalizzarla come è avvenuto e avviene sempre più spesso per le correnti artistiche che nascono (e questo non soltanto in Africa) al termine di paragone europeo-americano e che proprio per questo vengono divorate da un mercato sempre in disperato bisogno di novità che le fagocita e digerisce molto prima che esse riescano a imporsi e dunque a modificare o almeno a influenzare la cultura contemporanea.
L'arte africana di oggi nasce, vive, viene prodotta e venduta per strada e nei mercati dichiarando così dal suo nascere la spontanea appartenenza all'arte popolare e in quanto vera e propria madre dell'arte popolare rappresenta molto spesso la vita di tutti i giorni, descrive gli oggetti di uso quotidiano come simboli e totem del presente così come rievoca la tradizione spirituale comune, dunque oltremodo popolare, quando ripropone con primitiva semplicità idoli arcaici e feticci tribali che nella popolazione che abita nei villaggi e che costituisce ancora la stragrande maggioranza degli abitanti il continente africano, rappresentano oggetto di venerazione quotidiana
In un continente tradizionalmente popolato di selvaggi e belve sanguinarie abbiamo incontrato persone di grande fierezza e dignità abituate a fare tesoro di quel poco che la vita, soprattutto dopo gli inenarrabili sfruttamenti coloniali, mette loro a disposizione.
Uomini e donne che ancora conoscono il valore della madre terra e ne venerano il femminino primordiale così come è dalla notte dei tempi; che con mezzi pittorici e studi accademici veramente relativi e pressoché inesistenti riescono a produrre opere d'arte cariche di un'energia vitale ormai perduta nel decadentismo minimale contemporaneo. Nessun timore nell'uso del colore, la forma, talvolta la ridondanza scaturiscono da queste anime il cui bisogno più impellente è quello, a nostro avviso, di testimoniare la Vita nel presente e dunque nel suo divenire. Le uniche "belve feroci" che abbiamo incontrato sono alcuni mercanti senza scrupoli con relativo sciame di critici prezzolati e affaristi; francesi, tedeschi e ahimè anche italiani. Costoro, imponendo le regole più bieche del mercato dell'arte all'occidentale allevano "autori fotocopia" che, in cambio dei dollari, sono costretti a lavorare a comando su temi e scelte cromatiche più adatte a New York o a Londra piuttosto che a Dakar.
Questi colonialisti dell'arte, veri e propri negrieri in veste moderna, oltre a gettare il mal seme nel cuore di artisti di per sé straordinari e generosi, descrivono un'Africa fatta di tangenti, di alcolizzati, di prostitute e ladruncoli che noi, al contrario non abbiamo osservato e che non ci sentiamo assolutamente di avvallare. Ringraziamo invece la più parte degli Africani che abbiamo avuto il piacere di incontrare e di cui siamo stati ospiti graditi e rispettati..
Parigi 1907, la rivoluzione è già cominciata! Dal Fauvismo al Cubismo il passo dovette risultare assai breve: nel 1906 e, precisamente nell'autunno di quell'anno, Matisse mostrò per la prima volta a Picasso una scultura africana. Neppure dodici mesi dopo, nell'estate del 1907 Les Demoiselles d'Avignon facevano il loro ingresso rivoluzionario sul palcoscenico dell'arte, così come la scelta di oggetti africani tribali più insoliti e provocatori attecchiva nel gusto di quegli stessi artisti d'avanguardia.
L'esplorazione di talune forme tra le più astratte e inusitate di queste culture, per così dire primitive avrebbe avuto modo di espandersi in ogni direzione fino alla Grande Guerra, momento in cui gli stessi Cubisti erano già riusciti a proporre una nuova accezione per il termine primitivo che, finora era stato usato per indicare quell'arte arcaica, esotica o popolare; nessuno dunque dei grandi artisti di inizio secolo inventò il Primitivismo, neppure il grande Picasso che, come afferma Philippe Daverio, lo intuì e, sentendolo in grande misura, se ne appropriò
La lezione pittorica e compositiva così rielaborata da Picasso e tornata in Africa assieme al turismo di massa degli anni Settanta e alla quale oggi si sovrappone un'idea di etnismo contemporaneo, ha permesso la completa rilettura delle regole di simmetria della figura da parte degli artisti africani. Una minima descrizione dell'inquadratura del soggetto pittorico diviene a questo punto necessaria: non vi è dubbio che queste pitture abbiano assunto i margini della tela o della masonite come limite invalicabile per il soggetto rappresentato
L'inquadratura ha come norma di comprendere dentro di sé la totalità della raffigurazione mentre il trattamento, quasi sempre uniforme, dei fondali, rafforza la presenza simbolica più che reale del rappresentato. La scena si svolge dunque entro lo spazio delimitato dalla cornice e l'uniformità del fondo, di solito monocromatico, solo più recentemente sfumato in colori degradanti o striato orizzontalmente, che non è mai sufficiente a dare corposità allo spazio che fa da quinta alla scena rappresentata.
Dal punto di vista compositivo questa impostazione, condivisa da molti autori potrebbe derivare dalla tecnica del bassorilievo, la più diffusa espressione d'arte comunicativa tribale, anche relativamente recente e genera nell'autore una sorta di orrore per lo spazio non dipinto: Lilanga ne è la più eclatante manifestazione. Le tradizioni induista e islamica che nei secoli passati hanno pesantemente influenzato la cultura della comunicazione e dunque dell'arte tribale africana, partendo dal Corno d'Africa, a oriente, fino al Golfo di Guinea, si esprimevano con motivi floreali e geometrici, spesso usati per sottolineare una calligrafica sacra, di per sé già arte decorativa.
Questi influssi, massicciamente presenti anche nei bassorilievi di porte e altri elementi di arredo domestico, completamente intagliati sempre a bassorilievo, così come la decorazione di moschee, con maioliche invetriate anche soltanto in bianco e nero o i templi indù coperti di bassorilievi policromi, hanno contribuito a fondare il concetto di riempimento a oltranza del campo visivo del dipinto. Un altro fattore determinante sulla resa pittorica dell'arte contemporanea africana scaturisce dalla qualità dei mezzi tecnici. Si tratta per lo più dell'impiego di lacche acriliche molto economiche la cui facile reperibilità sul mercato ne ha imposto l'uso malgrado i limiti che sorgono specialmente per l'impossibilità di ottenere sfumature.
Questo impiego di colori puri, netti e vividi, aggiunge, a nostro avviso, energia e vivacità ai dipinti la cui resa cromatica può apparire talvolta sconcertante, soprattutto per accostamenti di colori contrastanti, talmente forti che la cultura occidentale e borghese, di solito avvezza a giudicare cólte le velature, tanto più esse sono sfumate, digerisce con una qualche difficoltà. C'è da dire che la velocità di essiccazione di queste tinte permette agli autori di sovrapporre i colori strato dopo strato creando una pittura che potremmo definire "in aggiungere" e che dichiara proprio per questo la sua provenienza, come abbiamo osservato poc'anzi dalla tecnica del bassorilievo che si ottiene naturalmente "in togliere".
A opera conclusa il dipinto o la scultura dipinta vengono verniciati con una spessa lacca trasparente, la clear vernish, una sorta di coppale che farebbe inorridire ogni pittore accademico occidentale e di cui noi avevamo frainteso l'utilità; pensavamo all'inizio che gli autori desiderassero dare all'opera finita una specie di lucentezza aggiuntiva, una incellofanatura che ne modernizzasse, occidentalizzandola, l'immagine finale, una specie di plastificazione, un viatico, un'invetriatura che sostituisse il protettivo vetro, caro e poco disponibile e donasse l'aspetto finito che una cornice, quasi sempre mancante, dà a un'opera occidentale.
Ci chiedevamo se gli artisti pensassero al futuro delle loro opere e non lavorassero soltanto in quel presente istantaneo di cui abbiamo parlato nella Premessa. Se sapessero che questa specie di coppale di pessima qualità e oltretutto poco trasparente, ingiallisce, come in effetti avviene, e col tempo si incrina distaccando spesso il colore dalla tela e dunque invecchia, invece di modernizzare, l'opera in breve tempo! Anche in questo caso ragionavamo all'occidentale finché un giorno un giovane artista illustrandoci delle sue opere che stavamo scegliendo per questo volume, ci spiegò che la spessa verniciatura protegge i dipinti, esposti continuamente e di solito per terra alla fortissima luce solare, da un invecchiamento ancor più precoce e che tra i due mali conveniva scegliere il minore. Diamo per scontato che l'arte contemporanea africana possieda la stessa dignità delle produzioni artistiche tribali, riconosciute come arte africana classica, in Occidente.
Abbiamo adottato, nella formazione di questa collezione un punto di vista decisamente antropologico che si esprime nella scelta di assegnare a queste opere d'arte una forte valenza di comunicazione che ne consolida lo status artistico; differentemente questi documenti visuali si esporrebbero a una selezione suscettibile soltanto al riconoscimento estetico esterno alle culture che li hanno generati. È da notare che spesso l'organizzazione del lavoro all'interno di gruppi di artisti fa pensare a quanto avveniva negli studi di pittura e scultura durante il Rinascimento italiano, così come osserva Enrico Castelli a proposito della pittura Tinga Tinga: "... e il confronto non appaia azzardato: il Rinascimento fu movimento appunto perché basato sulla potente organizzazione sociale delle corporazioni di Arti e Mestieri che prevedeva l'accessibilità delle opere alla stessa comunità degli artigiani, prima che fossero messe in mostra nelle chiese".
Del resto abbiamo potuto osservare la stessa organizzazione nel caso della pittura Mythila, India del Nord-est, come nella pittura aborigena del Central Desert australiano e in ogni altra espressione comunicativa, attraverso un manufatto artistico, che ha come origine una tradizione maturata all'interno di una tribù, nel senso di appartenenza. Ci auguriamo infine che lavori come questo, con quei pochi che ci hanno preceduto e con i molti che speriamo seguiranno, alimentino in Occidente una più vasta conoscenza di quest'arte attraverso la quale si esprime, oltretutto, un quarto della popolazione terrestre; che questa conoscenza consenta di distinguere tra artigianato etnico, produzione in serie e arte turistica, così come noi abbiamo imparato da secoli la differenza tra una tavoletta dipinta e dorata in vendita al Bookshop degli Uffizi e un fondo oro appeso in una delle sale del prestigioso museo.
Si tratta del tempo perfetto per documentare l'arte africana di oggi presupponendo soltanto che essa provenga, come nella maggior parte dei casi avviene, da origini primitivo-tribali e che da questo stato di grazia che definiamo il "presente" si muova verso un suo futuro proprio e indipendente dai vari sistemi occidentali (economico, star system, ecc.) che pressano da tutte le parti per plagiarla, inquinarla, infine globalizzarla come è avvenuto e avviene sempre più spesso per le correnti artistiche che nascono (e questo non soltanto in Africa) al termine di paragone europeo-americano e che proprio per questo vengono divorate da un mercato sempre in disperato bisogno di novità che le fagocita e digerisce molto prima che esse riescano a imporsi e dunque a modificare o almeno a influenzare la cultura contemporanea.
L'arte africana di oggi nasce, vive, viene prodotta e venduta per strada e nei mercati dichiarando così dal suo nascere la spontanea appartenenza all'arte popolare e in quanto vera e propria madre dell'arte popolare rappresenta molto spesso la vita di tutti i giorni, descrive gli oggetti di uso quotidiano come simboli e totem del presente così come rievoca la tradizione spirituale comune, dunque oltremodo popolare, quando ripropone con primitiva semplicità idoli arcaici e feticci tribali che nella popolazione che abita nei villaggi e che costituisce ancora la stragrande maggioranza degli abitanti il continente africano, rappresentano oggetto di venerazione quotidiana
In un continente tradizionalmente popolato di selvaggi e belve sanguinarie abbiamo incontrato persone di grande fierezza e dignità abituate a fare tesoro di quel poco che la vita, soprattutto dopo gli inenarrabili sfruttamenti coloniali, mette loro a disposizione.
Uomini e donne che ancora conoscono il valore della madre terra e ne venerano il femminino primordiale così come è dalla notte dei tempi; che con mezzi pittorici e studi accademici veramente relativi e pressoché inesistenti riescono a produrre opere d'arte cariche di un'energia vitale ormai perduta nel decadentismo minimale contemporaneo. Nessun timore nell'uso del colore, la forma, talvolta la ridondanza scaturiscono da queste anime il cui bisogno più impellente è quello, a nostro avviso, di testimoniare la Vita nel presente e dunque nel suo divenire. Le uniche "belve feroci" che abbiamo incontrato sono alcuni mercanti senza scrupoli con relativo sciame di critici prezzolati e affaristi; francesi, tedeschi e ahimè anche italiani. Costoro, imponendo le regole più bieche del mercato dell'arte all'occidentale allevano "autori fotocopia" che, in cambio dei dollari, sono costretti a lavorare a comando su temi e scelte cromatiche più adatte a New York o a Londra piuttosto che a Dakar.
Questi colonialisti dell'arte, veri e propri negrieri in veste moderna, oltre a gettare il mal seme nel cuore di artisti di per sé straordinari e generosi, descrivono un'Africa fatta di tangenti, di alcolizzati, di prostitute e ladruncoli che noi, al contrario non abbiamo osservato e che non ci sentiamo assolutamente di avvallare. Ringraziamo invece la più parte degli Africani che abbiamo avuto il piacere di incontrare e di cui siamo stati ospiti graditi e rispettati..
Parigi 1907, la rivoluzione è già cominciata! Dal Fauvismo al Cubismo il passo dovette risultare assai breve: nel 1906 e, precisamente nell'autunno di quell'anno, Matisse mostrò per la prima volta a Picasso una scultura africana. Neppure dodici mesi dopo, nell'estate del 1907 Les Demoiselles d'Avignon facevano il loro ingresso rivoluzionario sul palcoscenico dell'arte, così come la scelta di oggetti africani tribali più insoliti e provocatori attecchiva nel gusto di quegli stessi artisti d'avanguardia.
L'esplorazione di talune forme tra le più astratte e inusitate di queste culture, per così dire primitive avrebbe avuto modo di espandersi in ogni direzione fino alla Grande Guerra, momento in cui gli stessi Cubisti erano già riusciti a proporre una nuova accezione per il termine primitivo che, finora era stato usato per indicare quell'arte arcaica, esotica o popolare; nessuno dunque dei grandi artisti di inizio secolo inventò il Primitivismo, neppure il grande Picasso che, come afferma Philippe Daverio, lo intuì e, sentendolo in grande misura, se ne appropriò
La lezione pittorica e compositiva così rielaborata da Picasso e tornata in Africa assieme al turismo di massa degli anni Settanta e alla quale oggi si sovrappone un'idea di etnismo contemporaneo, ha permesso la completa rilettura delle regole di simmetria della figura da parte degli artisti africani. Una minima descrizione dell'inquadratura del soggetto pittorico diviene a questo punto necessaria: non vi è dubbio che queste pitture abbiano assunto i margini della tela o della masonite come limite invalicabile per il soggetto rappresentato
L'inquadratura ha come norma di comprendere dentro di sé la totalità della raffigurazione mentre il trattamento, quasi sempre uniforme, dei fondali, rafforza la presenza simbolica più che reale del rappresentato. La scena si svolge dunque entro lo spazio delimitato dalla cornice e l'uniformità del fondo, di solito monocromatico, solo più recentemente sfumato in colori degradanti o striato orizzontalmente, che non è mai sufficiente a dare corposità allo spazio che fa da quinta alla scena rappresentata.
Dal punto di vista compositivo questa impostazione, condivisa da molti autori potrebbe derivare dalla tecnica del bassorilievo, la più diffusa espressione d'arte comunicativa tribale, anche relativamente recente e genera nell'autore una sorta di orrore per lo spazio non dipinto: Lilanga ne è la più eclatante manifestazione. Le tradizioni induista e islamica che nei secoli passati hanno pesantemente influenzato la cultura della comunicazione e dunque dell'arte tribale africana, partendo dal Corno d'Africa, a oriente, fino al Golfo di Guinea, si esprimevano con motivi floreali e geometrici, spesso usati per sottolineare una calligrafica sacra, di per sé già arte decorativa.
Questi influssi, massicciamente presenti anche nei bassorilievi di porte e altri elementi di arredo domestico, completamente intagliati sempre a bassorilievo, così come la decorazione di moschee, con maioliche invetriate anche soltanto in bianco e nero o i templi indù coperti di bassorilievi policromi, hanno contribuito a fondare il concetto di riempimento a oltranza del campo visivo del dipinto. Un altro fattore determinante sulla resa pittorica dell'arte contemporanea africana scaturisce dalla qualità dei mezzi tecnici. Si tratta per lo più dell'impiego di lacche acriliche molto economiche la cui facile reperibilità sul mercato ne ha imposto l'uso malgrado i limiti che sorgono specialmente per l'impossibilità di ottenere sfumature.
Questo impiego di colori puri, netti e vividi, aggiunge, a nostro avviso, energia e vivacità ai dipinti la cui resa cromatica può apparire talvolta sconcertante, soprattutto per accostamenti di colori contrastanti, talmente forti che la cultura occidentale e borghese, di solito avvezza a giudicare cólte le velature, tanto più esse sono sfumate, digerisce con una qualche difficoltà. C'è da dire che la velocità di essiccazione di queste tinte permette agli autori di sovrapporre i colori strato dopo strato creando una pittura che potremmo definire "in aggiungere" e che dichiara proprio per questo la sua provenienza, come abbiamo osservato poc'anzi dalla tecnica del bassorilievo che si ottiene naturalmente "in togliere".
A opera conclusa il dipinto o la scultura dipinta vengono verniciati con una spessa lacca trasparente, la clear vernish, una sorta di coppale che farebbe inorridire ogni pittore accademico occidentale e di cui noi avevamo frainteso l'utilità; pensavamo all'inizio che gli autori desiderassero dare all'opera finita una specie di lucentezza aggiuntiva, una incellofanatura che ne modernizzasse, occidentalizzandola, l'immagine finale, una specie di plastificazione, un viatico, un'invetriatura che sostituisse il protettivo vetro, caro e poco disponibile e donasse l'aspetto finito che una cornice, quasi sempre mancante, dà a un'opera occidentale.
Ci chiedevamo se gli artisti pensassero al futuro delle loro opere e non lavorassero soltanto in quel presente istantaneo di cui abbiamo parlato nella Premessa. Se sapessero che questa specie di coppale di pessima qualità e oltretutto poco trasparente, ingiallisce, come in effetti avviene, e col tempo si incrina distaccando spesso il colore dalla tela e dunque invecchia, invece di modernizzare, l'opera in breve tempo! Anche in questo caso ragionavamo all'occidentale finché un giorno un giovane artista illustrandoci delle sue opere che stavamo scegliendo per questo volume, ci spiegò che la spessa verniciatura protegge i dipinti, esposti continuamente e di solito per terra alla fortissima luce solare, da un invecchiamento ancor più precoce e che tra i due mali conveniva scegliere il minore. Diamo per scontato che l'arte contemporanea africana possieda la stessa dignità delle produzioni artistiche tribali, riconosciute come arte africana classica, in Occidente.
Abbiamo adottato, nella formazione di questa collezione un punto di vista decisamente antropologico che si esprime nella scelta di assegnare a queste opere d'arte una forte valenza di comunicazione che ne consolida lo status artistico; differentemente questi documenti visuali si esporrebbero a una selezione suscettibile soltanto al riconoscimento estetico esterno alle culture che li hanno generati. È da notare che spesso l'organizzazione del lavoro all'interno di gruppi di artisti fa pensare a quanto avveniva negli studi di pittura e scultura durante il Rinascimento italiano, così come osserva Enrico Castelli a proposito della pittura Tinga Tinga: "... e il confronto non appaia azzardato: il Rinascimento fu movimento appunto perché basato sulla potente organizzazione sociale delle corporazioni di Arti e Mestieri che prevedeva l'accessibilità delle opere alla stessa comunità degli artigiani, prima che fossero messe in mostra nelle chiese".
Del resto abbiamo potuto osservare la stessa organizzazione nel caso della pittura Mythila, India del Nord-est, come nella pittura aborigena del Central Desert australiano e in ogni altra espressione comunicativa, attraverso un manufatto artistico, che ha come origine una tradizione maturata all'interno di una tribù, nel senso di appartenenza. Ci auguriamo infine che lavori come questo, con quei pochi che ci hanno preceduto e con i molti che speriamo seguiranno, alimentino in Occidente una più vasta conoscenza di quest'arte attraverso la quale si esprime, oltretutto, un quarto della popolazione terrestre; che questa conoscenza consenta di distinguere tra artigianato etnico, produzione in serie e arte turistica, così come noi abbiamo imparato da secoli la differenza tra una tavoletta dipinta e dorata in vendita al Bookshop degli Uffizi e un fondo oro appeso in una delle sale del prestigioso museo.
Fonte : http://www.logicamedica.it/africaniinafrica/
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